Ospedale del Mare, Venezia aveva giusto bisogno di hotel

Ogni anno, dopo la Mostra del Cinema, il Lido di Venezia si spegne. Stretta, anziana e spopolata, strangolata dalle enormi macchine del Mose e fitta di alberghi semivuoti, quest’isola leggiadra ha subìto nel nuovo millennio un vero scempio: in nome del nuovo faraonico Palazzo del Cinema si è abbattuta una storica pineta, si è scavato un gigantesco, maleolente buco in lungomare Marconi (dovevano sorgervi fondamenta mai gettate), e si è giunti a mettere a repentaglio l’esistenza stessa del Comune di Venezia, indebitatosi nel quadro dell’operazione per comprare dall’Ulss (27 milioni) l’Ospedale al Mare, al fine di dismetterlo e rilanciare l’area in nome della sua “vocazione culturale e turistico-ricettiva”; era il 2008.

Belle intenzioni sepolte dal fallimento sei anni dopo di EstCapital, la società di Gianfranco Mossetto (già assessore alla Cultura della giunta Cacciari: il barbuto filosofo e il “barbaro” governatore Galan cooperarono nella brutta avventura del Palacinema), che dopo aver guidato le tappe più discutibili dell’intero progetto e dopo aver inglobato gli alberghi storici (Excelsior, per farne un hotel 5 stelle lusso; Des Bains, per farne appartamenti di lusso, ora è fatiscente), si spinse a chiedere l’abbattimento del Monoblocco dell’Ospedale per crearvi appartamenti turistici e un centro commerciale.

Quod non fecerunt barbari, facient Barberini. Nel 2013 l’area dell’Ospedale al Mare, dopo una necessaria bonifica, viene acquistata (per 50 milioni di euro, con ampia plusvalenza per il Comune) da Cassa Depositi e Prestiti, che fino al 2017 promette di realizzarvi “un moderno e attrezzato centro benessere, con cure anche di tipo sanitario”. Un’idea nuova e confortante, che però nel 2018 muta in un’altra: abbattere l’ormai malmesso monoblocco (a detta di molti assolutamente rigenerabile) e altri 5 padiglioni liberty anni 20 già vincolati dalla Soprintendenza, dando vita a un grande albergo a 4 stelle (TH-Resorts) e a un resort di lusso (ClubMed), per un totale di 525 stanze, da tenere piene anche in bassa stagione. I rendering mostrano eleganti passerelle in legno, edifici in materiali sostenibili, “cannocchiali visivi” per garantire la vista mare, una spiaggia riqualificata anche naturalisticamente, piste ciclabili, e anche piscine che dovrebbero coesistere (non si sa come) con quelle destinate alla talassoterapia dei pazienti del limitrofo presidio. Perché il brutto Monoblocco verrà sì abbattuto, ma i servizi sanitari, fortemente ridotti (niente centro di Salute Mentale, niente parcheggi per utenti e personale, etc.), verranno riallocati di concerto con l’Asl in un’area contigua a quella alberghiera.

Ridimensionare in piena pandemia un presidio sanitario che fornisce assistenza e riabilitazione al Lido sin dal 1933, e fare spazio a due grandi alberghi: un disegno per alcuni forse indigesto. Ecco allora che la Scuola Italiana di Ospitalità (SIO) – creata nel 2019 da TH-Resorts e dalla stessa Cdp – vara il progetto di una nuova “Hotel School” internazionale da allocare proprio in quell’area del Lido, ponendo la sede nell’edificio dismesso dell’ex Teatro Marinoni.

Si vuole creare un corso di laurea professionalizzante, e l’Università Ca’ Foscari, per gli auspici del rettore in scadenza Michele Bugliesi, si presta alla bisogna: mette su in fretta e furia un curriculum di “Hospitality Management” (con dentro un po’ di tutto, dalla Storia di Venezia al Marketing, dal Portoghese all’Estimo). Ma gli specialisti di Management del turismo presenti in Ateneo esprimono perplessità, i Dipartimenti interessati rifiutano di accogliere il corso al proprio interno, e si apprende che il nuovo grande hotel del Lido (presentato come il cuore del progetto, cioè come il luogo dove gli studenti dovrebbero esercitarsi) non sarà comunque pronto prima di 4-5 anni; forse anche di più, se è vero che pochi giorni fa il Tar, dando seguito a un ricorso di Italia Nostra, ha sospeso alcune demolizioni fino al 2022. Così nel Senato Accademico decisivo – contrari tutti gli studenti e vari docenti – manca la maggioranza, l’Ateneo prova a chiedere il rinvio di un anno per ponderare meglio tutto il progetto (del resto, che urgenza c’è?); ma subito il presidente di TH-Resorts tuona sulla stampa “l’Ateneo deve stare al suo posto”, e il ministro Manfredi richiama al ruolo strategico del corso nel sistema accademico italiano. Magicamente Ca’ Foscari cambia nome al corso (non più “Hospitality Management” ma “Hospitality Innovation and e-Tourism”: w il digitale), ritocca gli impegni economici (il 62,5% delle peraltro altissime tasse studentesche – il 75% il primo anno – finiranno alla Scuola Italiana di Ospitalità, ma docenza e strutture saranno in larga parte dell’Ateneo), persuade alcuni senatori riottosi, e si affretta a cogliere questa “imperdibile opportunità”.

