Tutti per Putin a loro insaputa

Tutti amano il presidente Putin e per lui danzano, applaudono e cantano. Ma a loro insaputa. A Volgograd i dipendenti statali che hanno risposto alla richiesta dei loro vertici pensavano di marciare uniti per le riprese di un video del famoso gruppo rock Ljube. A Belgorod, al confine ucraino, gli studenti russi dell’Istituto d’arte e cultura convocati dall’amministrazione credevano di partecipare a un evento patriottico, come un centinaio di persone che hanno srotolato una bandiera russa lunga 60 metri ad Arkhangelsk, mentre risuonava una canzone nazionalista, e la scena veniva ripresa dalle telecamere. Gli studenti della scuola di Legge a Mosca hanno deciso di farsi coinvolgere perché trovavano giusto essere testimoni di un evento dedicato al Covid, che sarebbe servito per far fermare la pandemia e sarebbe finito in tv.

Decine di filmati come questi, dai colori saturi e pieni di comparse ignare, sono finiti nelle tv russe e sui siti della propaganda come tributi d’amore e sostegno a Putin, accompagnati dagli hashtag “flashmob per il presidente”, “Vladimir Vladimirovich è il nostro presidente”. Le parate sono state organizzate e accuratamente riprese a inizio febbraio per fare da contrappeso alle immagini delle manifestazioni di protesta del 23 e 31 gennaio scorso, quelle che tutta la Russia ha visto e non ha ancora dimenticato, marce ripetutesi nel Paese in solidarietà all’oppositore in galera Aleksej Navalny, ma non solo. La prima ad accorgersi del video skandal è stata la Rossiskaya Gazeta: la compagnia di e-commerce Sima Land aveva chiesto a tutti gli impiegati di riunirsi nel deposito aziendale per celebrare con un video il ritorno negli uffici dopo mesi di lockdown. Pugni al cielo – qualcuno il destro, altri il sinistro, tutti illuminati da una luce blu – hanno ondeggiato coreografici in mascherina, violando, tra l’altro, ogni regola di distanziamento sociale. La scritta “Putin siamo con te” è apparsa solo dopo la fine del girato, durante l’editing conclusivo.

Una storia simile, ma dallo scenario diverso, è accaduta ad alcuni lavoratori a Ekaterinburg: come gli altri, gli operai sono stati costretti ad amare Putin ma c’era un obman, ovvero l’inganno: è la parola usata nei titoli di tutte le testate russe che ne hanno poi scritto. Organizzata come le altre senza precisi motivi specifici, anche la ripresa agli operai di una fabbrica a Barnaul, chiamati a eseguire lo stesso compito, è stata usata per lo stesso scopo. A San Pietroburgo il sito Fontanka ha riferito che lo stesso è accaduto in piazza Lenin. Gli studenti a Samara sono stati invece sistemati ad arte per creare l’immagine di un cuore da tributare al gabinetto presidenziale allo stadio. Risultati erroneamente poetici, per dimostrare amore eterno al Cremlino, li hanno raggiunti anche i registi dei carnevali della propaganda in Tatarstan, dove sono stati coinvolti perfino degli atleti che hanno scoperto solo dopo di far parte del “Putin team” e di essere finiti in un video postato sull’account del presidente in carica, Rustam Minnikhanov. Secondo il sito indipendente Meduza, tutta l’operazione è stata organizzata dai vertici del partito Russia Unita per “dimostrare che Putin è sostenuto da persone semplici”. Una emergenza scaturita dalla partecipazione alle proteste in favore di Aleksej Navalny dopo il suo arresto. Mentre su Tik tok il Roskomnadzor, Servizio federale per la supervisione della comunicazione di massa, cerca ancora gli autori dei video a favore del dissidente che hanno ottenuto cento milioni di visualizzazioni, i fedelissimi del blogger fanno marcia indietro sullo stop alle proteste di piazza; una necessità, si pensava, per mancanza di fondi da destinare agli avvocati dei 12 mila arrestati in tutta la Federazione.

