Quel che resta del go verno “di alto profilo”

I ministri (più un sottosegretario) che vi raccontiamo in queste pagine sono la squadra di Mario Draghi, quelli che si è scelto lui e affiancheranno le seconde e terze file politiche di quello che (forse) nessuno oserà chiamare “il governo dei migliori”. Vanno distinti in tre filoni. C’è la quota Quirinale rappresentata dall’ex presidente della Consulta, Marta Cartabia, giurista di solida formazione conservatrice. Poi ci sono i manager e i professori che dovrebbero far svoltare il Paese: l’ex manager McKinsey e Vodafone, Vittorio Colao, e il direttore dell’Iit, Stefano Cingolani, che dovrebbero garantire la “transizione” italiana digitale ed ecologica; lo statistico Enrico Giovannini, già ministro del Lavoro con Letta, alle Infrastrutture è una nomina sorprendente e di difficile lettura; all’Istruzione va l’economista di area prodiana Patrizio Bianchi e all’Università l’ex rettrice della Bicocca, Cristina Messa. In generale, paiono figure adatte a un piano che voglia puntare sull’integrazione pubblico-privato (se va bene). Infine ci sono i posti per la guardia pretoriana di Draghi: il Tesoro a Daniele Franco e la macchina di Palazzo Chigi a Roberto Garofoli. Loro due – e gli altri “draghiani” che verranno nel sottogoverno – dovranno blindare l’azione del premier e garantirne l’efficacia nonostante l’ammucchiata. Il fatto che non ci sia un ministero per gli Affari Ue dà l’idea che quella pratica sarà in mano a Draghi, magari attraverso un sottosegretario: gli altri faranno quel che potranno nel poco tempo a disposizione.

 

Daniele Franco
L’uomo di fiducia blinderà il premier

Effettivamente, come notava tempo fa un irritato Matteo Renzi, di lui “non si capisce neanche qual è il nome e quale il cognome”: ora Daniele (nome) Franco (cognome) farà il ministro dell’Economia di Mario Draghi con ben stampigliato sulla grisaglia lo stemma di Bankitalia. Non solo perché attualmente è il direttore generale di Palazzo Koch, ma perché lì ha passato quasi tutta la sua carriera (con una parentesi proprio al ministero), ivi compreso il settennato di Draghi governatore, di cui fu tra i principali collaboratori. Bellunese, 68 anni a giugno, sul suo arrivo al Mef nessuno ha mai avuto dubbi: insieme al sottosegretario a Palazzo Chigi (ex Mef) Roberto Garofoli, dovrà blindare la presa di Draghi sul governo e sui rapporti con l’Ue (tanto più che stavolta non c’è un ministero dedicato). D’altra parte la sua fedeltà ai vincoli di bilancio europei in questi anni è stata granitica. Anche per questo i rapporti coi partiti della maggioranza che lo sosterrà non sono, per così dire, buoni: da Ragioniere generale dello Stato (2013-2019), come da tradizione della casa, si oppose – a ragione e a torto – a parecchie leggi di spesa di tutti i governi. Tanto Renzi e Pd quanto grillini e Lega ne hanno subìto i rilievi, spesso appoggiati dalle pressioni informali di Bruxelles e del Quirinale. A dimostrazione che la ruota gira, Franco – insieme proprio a Garofoli, allora capo di gabinetto del ministro Giovanni Tria, e al dg del ministero Alessandro Rivera – fu considerato tra i bersagli della “vendetta” contro i dirigenti del Tesoro invocata in un audio da Rocco Casalino. Si litigava sui soldi al Reddito di cittadinanza. Chissà che non ricapiti.

 

Roberto Cingolani
renziano gradito a Grillo

Indicato da Beppe Grillo ma in ottimi rapporti con Matteo Renzi, Roberto Cingolani guiderà il ministero per la Transizione ecologica (ex Ambiente, ma con dentro l’Energia) e presiederà l’apposito comitato interministeriale: non proprio il dicastero sognato dai 5Stelle. Fisico all’Università del Salento, nel 2005 è stato nominato direttore dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, che ha diretto per 13 anni. All’Iit e a Cingolani fu affidata la gestione dello Human technopole (Ht), nato sulle ceneri dell’area Expo di Milano, voluto da Renzi nel 20016. Dal 2019, è direttore dell’Innovazione in Leonardo, l’ex Finmeccanica con un stipendio che si vocifera sfiori il milione di euro. Di soldi pubblici, Cingolani, ne ha gestiti tanti, specie all’Iit, accusato spesso di gestirli in modo poco trasparente: 100 milioni l’anno concessi per legge all’istituto, a cui nel 2016 si sono aggiunti altri 150 l’anno per Ht. Iit fu voluto da Tremonti nel 2003 per creare un modello di ricerca alternativo all’università pubblica. Finanziato dal Tesoro, il presidente di Iit è stato, dal 2005, Vittorio Grilli, negli stessi anni in cui era prima dg del ministero (fino al 2011), con mandato di finanziare Iit che allo stesso tempo presiedeva, poi viceministro e, dal 2011, ministro del Tesoro. Durante la gestione Cingolani-Grilli, l’Iit accantonò 540 milioni in una miriade di conti bancari e investimenti – tra cui titoli di Stato francesi (Oat), polizze Zurich, obbligazioni non quotate di Lehman Brothers (poi fallita) e conti infruttiferi della Banca d’Italia – come il Fatto ricostruì nel 2016. Elena Cattaneo, ricercatrice e senatrice a vita, si è battuta per recuperare il tesoretto e redistruibirlo al resto della ricerca pubblica. Nel 2017, la senatrice documentò un’intrusione nel suo profilo Wikipedia con modifiche alla sua biografia tese a screditarla a opera dell’ufficio stampa di Iit, durante la direzione Cingolani.