L’Università sta al suo posto; gli interessi in gioco sono altri. In una città già piegata dalla monocultura turistica, e ora in miseria proprio perché quella risorsa è scomparsa, non si trova niente di meglio che puntare a formare futuri maîtres dell’Hilton o dipendenti di Trivago, scommettendo ancora una volta sul turismo di lusso come investimento di soldi pubblici.

Pare l’ultima toilette di Aschenbach dal barbiere, due pagine prima di morire.

“Gay a rischio Covid”, la gaffe sul modulo per vaccinarsi

Il caso nasce dal modulo consegnato dalla Asl 5 di La Spezia ai candidati al vaccino anti Covid: l’azienda sanitaria locale ligure chiede agli utenti di indicare se si è “soggetti con comportamenti a rischio”. Categoria che, stando al documento, comprenderebbe “omosessuali”, “tossicodipendenti” e “soggetti dediti alla prostituzione”. Ma che c’entra l’orientamento sessuale con il coronavirus? Nulla, evidentemente. E la questione provoca una bufera. A scoprire la vicenda è il capogruppo dell’opposizione del consiglio regionale della Liguria, Ferruccio Sansa: “Ci auguravamo fosse un fake e invece è tutto vero. Chiediamo alla Regione come sia stato possibile inserire l’essere gay nelle categorie a rischio”. Il primo a scusarsi è il direttore generale della Asl 5, Paolo Cavagnaro: “Si è trattato evidentemente di un errore”. Dopo un’inchiesta interna interviene il governatore Giovanni Toti, che taccia l’opposizione di “malafede”: “In merito a questa incredibile e vergognosa vicenda abbiamo scoperto che l’errore deriva da un copia e incolla di un documento del Ministero della Salute. Questo moltiplica lo sbaglio, non lo cancella”. “Quando Toti non sa come difendersi attacca, bastava chiedere scusa”, replica Sansa. Tutto chiarito? Macché. Il documento in questione è l’Anagrafe nazionale vaccini precedente la pandemia. A ogni modo altre scuse arrivano anche dal ministero della Sanità, guidato da Roberto Speranza (LeU): “Sono solo i comportamenti a determinare il rischio. L’errore nasce da un vecchio documento usato per le donazioni di sangue. Queste formulazioni errate verranno immediatamente corrette”. Un mea culpa gradito da Gabriele Pizzaroni, segretario nazionale di Arcigay, che rimarca: “È una polemica surreale che dimostra come spesso le discriminazioni in Italia rimangano per decenni. Stiamo parlando di formule sconfessate da 20 anni, occorre più attenzione”.

“Federalismo delle dosi”: Regioni con le mani legate

Le Regioni possono comprare vaccini in autonomia, ma solo dalle aziende che non hanno ancora firmato contratti con la Commissione Ue. La risposta arrivata ieri da Bruxelles potrebbe sembrare un’apertura al federalismo vaccinale teorizzato da Luca Zaia, ma in realtà rende inapplicabile l’idea del presidente del Veneto e di altri suoi colleghi.

Mercoledì scorso il tema era è stato al centro della Conferenza Stato-Regioni. Il fronte è stato aperto dal coordinatore Sanità Luigi Icardi, assessore alla Salute del Piemonte. Quali sono i margini di manovra dell’Italia, e delle Regioni, nell’ambito degli accordi stipulati dalla Commissione con le case farmaceutiche? ha chiesto Icardi al governo. Perché è vero che l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia e il Piemonte, insieme al Veneto, si dicono già pronte. Ma hanno in ogni caso necessità di concordare la strada da seguire. “Sono regioni che tradizionalmente hanno relazioni con i mercati farmaceutici internazionali – spiega Raffaele Donini, assessore emiliano alla Salute – Anche la Lombardia può approvvigionarsi autonomamente. Ma tutto deve avvenire nel quadro di un accordo con il governo. E ovviamente solo per i vaccini autorizzati da Ema e Aifa. Non parliamo né di mercato nero né di un tentativo di fuga in avanti. Per noi l’obiettivo è quello di vaccinare le popolazione”.

Nello staff del presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, c’è chi in realtà aveva già messo le mani avanti: “Bella operazione ma solo sul piano mediatico, non si riuscirà ad approdare a nulla”. La stessa Regione, in questi ultimi giorni, avrebbe già sondato il terreno direttamente con le case farmaceutiche. “Non con noi, però”, fa sapere Pfizer Italia, che ha escluso anche contatti con la regione Veneto.

Ieri il portavoce della Commissione Ue per la Salute, Stefan de Keersmaecker, ha spiegato che l’unica possibilità è acquistare “vaccini che non sono coperti dalla strategia vaccinale, cioè comprati, manufatti o prodotti da società con cui non abbiamo accordi di acquisto anticipato”. La Commissione ha già firmato contratti con le uniche tre case (Pfizer-Biontech, Moderna e Astrazeneca) che hanno ottenuto l’autorizzazione da Ema e Aifa. In più Bruxelles ha siglato accordi con Sanofi-Gsk, Johnson&Johnson, Curevac e ne sta concludendo uno con NovaVax. Insomma, restano fuori pochi produttori e tutti ancora lontani dall’autorizzazione.

Ieri intanto è iniziata in Italia la somministrazione del vaccino Astrazeneca, mentre continuano le polemiche tra esperti sulla validità oltre i 55 anni di età. Secondo Matteo Bassetti, infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova, bisognerebbe usarlo per tutti: “L’Oms lo ha ribadito, la Germania l’ha approvato fino a 65 anni”.