Il giorno di San Valentino a Mosca non si abbracceranno solo gli innamorati, ma anche gli attivisti, in una “catena di solidarietà” organizzata per i Navalny: Aleksej e Yulia, la coppia più invisa al Cremlino, marito dietro le sbarre e moglie volata in Germania, nazione che ha curato suo marito dopo l’avvelenamento da novichok attribuito al servizio di sicurezza Fsb. Per scoraggiare le nuove manifestazioni, in coro l’Ufficio del procuratore generale, il Comitato investigativo e il ministero dell’Interno russo hanno ribadito che “le misure restrittive sono ancora in vigore per la pandemia, chi le viola verrà detenuto quanto chi incita a farlo”. Lo stesso tricolore che hanno fatto sventolare i cittadini ignari nei filmati d’amore per Putin tornerà presto a garrire di nuovo per le strade russe, ma imbracciato da altri: alcuni manifesteranno per Navalny, molti altri per l’idea stessa che l’opposizione possa esistere, tutti protesteranno per il collettivo scontento che aumenta inesorabile invece di diminuire. E non lo faranno cantando.

Rebus “uomo nero”, da Bologna 1980 al patto Stato-mafia

Il libro di Giovanni Vignali L’uomo nero e le stragi, da ieri in tutte le librerie e in edicola con Il Fatto in Emilia-Romagna e nelle maggiori città d’Italia, è uno strumento necessario per chi voglia avventurarsi nei sentieri scoscesi delle stragi e dei rapporti inconfessabili tra Stato e anti-Stato. Il libro illumina, grazie alle carte giudiziarie e al racconto dei protagonisti, la figura di Paolo Bellini, nato a Reggio Emilia 67 anni fa, estremista nero figlio dell’albergatore Aldo Bellini, caro amico del procuratore capo di Bologna dell’epoca, Ugo Sisti. Il figlio Paolo era uno strano criminale, appartenente al gruppo di Avanguardia Nazionale, ma anche bandito comune abile con la pistola e fumantino. Spara all’ex fidanzato della sorella e poi fugge latitante sotto falso nome e diventa il brasiliano Roberto Da Silva. Lo ritroviamo ‘infiltrato’ dallo Stato nella mafia stragista nel 1992, poi killer della ’ndrangheta nella seconda metà dei Novanta in Emilia, collaboratore di giustizia nel nuovo millennio che lo vede testimone sulla Trattativa in processi importanti e infine ora indagato di nuovo per la strage della stazione del 1980. Il sottotitolo del libro tratteggia la traiettoria unica di Bellini: “Dall’eccidio di Bologna alla trattativa con la mafia. Il mistero del neofascista Paolo Bellini”.

Vignali, giornalista di Reggio Emilia che si è già occupato del suo conterraneo, mette in fila tanti dettagli inediti sulle mille vite di Bellini partendo dall’ultima novità: il video amatoriale di un turista tedesco girato il 2 agosto 1980, dove si intravede un uomo con i baffi che somiglia a Paolo Bellini. La Procura generale di Bologna, dopo il ritrovamento del video, ha chiesto l’arresto di Bellini senza ottenerlo dal Gip. Poi ha chiesto il processo accusandolo di essere il quinto uomo della strage di Bologna, oltre agli estremisti di destra già condannati. L’udienza preliminare è in corso e Vignali ricorda che già una volta Bellini fu indagato e prosciolto. Qualunque cosa decida il Gup, il libro non perderà il suo interesse.

Ci sono tutti gli snodi della vita unica di Bellini: l’omicidio del 1975 del militante di Lotta continua, Alceste Campanile, confessato nel 1999 insieme a una decina altri omicidi dai moventi vari. Ci sono i rapporti di Bellini con l’avvocato Stefano Menicacci, difensore di Stefano Delle Chiaie nonché onorevole del Msi e protagonista della creazione delle Leghe del Sud nel 1992. C’è il giallo della presenza a Bologna nello stesso albergo con Thomas Kram (il terrorista tedesco dirigente delle Cellule rivoluzionarie, RZ, e membro del gruppo Carlos, a lungo indagato e poi prosciolto come sospetto autore della strage del 2 agosto 1980), nel febbraio del 1980. C’è la storia della trattativa intessuta da Bellini come ‘infiltrato’ dello Stato nel 1992 dopo le stragi di mafia con il boss Nino Gioè. C’è la fine del boss di Altofonte: impiccato nel 1993 in cella con accanto una lettera che cita Bellini come fonte ultima di verità: “Io rappresento la fine di tutto – scrive Gioè – supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato, sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo”. La forza del libro è quella di mettere in sequenza tutti questi fotogrammi dando un senso nuovo al film nero.