 

Vittorio Colao
Il manager della inutile task force

Su pressione del Quirinale, Giuseppe Conte l’aveva messo a capo della task force “per la fase 2” post-Covid, mai iniziata. In qualche settimana, va detto, l’esito è stato scarso: 121 schede di un rapporto con proposte generiche e alcune assai controverse (dal condono sui contanti alla proroga delle concessioni, male anche la proposta di rendere tracciabili i dati di Immuni). Palazzo Chigi lo liquidò senza troppi complimenti, al punto che non andò neppure agli “stati generali”. Vittorio Colao guiderà il ministero della “Transizione digitale”, che sarà coinvolto nel Recovery fund.
Nato a Brescia, 58 anni, ex ufficiale dei carabinieri, Colao è cresciuto in McKinsey. A 35 anni è dg di Omnitel, la futura Vodafone. Nel 2004 approda in Rcs voluto da Intesa Sanpaolo e Fiat, ma litiga con gli altri soci del salotto buono della finanza italiana che gliela fanno pagare: il suo pc viene manomesso dai Tiger Tim, gli hacker di Telecom. Dopo essersi opposto allo sciagurato acquisto della spagnola Recoletos, viene fatto fuori e Vodafone – siamo nel 2008 – se lo riprende in 24 ore. Ha guidato per un decennio un colosso da 50 miliardi di fatturato, imponendosi come il manager italiano più famoso (e pagato) nel mondo.

 

Enrico Giovannini Tutela la sostenibilità nella tana del lupo

Enrico Giovannini è un docente di Statistica a Roma-Tor Vergata, già capo dell’Ufficio statistico dell’Ocse, presidente dell’Istat, poi ministro del Lavoro nel governo Letta. Dopo quell’esperienza ha costruito una solida competenza economica e ambientalista divenendo segretario dell’Alleanza per lo Sviluppo sostenibile, una rete di associazioni che promuove l’applicazione dell’Agenda 2030 varata dall’Onu nel 2015.
L’obiettivo è “una crescita economica rispettosa dell’ambiente” con la consapevolezza che “il tradizionale modello di sviluppo” prima o poi porterà il pianeta al collasso. I 17 obiettivi dell’Agenda costituiscono un programma di governo di grande impatto con un’idea delle infrastrutture in grado di garantire la sostenibilità, l’occupazione, la qualità della vita , l’adozione di tecnologie pulite, l’accesso alle tecnologie dell’informazione. Giovannini si troverà con una dotazione derivante dal Recovery plan di circa 32 miliardi di cui 28,3 miliardi per Alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale.
Brava persona, preparato: sarà sufficiente e governare un ministero abituato da anni a pilotarsi da solo?

 

Patrizio Bianchi L’economista della scuola

Classe 1952, Patrizio Bianchi è prima di tutto un economista: professore ordinario di Economia applicata, di area prodiana, è stato rettore dell’Università di Ferrara e per due mandati assessore a Scuola, Università e Lavoro dell’Emilia-Romagna. È direttore scientifico dell’Ifab, una fondazione che si occupa di Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano. Nel 2020 ha guidato (non sempre in sintonia con la ministra Azzolina) la task force ministeriale per la ripartenza delle scuole in pandemia. Ha fatto riferimento alla necessità di aumentare il numero dei docenti e di adeguare la scuola ai “bisogni di comunicazione e apprendimento nella nostra epoca”. Dispersione scolastica e povertà educativa (connessa a quella materiale e di diritti) pare gli stiano a cuore. Pensa che il rilancio della scuola passi dal renderla perno dello sviluppo. “Abbiamo investito poco sulla scuola – ha detto in una recente intervista –. Dopo la crisi del 2009, quando tutti hanno fatto il salto tecnologico, noi abbiamo fatto tagli. Ora siamo nella stessa situazione”. Ma gli investimenti vanno governati. “Bisogna avere una visione, considerare la formazione professionale come percorso cruciale per rigenerare il corpo intermedio di competenze che abbiamo perso. Il Covid ci ha insegnato che servono sì le eccellenze, ma anche il presidio quotidiano”.

 

Cristina Messa
La dirigente della ricerca

Se ne parla già come di “manager della ricerca”, forse perché ha una idea molto precisa di quale debba essere il rapporto tra gli atenei e l’industria. E anche perché ha alle spalle (in 60 anni) una lunga serie di incarichi: la neo ministra dell’Università, Cristina Messa, è stata rettore dell’Università di Milano Bicocca, prima donna in un ateneo milanese, dove è professoressa ordinaria di Diagnostica per immagini e radioterapia (dunque ambito medico). È stata vicepresidente del Cnr, delegata del ministero nel programma Horizon 2020 (il Programma Quadro dell’Ue per la ricerca e l’innovazione) ed è nel Comitato Coordinatore di Human Technopole. Il cosiddetto “management della ricerca” (la gestione) nella sua visione deve avere tre pilastri: valorizzazione della ricerca di base e applicata, sviluppo di soluzioni trasferibili al mercato, formazione delle nuove generazioni. Sulla nostra produttività scientifica, ha detto qualche tempo fa, “nonostante lo scarso finanziamento, per quanto riguarda la produttività, è decisamente elevata”. Ma a fronte di tanta ricerca non ci sarebbe “altrettanta innovazione”, lasciandoci in una fase di mezzo, fra accademia, ricerca di base e impresa che è stata chiamata “la valle della morte”. “L’università può fare molto – ha detto – cambiando strategie e coinvolgendo fortemente il sistema industriale. La ricerca crea così valore anche per il territorio”.

