Un po’ Dio, un po’ Ronaldo: la stampa “inchioda” Renzi

Succede un fatto strano. Matteo Renzi ha il 2%, se si chiede in giro cosa si pensi di lui, il Paese è diviso tra chi lo detesta e chi lo detesta, ma leggendo titoli di giornali ed editoriali sparsi, Matteo Renzi è un essere mitologico, metà Dio e metà Nirvana. Uno che se oggi si candidasse a Miss Italia, vincerebbe pure Miss Italia. Uno che Biden ha una sua foto alla Ruota della fortuna come immagine profilo di WhatsApp. Uno che se Gengis Khan fosse ancora vivo gli chiederebbe “In Manciuria che faccio, mi butto?”.

Basta dare un’occhiata a siti e stampa nazionale (e perfino internazionale) per comprendere da dove arrivi buona parte di quel 2% di Italia Viva: sono i 105mila giornalisti iscritti all’albo.

Googolando, viene fuori che la parola “capolavoro” dalla stampa italiana è associata più spesso a Renzi che a Leonardo da Vinci. Che la parola “fuoriclasse” è associata più spesso a Renzi che a Ronaldo. Non ho controllato, ma ho motivo di credere che anche gli aggettivi “sexy” e “bollente” siano associati più a lui che a Taylor Mega. Andiamo a leggere.

Sul Foglio c’è una sublime intervista al giurista Sabino Cassese, in cui l’intervistatrice Chirico afferma: “il Big Bang è frutto del machiavellismo di Matteo Renzi”. Il Big Bang. Dunque non le macerie, ma la creazione. Renzi è il Demiurgo. “La storia insegna che i corsari possono rovesciare le sorti di una guerra”, risponde lui. Demiurgo e corsaro. Uno po’ Dio e un po’ Jack Sparrow. Sono un pirata, sono un signore. Un po’ anche Julio Iglesias, insomma. Sempre sullo stesso giornale però volendo si trova di meglio: “La sublime svirgolata di Renzi”, si dice, e poi “Renzi come il Manchester United nella finale di Champions ’99”, appioppandogli pure il Pallone d’oro. Dunque Demiurgo, corsaro, Julio Iglesias e attaccante.

Ma attenzione, perché Matteo è anche imbattibile nei giochi da tavolo. Si legge su Linkiesta: “Con la mossa di Renzi, che non è da pokerista ma da scacchista, che prevede non il prossimo movimento, ma gli ulteriori dieci, la legislatura non finirà in modo anticipato,(…) se la destra dovesse vincere comunque le prossime elezioni, sarà il Partito democratico a pagare il prezzo più alto. A quel punto, Matteo Renzi sarà pronto a guidare la resistenza”. Dunque pure scacchista e partigiano.

Poi abbiamo Sansonetti, che invece sul Riformista vola più basso: “Renzi ha fatto politica e ha trovato una soluzione. Con la stessa spregiudicatezza e capacità di sogno e di avventura che aveva Bettino Craxi. (…) si è dimostrato due o tre o quattro spanne al di sopra di tutti gli altri. È uno statista? Non so. Sicuramente, se tra i leader presenti in Parlamento ci fosse uno statista, di sicuro sarebbe lui. Vi piace Renzi? A me mica tanto”. Pensa se je piaceva. Roba che dalla carta del Riformista sarebbe gocciolato sciroppo d’acero.

Dunque, Renzi per il giornalismo italiano è anche statista. Demiurgo, pirata, calciatore, Julio Iglesias, regina di scacchi, partigiano e statista. Sul Tempo leggiamo: “Lezione di politica. Chapeau Matteo Renzi, che ha osato, rischiato l’osso del collo e ha invece schiantato chi lo dava per morto”. Pure acrobata. Ma attenzione, perché è da Renato Farina su Libero che arriva la lusinga più commovente. In un articolo dal modesto titolo “Giù il cappello”, l’agente Betulla scrive: “Come Matteo tra i contemporanei solo Berlusconi, che resta insuperato, ma vedremo a 84 anni Renzi quante vite avrà avuto”.

