Virologi che s’offrono: tutti in gara per la Salute

L’unico a tirarsi fuori è stato Massimo Galli. “Io ministro della Salute? Per carità, non sono adatto. E poi serve continuità”, ha tagliato corto ad Agorà. Ma gli altri?

Per alcuni è solo un flebile desiderio, per altri una tentazione inconfessabile. Nessuno ci crede davvero, ma un po’ ci credono tutti. Dopo un anno di pandemia, i virologi sono ancora popolarissimi. Più dei politici. Soggiornano da mane a sera nelle case gli italiani, che hanno imparato a conoscerli, contandone pregi e difetti. Ognuno di noi ne ha adottato uno, per simpatia o competenza, come prima si adottavano i concorrenti di Masterchef. Una presenza mediatica così asfissiante che ci si è chiesto: ma quando lavorano?

Ora che però c’è da riempire la casella da ministro della Salute, eccoli di nuovo tutti lì, ad assembrarsi, sgomitare e infilarsi le dita negli occhi. Liti e battibecchi tra loro, del resto, in questi mesi non sono mancati. Si sono rinfacciati di tutto: titoli, carriere, competenze. Sentite, per esempio, ancora Galli. “Ilaria Capua ministra della Sanità? Non la vedo adatta. Non ha alcuna esperienza di sanità pubblica”. Il nome della Capua, infatti, è ricorso spesso come successore di Speranza. Lei non commenta e non smentisce, continuando a sorridere collegata dalla Florida. La politica per lei non sarebbe una novità: è stata deputata con Scelta civica di Mario Monti. Da Monti a Draghi: la quadratura del cerchio.

Altra papabile è Antonella Viola, anch’essa citatissima nel totoministri. “Se ci fosse da dare una mano, lo farei…”. Ma qualcuno l’ha chiamata? “Io non rispondo ai numeri non registrati e ogni giorno me ne trovo una ventina”, spiega. Nel caso, Draghi la faccia chiamare da qualcuno presente nel suo smartphone. Altri, in ordine sparso. Fabrizio Pregliasco: “Disponibile a fare il ministro? Chi lo sa…”, speranzoso senza darlo a vedere. Andrea Crisanti: “Non so, non ci ho mai pensato. Se mi chiamassero, cambierei passo su vaccini e varianti”, finto distratto. Matteo Bassetti (giusto ieri): “Quando ti chiama uno come Draghi non si può dire no. Sarebbe un onore servire il mio Paese”, piacione in piena svolta salviniana. Di altri non è dato sapere, ma un pensiero l’avranno fatto pure Roberto Burioni, Maria Rita Gismondo e Giorgio Palù. E il professor Silvio Brusaferro?

Poi c’è chi spinge per la riconferma di Speranza. Come Walter Ricciardi, che sembrava destinato alla successione e ora blinda il ministro. “Il ministro ha lavorato dando anima e corpo, va confermato”, dice l’accademico. Che, tornato sulla linea dura, dà consigli: “Draghi deve limitare la mobilità, siamo gli unici a non essere in lockdown”. Per Speranza anche Franco Locatelli: “In questi mesi ha fatto un lavoro encomiabile. Serve continuità”. Non è escluso che Draghi confermi l’ex ministro, il cui lavoro in questi mesi è stato apprezzato pure dal Quirinale, togliendosi oltretutto il pensiero della “quota LeU”. Ma potrebbe anche sostituirlo, con un tecnico appunto. E se poi fosse un virologo sconosciuto, una figura mai vista né sentita, sarebbe clamoroso. Col rischio che a tutti gli altri venga un coccolone.

Anti-prescrizione: Pd e M5S insieme contro Renzi & C.

Pd e M5S hanno provato fino all’ultimo a far ritirare gli emendamenti di Lega, Forza Italia, Italia Viva e Azione volti a cancellare la riforma Bonafede che ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma finora non ci sono riusciti. E allora la nuova maggioranza che sosterrà il governo Draghi la prossima settimana rischia subito di spaccarsi e andare alla conta in commissione Affari costituzionali alla Camera sugli emendamenti del decreto Milleproroghe che deve essere convertito entro l’1 marzo.

Dopo il giuramento del nuovo governo, si proverà fino all’ultimo a togliere dal tavolo un tema così divisivo ma, in caso di voto, il risultato sarebbe chiaro: Pd, M5S e LeU voteranno contro la modifica della riforma Bonafede mentre Lega, Forza Italia e Italia Viva voteranno “sì”. In quel caso – con una riproposizione della maggioranza giallorosa – la conta finirebbe 49 a 46 (il Milleproroghe viene votato congiuntamente dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio) e gli emendamenti della ex opposizione sarebbero respinti.