 

Roberto Garofoli
Uno schiaffone al m5s

Vendetta, tremenda vendetta. Al primo giro se la prese il M5S, di cui fu la bestia nera nel Conte-1, costringendolo alle dimissioni da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan, ci rimase con Tria). Ora la vendetta è sua: sottosegretario a Palazzo Chigi, poltrona in cui succede proprio a un grillino, sarà l’uomo macchina di Draghi. Pugliese, classe 1966, magistrato dal ’99, oggi presidente al Consiglio di Stato, il numero dei suoi incarichi fuori ruolo nei ministeri è interminabile, la casa editrice di famiglia (Nel diritto) un piccolo impero milionario di manuali e corsi costruito grazie (anche) al suo peso politico. Nel 2018 da Palazzo Chigi fu accusato (“la manina”) di aver infilato alla chetichella in un decreto un comma a favore della disastrata Croce Rossa, poi cassato personalmente dal premier: Tria chiarì che quell’intervento era una richiesta del ministero della Salute. In quel periodo, peraltro, Garofoli stava risolvendo un lungo contenzioso proprio con CRI su una casa in cui aveva aperto un B&B. Quello scontro portò alle sue dimissioni a inizio 2019: ora torna su una poltrona di maggior prestigio e potere. Mai scommettere contro la burocrazia ministeriale.

 

Marta Cartabia La ciellina cara a sabino cassese

H a dismesso da pochi mesi i panni di presidente della Corte costituzionale, ma non ha mai perso di vista i Palazzi che contano. La neo ministra della Giustizia, Marta Cartabia, non dovrà fare i salti mortali per arrivare puntuale al giuramento al Quirinale: era già a disposizione a Roma da qualche giorno ché Dario Franceschini, una volta lasciata la Consulta, l’ha voluta omaggiare con la presidenza della commissione incaricata di scegliere il nuovo direttore dell’area archeologica di Pompei. E lei aveva accettato fedele al richiamo dei cattolici a farsi lievito nella società, meglio ancora se in politica. Tra i suoi sponsor Sabino Cassese e ben due capi di Stato, Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano. Quest’ultimo rimasto da lei folgorato nel 2011 al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione per cui suo marito in passato è stato anche tesoriere della Fraternità. E dove Cartabia è di casa ormai da moltissimi anni, come le rinfaccia qualcuno tra quanti ritengono che Cl sia stato il trampolino che le ha spalancato le porte di una carriera fulminante. Fatto sta che dopo pochi giorni da quell’incontro al meeting in cui Napolitano venne accolto con una ovazione non scontata, l’allora presidente della Repubblica la nominò alla Consulta. Un episodio che l’ha resa mitica anche nell’ambiente ciellino dove si narrano le sue imprese: “Qual è il colmo per una sangiorgese che insegna alla Bicocca e che ha conosciuto Re Giorgio? Essere nominata in Corte e infine tornare al Meeting a presentare un libro sul potere dei senza potere”.

“I partiti contano poco” Super-Tabacci benedice

“A me questo governo pare un’ottima squadra”. Bruno Tabacci è un uomo divertente e un democristiano eterno: ha solcato epoche geologiche e stagioni repubblicane ed è rimasto intatto, fresco e sorridente al posto suo. Ora, colpo di scena, accredita un’amicizia di lunga data con Mario Draghi. In mancanza di una voce ufficiale della comunicazione del neo premier, i giornalisti abboccano e accorrono da Bruno. “A Milano – si schernisce Tabacci – Draghi lo conoscono tutti”. Lui un po’ meglio, e dal lontano 1983, quando consigliato da Romano Prodi – dice – cooptò alla segreteria tecnica del ministero del Tesoro un “brillante giovane” che aveva studiato al Mit di Boston.

Appena ascoltata la lista dei ministri, Tabacci non perde l’entusiasmo per la nuova avventura. Non si lascia scoraggiare dall’ombra famelica dei partiti che si allunga sul governo di “alto profilo” del nuovo presidente del Consiglio. “A me sembra una bella squadra”, insiste, sbrigativamente. Eppure sembra fatta col bilancino per tenere buoni tutti quanti: 4 caselle per i grillini, 3 a testa per Pd, Forza Italia e Lega. Un’allegra ammucchiata multicolore. Tabacci dissente: “Ma no. No. In queste condizioni cosa possono pesare i partiti? Non potranno prevaricare alcunché”. Intanto però hanno piazzato parecchi loro uomini, è un governo iper-politico. “Be’ insomma, c’è Franco all’Economia, c’è Colao, c’è il responsabile del super-ministero all’Ambiente…”. Quella “transizione ecologica” non sarà mica una supercazzola per far felice Beppe Grillo? “Affatto. Lì ci saranno molti soldi da spendere”. Resta Speranza a lottare col Covid, Lamorgese agli Interni, Franceschini, persino Di Maio agli Esteri. Quasi un Conte-ter senza Conte e con parecchio centrodestra. Ma non c’è modo di turbare l’amico di Draghi, Tabacci non si piega: “Non si può fare questo paragone. Le scelte non erano facili, ma non si può dire che manchi discontinuità”. L’ultimo dei “costruttori” contiani è il primo dei draghiani, entusiasta e irreversibile

Assist 5S al renziano e Pd felice: giallorosa seduti con FI e Lega

Il tecnico che per ora cammina sulle acque ha messo i tecnici dove voleva, cioè in quasi tutti i ruoli chiave, dall’Economia alla Giustizia. Così con le altre poltrone ha appagato la sete di posti dei partiti, con quattro caselle al M5S, tre a Pd, Forza Italia e Lega. Mentre LeU ha confermato Roberto Speranza alla Salute e Italia Viva si è dovuta accontentare di un solo ministero, per giunta senza portafoglio, quasi fosse un’invitata che bisognava tenere a tavola per educazione. Eccolo il governo misto di Mario Draghi, un po’ tecnico un po’ politico. Senza segretari di partito e con meno donne di quanto assicuravano le indiscrezioni molto imprecise, il 35 per cento circa. Inoltre, con gran parte dei nomi del Nord. Un gioco di equilibri dove il Movimento, la forza con più parlamentari ma anche con maggiori guai interni, porta a casa più posti di tutti.