Non manca qualche particolare inedito come un viaggio aereo sconcertante del 1978. Unico passeggero del volo privato da Foligno a Roma è il procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti. Il pilota si fa chiamare Roberto Da Silva, ma altri non era che il figlio di Aldo Bellini, grande amico del magistrato, che ovviamente giura di non riconoscerlo. Sisti è stato prosciolto dalle accuse di favoreggiamento, ma Vignali riporta le motivazioni della sentenza di condanna contro l’estremista nero Gilberto Cavallini uscite nel gennaio 2021. Nelle motivazioni, la Corte svela quel che scrivono i giudici nel proscioglimento di Sisti su quel volo: “Ugo Sisti (…) effettuò un volo su un piccolo aereo privato, partendo da Foligno, per conferire con il ministro dell’Interno Rognoni. Anzitutto, non si capisce per quale ragione di lavoro un procuratore della Repubblica dovesse interloquire personalmente con il ministro degli Interni, anziché, semmai, con il ministro della Giustizia, e con modalità così non ufficiali e riservate: uso di un piccolo aereo privato il cui volo veniva registrato con modalità molto sommarie (si trattava dell’aeroclub di Foligno). Ma soprattutto – prosegue la Corte bolognese – la circostanza che desta più sorpresa è l’identità del pilota che avrebbe fatto da autista al procuratore Sisti: Paolo Bellini. Il quale in quel periodo era latitante in Italia sotto il falso nome (brasiliano) di Roberto Da Silva. Di questa circostanza, anzi, il primo a dover essere informato era proprio il ministro dell’Interno (con nota riservata, non certo con una visita volante in tutti i sensi). Insomma, sembra che Paolo Bellini fungesse da aerotaxi per le visite che il procuratore di Bologna, Ugo Sisti, grande amico di Aldo Bellini, padre di Paolo Bellini e convinto avanguardista, faceva in incognito al ministro dell’Interno”. L’episodio, così ricostruito dai magistrati, è inedito ed effettivamente sconcertante. Il libro, in edicola e in libreria da ieri, potrebbe essere una buona occasione per fare chiarezza.

Mascherine, ora Benotti tira in ballo Arcuri: “Ho le email con cui mi chiese di procurarle”

Il rapporto personale con il commissario straordinario Domenico Arcuri. È questa l’arma che Mario Benotti ha scelto di usare per difendersi dalle accuse della Procura di Roma. Il giornalista Rai in aspettativa – indagato per traffico di influenze illecite nell’ambito dell’acquisto da parte del governo, a marzo 2020, di 801 milioni di mascherine – ritiene infatti di essere stato incaricato “di fatto” dal commissario per l’emergenza Covid a reperire i dpi comprati dalla Cina al prezzo di 1 miliardo e 251 milioni di euro. I suoi legali e quelli della moglie Daniela Rossana Guarnieri (anche lei indagata per traffico di influenze) sono pronti a depositare le email e i messaggi Whatsapp che Arcuri e Benotti si sono scambiati nei giorni più difficili dell’esplosione dell’epidemia. Fra i messaggi, emersi anche dall’analisi di pc e smartphone sequestrati, compare anche l’interesse della struttura commissariale a reperire respiratori e tute protettive. Non solo. Le indagini difensive hanno raccolto le versioni di due testimoni, che avrebbero visto il giornalista Rai entrare due volte a colloquio nell’ufficio di Arcuri.

La documentazione è pronta per essere depositata e verrà consegnata agli inquirenti in sede di incidente probatorio, qualora il gip dovesse accogliere l’istanza della difesa di Benotti di acquisire le dichiarazioni di Arcuri e del responsabile unico dei procedimenti, Antonio Fabbrocini. La richiesta, formalizzata l’8 febbraio dall’avvocato Alessandro Sammarco, punta a verificare, fra le altre cose, “se e dove sono avvenuti incontro con Benotti aventi a oggetto la fornitura di mascherine”, se gli “hanno mai chiesto e quando di interessarsi per il reperimento di tale fornitura” e “se l’intervento di Benotti sia avvenuto in quanto presidente del Consorzio Optel”. Per i legali, il carteggio rappresenterebbe un incarico “di fatto” a Benotti e giustificherebbe la provvigione di 12 milioni che la Microproducts It srl ha incassato dai fornitori cinesi.

Secondo gli investigatori però gli argomenti della difesa non spostano nulla rispetto alle accuse, rafforzate dai documenti sequestrati il 3 dicembre. Già oggi il gip potrebbe decidere se concedere l’incidente probatorio. Arcuri e Fabbrocini sono ancora formalmente indagati per corruzione nell’ambito della stessa vicenda, anche se i magistrati hanno già presentato al gip richiesta di archiviazione, sostenendo che non ci sono elementi per procedere oltre. Dunque potrebbero avvalersi della facoltà di non rispondere. I legali di Arcuri, contattati dal Fatto, preferiscono “non commentare” l’istanza della difesa, definendo “prematura” ogni dichiarazione, in attesa della decisione del gip.