Il M5S, come spiega il presidente della Commissione Giustizia, Mario Perantoni, ha annunciato che sul tema della prescrizione “non farà passi indietro” mentre i dem proveranno ancora a togliere di mezzo gli emendamenti. Ma se non sarà così, anche per non indebolire la coalizione giallorosa, l’indicazione del Nazareno sarà quella di votare contro le norme presentate da Lega, FI e Iv. “Vorremmo che la prescrizione non fosse toccata – spiega un dem – c’è chi preferisce processi lunghi e prescrizione, mentre noi preferiamo la ragionevole durata del processo. Serve la riforma del processo penale”.

I tempi per convertire il dl Milleproroghe sono strettissimi – prima del 1° marzo e dovrà passare anche dal Senato – e per questo le commissioni di Montecitorio inizieranno a votare gli emendamenti subito dopo il giuramento del nuovo governo e la fiducia alle Camere. Quindi forse già da mercoledì. E a quel punto l’esecutivo e il prossimo ministro della Giustizia non avrà nemmeno il tempo per insediarsi: per questo Draghi è orientato, come spiegano diverse fonti parlamentari, a non dare un parere sugli emendamenti e a rimettersi alla commissione per non essere coinvolto in spaccature della maggioranza. Sicché il rischio di andare alla conta in commissione è alto, ma con il fronte giallorosa unito non ci sarebbero possibilità di un ritorno della vecchia prescrizione prevista dalla legge Orlando (stop di 36 mesi dopo primo grado e Appello). Se gli emendamenti saranno bocciati teoricamente potrebbero essere ripresentati quando il Milleproroghe arriverà in aula, ma alla Camera Pd-M5S e LeU hanno una maggioranza schiacciante anche senza il voto dei renziani.

Per questo non è escluso che prima di allora Enrico Costa di “Azione”, Lucia Annibali di Italia Viva (nella foto sotto) e i deputati di Forza Italia e Lega che hanno chiesto di spazzare via la norma sulla prescrizione decidano di ritirare i propri emendamenti per evitare una sconfitta nel voto. In attesa della formazione del governo, intanto, gli emendamenti dovranno essere tagliati da 800 a 250, ma di fronte alla richiesta di Draghi di togliere dal tavolo i temi più divisivi, del responsabile Giustizia del Pd Walter Verini di “metterli da parte” per “concentrarsi su altre riforme” e del M5S Giuseppe Brescia (“non è tempo di battaglie di bandiera”), i pasdaran garantisti non si fermano. “Non ho alcuna intenzione di ritirare il mio emendamento – dice al Fatto la renziana Annibali – non vedo perché dovrei e nessuno me lo ha chiesto. La riforma della giustizia e della prescrizione sono temi dirimenti che, con la nuova maggioranza con Berlusconi e Salvini, sono a portata di mano. Soprattutto con un ministro della Giustizia garantista”. Stesso parere di Costa, anche lui firmatario di un emendamento per cancellare la norma : “Se Pd e M5S vogliono zittire il dibattito tagliando gli emendamenti non hanno capito niente, per me la prescrizione è un tema fondamentale”.

Il Draghi I nasce in Bankitalia. Politici in seconda fila: sono 9

Dopo il voto sulla piattaforma Rousseau, che dice sì al suo governo, Mario Draghi esce dalla Camera (dove ha incontrato il presidente, Roberto Fico) e sale sulla macchina che lo riporta nella sua casa, a Calvi dell’Umbria.

Il premier incaricato continua a costruire la sceneggiatura “per sottrazione” che ha caratterizzato queste giornate. Non va subito al Quirinale a sciogliere la riserva, si prende un tempo supplementare.

Al Colle sono pronti già da oggi, ma i tempi dovrebbero essere diversi: dovrebbe salire domani mattina, per giurare poi lunedì e andare in Parlamento martedì. Nel frattempo sta stendendo il programma, sulla base dei resoconti che gli sono stati preparati dai commessi della Camera durante le consultazioni. Ma le incertezze continuano ad alimentare il clima di mistero che aleggia intorno alla sua figura. E la spasmodica attesa della politica, che si trova totalmente disarmata.

Per tutta la giornata di ieri aleggiava un quesito: “Dov’è Draghi?”. Le voci si sono inseguite. Si racconta che sia stato nell’ufficio che ha mantenuto a Bankitalia. Ma a sera fonti a lui vicine smentiscono. In ogni caso avrebbe avuto colloqui (anche telefonici) sia con Daniele Franco, direttore generale, sia con Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce. Due “Draghi boys”. Per il primo, si parla di un incarico nell’esecutivo, magari al Tesoro. L’altro resterà al suo posto, perché l’ex presidente ha bisogno di un interlocutore privilegiato alla Bce. Qualcosa del governo in costruzione si sta delineando: i ministeri economici dovrebbero andare tutti a figure tecniche, di stretta fiducia del premier. Il che non restringe la rosa dei nomi, visto che Draghi ha rapporti con tutti quelli che “contano” in Italia (non solo il mondo Bankitalia, ma anche le grandi partecipate di Stato). Per il superministero green il nome di Catia Bastioli, alla guida di Novamont, società leader delle bioplastiche, circola, ma non trova vere conferme.