Contrario invece Silvio Garattini, presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs, secondo cui è giusto attenersi alle linee guida dell’Aifa (uso raccomandato fino ai 55 anni). “Il problema del vaccino Astrazeneca è che è attivo al 60%. Usarlo per le persone con più di 65 anni vorrebbe dire proteggerne solo il 60%”, ha detto Garattini.

Blocco spostamenti fino al 5 marzo. Umbria tutta rossa. Sci, aprono le piste

Oggi un Consiglio dei ministri ad hoc del governo dimissionario dovrebbe varare il decreto legge per prorogare al 5 marzo il blocco degli spostamenti tra le Regioni in scadenza lunedì; il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna, ha annunciato: “Il nostro orientamento è di richiedere di prorogare il decreto legge che vieta gli spostamenti da una Regione all’altra, anche per la zona gialla”. I ministri della Salute Roberto Speranza e degli Affari regionali Francesco Boccia hanno espresso soddisfazione per “la lealtà e la collaborazione dei governatori”. Bonaccini ha aggiunto che, invece, “al nuovo governo chiederemo un incontro per una discussione a 360 gradi sul nuovo Dpcm, per valutare le possibili graduali riaperture di alcune attività nel rispetto di tutti i protocolli di prevenzione”. Soprattutto le Regioni spingono per cinema e palestre.

Intanto riaprono gli impianti da sci: lunedì si riparte in Piemonte e Lombardia, mercoledì 17 in Trentino e giovedì 18 in Valle d’Aosta. Ovviamente sarà una riapertura condizionata dal colore della zona, cioè sarà possibile solo nelle regioni gialle per gli stessi abitanti della regione fino alla fine del blocco degli spostamenti, con ingressi contingentati negli impianti di risalita, tavoli distanziati nei rifugi e, ovviamente, mascherina obbligatoria anche all’aperto. In caso di piste in condivisione fra regioni diverse sarà necessario un accordo tra i governatori.

Intanto l’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, ha aggiornato la mappa delle aree di diffusione del coronavirus e ha colorato di “rosso scuro” (alta incidenza dei contagi da SarsCov2) proprio il Trentino Alto Adige insieme con l’Umbria. La mappa non corrisponde alle colorazioni decise da governo nazionale che rispondono ad altri parametri, infatti attualmente sono “arancioni” solo Alto Adige, Umbria, Puglia e Sicilia. Ma a ore è attesa la nuova disposizione: l’Umbria verso il “rosso” (già ora contiene all’interno diverse zone rosse tra cui il capoluogo Perugia), stesso discorso per mezza Liguria, la parte di ponente, mentre la Toscana è a rischio “arancione”. La Sicilia dovrebbe invece tirare un sospiro di sollievo e passare dall’arancione al “giallo”.

A preoccupare sono soprattutto le varianti di Sars Cov2, quella “inglese” è diventata focolaio in una scuola dell’infanzia di Bollate (Milano): 59 tra bambini, insegnanti, operatori e genitori sono positivi. La scuola è stata chiusa, stesso destino per altri due istituti coinvolti nel focolaio. Il sindaco Francesco Vassallo spiega: “Stiamo attivando le procedure per la somministrazione di test rapidi alla popolazione scolastica dei tre plessi al fine di valutare l’estensione del contagio e assumere, eventualmente, ulteriori azioni che le autorità sanitarie, il Comune di Bollate e la Prefettura di Milano concorderanno in caso di necessità. Al momento la situazione pandemica in città resta limitata”.

E ieri il bollettino del coronavirus in Italia rilevava 15.146 nuovi casi su 292.533 tamponi effettuati, con un indice di positività che sale dal 4,1 al 5,1%. Altri 391 i morti per Covid-19, mentre mercoledì erano stati rilevati 12.956 nuovi casi e c’erano state 336 vittime. In terapia intensiva ci sono 2.126 malati con un saldo di -2 nelle ultime 24 ore, mentre in reparto ci sono 18.942 pazienti con sintomi, -338 rispetto al giorno precedente.

La migliore notizia è quella che arriva dal monitoraggio settimanale della Fondazione Gimbe: “Se i nuovi casi nella popolazione generale sono stabili da tre settimane, fra gli operatori sanitari si sono ridotti del 64,2%: dai 4.382 rilevati nella settimana 13-19 gennaio, quando è stata avviata la somministrazione delle seconde dosi, ai 1.570 della settimana 3-9 febbraio”.

Chi e dove in Europa produce vaccini: Italia fanalino di coda

L’Italia resta indietro nel business europeo dei vaccini Covid. Il valore delle dosi complessivamente pattuite dall’Ue con le case farmaceutiche (a cui si aggiungerà la settimana prossima l’americana Novavax) si aggira sui 20 miliardi di euro. Se li spartiranno le aziende intermediarie che si sono ritagliate un posto nella filiera di approvvigionamento delle multinazionali firmatarie dei contratti.