Perciò, attenzione, Renzi non è solo Demiurgo, non è solo Dio, ma può contare sulla resurrezione. Dunque è Gesù, è il Padre e anche il Figlio. Manca solo lo Spirito Santo. Anzi no, sempre sul Riformista si legge che Renzi “sembra un leader della Prima Repubblica quando i politici erano la crema dell’intellettualità e seppero garantire il miracolo italiano” e “grazie a Renzi torna la politica”.

Renzi è perciò il passato, il presente, il futuro, è eterno, immateriale e immanente. È un concetto astratto e immateriale. È la politica. È lo Spirito Santo. Dunque pirata, calciatore, regina di scacchi, Julio Iglesias, partigiano, statista, acrobata, Padre, Figlio e Spirito Santo. Cosa manca? Il Male. Perché siccome il Bene, cioè Matteo Renzi, non esisterebbe senza il concetto di Male, la stampa gli attribuisce diligentemente anche questo ruolo. Leggiamo su Wired: “E se a Matteo Renzi fosse riuscito il colpo politico del decennio? Che Matteo Renzi sia il Joker della politica italiana è indubbio, visto che col pagliaccio di Bob Kane condivide almeno l’imprevedibilità e lo sprezzo delle regole: ma se nell’appiccare qualche fuocherello qua e là l’antieroe incidentalmente salva Gotham City, allora va benissimo così”.

Matteo è eroe e anche antieroe, Batman e anche Joker, Sassicaia e anche Tavernello. Che resta? Ah già, la gloria fuori confine. È arrivata anche quella. Ecco il New York Times: “Renzi’s Power Play Is a Masterpiece. He’ll Be the First to Tell You”. Ovvero: “Il gioco di potere di Renzi è un capolavoro. Sarà lui il primo a dirtelo”. E ancora: “L’elogio più sperticato sul signor Renzi viene dal signor Renzi: ‘È un capolavoro della politica italiana’, dice della sua mossa”. Insomma, la stampa americana lo elogia, addirittura, lasciando che si auto-elogi. Gli passa direttamente la penna e dice: “Senti, scrivi te”. E in fondo è questo che mancava: pirata, calciatore, regina di scacchi, partigiano, statista, acrobata, Padre, Figlio, Spirito Santo, Julio Iglesias e pure giornalista. Amen.

Impeachment: “Trump incitò l’assalto, per lui fu uno show”

“Stop the steal”, “Fight like hell”: le parole d’ordine impartite da Donald Trump ai suoi sostenitori il 6 gennaio, perché prendessero d’assalto il Campidoglio e impedissero la certificazione da parte del Congresso della vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali, sono risuonate ieri più volte nell’aula del Senato, dove l’accusa ha cominciato a presentare le sue argomentazioni nel processo d’impeachment contro il magnate. Sono state mostrate immagini inedite del sistema di videosorveglianza del Congresso sull’assalto degli esagitati, molti dei quali – rivela un’inchiesta del Washington Post – erano spiantati, senz’arte né parte. L’azione causò cinque vittime, fra cui un agente di polizia, centinaia di contusi, oltre 150 arresti. Jamie Raskin, il deputato che guida il team d’accusa, ha avvertito che le immagini non erano adatte agli spettatori più giovani. Joe Neguse, stella nascente del partito democratico, ha definito Trump “l’istigatore in capo”. L’accusa vuole provare che l’insurrezione non è stata l’effetto di un comizio, ma il prodotto d’una strategia prolungata di accuse non sostanziate di frodi e di inviti alla violenza. E, una volta innescata la rabbia dei fan, Trump ne ha seguito in tv gli effetti “come fosse un reality show”, prima di invitarli – ore dopo – ad andare a casa “in pace”, dicendo “We love you”.