Roma, Manfredi “intossicato da monossido”. È in coma in camera iperbarica a Grosseto

Una fuga di monossido di carbonio, forse il malfunzionamento della caldaia. Sembrano queste le cause, secondo i primi rilievi, del malore avuto ieri sera da Valerio Massimo Manfredi. Lo scrittore è stato trovato privo di sensi sul letto del suo appartamento nel quartiere Trastevere, a Roma. Con lui c’era la latinista e scrittrice Antonella Prenner, anche lei svenuta. A dare l’allarme la figlia, che non riusciva a entrare in casa. Mentre i Vigili del fuoco evacuavano lo stabile, Manfredi è stato trasferito in coma all’ospedale di Grosseto per essere curato in camera iperbarica. La Prenner, 47 anni, è stata ricoverata all’Umberto I. Settantasette anni, archeologo all’università e sul campo (ha guidato varie spedizioni nel Mediterraneo), autore e conduttore televisivo, Manfredi è noto soprattutto come autore di romanzi storici best seller internazionali, tutti pubblicati da Mondadori. Le sue saghe più famose sono ambientate ai tempi di Alessandro Magno (La trilogia di Alexandros) e dell’Antica Roma. Il suo L’ultima legione è diventato un film con Colin Firth nel 2007.

Mail Box

 

Non dimentichiamo il lavoro di Conte

Caro Direttore, noto con non poco rammarico che il nome di Conte è scomparso dalla bocca di tutti i commentatori televisivi. Si parla soltanto di come Draghi – ineccepibile per definizione – ci farà uscire da questa situazione “critica”. Tuttavia ci si è dimenticati che il vero dramma accadeva un anno fa, quando avevamo di fronte un virus di cui non sapevamo nulla. Mentre nel sentire qualsiasi talk show attuale, sembra che sia questo il momento peggiore: ora che abbiamo più di un vaccino testato, già in fase di distribuzione, e 209 miliardi da distribuire (conquistati da Conte). Credo che, per una volta, si potrebbe anche far finta che Conte non sia stato espressione del M5S, e riconoscergli i giusti meriti. In fondo se, data la situazione, sono tutti disposti a governare con tutti, potrebbero fare anche questo sforzo.

Valentina Felici

 

Se non arrivasse il Mes, cosa dirà Renzi?

Ma se Draghi non prenderà il Mes, l’Innominabile secondo voi cosa dirà, o meglio quale altra giravolta si inventerà?

D. Salerno

 

Pur di spartirsi la torta negano la realtà dei fatti

Prima schierati per il maggioritario, l’alternanza… Ora “il Paese normale” che tutti auspicano è quello dell’inciucio eretto a sistema. E delle convenienze. Provano a farci credere che a prevalere sia, all’improvviso, la folgorazione dell’interesse nazionale. Perché, prima se ne fregavano? Non è che a guidarli sia il rischio di essere esclusi dalla spartizione della torta europea? Quella conquistata con capacità e credibilità dal vituperato Conte ma, ancor oggi, incredibilmente negata da un Calenda qualsiasi.

Melquiades

 

Fossi io direttore del “Fatto”, scriverei…

Egregio Direttore, 1. ha ragione Lerner quando dice che questo non è il fallimento della politica, ma di questi politici incapaci. Salvo Conte. 2. Grillo pensa, o fa credere, di avere ottenuto chissà che col nuovo ministero che conterà zero. 3. Il Fatto è l’unico giornale che dice le cose come stanno. Fossi il direttore, farei in prima pagina una rubrica quotidiana su B. squadernando le sue malefatte. Ce n’è per un anno almeno.

Tony Giaretta

 

Uomo di poca fede.

M. Trav.

 

Rousseau, i pareri di alcuni elettori sul voto

La domanda su Rousseau è per indirizzare il voto. Ho votato “no”, sempre più convinto. Anzi, il solo fatto di avermi sottoposto una supercazzola del genere, senza la possibilità di votare per astensione, mi spinge a pensare di uscire dall’attivismo. Auguri ai capaci e competenti.

Massimo Giorgi

 

Non ho dubbi nel dire che solo pensare a una ammucchiata come si prospetta e per come ci si è arrivati, l’unica risposta del M5S deve essere “no”. Per me sarebbe come se mi gettassi fiducioso fra le braccia di un poliziotto e lui, dopo avermi tranquillizzato, mi riconsegnasse all’inseguitore.