Compensazione alquanto parziale, perché è vero, Luigi Di Maio rimane dove voleva, agli Esteri, mentre Federico D’Incà, vicino al presidente della Camera Roberto Fico, resta ai Rapporti con il Parlamento. Però Stefano Patuanelli deve traslocare dal Mise, finito al numero due della Lega Giancarlo Giorgetti, per accasarsi all’Agricoltura, mentre Fabiana Dadone (anche lei in buoni rapporti con Fico) passa dalla Pubblica amministrazione alle Politiche giovanili. Soprattutto, il M5S deve deglutire tre forzisti nell’esecutivo. Tutti senza portafoglio, ma comunque molto visibili visto che si parla di due berlusconiani doc come Renato Brunetta, che si riprende la Pa come ai tempi del governo Berlusconi, e Mariastella Gelmini agli Affari regionali, mentre Mara Carfagna va al Sud. Basta questo, per provocare la reazione di Alessandro Di Battista: “Ne valeva la pena?”. E certi commenti nelle chat a 5Stelle ieri sera raccontavano il malumore. Però da tenere sulla bilancia ci sarebbe anche il famoso ministero alla Transizione ecologica, tanto invocato da Beppe Grillo. Draghi lo ha affidato Roberto Cingolani, già nella task force di Vittorio Colao e in ottimi rapporti con Matteo Renzi, tanto da aver presenziato alla Leopolda. Eppure è lui il nome che Grillo aveva espressamente richiesto al presidente incaricato. “Non ci è certo ostile” confermano fonti qualificate dal Movimento, che aggiungono: “Tenere Di Maio alla Farnesina e ottenere Cingolani ci è costato un prezzo sull’assetto complessivo, ma noi dovevamo puntare sul tema dell’Ambiente”. E in parte ne risentirà sul leghista Giorgetti che, è vero, si è preso il ministero che voleva, il Mise. Però in parte svuotato di deleghe, che andranno proprio a confluire nel dicastero della Transizione. Assieme a lui altri due reduci del Conte-1, Erika Stefani, che va alla Disabilità e l’ex viceministro all’Economia Massimo Garavaglia, al Turismo. Poi c’è il Pd, forse il partito che può più sorridere. Innanzitutto perché conferma due pesi massimi come Dario Franceschini alla Cultura (visto che il Turismo è andato al Carroccio) e Lorenzo Guerini alla Difesa, poi perché accontenta Andrea Orlando con una poltrona rilevante, il Lavoro. Ossia il ministero che dovrà occuparsi anche del Reddito di cittadinanza. Non solo. Dai dem fanno notare come Enrico Giovannini alle Infrastrutture e ai Trasporti e soprattutto Patrizio Bianchi all’Istruzione siano due nome quasi di area. E poi, insistono, “i ministri che erano l’asse del governo giallorosa sono in gran parte rimasti”.

Certo, come sussurra un parlamentare di peso, “per evitare Matteo Salvini nel governo si è dovuto sacrificare Nicola Zingaretti”. Entrando, il segretario avrebbe giustificato le pretese del leader della Lega. Ma almeno il Pd ha schivato il “capitano”. Proprio come un altro nome ngombrante come Maria Elena Boschi. Del resto per Iv c’è solo Elena Bonetti, che torna al dicastero da cui si era dimessa poche settimane fa, quello alla Famiglia e alle Pari opportunità. Ha pesato, il muro incrociato di Pd, M5S e LeU verso il Matteo Renzi che ha affondato il governo Conte-2. Invece i 5Stelle dovranno farsi andare bene il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, già capo di gabinetto al Mef con Giovanni Tria nel Conte-1. Furono soprattutto loro a spingere Garofoli, già con il dem Padoan all’Economia, alle dimissioni, sostenendo che gli fosse ostile. “Contro di me attacchi sistematici” si lamentò allora Garofoli. Era il dicembre 2018. Un’altra era.

Il governo Draghi-Colle dà il Recovery ai tecnici, il resto all’ammucchiata

“Crepi il lupo!”. Uscendo dal Quirinale, Mario Draghi abbassa il finestrino dell’auto per rispondere all’“in bocca al lupo” dei fotografi. È un attimo, dopo che davanti alla Sala alla Vetrata il premier scioglie la riserva e poi legge la lista dei ministri. Comunicazione breve e precisa, per dare vita a un esecutivo che porta una doppia firma: quella del presidente del Consiglio e quella del presidente della Repubblica. È stato il Quirinale ad annunciare con solo un’ora e mezza di anticipo che Draghi sarebbe salito al Colle alle 19. I due si sono sentiti più volte al giorno, sia ieri che l’altroieri. Tanto è vero che l’incontro formale di ieri è durato poco più di una mezz’ora. E la lista contiene 15 politici e 8 tecnici, anche se in realtà i pesi sono a favore dei super tecnici.

In primo luogo, il premier tiene per sé la gestione del Recovery, nominando tecnici di sua stretta fiducia: non solo Daniele Franco al Mes, ma anche Vittorio Colao alla Innovazione tecnica e alla Transizione digitale. I risultati della task force che aveva guidato nel governo Conte erano rimasti in un cassetto, in questa esperienza la sua è una posizione cruciale. E poi Roberto Cingolani alla Transizione ecologica. Un super fisico (attualmente nel board di Leonardo) indicato dai Cinque Stelle, che però è stato anche alla Leopolda di Renzi nel 2019 (ed era entrato nei suoi desiderata per un presunto Conte ter). Non c’è un ministro per gli Affari europei: segno evidente che i rapporti con Bruxelles se li gestirà direttamente il premier. Ma tecnici sono in posti nevralgici come la Giustizia, con Marta Cartabia (vicina al presidente della Repubblica), il Mit, con Enrico Giovannini, l’Università e l’Istruzione con due Rettori, Patrizio Bianchi e Cristina Messa. E poi, il Viminale che resta a Luciana Lamorgese. La sua riconferma è stata chiesta dallo stesso Mattarella. Così come quella del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Il Colle aveva allungato il suo ombrello protettivo anche su altre riconferme, che però sono state chieste dai partiti: Roberto Speranza (LeU), Luigi Di Maio (Esteri), Dario Franceschini (Cultura).

