È ormai chiaro da mesi che l’impiego in Italia delle energie rinnovabili, eolico e fotovoltaico, non si sta affermando nonostante le potenzialità della geografia del nostro territorio, nonostante le necessità e nonostante le capacità tecnologiche delle nostre imprese del settore. I numeri e le percentuali di questa lentezza sono già stati pubblicati a più riprese.
Le vere ragioni vanno ricercate in una burocrazia in merito complicata e nella mancanza di linee guida nazionali che comprendano anche le regole a livello regionale. Lo hanno detto i soggetti industriali del settore, Francesco Starace per Enel, Agostino Re Rebaudengo per Elettricità futura, Simone Togni per Associazione nazionale energia del vento (Anev) e Anie rinnovabili, e lo ha spiegato Legambiente nel suo rapporto “Scacco matto alle fonti rinnovabili”. L’associazione ha dettagliato lungaggini nelle autorizzazioni, disposizioni incongruenti, controversie tra istituzioni, discrezionalità nella valutazione d’impatto ambientale e ostacoli delle sovrintendenze. Bisogna però notare anche altro e non lasciarlo incommentato. Alcuni hanno gettato le responsabilità sui comitati dei cittadini che si sono opposti a localizzazioni nei pressi dei loro luoghi di vita richiamando la stra-usata formula della “sindrome nimby” (Not In My Backyard, “Non nel mio cortile”, ndr). Ma la possibilità di arrestare la crisi ecologica passa necessariamente per l’affermazione di un modello di organizzazione sociale ed economica in cui dimensione locale, scala nazionale e portata globale siano compenetrati. Non si possono ridurre le pratiche di cittadinanza attiva e la difesa dell’ambiente più prossimo a un antimodernismo e a un approccio egoistico e riduzionista. I cittadini sono i primi vigilanti e custodi, di cui una democrazia non può fare a meno. Piuttosto, come ha scritto Legambiente, è la poca chiarezza nei vari passaggi burocratici a causare dell’opposizione delle popolazioni.
Altri hanno parlato di scontro tra l’ambientalismo della tutela del paesaggio e quello della salvezza della terra dal cambiamento climatico. Come se le due cose fossero differenti fino a contrapporsi. Ma natura e paesaggio sono entrambi fondamenti della cultura ecologista. Questo tanto più in Italia dove un gran numero di monumenti straordinari e una natura ricchissima convivono in un territorio dalle dimensioni limitate, dove la tutela dell’ambiente iniziò proprio dalle bellezze artistiche, ossia dal paesaggio, e dove alcuni fondamentalismi della cultura ambientalista mondiale non hanno avuto seguito, nemmeno teorico.
Altri ancora hanno accusato le sovrintendenze di rigidità e di oltrepassare le loro competenze. Ma accusarle per delegittimarle è quanto mai fuorviante. Perché nella storia italiana, dal miracolo economico a oggi, esse sono state spesso le uniche a svolgere un ruolo di baluardo agli attacchi di una politica predatoria del territorio e dei beni artistici, e di un capitale speculativo che ha devastato le nostre città, sfigurato le nostre coste, e attentato alle nostre campagne (il caso delle navi da crociera nel delicatissimo insieme di Venezia è esemplare).
Infine, non deve essere distolto né lo sguardo né il giudizio, e si deve notare come tutto questo crei un rumore di fondo funzionale a deviare l’attenzione dalla necessità di decarbonizzare e di superare l’impiego di vecchie energie. Accade anche in Francia, dove soprattutto l’eolico viene attaccato con il fine non tanto nascosto di rilanciare il nucleare. Non potendo ormai più negare l’emergenza ambientale, si cerca di manipolarla agli occhi dell’opinione pubblica.
*Professoressa di Storia dell’ambiente all’Università Roma Tre