La costituzionalità del procedimento è stata acquisita martedì con 56 voti favorevoli e 44 contrari: sei Repubblicani hanno votato con i Democratici, uno più del previsto, il senatore John Cassidy, persuaso non dall’efficacia dell’accusa, ma dalla pochezza della difesa. Lo stesso Trump è furioso con i suoi avvocati, apparsi impreparati e confusionari. L’accusa ha 16 ore per presentare le sue argomentazioni – otto ieri e otto oggi –, ma potrebbe non utilizzarle tutte. La difesa avrà pure due interi giorni a disposizione. Il verdetto potrebbe arrivare prima del previsto, alla metà della prossima settimana. Il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, non avrebbe ancora deciso come votare.

La tassa che imbavaglia i media

La libertà di stampa e di parola è sotto assedio in Ungheria e Polonia. A Budapest chiuderà Klubradio, l’ultima voce capace di criticare l’esecutivo sovranista di Viktor Orban. A Varsavia, invece, è black out dei media: a causa di un nuovo disegno di legge proposto dal governo del primo ministro Mateusz Morawiecki, che prevede l’imposizione di una tassa del 5% sulle pubblicità e una nuova impronta nazionalista sui contenuti dei media, è stato dichiarato immediatamente lo sciopero della stampa nazionale polacca. I ricavi della tassazione – secondo la tesi del governo – verranno destinati al sostegno delle istituzioni colpite dal Covid-19, ma contenuti e argomenti sponsorizzati dovranno essere allineati alla narrazione nazionalista del Pis, Partito diritto e giustizia. Due colpi sferrati contro la libertà d’opinione dai governi che tra pochi giorni festeggeranno l’anniversario della costituzione del gruppo di Visegrad, avvenuto il 15 gennaio 1991. “Il potere ha dichiarato guerra alla libera opinione”: una lettera aperta a governati e leader di partiti politici è stata pubblicata all’unisono dalle testate polacche che definiscono “racket” la tassa che rafforzerà le già severe restrizioni sulla libertà di opinione e accusano il governo di “restringere intenzionalmente il pluralismo e la libertà di espressione”.

La pagina di apertura di molti quotidiani, come il leggendario Wyborcza Gazeta e Fakt, è diventata nera e la scritta che appare in bianco riferisce: “Media senza scelta”. Molti canali tv e radio hanno silenziato ogni trasmissione: “Non può esistere un Paese libero senza libertà di scelta”, ha informato, prima di sospendere il servizio, Radio Zet. È lo stesso messaggio riferito dalle autorità a Bruxelles: “Senza media liberi non c’è democrazia” ha denunciato Manfred Weber, presidente Ppe all’Europarlamento. La nuova legge, che potrebbe entrare in vigore a luglio, però è solo colpa di “Amazon, Facebook, Google e Apple”, ha risposto Morawiecki a quanti lo hanno accusato di censura: l’emendamento servirebbe a tassare i giganti del web. Il suo esecutivo, ha aggiunto ancora, si limita a seguire le soluzioni già proposte in altri Paesi europei in mancanza di precise direttive comunitarie. La Commissione europea “preoccupata per la libertà dei media in Ungheria e dal caso Klubradio”, ultimo media indipendente di Budapest che da mezzanotte di domenica non potrà più andare in onda per revoca della licenza, ha chiosato di essere “pronta ad agire in caso di violazioni” ed ha espresso la sua preoccupazione anche per quanto accade in Polonia, avvertendo che “quella degli schermi oscurati potrà diventare domani una triste realtà quotidiana. Dobbiamo sostenere i media indipendenti, non eliminarli con altri oneri finanziari”.