Queste hanno infatti subappaltato le fasi della produzione ad aziende più piccole e specializzate, sparse in diversi Stati membri. Ma nessuna di loro è italiana. Gli unici stabilimenti coinvolti nel nostro Paese sono quelli dell’americana Catalent (per Astrazeneca e Johnson & Johnson) e della francese Sanofi, che tuttavia si limiteranno alla fase finale e meno complessa, ossia l’infialamento del materiale biologico (la sostanza da inoculare nei pazienti), prodotto principalmente nell’Europa centro settentrionale. “Oggi in Italia non abbiamo bioreattori in grado di sviluppare le tipologie di vaccini, adenovirus e Rna, approvati finora dai regolatori, anche il bioreattore di Gsk a Siena che produce vaccini antinfluenzali è difficilmente convertibile per la produzione di vaccini Covid. – spiega Giorgio Bruno, presidente del Gruppo Produttori Conto Terzi di Farmindustria –. Adeguare gli impianti esistenti richiede soldi, intorno ai 500 mila euro, e tempi lunghi, circa 8 mesi, quindi si andrebbe a regime solo nel 2022 quando la campagna vaccinale italiana sarà già probabilmente completata”. Fonti Pfizer e Sanofi negano trattative con eventuali partner italiani. Per ora in Italia ci sono solo candidature spontanee, come quella della società veneta Fidia. “Non ci si reinventa da un giorno all’altro”, dichiara Valeria Speroni, ufficio stampa di Menarini, leader della farmaceutica italiana.

Il ministero della Salute ha fatto un giro di ricognizione, ma non ha ancora annunciato stabilimenti idonei a entrare nella catena di montaggio europea contro il coronavirus. A farla da padrona è l’industria tedesca. Le reti di Biontech, alleata con Pfizer, e di Curevac comprendono insieme cinque Paesi e oltre la metà di tutte le fabbriche attivate sul Continente. Al secondo posto, c’è Astrazeneca col suo vaccino di Oxford (a cui ha collaborato l’Irbm di Pomezia). Producono materiale biologico per le Big anche aziende spagnole (Lonza per Moderna), olandesi e belghe, come l’Univercells di Bruxelles, partner di Reithera, la società italiana più avanti nello sviluppo di un proprio vaccino. L’azienda, con sede ufficiale in Svizzera, promette di garantire una certa autonomia produttiva al Belpaese. Grazie agli 81 milioni di euro ricevuti da Invitalia, che ne è diventata azionista al 30%, Reithera ha accelerato sulle fasi cliniche e ha ampliato le capacità produttive della propria officina a Castel Romano. Prevede di richiedere l’approvazione dell’Agenzia europea del farmaco entro l’estate e produrre fino a 100 milioni di dosi l’anno.

In base all’accordo di finanziamento, l’Italia ha un diritto di prelazione sulle dosi prodotte. Un vantaggio che potrebbe confliggere coi negoziati avviati da Reithera con la Commissione per un accordo di fornitura europeo.

I portavoce dell’esecutivo di Bruxelles ribadiscono che i Paesi che hanno già aderito ai contratti europei non possono accordarsi bilateralmente con le medesime aziende per avere dosi aggiuntive Finora l’accordo con Sanofi, desecretato ieri, è l’unico che permette ai governi di recedere e contrattare separatamente. Ma il colosso francese avverte in una delle clausole che i defezionisti rischiano di vedersi consegnare le dosi in ritardo. Il fatto che l’essenziale della produzione avvenga oltreconfine per mano di stranieri non influenza nell’immediato la distribuzione delle dosi che, in base ai contratti europei, sono ripartite proporzionalmente alla popolazione dei Paesi. Potrebbe però rappresentare un problema nel lungo periodo, qualora il virus diventasse endemico come l’influenza, obbligando i Paesi ad accumulare grosse scorte.

Parte delle forze politiche e della società civile chiede al governo di rilasciare licenze obbligatorie per ampliare la produzione nazionale dei vaccini immessi sul mercato. Ma prima bisogna creare le strutture a cui verrebbero date le licenze. “I vaccini attuali sono un miracolo della scienza e dei soldi pubblici, ma occorre investire ora contro prevedibili ritorni pandemici”, conclude Massimo Florio, professore di Economia Pubblica all’Università degli Studi di Milano.

 

Scillieri: “Patteggio”. E il cerchio si stringe sui contabili leghisti

I commercialisti della nuova Lega di Matteo Salvini con buona probabilità andranno da soli verso una richiesta di processo sul caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Sì, perché una parte importante del gruppo dei professionisti coinvolti nell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal sostituto procuratore Stefano Civardi ha imboccato un’altra strada. Michele Scillieri, nel cui studio milanese il 10 ottobre 2017 è stata domiciliata la Lega di Salvini, ha scelto la via del patteggiamento concordato negli scorsi giorni con la Procura e la cui richiesta ieri è arrivata sul tavolo del giudice per le indagini preliminari. Due giorni fa lo ha seguito in questo percorso il cognato Fabio Barbarossa, anche lui indagato per reati fiscali e peculato rispetto alla vendita del capannone di Cormano a Lfc. Per Scillieri, che da tempo ha iniziato a collaborare con i magistrati svelando il sistema di retrocessioni al partito nella percentuale del 15%, l’accordo prevede di patteggiare 3 anni e 8 mesi con un risarcimento fissato a 85mila euro.

Meno per Barbarossa con una pena di 2 anni e 2 mesi e 30mila euro. Il tutto dovrà ora passare al vaglio del giudice, mentre il 7 marzo prossimo scadono i termini perché la Procura possa chiedere il giudizio immediato cautelare. Richiesta che, se l’ok del giudice al patteggiamento arriverà in tempo utile, riguarderà tre persone ancora agli arresti domiciliari, ovvero i più fedeli al partito e cioè gli ex contabili delle finanze leghiste Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, oltre all’ex elettricista di Casnigo, Francesco Barachetti, che negli ultimi anni è stato uno dei fornitori di punta del partito accumulando diversi milioni di euro e ponendosi, secondo l’accusa, come snodo nella spartizione degli 800mila euro frutto della vendita del capannone dalla società Andromeda a Lombardia Film Commission.