Giovanni Medri

 

Il non mettere l’astensione tra i quesiti per il voto di ieri per la scelta del M5S è uno di quegli errori che non vanno archiviati. Ho scritto al Blog che non avrei votato perché è una forzatura che si vuole imporre ai votanti. L’astensione andava inclusa come scelta per poi votare i punti di un programma di un governo ignoto, se ci si troverà d’accordo.

Flavia Donati

 

I NOSTRI ERRORI

Correggiamo e ci scusiamo per due refusi nell’articolo di ieri a pagina 13 – “Studio sui malati: 1 decesso su 3 per germi contratti in terapia intensiva” –, che riportava i risultati di uno studio coordinato dall’Ospedale San Martino di Genova. Contrariamente al titolo, un paziente Covid intubato ogni 6 (non ogni 3) muore a causa della polmonite associata a ventilazione (cosiddetta Vap). Nel testo dell’articolo, poi, si riporta che il 48 per cento dei 586 pazienti dello studio ha contratto la Vap. In realtà, il 29 per cento (171 pazienti) ha contratto la Vap e di questi 171, il 48 per cento (circa 80 pazienti), sono deceduti a causa della Vap.

FQ

Livorno 1921. “Terracini diede infine ragione a Turati”. “È un falso storico”

 

Gentile direttore, Gad Lerner (“Pci, quel ‘tagliacuci’ sulla rivoluzione”, 9 febbraio) mi rimprovera di aver sposato, nel mio libro Il Pci e la profezia di Turati, da poco uscito per La Nave di Teseo, “la grossolana forzatura” secondo la quale, nel 1982, Umberto Terracini avrebbe sostenuto che a Livorno la ragione stava dalla parte di Filippo Turati. Il (seppur marginalmente) recensito non ha ovviamente alcun titolo per contestare le tesi del recensore, anche se non le condivide nemmeno alla lontana. Ha, invece, il diritto, e penso addirittura il dovere, di chiarire ai lettori di non aver contrabbandato merce avariata. Di Terracini, che al congresso di Livorno era stato, con Amedeo Bordiga, il più autorevole oratore di parte comunista, e come tale aveva ampiamente e sottilmente argomentato la necessità e l’urgenza di espellere i riformisti dal partito, non si conoscono particolari simpatie nei confronti dei cosiddetti “miglioristi” né, tanto meno, del Psi e di Bettino Craxi, impegnati all’epoca anche in una dura battaglia ideologica con il Pci. Ciò non toglie che, il 25 marzo 1982, intervistato dal Tg2, Terracini definì il discorso di Turati al teatro Goldoni “un’anticipazione certamente intelligente e, direi, quasi miracolosa, profetica, di una realtà che nei tempi successivi venne poi maturando, e che sta sboccando a lidi più concreti proprio nel corso di questa nuova epoca preannunciata”; e su questa base sostenne l’attualità del superamento del “grande scisma” del 1921. Tutto si può pensare, naturalmente, persino che, con simili affermazioni, il fondatore del Pcd’I, giunto ormai alla fine del suo lungo e nobile cammino, non intendesse affatto dare ragione, sul piano storico, al riformista di cui 41 anni prima aveva chiesto, senza successo, la cacciata dal Psi. Confesso però di non essermi imbattuto in alcuna pezza d’appoggio utile anche solo per enunciare una simile tesi. Se Gad ha degli elementi per sostenerla, mi piacerebbe conoscerli. In caso contrario, la grossolana forzatura è la sua.

Paolo Franchi

 

Il 25 marzo 1982, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Filippo Turati, Umberto Terracini rilasciò un’intervista a Ugo D’Ascia del Tg2. Il giornalista gli ricordò la celebre “profezia” rivolta nel teatro Goldoni di Livorno dal leader riformista a chi si apprestava a fondare il nuovo partito. In sintesi: un giorno dovrete tornare sui vostri passi. La risposta di Terracini, assai lunga (Paolo Franchi ne riporta solo una parte) contiene un riconoscimento della profezia di Turati. L’anziano fondatore del Pci si qualifica ancora tra i “rivoluzionari” che hanno dovuto però fare i conti con l’impossibilità di “percorrere la strada classica della rivoluzione socialista”. Ben diverso è ciò che Paolo Franchi gli attribuisce tra virgolette, lasciando intendere che si trattasse di una citazione testuale di Terracini, a pagina 181 del suo libro: “Però su quel congresso e su quel discorso di Turati il fondatore del Pcd’I sente ugualmente il bisogno di tornare. Adesso è venuto il momento di dirlo, e lo dice: ‘A Livorno aveva ragione Turati’”. Frase inventata. A discolpa di Paolo Franchi aggiungo che non l’ha inventata lui, ma è stata messa in circolo dopo la morte di Terracini negli ambienti socialisti. Resta il fatto che Terracini non ha mai detto “A Livorno aveva ragione Turati”, perché non lo pensava affatto.