Nella formazione del nuovo esecutivo, la dinamica non è meno importante dei nomi e dei pesi: Draghi non ha trattato con i partiti, le interlocuzioni con loro sono avvenute tramite il Quirinale, il presidente e i suoi consiglieri, a partire da Zampetti. E anche ieri, i politici fino all’ultimo momento sono stati tenuti al buio: alcuni ministri sostengono di aver saputo direttamente dalle dichiarazioni pubbliche di Draghi di essere stati scelti, anche se qualche segnale era arrivato. Molti hanno avuto contatti con il Colle, più che con il premier. Ma alla fine, il compromesso c’è stato: dentro ci sono tre rappresentanti per ogni partito principale, ma con scelte che rispecchiano l’idea non solo di una continuità, ma anche di una certa moderazione. Per la Lega, i nomi sono sbilanciati in favore di quelli a Giancarlo Giorgetti, che – in virtù del suo rapporto storico con Draghi – prende anche un ministero di spesa, con il Mise. Per i 5 Stelle, non è un caso che esca Alfonso Bonafede e resti Stefano Patuanelli: il Movimento nella sua parte meno barricadera. Per premiare il Pd, con tre nomi rappresentativi delle tre correnti principali (il vice segretario, Andrea Orlando e Dario Franceschini e Lorenzo Guerini), Draghi ha aumentato i posti pure per gli altri partiti. Anche se quelli finiti a Forza Italia sono tre ministeri minori, con due figure poco rappresentative dell’area berlusconiana (Mara Carfagna e Renato Brunetta). Tanto che pare che per loro l’interlocuzione sia avvenuta con Gianni Letta.

Insomma, Draghi e Mattarella hanno realizzato un esecutivo che si garantisce l’appoggio dei partiti, attraverso alcune figure di primo piano, ma tende nello stesso tempo ad annacquarli. Per questo è rimasto fuori Nicola Zingaretti, per non far entrare Matteo Salvini. Da non trascurare in questo disegno la nomina del sottosegretario a Palazzo Chigi: Roberto Garofoli, già capo di gabinetto di Padoan e segretario generale con Letta. Un grande burocrate e un uomo macchina in un posto fondamentale per il funzionamento del governo.

I Migliorissimi

Mentre il Premier Incaricato, Sempre Sia Lodato, leggeva la lista del Governo dei Migliori con i Ministri di Alto Profilo, il primo pensiero andava a Cirino Pomicino: per reclutare una ciurma del genere, bastava e avanzava lui, senza scomodare Draghi. Il secondo pensiero era per i poveri 5Stelle e soprattutto per i loro elettori, gabbati da Grillo gabbato da Draghi, passati da partito di maggioranza relativa a partito e basta, con tanti ministri (peraltro inutili come gli Esteri o minori come gli altri) quanti il Pd (che ha metà dei loro seggi e 3 dicasteri più un tecnico d’area) e uno in più della Lega (metà dei loro seggi) e di FI (un quarto). Notevole anche l’ideona di inventare il super-ministero della Transizione Ecologica, già diventato mini perché gli manca il Mise, e regalarlo al renzian-leopoldiano Cingolani. Il terzo pensiero era per Previti e Dell’Utri: perché escluderli? Il quarto era per i cercatori d’“anima”, i cacciatori di “visione”, i ghostbuster di “identità della sinistra”, i gemmologi di “purezza progressista”, gli spingitori di “competenza” e dunque di “discontinuità”, i guardiacaccia anti-“trasformisti”. Ora i nuovi dioscuri Sergio e Mario li hanno accontentati tutti in un colpo solo, con un governo dotato contemporaneamente di anima, identità, sinistra, ecologismo, competenza, discontinuità e anti-trasformismo. Il Governo dei Migliori, appunto.

All’“anima”, “identità” e “purezza” di sinistra ci pensa il governo Berlusconi-4, momentaneamente parcheggiato presso il Draghi-1 nelle persone di Gelmini, Brunetta, Carfagna, Giorgetti e Stefani.

All’ecologismo badano Giorgetti, le truppe forziste e altri santi patroni del partito del cemento, del bitume, delle trivelle e del Tav.

Per la competenza, a parte tre o quattro tecnici (fra cui quel Colao che, quando lo chiamò Conte, tutti sghignazzavano su Colao Meravigliao), c’è un trust di cervelli mica da ridere: dalla Gelmini e i suoi neutrini nel tunnel Gran Sasso-Ginevra; a Brunetta, grande esperto di tornelli e diplomazia; a Orlando (quello che “mai con la Lega”), che può passare dalla Giustizia al Lavoro al nulla con la stessa enciclopedica impreparazione.

Alla discontinuità provvedono Franceschini (al suo quarto governo), Brunetta, Gelmini, Carfagna, Giorgetti e Di Maio (terzo), Bonetti, Stefani, Garavaglia, Giovannini, Orlando, Guerini, D’Incà, Dadone, Patuanelli, Lamorgese, Speranza (secondo). Otto ministri del Conte-2: ma quindi era vero che erano i “migliori del mondo”?

All’anti-trasformismo, c’è solo l’imbarazzo della scelta: lo rappresentano praticamente tutti.

Manca solo Giuseppe Conte che, pur nella momentanea disgrazia, è il solito fortunello: non essendo né un migliore né un competente, lui non c’è. Che culo.

La nuova Audi unisce lusso e tecnologia

“Un’Audi che il mondo non ha mai visto prima”. Così descrivono dal quartier generale di Ingolstadt la nuova arrivata e-tron GT, Granturismo 100% elettrica “cugina” di un’altro pezzo d’ingegneria niente male, che risponde al nome di Porsche Taycan.

Lunga 4,99 metri, larga 1,96 e alta 1,41, la e-tron GT è in effetti un mix fra design e tecnica avanzata, che trova pochi riscontri nel panorama automobilistico attuale. Innanzitutto nelle linee: sportive con emozione, nonostante l’occhio e la dedizione degli ingegneri sia andato, com’è logico che sia, all’efficienza aerodinamica: grazie a diversi accorgimenti, tra cui lo spoiler retrattile che regola il carico sulla coda a seconda della velocità, questa GT può vantare il coefficiente di penetrazione da record di 0,24.