La road map pensata in Procura prevede di inviare la richiesta di immediato mercoledì prossimo. Il documento si annuncia di grande interesse anche per gli atti che saranno allegati. Tra questi una nota di Banca d’Italia sui rapporti economici tra Barachetti e diversi enti religiosi, fondazioni e comuni della Bergamasca. Agli atti anche alcuni pagamenti della Lega a Scillieri. Uno in particolare di 60mila euro e con data 26 settembre 2018 riguarda, ha spiegato Scillieri a verbale, denaro che doveva andare a Barachetti e che poteva essere sbloccato, come poi avvenne verso Scillieri, solo dopo l’ok del tesoriere Giulio Centemero, non indagato. Se i patteggiamenti andranno a buon fine, la Procura potrà incassare una solida conferma al suo impianto. Sarebbe la terza volta, perché prima di Scillieri e di Barbarossa ha già patteggiato quattro anni e dieci mesi il “prestanome” Luca Sostegni accusato oltre che di evasione fiscale e peculato, anche di tentata estorsione nei confronti dei due commercialisti, rei a suo dire, di non avergli saldato il compenso dovuto per la vendita del capannone di Cormano (Milano) alla Lombardia Film Commission.

Ora, dunque, scartata l’ipotesi di un’apertura da parte di Di Rubba e Manzoni che non hanno mai collaborato con la Procura, si prefigura un processo a tre dove sia Sostegni sia soprattutto Scillieri ricopriranno la figura di testimoni e non più di imputati. Il che significa, tra le altre cose, che saranno obbligati a dire la verità se non vogliono incorrere nel rischio di un’accusa di falsa testimonianza. Sorprese, dunque, si attendono dallo stesso dibattimento, oltre che dai prossimi interrogatori di Scillieri e dallo studio delle chat che la Procura di Milano ha acquisito nell’ottobre scorso dai colleghi di Genova che dal 2018 indagano sul presunto riciclaggio di 49 milioni di rimborsi elettorali spariti sotto la gestione della vecchia Lega. La scomparsa dei soldi ha indotto la Procura a chiedere e ottenere il sequestro del denaro sui conti del partito. Particolare, ha spiegato Scillieri nel suo ultimo verbale, che ha consigliato i commercialisti di Salvini di spostare la sede della nuova Lega da via Bellerio in via Privata delle Stelline, nello studio del commercialista milanese. Insomma, con l’uscita di Scillieri (e di Barbarossa), ora per i fedelissimi di Salvini le cose rischiano di complicarsi. Torna così alla mente un’emblematica intercettazione di Sostegni nella quale, riferendosi a Di Rubba, spiegava: “Prima o poi scoppia, appena perde gli appoggi politici che lo tengono in piedi, lì sai il pentolone che viene fuori?”. Tanto più che chiusi i patteggiamenti e messa a punto la richiesta di immediato, la Procura procederà a iscrivere i vari protagonisti per altri titoli di reato, quasi tutti di natura fiscale. Sul tavolo dei pm, da giorni c’è una dettagliata nota della Finanza di 24 pagine che illustra i possibili nuovi capi d’imputazione.

Transizione verde. Soldi e interessi alla prova 5Stelle

Transizione ecologica: belle parole, al punto che già nel 2019, in commissione ambiente alla Camera fu proposto – come avrebbe voluto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – che il dicastero a sua guida diventasse “Ministero dell’ambiente e della transizione ecologica”. Una dichiarazione di intenti che, già osteggiata da Lega e Forza Italia in commissione, in aula non trovò poi l’appoggio della maggioranza. Belle al punto che il ministero dell’Ambiente ha già al suo interno un dipartimento per la “transizione ecologica e investimenti verdi”, introdotto con la riorganizzazione di questi anni e che ha portato avanti buona parte delle iniziative in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientamento energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile. Dunque, la proposta dei 5Stelle accettata (si vedrà in che misura) da Mario Draghi è una mezza novità.

Quel che è nuovo è ciò che questa struttura potrebbe avere in dote. La casella del ministero della transizione ecologica potrebbe essere molto meno innocua di quanto si possa pensare. Per essere efficace dovrebbe portare sotto la sua regia il comparto energetico che oggi è in capo al ministero dello Sviluppo e quello dei trasporti. Per sintetizzare al massimo: trivelle, gasdotti e mobilità sostenibile. Si sposterebbero centinaia di miliardi se si tiene conto che nel solo Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza sono stanziati 5,9 miliardi per l’economia circolare, 17,5 per la transizione energetica e la mobilità sostenibile, 29,2 per l’efficienza energetica e 14,8 per la tutela del territorio. Quasi 70 miliardi che si portano dietro interessi enormi. Salvo che non si decida di riscrivere il piano e di stravolgerne l’orientamento (ma resta il vincolo Ue a destinare alla riconversione ecologica il 37% dei fondi), ad oggi la transizione energetica del Recovery Fund è ben chiara e non può escludere il tema dell’estrazione degli idrocarburi (c’è una moratoria sui nuovi permessi in scadenza a breve) e quella del completamento dei gasdotti come il Tap e quello sardo, con relativa rete di distribuzione su tutto il territorio. Ma ancora, c’è la partita dell’idrogeno, identificato come anello fondamentale per il cambiamento di paradigma sia nei trasporti che nei consumi. Basti pensare che in fase di stesura del Pnrr sono stati proprio i 5S (su input di Costa) a rilevare nelle bozze il riferimento al cosiddetto idrogeno “blu” (basato su fonti non rinnovabili e caro ai grandi gruppi, a partire dall’Eni) e a chiedere che fosse sostituito con l’idrogeno verde, prodotto invece grazie a quelle fonti rinnovabili su cui si dovrà spingere. C’è poi la mobilità elettrica (uno dei nomi circolati per il ministero è l’ex presidente di Terna, Catia Bastioli, oggi a Novamont). Senza tutto questo, non cambierebbe nulla.