Gad Lerner

Salvini muto, fake da Merlo

La trasfigurazione di Matteo Salvini da feroce sovranista a patrono d’Europa sta producendo metamorfosi in sequenza, come capita con i virus e con i miracoli. Non siamo ancora alla Madonnina che si mette a lacrimare, all’acqua che si tramuta in mojito, al mettersi di botto a parlare una lingua sconosciuta – “Is de bast, de bast, de bast!”–; non ci siamo ancora ma stiamo sulla buona strada; già i migliori ingegni del Paese non appaiono immuni alla trasfigurazione, anzi, ne vengono contagiati. Martedì scorso un’articolessa su Repubblica a firma Francesco Merlo titolava “Salvini e il suo doppio – Il lupo entra al governo con la cuffia della nonna”. Una cosetta così, tra Artaud e Perrault, come se fosse antani.

Sentiamo dunque cosa scrive Merlo a proposito del Salvini rinsavito: “Si intuisce la bile mortificata proprio in quei 50 secondi di silenzio davanti alla Gruber che gli aveva chiesto dell’Europa e del suo assenteismo parlamentare: un ‘silenzio cantatore’, si dice a Napoli, 50 secondi di televisione alla John Cage…”. Ora, si dà il caso che quei 50 secondi attribuiti a John Cage siano in realtà un fake nato dal geniale lavoro di montaggio dal regista Alessio Marzilli, un’esilarante bufala che ogni settimana Zoro fa passare su Propaganda Live. C’era già cascato Beppe Severgnini con le scene mute di Renzi (ma quando mai?), ed ecco Francesco Merlo con Salvini. “Un Merlo cantatore” si dice dalle mie parti quando uno prende fischi per fiaschi. “La conferma che il silenzio non esiste”, fischia ancora il Merlo; però non esiste nemmeno quel Salvini lì, se non come esempio di pensosa cantonata. La favoletta esopica del merlo e della bufala ha anche una morale, o forse due. Il prolasso mediatico di certi politici è alla fase terminale, ormai i loro silenzi sono meno vuoti delle parole. E i compiaciuti giornaloni chiamati a verificare, certificare, smascherare le fake news, che fanno? Prima fiascano e poi fischiano. Bravi merli.

Vaccini, serve un piano globale

Torno a parlare di vaccini. Sono pericolosamente diventati l’unica speranza di uscita dalla pandemia, facendoci dimenticare le buone misure di contenimento. Ho incontrato vaccinati che già pensano che usare la mascherina per loro sia inutile! Si fa una corretta informazione? Abbassare l’attenzione sull’uso di mascherine, distanziamento sociale e igiene delle mani è estremamente pericoloso.

Anche se siamo in un momento apparentemente positivo, con la maggior parte delle regioni in “giallo”, non dobbiamo abbassare la guardia. Analizziamo i dati. Il sito del ministero della Salute ci informa che “saranno disponibili 226 milioni di dosi”. Il numero di dosi potrebbe assicurarci la possibilità di vaccinare (anche per due campagne consecutive) tutti gli italiani (60 milioni), ma ciò sarà realizzabile a condizione che “gli accordi stipulati”, di cui come cittadini europei non siamo a conoscenza, se non per alcuni aspetti preoccupanti, ci permetteranno una campagna in tempi brevissimi, oggi irrealizzabile. Ci sono degli ostacoli obiettivi. L’impossibilità dello stoccaggio a -80°C di un ingente numero di dosi, la disponibilità di un numero enorme di vaccinatori. Con il ritmo attuale (1% della popolazione vaccinato in 42 giorni), la campagna prevederebbe tempi tra i 4 e i 5 anni. Già l’Oms ci ha informati che l’effetto gregge in Europa non sarà raggiungibile nel 2021. E comunque, anche se si riuscisse a vaccinare il 70% della popolazione in 2 anni, l’effetto gregge non si raggiungerebbe mai. Infatti i vaccini disponibili assicurano la copertura anticorpale per circa 7 mesi. Per ultimo, l’effetto vasi comunicanti. La globalizzazione ci impone un piano globale. Oggi quasi tutto il continente africano non può permettersi il vaccino. Mettere alle porte il virus in Europa non servirà a niente se poi dovesse rientrare da altre parti del mondo.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