I politici ci saranno: dovrebbero essere 9. Quali saranno è altra questione. I partiti hanno definito delle rose di massima al loro interno, ma non sono neanche riusciti a presentarle. Più o meno Draghi sa quali sono i desiderata delle forze politiche, ma non ha nessuna intenzione di trattare, ne parlerà solo con il capo dello Stato. Per adesso, non ha neanche chiamato i leader per comunicare le sue intenzioni. Forse lo farà all’ultimo minuto utile. Dunque, per la Lega i nomi indicati sono quelli di Giancarlo Giorgetti (l’unico quasi certo), Giulia Bongiorno e Gian Marco Centinaio. Matteo Salvini durante una riunione con i parlamentari leghisti mercoledì sera ha fatto sapere che lui non ha intenzione di entrare al governo. Per Forza Italia si fanno i nomi di Antonio Tajani, Mariastella Gelmini, Anna Maria Bernini. I Cinque Stelle puntano a Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli. Mentre nel Pd c’è una guerra interna: in pole c’è Dario Franceschini, gli altri due in lizza sono Andrea Orlando, che dovrebbe entrare come figura forte della segreteria e Lorenzo Guerini, che guida Base Riformista, la corrente che ha la maggioranza dei parlamentari dem. Al Nazareno si rimettono a Draghi, pure per dirimere le controversie interne.

La riconferma certa dovrebbe andare a Roberto Speranza alla Salute (per la discontinuità presumibilmente Draghi dovrebbe puntare sulla sostituzione o il ridimensionamento del commissario Arcuri) e Luciana Lamorgese (Viminale). Anche se buone possibilità hanno anche i già citati Di Maio e Guerini. E un ruolo potrebbe spettare anche a Bruno Tabacci, grande tessitore anche in queste ore. Tutto questo però Draghi lo farà sapere a cose fatte. D’altra parte, come ricorda chi lo conosce bene, lui è “uno che conterà moltissimo anche in Europa, con la Merkel in uscita e Macron in disgrazia”. Tradotto in linguaggio nostrano : “Non ce n’è per nessuno”. Almeno all’inizio. Perché poi le trappole della politica nostrana sono infinite.

Gli iscritti furiosi: “Nessun preavviso, testo politichese”

Alla fine Rousseau ha parlato e il Sì sarà la linea del Movimento. Forse mai come questa volta, però, la consultazione online è stata inquinata da sospetti e accuse che riguardano la validità stessa del voto, messa in dubbio da diversi attivisti e da alcuni parlamentari 5 Stelle.

Già sotto al post sul Blog delle Stelle che annunciava il voto, un iscritto faceva notare alcune incongruenze: “Le ragioni del No dove sono? Le 24 ore di preavviso come da Statuto (art. 4 lettera b)? Le pubbliche dichiarazioni di Draghi chieste da Grillo dove sono?”. Dubbi rilanciati da 13 parlamentari grillini che la sera prima del voto, hanno scritto una lettera per protestare contro un quesito “formulato in maniera suggestiva e manipolatoria, lasciando intendere che solo con la partecipazione del M5S al governo si potranno difendere i provvedimento adottati dalla precedente maggioranza”. Secondo i “ribelli” – che includono nomi da tempo in rotta col M5S come Pino Cabras, Bianca Laura Granato e Mattia Crucioli – la consultazione sarebbe “tendenziosa e palesemente volta a inibire il voto contrario”.

Una versione rigettata, come naturale, dai vertici. Statuto alla mano, all’articolo 4 si dice che il voto online è indetto “con avviso sul sito internet del Movimento 5 Stelle, con preavviso di almeno 24 ore”. In questo caso, l’annuncio della consultazione è stato dato lunedì e le urne virtuali si sarebbero dovute aprire mercoledì, al termine delle consultazioni di Mario Draghi. Mercoledì mattina però, dopo che Beppe Grillo aveva già anticipato la decisione, il Movimento ha sospeso il voto sostenendo di dover aspettare ulteriori chiarimenti dal premier incaricato. In serata ecco la svolta, con un nuovo post per fissare l’atteso referendum per la giornata di giovedì, a quel punto con meno di 24 ore di preavviso. Un torto allo Statuto? Secondo Vito Crimi, la sospensione del voto non rende necessaria una nuova convocazione delle urne – solo “congelate” – e dunque il preavviso è da considerarsi ancora quello dato a partire da lunedì.

Ancor più controverso è il tema del quesito, anche se in questo caso lo Statuto non dà particolari indicazioni. Nessuna specifica sul fatto che vadano spiegate le ragioni del No e del Sì, anche se questo lascia praterie per le ambiguità: due anni fa, quando si votò per mandare o meno a processo Matteo Salvini per il caso Diciotti, il quesito era preceduto da un lungo post in cui si ricostruiva la vicenda, lasciando intendere che Salvini dovesse essere salvato. E così fu.