A rischio, oltretutto, c’è l’eredità del ministro uscente che dovrà fare i conti pure con una maggioranza che ingloberà buona parte del centrodestra. Forse resisterà il dl sul dissesto idrogeologico, già pronto, che prevede una semplifcazione per permettere ai comuni di spendere i soldi stanziati e un rafforzamento (caro alla Lega) del potere dei governatori. Ci sarà poi da approvare il collegato ambientale alla manovra, redatto grazie al sottosegretario Roberto Morassut e con il contributo di tutte le forze della fu maggioranza giallorosa. Dovrebbe resistere l’avvio delle emissioni di Green Bond (obbligazioni per finanziare progetti che hanno ricadute in termini ambientali) che si baseranno su sei indicatori di sostenibilità definiti da un gruppo di lavoro tra due ministeri (Ambiente e Tesoro). Nebbia assoluta, invece, sul taglio dei cosiddetti Sad, i Sussidi ambientali dannosi. Secondo legge vigente (e dopo che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ne aveva rinviato l’introduzione) dovrebbero essere ridotti a partire dalla prossima legge di stabilità. Ma a questo punto è tutto di nuovo in discussione. Soprattutto, potrebbe scomparire l’idea di fare dell’Italia un “Paese parco”, convincendo i comuni a entrare a far parte dei parchi naturali (e dunque a rispettarne i vincoli ecologici) attraverso incentivi e sgravi su iniziative sostenibili. Potrebbe essere vanificato il miliardo speso per le bonifiche finora assieme alle interlocuzioni avviate con le regioni sullo smog (900 milioni dati a quelle del bacino padano). Infine, ma non meno importanti, le riqualificazioni dei bacini idrici più inquinati e i controlli sulla Terra dei Fuochi spesso dimenticata dalla Regione Campania.

Recovery, la vera storia con ben 168 incontri

La narrazione sul Recovery plan accentrato da Giuseppe Conte, e caduto per questo, è un mantra ripetuto da Matteo Renzi per giustificare la crisi di governo. La narrazione trova diversi aedi pronti a supportarla anche sui quotidiani, e ha l’obiettivo di trasformare il più grande successo del governo Conte, il Recovery – che segnerà la vita italiana nei prossimi anni – in suo fallimento.

Sulla base di un lungo giro di colloqui con le varie fonti governative interessate dal racconto, abbiamo verificato come questo sia parziale e abilmente orientato. Alcuni si dicono anche convinti che sia pilotato dalle stanze del Mef abitate dagli uffici della Ragioneria di Stato (in ballo c’è del resto la formazione del nuovo governo e in questo momento sono in tanti ad accreditarsi).

Le tre teste. I fatti, comprovati da più fonti, dicono cose diverse. Innanzitutto che non c’è nessun “uomo più potente d’Italia”, come è stato definito Riccardo Cristadoro, curriculum prestigioso in Banca d’Italia e consulente a Palazzo Chigi. Chi lavora al suo fianco ne tratteggia il profilo del classico civil servant, persona di rigore e correttezza cui Conte ha affidato il dossier Recovery. Ma non in solitudine. Già a luglio, infatti, Cristodaro lavora insieme al capo di Gabinetto del ministero degli Affari europei, di Enzo Amendola, il dottor Fabrizio Lucentini. Adottano come base il documento redatto da Vittorio Colao, le risultanze degli Stati generali (da tutti ritenuti inutili, ma che in parte si riflettono sulle bozze) e soprattutto vagliano i circa 600-800 progetti che provengono dai vari ministeri e dagli enti locali. Un lavoro di “scrematura” che si allarga anche al ministero dell’Economia e Finanze che invia agli incontri il responsabile della segreteria tecnica, Federico Giammusso.

Se una difficoltà si è prodotta in questa prima fase è la quantità di riunioni fatte a “largo Chigi e non a Palazzo Chigi”, cioè nella sede del ministero di Amendola. Il governo lavora con molta riservatezza (“non segretezza”), i file non vengono fatti girare e questo ha creato l’ipotesi del gruppo isolato che in realtà ha tenuto i fili con tutti gli altri ministeri.

Alcuni numeri lo confermano. Tra agosto e dicembre, infatti, si tengono 19 riunioni del Comitato tecnico di valutazione agli Affari europei, 44 bilaterali con singoli ministeri, 35 riunioni su singole componenti o missioni con due o più ministeri, 70 incontri del Gruppo di lavoro del Ctv per il Piano di Ripresa e Resilienza come ormai si chiama il Recovery Plan. In tutto 168 riunioni, tenute in diversi posti o più banalmente in videoconferenza. Se qualche forza politica o qualche ministero non si è messo al corrente di quello che stava accadendo dovrebbe farsi un più diretto esame di coscienza.