La ricerca del giusto punto d’incontro tra le esigenze estetiche e quelle tecniche è inoltre sfociata in linee slanciate da coupé a quattro porte, che racchiudono una meccanica capace di prestazioni fuori dalla norma, con il plus delle zero emissioni allo scarico. Il tutto senza dimenticare il comfort degli interni, realizzati con cura e materiali di pregio e anche in parte riciclati, a testimonianza del commitment verso l’ambiente. Non mancano poi le dotazioni tecnologiche, a partire dal cruscotto digitale da 12” e dal touchscreen da 10” con cui gestire l’infotainment di bordo, per finire con i sistemi per la sicurezza e l’assistenza alla guida.

Sarà disponibile in due versioni, e-tron GT quattro e RS e-tron GT: la potenza è rispettivamente di 350 kW (476 Cv e 630 Nm di coppia motrice) e 440 kW (598 Cv e 830 Nm, ma durante le partenze assistite dall’elettronica, la cavalleria sale a 646 Cv per 2,5 secondi): sicché l’edizione più potente divora lo 0-100 in appena 3,3 secondi e tocca i 250 orari (4,1 e 245 orari per il modello “base”), potendo contare sulle quattro ruote motrici. Mentre l’autonomia omologata Wltp si attesta attorno ai 488 km, grazie alla batteria con capacità netta di 86 kWh. La sua tecnologia a 800 volt consente una ricarica con potenza fino a 270 kW: a questa velocità, bastano cinque minuti per ricaricare 100 km di autonomia.

La e-tron GT arriverà nelle concessionarie italiane in primavera, con prezzi ancora da definire. Ma per avere un’idea si possono prendere a paragone quelli riservati al mercato tedesco, dove la GT quattro costa 99.800 euro, mentre per la RS ce ne vogliono 138.200.

Il cavallo hi-tech della Mustang viaggia a elettroni

Le cronache raccontano che il 17 aprile 1964, al suo debutto, la prima Mustang andò a ruba. I concessionari Usa, presi d’assalto dai clienti, furono costretti a mettere all’asta i contratti. Alla fine se ne vendettero 20 mila in un solo giorno, anche perché costava relativamente poco: 2.368 dollari. Insomma, un motivo c’è se gli americani conobbero la sportività “popolare” su quattro ruote grazie al logo del cavallo indomabile.

Che quella sportività la riscoprissero quasi sessant’anni dopo, con un powertrain a elettroni e prezzi più consistenti (49.900, quello di partenza), era poco prevedibile allora. Eppure riproporre quel marchio su un mezzo che strizza l’occhio ai gusti moderni, col suo look simil-crossover, ma che mantiene gli stilemi della sua antenata (cofano imponente, fianchi scolpiti, fari posteriori classici a tre barre), ha un senso. Nonostante le rimostranze dei puristi della storia.

Il senso è quello di un biglietto da visita al mondo, di un manifesto programmatico che piazzi Ford in prima fila nell’agone dell’elettrificazione: cosa c’è di meglio che proporre il tuo modello più famoso con un motore elettrico sotto al cofano e batterie sotto al pavimento?

E quelle della Mustang Mach-E, di batterie, sono pure capienti. L’autonomia è di 540 chilometri nella versione a trazione integrale, che diventano 610 grazie al range extender (ciclo WLTP). A patto di non avere il piede troppo pesante, o che non ci siano condizioni climatiche proibitive. Perché si sa, le autonomie dichiarate delle elettriche (nessuna esclusa) non sono mai una scienza esatta.

Comunque sia, per avere fino all’80% della ricarica da wallbox (7,4 o 11 kW) ci vogliono circa sei ore. Con una colonnina fast da 150 kW invece è tutta un’altra storia: si possono avere 119 km di autonomia in soli 10 minuti.

Anche le prestazioni cambiano, a seconda delle batterie: la potenza è di 269 cavalli usando quella standard (68 kWh), ma sale fino a 351 con l’extended range (88 kWh). Il che significa scattare sul classico 0-100 in 5,1 o 5,6 secondi. Ma quello che impressiona, è che per avere la coppia massima (nel caso della nostra First Edition è di 580 Nm) ci vuole solo mezzo secondo: un battito di ciglia, dunque, e si scatta.

Il bilanciamento dei pesi, col pacco batterie sistemato sotto il pavimento tra i due assi e relativo baricentro basso, è convincente. Lo si avverte nei cambi di direzione veloci nonché in curva, dove nonostante l’elettronica c’è sempre spazio per un piacevole (e controllato) “scivolamento” della coda verso l’esterno. Parliamo pur sempre di un’auto che il dna sportivo lo ha mantenuto eccome.

Ma i tempi cambiano, e non si può prescindere da comodità e tecnologia. Lo spazio a bordo è fondamentale, e ce n’è a sufficienza per passeggeri e bagagli. Il vano posteriore ha una capienza di 402 litri, anche se l’apertura automatica del portellone risulta un po’ macchinosa.

Nella messe di sistemi di infotainment e ausilio alla guida, tutti controllati tramite schermi touch (i pulsanti si contano sulle dita di una mano) e Ford Sync di ultima generazione (che apprende dai comportamenti del conducente), ce n’è uno molto utile: il Phone as a Key.

Attivando il Bluetooth e avvicinandosi, l’auto riconosce lo smartphone e consente l’accesso anche senza la chiave. Comodo, no?

