I ministri (più un sottosegretario) che vi raccontiamo in queste pagine sono la squadra di Mario Draghi, quelli che si è scelto lui e affiancheranno le seconde e terze file politiche di quello che (forse) nessuno oserà chiamare “il governo dei migliori”. Vanno distinti in tre filoni. C’è la quota Quirinale rappresentata dall’ex presidente della Consulta, Marta Cartabia, giurista di solida formazione conservatrice. Poi ci sono i manager e i professori che dovrebbero far svoltare il Paese: l’ex manager McKinsey e Vodafone, Vittorio Colao, e il direttore dell’Iit, Stefano Cingolani, che dovrebbero garantire la “transizione” italiana digitale ed ecologica; lo statistico Enrico Giovannini, già ministro del Lavoro con Letta, alle Infrastrutture è una nomina sorprendente e di difficile lettura; all’Istruzione va l’economista di area prodiana Patrizio Bianchi e all’Università l’ex rettrice della Bicocca, Cristina Messa. In generale, paiono figure adatte a un piano che voglia puntare sull’integrazione pubblico-privato (se va bene). Infine ci sono i posti per la guardia pretoriana di Draghi: il Tesoro a Daniele Franco e la macchina di Palazzo Chigi a Roberto Garofoli. Loro due – e gli altri “draghiani” che verranno nel sottogoverno – dovranno blindare l’azione del premier e garantirne l’efficacia nonostante l’ammucchiata. Il fatto che non ci sia un ministero per gli Affari Ue dà l’idea che quella pratica sarà in mano a Draghi, magari attraverso un sottosegretario: gli altri faranno quel che potranno nel poco tempo a disposizione.
Daniele Franco
L’uomo di fiducia blinderà il premier
Effettivamente, come notava tempo fa un irritato Matteo Renzi, di lui “non si capisce neanche qual è il nome e quale il cognome”: ora Daniele (nome) Franco (cognome) farà il ministro dell’Economia di Mario Draghi con ben stampigliato sulla grisaglia lo stemma di Bankitalia. Non solo perché attualmente è il direttore generale di Palazzo Koch, ma perché lì ha passato quasi tutta la sua carriera (con una parentesi proprio al ministero), ivi compreso il settennato di Draghi governatore, di cui fu tra i principali collaboratori. Bellunese, 68 anni a giugno, sul suo arrivo al Mef nessuno ha mai avuto dubbi: insieme al sottosegretario a Palazzo Chigi (ex Mef) Roberto Garofoli, dovrà blindare la presa di Draghi sul governo e sui rapporti con l’Ue (tanto più che stavolta non c’è un ministero dedicato). D’altra parte la sua fedeltà ai vincoli di bilancio europei in questi anni è stata granitica. Anche per questo i rapporti coi partiti della maggioranza che lo sosterrà non sono, per così dire, buoni: da Ragioniere generale dello Stato (2013-2019), come da tradizione della casa, si oppose – a ragione e a torto – a parecchie leggi di spesa di tutti i governi. Tanto Renzi e Pd quanto grillini e Lega ne hanno subìto i rilievi, spesso appoggiati dalle pressioni informali di Bruxelles e del Quirinale. A dimostrazione che la ruota gira, Franco – insieme proprio a Garofoli, allora capo di gabinetto del ministro Giovanni Tria, e al dg del ministero Alessandro Rivera – fu considerato tra i bersagli della “vendetta” contro i dirigenti del Tesoro invocata in un audio da Rocco Casalino. Si litigava sui soldi al Reddito di cittadinanza. Chissà che non ricapiti.
Roberto Cingolani
renziano gradito a Grillo
Indicato da Beppe Grillo ma in ottimi rapporti con Matteo Renzi, Roberto Cingolani guiderà il ministero per la Transizione ecologica (ex Ambiente, ma con dentro l’Energia) e presiederà l’apposito comitato interministeriale: non proprio il dicastero sognato dai 5Stelle. Fisico all’Università del Salento, nel 2005 è stato nominato direttore dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, che ha diretto per 13 anni. All’Iit e a Cingolani fu affidata la gestione dello Human technopole (Ht), nato sulle ceneri dell’area Expo di Milano, voluto da Renzi nel 20016. Dal 2019, è direttore dell’Innovazione in Leonardo, l’ex Finmeccanica con un stipendio che si vocifera sfiori il milione di euro. Di soldi pubblici, Cingolani, ne ha gestiti tanti, specie all’Iit, accusato spesso di gestirli in modo poco trasparente: 100 milioni l’anno concessi per legge all’istituto, a cui nel 2016 si sono aggiunti altri 150 l’anno per Ht. Iit fu voluto da Tremonti nel 2003 per creare un modello di ricerca alternativo all’università pubblica. Finanziato dal Tesoro, il presidente di Iit è stato, dal 2005, Vittorio Grilli, negli stessi anni in cui era prima dg del ministero (fino al 2011), con mandato di finanziare Iit che allo stesso tempo presiedeva, poi viceministro e, dal 2011, ministro del Tesoro. Durante la gestione Cingolani-Grilli, l’Iit accantonò 540 milioni in una miriade di conti bancari e investimenti – tra cui titoli di Stato francesi (Oat), polizze Zurich, obbligazioni non quotate di Lehman Brothers (poi fallita) e conti infruttiferi della Banca d’Italia – come il Fatto ricostruì nel 2016. Elena Cattaneo, ricercatrice e senatrice a vita, si è battuta per recuperare il tesoretto e redistruibirlo al resto della ricerca pubblica. Nel 2017, la senatrice documentò un’intrusione nel suo profilo Wikipedia con modifiche alla sua biografia tese a screditarla a opera dell’ufficio stampa di Iit, durante la direzione Cingolani.