Quanto a Cristadoro, si assicura da Palazzo Chigi, più che accentratore il suo è stato un ruolo di interlocuzione costante con i singoli ministri e il suo lavoro si è poi riversato nel Ciae, il Comitato interministeriale degli Affari europei, sempre presso il dicastero di Amendola, che ha fatto da coordinamento. Riassumendo, quindi, il Recovery vede una triade che lo governa già da subito, un comitato di coordinamento molto ampio, un numero considerevole di riunioni di collegamento.

Solo pretesti .Tutto questo lavoro è sufficiente a sconfessare il racconto del Recovery consegnato “alle 2 di notte ai ministri” come hanno sempre sostenuto i rappresentanti di Italia Viva riferendosi a una bozza, quella del 6 dicembre, frutto di un lavoro durato mesi.

Il Consiglio dei ministri del 7 dicembre – sospeso poi per la positività al Covid, poi rivelatasi fasulla, della ministra Luciana Lamorgese – aveva all’ordine del giorno la “Definizione e attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza” e non la sua approvazione. In quella sede si sarebbe dato avvio alla discussione e ci sarebbe stato il tempo di fare le dovute variazioni. Del resto, il 15 ottobre, il Parlamento aveva già approvato le Linee guida del Piano con il voto favorevole di Italia Viva. Agli inizi di dicembre scatta invece l’offensiva dei renziani che, ne sono convinti nelle diverse stanze di governo, hanno voluto agitare “il pretesto” dei contenuti per contestare la governance del piano affidata, va ricordato, alla triade Palazzo Chigi, Mef, Mise con il contributo degli Affari europei. Nessun renziano dentro lo schema, da qui la rottura.

Se una centralizzazione c’è stata, invece, è avvenuta nel mese di dicembre quando il Mef ha accentrato nella sua poderosa struttura, la riscrittura del piano. Che però, al di là di alcune soluzioni stilistiche, si basa sostanzialmente solo nella dilatazione delle risorse grazie alla scelta del ministro Roberto Gualtieri, in sintonia con il ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano, di spostare una parte dei Fondi di coesione sociale europei per creare un piano più ampio e dare così risposta alle richieste di Italia Viva, in particolare su Turismo, Cultura e Sanità.

Sono queste voci a lievitare più di altre nell’intento di prendere sul serio le lamentele renziane. Ma anche al Mef si accorgeranno presto che i contenuti del Recovery non c’entrano nulla con la crisi. All’incontro convocato il 30 dicembre 2020 da Gualtieri, per vagliare il piano punto per punto, si presentano di persona (gli altri partiti sono in videoconferenza) Maria Elena Boschi, Teresa Bellanova e Davide Faraone. I vari capitoli, già passati al vaglio del direttore generale Alessandro Rivera e del Ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta, vengono discussi “positivamente”. I presenti all’incontro percepiscono un clima “costruttivo”, ma venti minuti dopo la sua conclusione le agenzie battono la dichiarazione di Italia Viva: “Sui contenuti ci separa un abisso”. La crisi è stata già decisa, il Recovery non c’entra.

Bocciature presunte. L’ultima narrazione riguarda la presunta bocciatura europea e il ritardo di presentazione del Piano. Eppure la data limite per consegnare il documento a Bruxelles è il 30 aprile e come è stato più volte assicurato al Mef e agli Affari europei, nessuna bocciatura è stata mai contestata all’Italia, nonostante gli inviti a migliorare, ma senza mai ricevere “feedback disastrosi”. Anche la tanto contestata task force è scomparsa subito dal tavolo e la discussione si è fermata all’ipotesi di un coordinamento affidato ai tre ministeri con circa 50 responsabili di progetto e un coordinamento tra i ministeri.

È assai probabile che il nuovo governo Draghi non si discosti da questo schema e che il documento non verrà stravolto. Anche perché nel frattempo è passato al vaglio del Parlamento che ha già avviato le audizioni. Sarebbe curioso che, nell’ansia di far presto, si dovesse ricominciare tutto da capo.

Il triste anatema del cane Dudù: Berlusconi cade di nuovo in casa

Ma non è che Dudù porta sfiga? Perché da quando è comparso sulla scena il barboncino bianco, portato da Francesca Pascale, a Silvio Berlusconi ne sono successe di ogni. La caduta del suo governo nel 2011, la condanna definitiva per frode fiscale nel 2013, la decadenza da senatore, il sorpasso della Lega nel 2018 e la fine della storia con la stessa Pascale. Poi i problemi cardiaci e pure il Covid. Ora Berlusconi è tornato sulla scena, sponsorizzando il governo Draghi e ricomparendo in pubblico dopo un anno, accompagnato proprio da Dudù. Una trasferta romana, nella nuova magione sull’Appia Antica, segnata però da una caduta che gli ha provocato una botta al fianco e l’ha costretto al rientro a Milano, mercoledì sera, dove ha passato la notte nella clinica La Madonnina. Una forte contusione ma niente di grave: ieri mattina è stato dimesso. Ma scivolare in casa per una persona della sua età non è mai uno scherzo. Tra l’altro l’ex Cavaliere era apparso piuttosto affaticato anche durante le consultazioni con Draghi. Non è la prima volta che Berlusconi ha un’incidente del genere. Nel febbraio 2014, tra l’altro, scivolò ad Arcore proprio su una palla del suo cane preferito.