“Cobain? Senza speranza il rock è la mia medicina”

Era autunno a New York. Il 18 novembre 1993. Le prove dei Nirvana per il concerto tv MTV unplugged si erano rivelate un disastro. “Ma con noi era sempre così, senza mezze misure”, ci racconta il batterista di allora, Dave Grohl. “Ogni serata poteva essere catartica, trascendente, fenomenale, o un set da pattumiera. Contava azzeccare la scaletta. Decideva Kurt”. Così Cobain tagliò via tutto quello che sarebbe suonato fuori posto, in quella scena soft, con le candele a illuminare lo studio. Come in un funerale, notò qualcuno. Per la disperazione di MTV, fu escluso Smells Like Teen Spirit, l’inno disperato della generazione X. “Smells era un’opzione troppo banale, e non c’entrava in un set acustico”, spiega Grohl. “La sfida fu eseguire le cover, come The man who sold the world di Bowie. O Where did you sleep last night, il classico blues di Leadbelly. Quello fu un momento reale, che non ti capita tutte le sere. I Nirvana si infilavano in situazioni senza speranza, e riuscivano a trovarne”.

Cobain sarebbe morto suicida pochi mesi dopo: Grohl non voleva essere ricordato come l’uomo dietro ai tamburi. Così, ha regalato le bacchette ai compagni di asilo di sua figlia Violet, che lo hanno identificato come “un mago”.

Invece Dave è una star totale: più di un quarto di secolo fa, si è reinventato come chitarrista e cantante dei dinamitardi Foo Fighters. Che quest’anno hanno ottenuto la candidatura per l’ammissione alla R’n’R Hall of Fame, e il 12 giugno sperano di suonare agli I-Days di Milano, ma chissà. “Non so quando torneremo ai live, ma succederà: trovarsi insieme per cantare e ballare fa parte della natura umana. Garantisco che il primo giorno buono per fare uno show, io ci sarò. Ok, abbiamo fatto un live streaming da Los Angeles. Lì per lì ho pensato: c’è qualcosa che non va. Che senso ha suonare in una stanza vuota, solo con i tuoi roadie, che ti odiano… In realtà mi sono divertito: in questo frangente la cosa importante è offrire qualcosa che intrattenga, in qualsiasi modo possibile”. Il piatto forte dei Foo Fighters è il nuovo album – il decimo – Medicine at Midnight.

Superbo rock al vetriolo, ma mai piegato al cliché della band che si muove solo dentro la comfort zone. Spiega Dave: “Avevamo cominciato a scrivere il disco due anni fa, per celebrare il 25esimo anniversario, lavorando su canzoni che ci dessero filo da torcere. Eravamo pronti a partire per un tour mondiale, poi stop. E il nostro è un album allegro, da condividere sotto il palco, non è l’annuncio del pensionamento”. Quel titolo, sottolinea Grohl, rappresenta un processo “di guarigione, mentre la mezzanotte è l’ora dell’urgenza”. La medicina del rock non è ancora scaduta? “Si sta evolvendo, un sacco di band giovani la usano bene. Da dieci anni mi chiedono se il rock sia morto. Nel mio mondo è tutt’altro che defunto, soprattutto quando sento decine di migliaia di persone che cantano la nostra My hero a squarciagola. Un esempio dello spirito rock contemporaneo è Billie Eilish. Molti non la considerano rock, ma non è una questione di suono, bensì di cultura. Ha creato una connessione emotiva con un movimento di persone che si sentono come lei. Poi vedo Miley Cyrus con una chitarra elettrica come Joan Jett negli anni 80, o Phoebe Bridges che ne spacca una al Saturday Night Live… E mi chiedo se il rock è davvero morto o rinasce ogni volta dalla tomba come uno zombie per riconquistare il pianeta”.

Già 30 anni fa Dave veniva in Italia con la punk band Scream: “Eravamo famosi da voi, nel senso che suonavamo di fronte a 100 persone, in posti come il Forte Prenestino o il Leoncavallo o nei centri sociali di Torino, Bologna o Pisa”. Gli Scream erano parte della comunità punk di Washington, eoni prima della guerra civile a Capitol Hill. “Negli ultimi anni il nostro Paese è stato profondamente diviso. Non sono sorpreso, è stato un progressivo declino. Ho fiducia nella gente, anche se c’è un mucchio di lavoro da fare… Però mente chiunque dica che non si aspettava fatti come quelli del 6 gennaio”.

Suona profetico, allora, il nuovo singolo Waiting on a war, in realtà scritto per l’angoscia provata da Grohl nell’era della Guerra Fredda.

I Foo sono una voce politica? “No. La band ha canzoni che possono unire, ma parlano di temi generali: credo ci siano altre persone che si sentono come noi. Quando ci hanno chiesto di suonare Times like these per l’inaugurazione di Biden, è quello che rappresenta per la gente. Ma l’avevo scritta molti anni fa, quando ero a un bivio della mia vita. La gente la canta per motivi ogni volta diversi. Mio padre era un ex giornalista che scriveva discorsi per i Repubblicani. Questo mi basta per non voler entrare in politica: voglio ribellarmi a lui, da sempre”.

“Trump, basta con il seme dell’odio”