“Cattivo? Uccido solo se serve”

Settimana cupa qui a Criminopoli. Dal 5 febbraio si contano soltanto 7 nuovi indagati per corruzione. Appena uno al giorno. La settimana scorsa erano stati 32, quella prima 40. Se non bastasse neanche Finmeccanica – oggi Leonardo –, che tante soddisfazioni ci ha regalato, sembra quella di una volta. “Transparency International” l’ha collocata sul gradino più alto nella classifica mondiale per le politiche anticorruzione. Il dato complessivo resta comunque confortante: 99 indagati da inizio anno (ben 2,2 al giorno). Il Premio Mazzetta questa settimana va a Salvatore Giuseppe Basiricò, funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Brescia. Secondo l’accusa ha compiuto accessi abusivi al sistema informatico del suo ente e in cambio ha ottenuto dal suo corruttore un motociclo a titolo gratuito (al massimo, secondo i pm, l’ha pagato mille euro). Vince sul collega Gaetano Vitrano, funzionario Inps di Brescia, che per lo stesso servizio ha ottenuto una Jeep Compass, del valore di 32mila euro, pagata con la sola permuta per 12mila euro della sua vecchia Hyundai Tucson. I due erano ex aequo ma la mazzetta di Basiricò inquina meno e quindi è più ecosostenibile. Resta inteso che, come sempre, il premio – per quanto simbolico – sarà revocato se Basiricò fosse archiviato o assolto.

Fronte mafie: 64 nuovi indagati per un totale di 372 da inizio anno (8,8 ogni 24 ore). Confische per un valore di 262,5 milioni sequestrati dalla Guardia di Finanza in quattro differenti operazioni. Premio “Cattivissimo me” a Vincenzo Marchio, arrestato per ‘ndrangheta a Milano il 9 febbraio: “La gente ci descrive come fossimo dei mostri… parlano come se fossimo persone senza scrupoli, come se fossimo cattivissimi, come se ammazziamo la gente così a caso… no che non è vero… è che sappiamo farlo quando serve… io so essere cattivo quando serve… se non serve faccio la persona normale…”.

Lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.116 giorni.

Quelli che… Mario frustaci ancora!

Si può opinare che la gestione della crisi sia stata, a tratti, opaca? Per esempio, nel colpo di scena, evidentemente non tale per tutti, per cui le Camere in nessun caso sarebbero state sciolte? Si può dissentire, anche radicalmente, dal presidente della Repubblica, sostenendo che la scelta di Draghi sia non già un balsamo, ma invece un serio vulnus, per la nostra democrazia?

Si può mettere in dubbio lo status messianico del presidente del Consiglio incaricato, ricordando che la sua intera carriera e il suo operato pendono dalla parte di chi ha reso il nostro mondo ciò che è (e cioè mostruosamente ingiusto, e diseguale), e non dalla parte di chi ha provato a migliorarlo? Si può auspicare, infine, che qualcuno, in Parlamento, abbia sufficiente autonomia politica e morale per “disobbedire al presidente Mattarella” (magari per non governare coi fascisti), questa inimmaginabile condotta da reprobi?

In pochi giorni, l’articolo 1 della Costituzione è stato riscritto così: “L’Italia è una Repubblica paternalista, fondata sui migliori”. E uso ‘paternalismo’ in senso proprio: nascendo quella parola per definire una “politica… caratterizzata da una bonaria e sollecita attenzione verso i bisogni dei sudditi, escludendoli però completamente dal controllo delle attività dello Stato e da una qualsiasi forma di partecipazione alla gestione della cosa pubblica” (così il Grande dizionario della lingua italiana).