Questa volta la scrittura del quesito ha visto un lungo scontro tra Davide Casaleggio e Beppe Grillo, che insieme a Crimi ha fatto di tutto per non includere l’astensione tra le opzioni, riuscendoci. E così gli iscritti hanno dovuto scegliere tra due risposte, senza neanche aver mai avuto rassicurazioni sul programma da Draghi. Per Grillo fa fede la promessa dell’ormai famoso super-ministero, annunciata peraltro dalla delegazione del Wwf . Tutti elementi che hanno fatto storcere il naso a più di un attivista: “Sempre poco tempo, sempre testi poco chiari e poco diretti a un vasto pubblico – si lamenta un iscritto sul Blog – Se questo Movimento nasce dai cittadini, mi aspetto un linguaggio e una richiesta di partecipazione che non implichi il politichese”.

Di Battista saluta tutti: “Mi faccio da parte”. Ma non guida i ribelli

Lo dice in cucina, alle spalle ha una presina natalizia, lascito dei giorni in cui la crisi era iniziata, ma Giuseppe Conte era ancora al governo e lui, se tutto fosse finito con un semplice rimpasto, era pronto a entrare al governo: “Stavolta non ce la faccio”. Alessandro Di Battista “d’ora in poi” non parlerà più “a nome del M5S”. Rispetta l’esito della votazione, ma non sarà tra quelli che si siedono al governo con Berlusconi: “Non riesco proprio a superarla”, dice, evidentemente provato dalla fine “di una storia d’amore”. “Mi faccio da parte”, annuncia e lascia aperta solo una porticina: “Se mai la mia strada dovesse di nuovo incrociarsi con quella del Movimento, vedremo…”. Però già li chiama “ex colleghi” e già ringrazia Beppe Grillo che gli ha “insegnato a prendere scelte controcorrente”. Se ne va con “grande dolore”, lo stesso che esprime un altro veterano come Max Bugani, ancor prima che il voto dica che i 30 mila contrari al governo Draghi sono stati battuti dai 44 mila che hanno seguito la linea dei leader: Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Giuseppe Conte. Davide Casaleggio, laconico come sempre, è “contento” che la sua “democrazia digitale” abbia funzionato anche stavolta. Ma anche lui, come noto, era contrario all’abbraccio con Mr. Bce.

È una cesura irreversibile, probabilmente il vero giro di boa dei 5 Stelle, che pure in questi anni al governo hanno cambiato idee, rivisto dogmi, digerito bocconi amarissimi. E adesso sono arrivati a scegliere di entrare nel governissimo con i nemici di sempre. Ha provato, anche Di Battista, a istituire la terza via, quella “astensione” che avrebbe salvato l’anima ed evitato scossoni. Ma il quesito è rimasto secco: sì o no. È a lui che Luigi Di Maio si rivolge quando parla di “egoismi e personalismi” e della “propaganda” che è stata sconfitta. Sconfitta sì, ma certo difficilmente liquidabile, visto che ha toccato “quota 40”, mentre nella maggioranza delle votazioni tenute fin qui, la “minoranza” è sempre rimasta confinata tra il 20 e il 30 per cento.

Il nodo quindi è tutt’altro che superato. E tutti si aspettano smottamenti all’interno dei gruppi parlamentari. Perché adesso che il via libera degli iscritti è arrivato, Vito Crimi ricorda a tutti che è “vincolante”: tradotto, bisogna votare la fiducia, altrimenti – recita lo Statuto – sarà espulsione.

Quanti se ne andranno? I più cinici dicono che alla fine saranno “al massimo due o tre”. E in effetti, le prime dichiarazioni dei dissidenti più noti non sembrano andare nella direzione dell’addio. Molti, va detto, avevano già ammorbidito le loro posizioni prima che arrivasse la certificazione del notaio. Anche perché non hanno saputo resistere al richiamo di “Beppe”. Il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, per dire, ha fatto appello per un voto “libero”, ma pure apprezzato il riferimento di Grillo a Platone (“Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”). Barbara Lezzi resta “convintamente” all’opposizione della “accozzaglia”. Elio Lannutti non cede a “Goldman Sachs” ma accetterà “il risultato”. Poi ci sono i 13 parlamentari che hanno firmato l’appello contro il voto e ora evocano la scissione: “Non ho partecipato e non mi ritengo vincolato”, dice il senatore Mattia Crucioli. Idem Pino Cabras: “Per me è vincolante il voto di 11 milioni di persone che non volevano quei governi in cui ora ci impelaghiamo”. “Non hanno un leader”, li liquidano. Almeno per ora.

Il sì a Draghi e a Grillo: 5S dentro l’ammucchiata

Ha vinto ancora lui, il Garante e fondatore, perché l’unica certezza rimasta al Movimento è che si va sempre e comunque dove vuole Beppe Grillo. Soprattutto per questo, ieri, gli iscritti al M5S sulla piattaforma web Rousseau hanno detto sì al governo di Mario Draghi, con 44.177 voti a fronte di 30.360 no, poco meno di 75mila votanti su circa 119mila aventi diritto a esprimersi. Un via libera sofferto, che fa rima con spaccatura. Tradotto in percentuali fa il 59,3 per cento favorevole contro il 40,7 per il no. Non a caso, numeri pressoché identici a quella di un’altra votazione difficilissima per il Movimento, quella per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per la vicenda della nave Diciotti, tenutasi esattamente due anni fa. Anche in quell’occasione la linea dei big prevalse, con il 59,05 per cento contro l’autorizzazione.