Se fosse un vero processo, basato su fatti e prove, l’imputato non avrebbe modo di cavarsela: lo conferma il silenzio imbarazzato con cui i senatori repubblicani seguono il procedimento d’impeachment contro Donald Trump. L’accusa ha presentato filmati, documenti, testimonianze che non lasciano dubbi: i rivoltosi che diedero l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio stavano eseguendo gli ordini del ‘comandante in capo’, o almeno ne erano convinti. Il presidente Joe Biden non esclude che quanto mostrato induca qualche repubblicano a cambiare il proprio voto ma resta lontano dal processo e si occupa della Cina: “Se non la fermiano si mangerà anche il nostro pranzo”. Alla Birmania, il presidente dopo il colpo di Stato blocca miliardi di forniture e aiuti. Tornando all’impeachment, fonti ben informate sulle inchieste in corso al Dipartimento di Giustizia dicono che almeno quattro degli arrestati hanno riferito in tribunale di avere seguito gli ordini di Trump: “Jessica Watkins, uno dei capi del gruppo paramilitare di destra Oath Keepers, aspettava le direttive del presidente.” La seconda e ultima udienza riservata all’accusa è stata simile alla prima: il team dei deputati che fungono da pubblico ministero – un inno alla diversità: un wasp, un nero, un ispanico, una donna e poi si ricomincia – ha presentato e commentato video, parole e post del magnate ex presidente. “Non temo che Donald Trump si ricandidi di nuovo tra quattro anni, temo si ricandidi e venga sconfitto, e potrà fare di nuovo quello che ha fatto.” Così Ted Lieu, uno dei deputati democratici che fa parte del team dei manager dell’impeachment. Uno degli obiettivi è quello di arrivare alla condanna di Trump in modo da decretare la sua interdizione agli incarichi pubblici. “Non siamo qui per punire, ma per prevenire che lui possa di nuovo piantare il seme dell’odio.” S’è molto insistito sulla mancanza di pentimento di Trump per quanto avvenuto. Oggi, tocca alla difesa, che potrebbe chiudere in giornata, rinunciando a metà del suo tempo. Sabato non vi sarà udienza; domenica, si aprirà il dibattito; poi ci sarà il verdetto. Nella ricostruzione dell’accusa, l’irruzione dei sostenitori di Trump nel Congresso, che fece almeno cinque vittime, ebbe momenti più drammatici di quanto s’era finora saputo: i rivoltosi giunsero vicinissimi a Mitt Romney, salvato da un agente di polizia, Eugene Goodman, che gli consentì d’allontanarsi. Anche il vice-presidente Mike Pence e la sua famiglia furono in pericolo, specie dopo che il presidente lo accusò su Twitter di non aver avuto il coraggio di cambiare il risultato delle elezioni: i rivoltosi volevano “impiccarlo”. E un collaboratore della speaker della Camera Nancy Pelosi riferisce: “Se l’avessero trovata erano pronti a ucciderla”. Il deputato Eric Swalwell ha raccontato di avere mandato un sms d’addio alla moglie e ai figli, quando la sicurezza avvisò i parlamentari di restare sotto le loro scrivanie.

Tempi duri per Starmer: al Labour non piace più

L’ultimo sondaggio, Ipsos Mori conferma il trend. Se le elezioni fossero domani, i Tories al governo otterrebbero il 42% dei voti, un punto in più che a dicembre. I Labour si fermerebbero al 38, in calo di tre punti. E il leader conservatore Boris Johnson surclassa il rivale laburista Keir Starmer: malgrado il numero altissimo delle vittime, il 44% del campione ritiene sia la persona giusta per gestire la pandemia. Starmer è al 27%. Particolare allarmante: solo 6 su 10 elettori laburisti preferiscono il proprio segretario. Ce lo confermano fonti interne: il nervosismo e il malcontento verso la leadership sono anche nel corpo del suo partito, a un anno dalla solida vittoria. Starmer, va ricordato, ha ereditato una situazione intricatissima: una disfatta elettorale di proporzioni storiche, nel dicembre 2019; le macerie del corbynismo, fenomeno di straordinaria mobilitazione dal basso vanificata da un leader che si è rivelato non all’altezza dell’enorme credito raccolto; e infine la pandemia, che nel Regno Unito ha cominciato a colpire nel febbraio 2020, in coincidenza perfetta con l’ascesa di Starmer a segretario.

Proprio il Covid ha dato forma a tutta la sua strategia finora: Starmer si è voluto distanziare fortemente dal suo predecessore con una opposizione ostentatamente responsabile, quasi di unità nazionale nel momento del bisogno, per controbilanciare la percezione di irresponsabilità ideologica associata all’ultimo Corbyn. Ma la pandemia ha avuto un impatto rilevante anche sulla macchina del partito, che nel Regno Unito è nutrita da incontri regolari e da un dibattito costante e produttivo fra i 496mila iscritti; una vivacità non riproducibile online. Problema identitario sconosciuto al Partito Conservatore, che di iscritti ne ha poco più di 180mila. Il risultato, anche per l’impatto del Covid sulle vite individuali, è un disimpegno generale, che il segretario, la sua strategia e il suo staff non sono riusciti ad arrestare né ad intercettare. Sir Keir è percepito come troppo cauto, poco carismatico, troppo preoccupato di scrollarsi di dosso un’immagine sofisticata, di avvocato di successo, baronetto, Remainer, esponente tipico della classe media londinese, insomma il tipo umano e politico più lontano possibile dall’elettore da riconquistare: l’ex militante laburista del Red Wall, senza lavoro o precario, sovranista e brexiteer per esasperazione sociale, che vede nell’immigrazione non una occasione ma una minaccia. Nelle premesse, il Labour di Starmer non sembra allontanarsi dal programma neo-socialista messo a punto da Jeremy Corbyn. Ma invece che implementarlo, Starmer sembra ancora impegnato in tentativi, percepiti come maldestri di accreditarsi in una direzione impossibile da identificare. L’ultima è la svolta patriottica, annunciata a settembre in apertura della conferenza annuale del partito, con tanto di ostentazione della Union Flag nei collegamenti video. Nasce da una lettura parziale della sconfitta elettorale, attribuita alla percepita mancanza di patriottismo di Corbyn, esplosa quando, da segretario, rifiutò di condannare il Cremlino dopo l’avvelenamento di Sergei Skripal in territorio britannico. Una concessione ad una corrente minoritaria, quella del Blue Labour, un gruppo di pressione che abbraccia idee conservatrici in politica sociale e nelle relazioni internazionali, con posizioni protezioniste, anti-migratorie e anti-europee estranee alla maggioranza. E se nella prima fase della pandemia una opposizione più aggressiva sarebbe stata vista come opportunista, ora gli iscritti si chiedono perché il loro compassato segretario non cambi metodo e merito della critica, e non sfrutti le praterie, anche emotive, aperte da una gestione della crisi fallimentare, clientelare e con pesantissime ricadute sociali. Resta il beneficio del dubbio, ma cresce l’incertezza: a chi parla Sir Starmer? E qual è la sua visione del Labour?