Sul fronte politico, intanto, in Forza Italia si sta col fiato sospeso in attesa che il premier incaricato salga al Quirinale per presentare la lista dei ministri. Potrebbero essere due le caselle per gli azzurri: ci punta Antonio Tajani, candidato agli Affari europei, ma sperano anche Bernini, Gelmini e, un passo indietro, Carfagna. Se dovesse entrare una delle due capogruppo, per la successione scaldano i motori Licia Ronzulli, in Senato, e Giorgio Mulè, alla Camera. L’ex ministra si gode intanto il suo momento di gloria, vista che non solo è riuscita finalmente a portare Fi sulle sue posizioni, ma ora pure la Lega. Tra i berluscones, però, si registra anche qualche preoccupazione. “Il Salvini moderato per noi è più pericoloso, perché viene a sottrarci voti proprio nel momento in cui ne stavamo recuperando”, osserva un senatore. Sarà interessante, dunque, vedere i prossimi sondaggi, mentre Salvini già punta a entrare nel Ppe, con la sponda proprio dell’alleato. Anche di questo hanno parlato nell’incontro di mercoledì. Prima della caduta di B.

“Caro Pd, a 70 anni ti dico che devi rifare tutto da capo”

“Non esiste una vita vuota e una piena. Ogni periodo della nostra esistenza ha la sua storia. A me non è mancato niente ieri e sono molto contenta di quel che ho oggi. E in questo giorno festeggio il mio compleanno, ma soprattutto faccio memoria del mio maestro Vittorio Bachelet (assassinato proprio il 12 febbraio del 1980, ndr). Alla politica ho dato e ricevuto tanto. Però Camilleri, quando scriveva che non siamo contemporanei a tutte le epoche, diceva il giusto”.

Rosy Bindi oggi compie settant’anni. Da quasi tre è fuori dal Parlamento. Ha calcato la scena sempre in prima fila, puntando l’avversario e ricevendo spesso sciabolate. Si era contro o a suo favore. E lei sempre al centro.

La passione è il dono meraviglioso della politica. Ma poi viene il tempo in cui hai bisogno di tornare alle radici dell’esistenza. Ho avuto modo di festeggiare i cent’anni di mia madre, che mi ha lasciato tre giorni prima di compierne 101, e a fare il cammino di Santiago di Compostela. Ho scelto il tratto più breve, solo 120 chilometri però in cinque giorni. Non male.

La ricordavo appassionata dell’alta velocità.

Ho sempre un’Audi station wagon, anche se questa pandemia ci obbliga all’immobilità, che è una vera catastrofe interiore perché ci fa abituare a una vita senza moto e a volte senza scopo. Bisogna ribellarsi e tener duro. Certo, gli incontri col mio universo di riferimento, il mondo cattolico, l’antimafia, le scuole, sono sempre in agenda e tenuti da remoto.

Ora sarà Mario Draghi a portarci fuori dalla pandemia.

Stimo la persona e credo anch’io che sia l’uomo giusto. Ma mi lasci dire due cose.

Lei certamente avrà tre cose da dire non due.

Avrei dato un’altra possibilità a Giuseppe Conte. Se è vero che qualche carenza c’è stata, è indubitabile che contro di lui si è scatenata la guerra. E mi incuriosisce il fatto che Matteo Renzi oggi riesca a dire, abbastanza impunemente, di aver aperto la strada a Draghi. Lui l’ha chiusa a Conte. Il suo obiettivo era Conte. Stop. E per raggiungerlo ha fatto rischiare l’osso del collo all’Italia. Ma ora la stampa ha un atteggiamento molto sussiegoso con lui, permettendogli di affermare verità che sanno di bugia.

Poi c’è la terza cosa.

Ecco, prima che mi dimentichi: spero davvero che Conte possa essere candidato a Siena, che è il mio collegio. È una risorsa che non va sprecata. Sono inaccettabili le osservazioni da chi si è fatto paracadutare in Lombardia (la Bonafè ndr) o addirittura a Bolzano (la Boschi ndr).

In questa crisi Grillo si è portato a casa il ministero della Transizione ecologica. Il Pd niente.

Per sostenere Draghi, il Pd non ha bisogno di pennacchi che servono invece a Grillo per convincere la sua base.

Il Pd è il partito gnè gnè. Non parla, mugugna. Non spiega, riflette.

Ho contribuito a fondarlo, ma non è venuto su come si sperava. Non ha identità, vitalità, carattere, presenza. Bisogna avere l’umiltà di ammetterlo. Di tracciare un punto e dire: ricominciamo daccapo. C’è bisogno di trovare nella società nuove idee e nuove persone, raccogliere la spinta che ora sembra mancare.

Come lo definirebbe il partito di Zingaretti?

Zingaretti è una brava persona, ma le crude parole di Lucio Caracciolo sono quelle che più si avvicinano purtroppo alla realtà: “Un’accozzaglia di avanzi di partiti”. Io non ho rinnovato la tessera, non lo sento più mio.

Chissà dove Draghi lo porterà…

Mario Draghi ha la statura per fare bene e credo che abbia anche la passione per la politica.

Tra un anno lo avremo al Colle?

Invece se vuole il mio pensiero, credo debba fermarsi a Palazzo Chigi e restarci questa legislatura e anche la prossima. Scrivere il Recovery è facile, attuarlo è complicato. Lui è la persona giusta per affrontare le complicazioni e risolverle. E spero che questo mestiere gli piaccia.

E i Cinquestelle?

Sono nati per combattere i vizi del Palazzo, ma non hanno dimostrato le virtù necessarie.

Le hanno tagliato il vitalizio.

Non ho fatto ricorso, ma non è stata una grande idea. La furia iconoclasta che si è abbattuta contro il Parlamento finirà per rafforzare i poteri forti, magari occulti.