Questa volta però la posta in palio era quasi tutto, la sopravvivenza di un M5S stanco e atomizzato in tanti gruppetti, con il reggente Vito Crimi a provare a parare i colpi e Giuseppe Conte appena disarcionato da Palazzo Chigi. “Se avesse vinto il no almeno metà dei parlamentari avrebbero comunque votato la fiducia a Draghi, e allora addio tutto” era la riflessione diffusa nel Movimento. Invece gli iscritti hanno comunque detto sì all’ex nemico per cui proprio Grillo nel 2013 invocava un processo: disposti a deglutire perfino un esecutivo con dentro di tutto, dal fu Psiconano (anche qui, Grillo dixit) Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, per finire, forse, con la Lega dell’ex alleato Matteo Salvini. Così aveva chiesto Grillo, che a votazione in corso su suoi social ha pubblicato un fotomontaggio con Draghi su un cornicione e Sergio Mattarella affacciato a guardarlo, e didascalia apposita: “Aspettando Rousseau”. Voleva sdrammatizzare, ma le facce e i commenti di diversi 5Stelle ieri raccontavano che non ci è pienamente riuscito. Ma al Garante, ieri a Roma ma distante dal Parlamento, va bene anche così. Ha vinto il sì, spinto anche dagli altri maggiorenti, da Conte a Fico fino a Luigi Di Maio. Anche se il primo a parlare, in contemporanea con l’uscita dei risultati sul blog delle Stelle, è stato Davide Casaleggio. E lo ha fatto per celebrare Rousseau, la sua creatura: “Sono molto contento che siamo riusciti a fare esprimere sulla piattaforma migliaia di persone sulla volontà di far partire questo governo”. Proprio lui, che mercoledì aveva guerreggiato fino a sera con il reggente Vito Crimi e i vertici parlamentari sul quesito e sui tempi del voto, e che ieri mattina l’aveva voluto ribadire: “A decidere il quesito è stato Crimi, in qualità di capo politico”. A voto ultimato, Casaleggio festeggia ma senza esporsi: “Le valutazioni politiche le lascio agli organi politici”. Le sue dichiarazioni fanno sbuffare diversi eletti, mentre sulle agenzie si manifestano i big che stanno in Parlamento, cominciando con un altisonante Di Maio: “La responsabilità è il prezzo della grandezza”. Però c’è un bel pezzo del M5S che ha detto no. Senza dimenticare che anche molti parlamentari hanno virato sul sì per evitare guai. Non c’è ombra di entusiasmo, nel corpaccione del M5S.

Magari potrebbe riportarne un po’ Conte, su cui nelle ultime ore sta tornando forte la pressione perché accetti un eventuale posto nel governo. “Glielo chiederemo più forte di prima” sussurrano alcuni contiani.

Comunque preoccupati, “perché i giorni passano e lui deve decidersi, prendere una strada”. Intanto però il Movimento deve ripartire. Francesco Silvestri, tesoriere del M5S alla Camera, lo ammette: “Ora dovremo affrontare la partita più difficile della nostra storia, e per riuscirci avremo bisogno di una struttura molto più organizzata”. E non solo: “Dobbiamo tramutare i temi in provvedimenti, e mantenere l’intransigenza verso i nostri valori”. Una via, per sopravvivere.

Vogliamo i competenti

Se prima bastava leggere i giornaloni per sapere che mai i poteri marci avrebbero consentito al governo Conte, il più “sociale” e lontano dalle lobby mai visto in Italia, di gestire i 209 miliardi del Recovery Fund, ora basta leggere i giornaloni e vedere i talk show per sapere che cosa ci aspetta nei prossimi mesi. Non sono trascorsi 10 giorni dalla crisi di governo e tutti già fingono di dimenticare chi l’ha scatenata. Cianciano di “crisi di sistema”, come se un bulletto col 2% facesse capoluogo. Sproloquiano di “fallimento della legislatura populista” e “vittoria dei competenti sugli incompetenti”, come se prima del 2018 l’Italia fosse stata governata da competenti, come se dal 2018 a oggi fosse stata governata da incompetenti e come se ora l’indubbia competenza di Draghi (in fatto di economia e finanza, non di altro) si estendesse automaticamente a tutti i rami dello scibile umano e, per contagio, a tutti i suoi futuri ministri. Di cui nessuno sa ancora nulla, ma a cui tutti (salvo FdI), hanno già garantito la fiducia. Al buio. Uscendo dalle consultazioni con le mani alzate e le braghe calate. Ora che anche 6 iscritti su 10 dei 5Stelle si son bevuti la supercazzola di Grillo sul Superministero della Transizione Ecologica e hanno dato il via libera al suicidio del M5S, oggi sposo di B. dei 2 Matteo, sapremo finalmente tutto del governo che “salverà l’Italia”. Poi magari scopriremo da chi e da cosa, visto che abbiamo i contagi meno peggiori dei grandi Paesi Ue, la campagna vaccinale più efficiente d’Europa e un Recovery Plan depositato in Parlamento in attesa che chi l’ha sequestrato per cacciare Conte, incassato il riscatto, lo rilasci e vi aggiunga gli ultimi dettagli.