Vittorio Colao
Il manager della inutile task force
Su pressione del Quirinale, Giuseppe Conte l’aveva messo a capo della task force “per la fase 2” post-Covid, mai iniziata. In qualche settimana, va detto, l’esito è stato scarso: 121 schede di un rapporto con proposte generiche e alcune assai controverse (dal condono sui contanti alla proroga delle concessioni, male anche la proposta di rendere tracciabili i dati di Immuni). Palazzo Chigi lo liquidò senza troppi complimenti, al punto che non andò neppure agli “stati generali”. Vittorio Colao guiderà il ministero della “Transizione digitale”, che sarà coinvolto nel Recovery fund.
Nato a Brescia, 58 anni, ex ufficiale dei carabinieri, Colao è cresciuto in McKinsey. A 35 anni è dg di Omnitel, la futura Vodafone. Nel 2004 approda in Rcs voluto da Intesa Sanpaolo e Fiat, ma litiga con gli altri soci del salotto buono della finanza italiana che gliela fanno pagare: il suo pc viene manomesso dai Tiger Tim, gli hacker di Telecom. Dopo essersi opposto allo sciagurato acquisto della spagnola Recoletos, viene fatto fuori e Vodafone – siamo nel 2008 – se lo riprende in 24 ore. Ha guidato per un decennio un colosso da 50 miliardi di fatturato, imponendosi come il manager italiano più famoso (e pagato) nel mondo.
Enrico Giovannini Tutela la sostenibilità nella tana del lupo
Enrico Giovannini è un docente di Statistica a Roma-Tor Vergata, già capo dell’Ufficio statistico dell’Ocse, presidente dell’Istat, poi ministro del Lavoro nel governo Letta. Dopo quell’esperienza ha costruito una solida competenza economica e ambientalista divenendo segretario dell’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile, una rete di associazioni che promuove l’applicazione dell’Agenda 2030 varata dall’Onu nel 2015.
L’obiettivo è “una crescita economica rispettosa dell’ambiente” con la consapevolezza che “il tradizionale modello di sviluppo” prima o poi porterà il pianeta al collasso. I 17 obiettivi dell’Agenda costituiscono un programma di governo di grande impatto con un’idea delle infrastrutture in grado di garantire la sostenibilità, l’occupazione, la qualità della vita , l’adozione di tecnologie pulite, l’accesso alle tecnologie dell’informazione. Giovannini si troverà con una dotazione derivante dal Recovery plan di circa 32 miliardi di cui 28,3 miliardi per Alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale.
Brava persona, preparato: sarà sufficiente e governare un ministero abituato da anni a pilotarsi da solo?
Patrizio Bianchi L’economista della scuola
Classe 1952, Patrizio Bianchi è prima di tutto un economista: professore ordinario di Economia applicata, di area prodiana, è stato rettore dell’Università di Ferrara e per due mandati assessore a Scuola, Università e Lavoro dell’Emilia-Romagna. È direttore scientifico dell’Ifab, una fondazione che si occupa di Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano. Nel 2020 ha guidato (non sempre in sintonia con la ministra Azzolina) la task force ministeriale per la ripartenza delle scuole in pandemia. Ha fatto riferimento alla necessità di aumentare il numero dei docenti e di adeguare la scuola ai “bisogni di comunicazione e apprendimento nella nostra epoca”. Dispersione scolastica e povertà educativa (connessa a quella materiale e di diritti) pare gli stiano a cuore. Pensa che il rilancio della scuola passi dal renderla perno dello sviluppo. “Abbiamo investito poco sulla scuola – ha detto in una recente intervista –. Dopo la crisi del 2009, quando tutti hanno fatto il salto tecnologico, noi abbiamo fatto tagli. Ora siamo nella stessa situazione”. Ma gli investimenti vanno governati. “Bisogna avere una visione, considerare la formazione professionale come percorso cruciale per rigenerare il corpo intermedio di competenze che abbiamo perso. Il Covid ci ha insegnato che servono sì le eccellenze, ma anche il presidio quotidiano”.