Il nuovo mantra dell’antipolitica ha assunto toni monarchici, autoritari, repressivi. ‘È finita la ricreazione! È entrato il preside: ora sono tutti muti, a capo chino’; ‘finalmente sono stati commissariati, quegli incapaci del Parlamento!’; ‘ha parlato il Presidente, nella sua saggezza, ora non vola una mosca’; ‘il Presidente sarebbe ‘infastidito’ dalle condizioni poste dai partiti’. E via dicendo. Il fasto del Palazzo del Quirinale ha eclissato le aule sorde e grigie del Parlamento esercitando, ancora una volta, la sua malìa autocratica: i fantasmi di papi e re hanno ripreso la scena, rimettendo al proprio posto il popolo bue, e i suoi bovini rappresentanti. Imponendo il nome di Draghi senza sottoporlo a consultazioni preventive (l’Eletto ne sarebbe uscito svilito); annunciando che un “alto profilo” spazzava finalmente via i populisti trogloditi; teorizzando un governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, il Presidente ha inferto una mazzata micidiale al Parlamento: che vede divorato, sul colle più alto, un governo cui aveva appena rinnovato la fiducia.

Ora, più ancora di questa mossa con pochi (e discutibili) precedenti – ma comunque dentro i confini formali della Carta – sconcerta il plauso con cui tutti l’hanno accolta: te deum, ceri, inni, vitelli grassi sgozzati. Era il funerale della democrazia parlamentare, così debole, impotente, screditata da esser pugnalata a morte da un sicario saudita, e poi sepolta frettolosamente da un Padre severo: eppure i morti ballavano, e bevevano.

Quanto è profonda la disillusione, anzi il disprezzo, verso la democrazia parlamentare, se tutti gioiscono perché le decisioni circa il bene comune vengono ora prese da una persona sola, con una regressione plurisecolare? Il godimento masochista di un’intera democrazia che, vedendosi umiliata, grida: ‘dai, frustami ancora!’.

Ma è solo l’inizio. Perché questo ‘governo del Presidente’ (cioè ‘governo non parlamentare se non proforma’) è aristocratico intimamente: programmaticamente. Da Berlusconi ai giornali degli Elkann, tutti invocano il ‘governo dei migliori’. Si glossa: dei competenti. Vano chiedere competenti su cosa (domanda lecita, viste le prime uscite sulla scuola: da bar dello sport dei Parioli). Vano ricordare che se l’Italia è messa com’è messa, è colpa non dei populisti ma dell’élite più ignorante, corrotta, familista, incapace del pianeta. Vano perché, come è chiaro fin dai tempi di Aristotele, si scrive aristocrazia, si legge oligarchia: governo dei pochi. Cioè dei ricchi. È davvero il culmine italiano dell’ordoliberismo: “Uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato” (Foucault). In un momento in cui i tre uomini più ricchi d’Italia possiedono quanto i sei milioni di cittadini più poveri, in un momento in cui il massimo pericolo per la democrazia è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, si affida il governo della Repubblica all’uomo Goldman Sachs. Uomo nel senso di maschio, innanzitutto: perché il paternalismo è, per definizione, maschilista. E l’uomo di potere deve essere accompagnato, due passi indietro, da una “moglie di gran classe che non parla neppure se interrogata” (Aspesi). Maschio solo al comando: farà tanto meglio, in quanto non dovrà trattare con gli spregevoli partiti per i nomi dei suoi ministri.

È chiaro che stiamo imboccando l’oligarchia come via d’uscita dalla crisi della democrazia parlamentare? Con tanto di cronache a getto continuo dal buen retiro umbro della famiglia reale: che fa una vita così normale, signora mia!

Stiamo cadendo da una (orribile) padella a una (fatale) brace. Una brace che ben conosciamo: “È da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica, e dei vecchi regimi paternalistici”, si chiedeva Antonio Gramsci.

“Costruire la democrazia equivale a distruggere le oligarchie – ha scritto Gustavo Zagrebelsky – con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che hanno distrutto la prima”. In questo caso – è il dramma – l’oligarchia è quella di prima, che torna: mai distrutta. Quella che ha portato il Paese al disastro, il pianeta sull’orlo dell’abisso. Mentre il costume e la retorica tornano a prima del 1789, o, a tutto concedere, a un dispotismo illuminato in cui il monarca-padre decideva per il ‘bene’ di sudditi eternamente minori.

Siccome il danno, l’involuzione, prima che istituzionali sono culturali, se ne esce, se se ne esce, solo a dosi massicce di pensiero critico: pensiero contro, insubordinato, eretico, non conforme. Una mobilitazione di pensiero nelle scuole e nelle università, nei luoghi dove ancora si può cercare, attraverso una “erudizione implacabile” (ancora Foucault) di non piegare le ginocchia di fronte a padri saturnini. Occorre “il senso della rivolta” e la “capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse” (Said). E, con il Tommasino di Casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede ossessivamente “ti piace il presidente Draghi?”: no. Non mi piace.