Noi, incompetenti come siamo, non abbiamo alcun titolo per suggerire alcunché. Ma, interpretando il desiderio dei tanti “colleghi” che si riempiono le boccucce a cul di gallina di “crisi di sistema”, “discontinuità”, “ritorno della competenza” e “nuova èra”, auspichiamo che Super Mario si sbarazzi al più presto di tutti i lasciti del Triennio dell’Incompetenza. E colmi il vuoto con i migliori scampoli di competenza del tempo che fu. Cestini il Recovery Plan di Conte e Gualtieri e lo rifaccia da capo, aggiungendovi – si capisce – il mitico Mes. Cancelli brutture tipo Spazzacorrotti, Bloccaprescrizione, manette agli evasori, Reddito, dl Dignità ecc. Ripristini il Jobs Act e la Buona scuola, rimpiazzando le incompetenti Catalfo e Azzolina con Fornero e Fedeli (falsa laureata, ma tecnica a prescindere). Riporti i parlamentari da 600 a 945 e restituisca loro i vitalizi. Licenzi Arcuri e Speranza col loro fallimentare piano vaccini, sostituendoli con Bertolaso e Nicole Minetti. Che è igienista dentale: più tecnica di così si muore.

“Il mio Campana sempre in fuga”: Marchioni torna ai “Canti Orfici”

Maledetto poeta, sempre in bilico tra pazzia e viaggi e manicomio: al letterato di Marradi (Firenze) si è ispirato Vinicio Marchioni per scrivere e interpretare La più lunga ora – Ricordi di Dino Campana e Sibilla Aleramo, da oggi disponibile in streaming su tvloft.it, secondo progetto della rassegna Tutta scena – Il teatro in camera, che offre otto spettacoli teatrali online, in un momento di crisi e chiusura delle sale.

L’attore è molto affezionato a Campana, raffinato autore quanto uomo tormentato: finì internato per 14 anni nel manicomio di Castelpulci di Scandicci, dove morì nel 1932. “Lo amo incondizionatamente” ammette Marchioni, che ha studiato a lungo l’opera del poeta. “Leggendo le biografie a lui dedicate, mi ha colpito la sua vita avventurosa, sempre in giro”, in continua fuga da Firenze a Parigi, fino all’Argentina. Oltre a quelle geografiche, fughe soprattutto mentali: la sua malattia, infatti, si aggravò dopo che il primo manoscritto dei Canti Orfici – sua unica opera – andò perduto, e Dino tentò di riscriverlo a memoria, impazzendo.

Sul palco Marchioni/Campana “ripercorre la sua vita come se stesse cercando di non dimenticarsela”. La scenografia è essenziale: l’attore è solo con una sedia e una poltrona, “a tu per tu con il testo. Per me una scelta azzeccatissima”. Anche nel monologo il focus non può che essere la “persona con la sua malattia”, oltre ad altri temi come “la famiglia, la solitudine e l’ossessione di essere riconosciuto come poeta”. Non mancano, ovviamente, riferimenti al turbolento e intenso amore con la poetessa femminista Sibilla Aleramo: “Una donna che meriterebbe uno spettacolo a sé”, dice Marchioni, sollevando un dubbio: “Come ha potuto un grande poeta come lui, uno che ha fatto della libertà un motivo della sua esistenza, stare rinchiuso per tutti quegli anni?”.

È questa la scintilla dello spettacolo, portato in scena per la prima volta nel 2009: “Col tempo ha subito vari cambiamenti: all’aperto, al chiuso, con la musica dal vivo”. Adesso, con i teatri chiusi dalla pandemia, il cambiamento è stato forzato. “L’iniziativa è un’opportunità per godersi pièce di repertorio”, sostiene Marchioni, sempre auspicando il ritorno al palcoscenico dal vivo, con il pubblico. “Nel progetto mi sono trovato meravigliosamente, grazie a un impianto tecnico incredibile, fotografia e regia televisive meravigliose. È un’offerta di grande qualità”. Offerta che continuerà con l’uscita, il prossimo giovedì, di Settimo Senso di Ruggero Cappuccio con Euridice Axen, mentre il 25 febbraio debutta online Ifigenia in Cardiff di Gary Owen con Roberta Caronia.

“Sesso, arnica e ibuprofene”: a Sanremo ci si cura così

Solidarietà ad Amadeus. Ha valutato quasi 400 pezzi e arrivato a 30 è andato in crisi. “Non sapevo quali altri quattro scartare, ma senza non avremmo potuto fare Sanremo”. E anche così, con i 26 in gara, si andrà a letto all’alba. “Ho voluto proporne alcuni più del solito, come un risarcimento per la musica in crisi. Un segnale di ripartenza voluto da me”.