Cristina Messa
La dirigente della ricerca
Se ne parla già come di “manager della ricerca”, forse perché ha una idea molto precisa di quale debba essere il rapporto tra gli atenei e l’industria. E anche perché ha alle spalle (in 60 anni) una lunga serie di incarichi: la neo ministra dell’Università, Cristina Messa, è stata rettore dell’Università di Milano Bicocca, prima donna in un ateneo milanese, dove è professoressa ordinaria di Diagnostica per immagini e radioterapia (dunque ambito medico). È stata vicepresidente del Cnr, delegata del ministero nel programma Horizon 2020 (il Programma Quadro dell’Ue per la ricerca e l’innovazione) ed è nel Comitato Coordinatore di Human Technopole. Il cosiddetto “management della ricerca” (la gestione) nella sua visione deve avere tre pilastri: valorizzazione della ricerca di base e applicata, sviluppo di soluzioni trasferibili al mercato, formazione delle nuove generazioni. Sulla nostra produttività scientifica, ha detto qualche tempo fa, “nonostante lo scarso finanziamento, per quanto riguarda la produttività, è decisamente elevata”. Ma a fronte di tanta ricerca non ci sarebbe “altrettanta innovazione”, lasciandoci in una fase di mezzo, fra accademia, ricerca di base e impresa che è stata chiamata “la valle della morte”. “L’università può fare molto – ha detto – cambiando strategie e coinvolgendo fortemente il sistema industriale. La ricerca crea così valore anche per il territorio”.
Roberto Garofoli
Uno schiaffone al m5s
Vendetta, tremenda vendetta. Al primo giro se la prese il M5S, di cui fu la bestia nera nel Conte-1, costringendolo alle dimissioni da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan, ci rimase con Tria). Ora la vendetta è sua: sottosegretario a Palazzo Chigi, poltrona in cui succede proprio a un grillino, sarà l’uomo macchina di Draghi. Pugliese, classe 1966, magistrato dal ’99, oggi presidente al Consiglio di Stato, il numero dei suoi incarichi fuori ruolo nei ministeri è interminabile, la casa editrice di famiglia (Nel diritto) un piccolo impero milionario di manuali e corsi costruito grazie (anche) al suo peso politico. Nel 2018 da Palazzo Chigi fu accusato (“la manina”) di aver infilato alla chetichella in un decreto un comma a favore della disastrata Croce Rossa, poi cassato personalmente dal premier: Tria chiarì che quell’intervento era una richiesta del ministero della Salute. In quel periodo, peraltro, Garofoli stava risolvendo un lungo contenzioso proprio con CRI su una casa in cui aveva aperto un B&B. Quello scontro portò alle sue dimissioni a inizio 2019: ora torna su una poltrona di maggior prestigio e potere. Mai scommettere contro la burocrazia ministeriale.
Marta Cartabia La ciellina cara a sabino cassese
H a dismesso da pochi mesi i panni di presidente della Corte costituzionale, ma non ha mai perso di vista i Palazzi che contano. La neo ministra della Giustizia, Marta Cartabia, non dovrà fare i salti mortali per arrivare puntuale al giuramento al Quirinale: era già a disposizione a Roma da qualche giorno ché Dario Franceschini, una volta lasciata la Consulta, l’ha voluta omaggiare con la presidenza della commissione incaricata di scegliere il nuovo direttore dell’area archeologica di Pompei. E lei aveva accettato fedele al richiamo dei cattolici a farsi lievito nella società, meglio ancora se in politica. Tra i suoi sponsor Sabino Cassese e ben due capi di Stato, Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano. Quest’ultimo rimasto da lei folgorato nel 2011 al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione per cui suo marito in passato è stato anche tesoriere della Fraternità. E dove Cartabia è di casa ormai da moltissimi anni, come le rinfaccia qualcuno tra quanti ritengono che Cl sia stato il trampolino che le ha spalancato le porte di una carriera fulminante. Fatto sta che dopo pochi giorni da quell’incontro al meeting in cui Napolitano venne accolto con una ovazione non scontata, l’allora presidente della Repubblica la nominò alla Consulta. Un episodio che l’ha resa mitica anche nell’ambiente ciellino dove si narrano le sue imprese: “Qual è il colmo per una sangiorgese che insegna alla Bicocca e che ha conosciuto Re Giorgio? Essere nominata in Corte e infine tornare al Meeting a presentare un libro sul potere dei senza potere”.