Sarà: se davvero il direttore artistico non ha usato il manuale Cencelli ha perso un’occasione per un Festival da manuale. Con 20 concorrenti la desanremizzazione sarebbe stata definitiva, nell’epocale passaggio di consegne ai beniamini dei giovanissimi che si sfondano con gli streaming o ascoltano a manetta le emittenti generazionali (vedi RadioZeta, che molti di questi big li ha fatti scoprire, per sua ammissione, allo stesso Amadeus).

Però il pacchetto è buono, e diversamente dagli anni scorsi sarà complicato fare pronostici: quasi tutti gli artisti vantano cospicui seguiti di follower. Non trionferà Orietta Berti (Quando ti sei innamorato), pedaggio al pubblico agée di Rai1, che offre un polveroso inno d’amore – autobiografico – di una coppia molto stagionata (“ho pensato ai miei genitori, insieme da sessant’anni”, ammette Ama), mentre Chiamami amore, la trottolinata urban-pop di Fedez & Michielin ha le carte in regola per far saltare il banco. Però occhio, di avversari temibili il duo favorito ne ha: e se Irama (La genesi del tuo colore, liricamente pare l’Empireo dantesco formato dance) ha dalla sua gli adoratori social, altrettanto può dirsi per i Maneskin: il rock furente, potentissimo di Zitti e buoni (tra Led Zeppelin e Rage Against the Machine) avrebbe resuscitato pure le pellicce, con l’Ariston pieno.

E Lo Stato Sociale? Lo smagato rockabilly di Combat pop percula i Clash, gli stilisti, “il solito gonzo” che “vince le elezioni di maggio” e persino Amadeus, “ormai il solo che ha un profilo di coppia”. Tra le ballate, di grana finissima quelle di Ermal Meta (Un milione di cose da dirti, con il verso cult “parlare finché un nome non ci serve più”) e della ritrovata Noemi (Glicine è il manifesto di una donna resa più luminosa anche nell’aspetto); tra le canzoni pop agganciate al pantheon autorale è magnifica Santa Marinella di Fulminacci (echi silvestriani e degregoriani) e superba Musica leggerissima di Colapesce & Dimartino (ricorda il Rino Gaetano di Gianna e i giri del miglior Lucio Battisti); sorprende il redivivo Bugo (E invece sì), con una marcetta demenzial-beatlesiana nei cui versi cita Celentano, Ronaldo, un “dittatore che s’innamora, vomita e poi si commuove” e pure Ringo Starr (dopo i Pinguini, il batterista è il nume tutelare dell’Ariston).

Ma la perla più preziosa del catalogo 2021 è di Willie Peyote: in Mai dire mai (la locura), cassa dritta e via andare, il canta-rapper infila un frammento di Boris (“Questa è l’Italia del futuro: un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”) per sferzare la società dei giovani asserviti all’hype di TikTok e trova l’anatema definitivo del tempo di pandemia con “riaprite gli stadi e non i teatri ai live”.

Gli altri ignorano il Covid e si rifugiano in vicissitudini sentimental-nostalgiche: promossi, con il loro flavor contemporaneo Coma_Cose (Fiamme negli occhi) e La Rappresentante di Lista (Amare), andranno forte in radio Fasma (Parlami), Madame (Voce, un dialogo fluido con se stessa o forse con una ragazza amata), Gaia e il suo techno-fado (Cuore amaro); rivedibili il guizzo da dance-hall di Ghemon (Momento perfetto), i cliché di Annalisa (Dieci) e Malika Ayane (Ti piaci così); di maniera Renga (Quando trovo te), irrisolta la malinconia post-separazione di Arisa (Potevi fare di più) scrittura di Gigi D’Alessio, che pensava alla Tatangelo), futur-mazurka da balera (ma buona per un Tarantino) dagli Extraliscio feat. Davide Toffolo (Bianca luce nera).

Bocciato l’esangue Random (Torno a te). C’è poi l’angolo chimico: il formidabile Max Gazzè si cala nei panni de Il farmacista ed elenca una serie di medicinali che per decifrarli serve il bugiardino. Al bancone anche il “poeta-scrittore” Gio Evan con Arnica per lenire i dolori del cuore, mentre la controindicazione se la becca Aiello: il peggiore del lotto. In Ora si racconta come uno studente che sfianca una milf in nottate da incubo: “Sesso e ibuprofene/ 13 ore in un letto”. Anche meno, Aiè.

Nouvelle Vague hawaiana. Da Obama alla Yanagihara

Si fa presto a dire “scrittore americano” o “scrittrice americana”. Infatti, anche in virtù delle sue dimensioni, il nuovo continente tende ad avocare prepotentemente al proprio ego letterario ogni autore: lo si vede quotidianamente sui giornali e sui risvolti di copertina dei libri, e lo si è visto anche più da vicino al tempo dell’ultimo Nobel a Louise Glück, salutata come poetessa americana, spesso dimenticando le sue origini ungheresi e la cultura ebraica.

Le origini e le discendenze contano. Tutto parte dal linguaggio: se è sbagliato creare una divisione tra conquistadores e colonia (atteggiamento che lo studioso Aimé Césaire condanna, per esempio, nella distinzione tra letteratura francese e francofona), è invece più corretto ricordare le appartenenze degli scrittori, dato che ogni scrittore – citando Sainte-Beuve – “non è distinto o, per lo meno, separabile dal resto dell’uomo”. E risulta importante tentare di riscoprire un certo sapore per le origini, non soltanto per una legittima spinta al riconoscimento delle diversità, ma soprattutto per omaggiare quella che potremmo intercettare come una nouvelle vague hawaiana nella letteratura americana viste le recenti uscite in libreria, anche spinte dal successo editoriale dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama con il memoir sulle sue origini I sogni di mio padre e il racconto autobiografico della formazione, presidenza e della famiglia con Michelle Una terra promessa (entrambi Garzanti).

Prima, però, un passo indietro, o meglio una demarcazione. Non parleremo, qui, di letteratura scritta in creolo, e non per mancanza di dignità: a lungo erroneamente considerato una sorta di lingua di serie b, “Il creolo – ci spiega Franca Cavagnoli, scrittrice e traduttrice – è una lingua altra, una lingua terza che nasce dall’incontro/scontro tra la lingua del colonizzatore e quelle autoctone”. Ma perché il creolo è stato il grimaldello narrativo con cui la precedente generazione di scrittori ha voluto cancellare il senso di colpa delle proprie origini e rivendicare un’autonomia culturale rispetto al colonialismo della Gran Bretagna. L’incursione del creolo nella grande letteratura lo ha legittimato come lingua letteraria. “Lo stesso premio Nobel V.S. Naipaul – racconta Cavagnoli – lo usa molto nei romanzi che ambienta nella sua nativa Trinidad”.

Parlando di scrittori hawaiani, il creolo come lingua o come tema – quel mondo fatto di esotismo sacro, mitologia polinesiana e magia tribale – appartiene ad autori del secolo scorso come Susanna Moore (classe 1945), Rodney Morales (1940), o Kiana Davenport (1940) autrice del famoso Figlie dell’Oceano (Mondadori, 1994), una storia di ribellione femminile verso i poteri del capoclan tra misteri antichi e predestinazioni.

Le nuove generazioni, invece, riscattate da senso di colpa originale, rispondono al neocolonialismo americano appropriandosi dell’inglese. Ognuno lo fa suo, imponendo delle inedite variatio, “slittamenti semantici e tematici” chiarisce Cavagnoli. C’è chi porta il genere del sentimental drama americano in un’ambientazione hawaiana, come la scrittrice Kaui Hart Hemmings (classe 1975) che fa svolgere tra Honolulu e l’Isola di Kauai il suo The Descendants (NewtonCompton, 2012), poi diventato il film Paradiso amaro con George Clooney. Un altro esempio di questo impossessamento sono i romanzi di Hanya Yanagihara (1974): l’immenso in tutti i sensi Una vita come tante (Sellerio, 2015) che l’ha consacrata al successo mondiale e Il popolo degli alberi (Feltrinelli, 2020). La prosa sontuosa e lirica di Yanagihara è un inno alla letteratura: in più, la ferocia con cui esaurisce i suoi temi – dall’autolesionismo alla pedofilia – la rende assolutamente contemporanea. Yanagihara ripesca il sacro delle sue origini hawaiane, lo spoglia di ogni esotismo e lo cala nella laicità: l’unica religione dei suoi romanzi è quella dei sentimenti, cui i suoi personaggi sono devotissimi.

È ancora diversa l’appropriazione del quarantenne Kawai Strong Washburn in Squali al tempo dei salvatori (e/o), la storia di una famiglia hawaiana che, cercando di salvarsi dalla povertà, si trasferisce negli Stati Uniti per inseguire il sogno americano, guidata soprattutto dagli straordinari poteri che possiede uno dei loro tre figli, Nainoa. “L’autore ha voluto recuperare il magico della sua tradizione – ci racconta Eva Ferri, editrice di e/o – e farlo scontrare con il cinismo della società americana, dove il mondo degli spiriti non è concepibile. E ne fa una metafora dell’integrazione del diverso. Intento che porta avanti nella lingua: già dalle prime frasi capisci che non è uno di quei romanzi americani asciutti scritti da bianchi, non c’è quel nitore a cui siamo abituati. L’autore è un hawaiano di discendenza filippina, e il suo inglese è ricco di incursioni dalle variazioni tagalog e del dialetto hawaiano”.

Per la lettura di queste nuove voci hawaiane, vale quanto scriveva Mark Twain in visita nell’arcipelago nel XIX secolo: “Ogni passo rivelava un nuovo contrasto, scopriva qualcosa cui non ero abituato”.