Si celebra la Rivoluzione: l’ayatollah ride, gli altri no

Urlando dai finestrini delle automobili “morte all’America, morte a Israele” e sventolando la bandiera iraniana, la popolazione della Repubblica islamica – sciita – ha celebrato il 42esimo anniversario della rivoluzione. Da quando lo scia fu cacciato e il Grande ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979 trasformò la Persia in una spietata teocrazia, il programma dei festeggiamenti ha sempre previsto oltre alle parate militari anche sfiancanti marce di cittadini in tutte le città del Paese, a partire dalla capitale Teheran. Ma questo è un anno a sé, diverso dai precedenti 41, a causa della pandemia che in Iran ha colpito in modo estremamente drammatico. Ecco perché le autorità hanno deciso di abolire le marce a piedi e trasferirle su quattro e due ruote. L’esercito inoltre ha fatto sfilare tre missili balistici mentre i paracadutisti si lanciavano giù dagli aerei militari.

Le celebrazioni di quest’anno cadono in un momento di forte tensione in Iran per l’incertezza che continua ad aleggiare circa l’agenda sul nucleare del neo presidente statunitense Joe Biden. Teheran spera che il successore di Trump ribalti la decisione del tycoon di ritirare gli Usa dal trattato sul nucleare (Jcpoa) presa tre anni fa e abolisca le sanzioni economiche. Il presidente Hassan Rouhani nel discorso celebrativo a reti unificate ha esortato l’Occidente a ripristinare l’accordo sul nucleare. “Non c’è altro modo per il mondo e per la regione. L’unico percorso praticabile è quello della diplomazia”. Rouhani ha poi sottolineato che “Dio è stato colui che ha rovesciato l’ex presidente Donald Trump” e ha affermato con toni propagandistici che “gli iraniani resistendo alle pressioni di Trump sono stati utili alla sua sconfitta elettorale”. Peccato che la maggior parte degli iraniani siano stati costretti dal corrotto regime sciita a sopportare tutto il peso delle sanzioni, pena la repressione brutale come testimonia l’esito delle manifestazioni del 2019 quando almeno 1.500 manifestanti vennero uccisi dalle guardie della rivoluzione e centinaia finirono in carcere. Ma la violenza del regime teocratico nei confronti dei propri cittadini non è il motivo per cui il dem Joe Biden non ha ancora deciso se rientrare nell’accordo firmato anche dalla Ue. Il presidente degli Usa insiste sul fatto che l’Iran deve prima invertire parti del proprio programma nucleare. Nell’accordo del 2015, l’Iran aveva accettato di limitare l’arricchimento di uranio in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Il dilemma di Biden riguarda non solo il nucleare, ma anche la questione dei missili.

“Organi internazionali indipendenti quali l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica di Vienna, hanno confermato anche in tempi recentissimi come l’Iran abbia oltrepassato i limiti stabiliti dal Jcpoa in merito all’arricchimento e all’accumulo di riserve di uranio arricchito. Inoltre l’Iran ha mostrato ripetutamente di aver fatto notevoli progressi in campo missilistico: il programma missilistico iraniano è escluso dal Jcpoa ma è essenziale per dotare il Paese di eventuali capacità nucleari in campo militare”, spiega Andrea Gilli ricercatore senior presso il collegio di Difesa della Nato e ricercatore affiliato alla università di Stanford.

Riguardo alle questioni interne, Rouhani, che sta terminando il secondo mandato consecutivo, ha sollecitato un’alta affluenza alle elezioni presidenziali di giugno che decideranno il suo successore. Tradizionalmente, un’elevata affluenza alle urne è la premessa per la vittoria di presidenti cosiddetti moderati ma comunque sottoposti agli ordini della Guida Suprema, il falco Ali Khamenei.

La riconquista della Catalogna

Domenica prossima, quasi tre anni e mezzo dopo il referendum illegittimo, la proclamazione unilaterale di indipendenza e il voto che sancì la spaccatura della società tra indipendentisti e costituzionalisti, la Catalogna torna alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Interdetto per disobbedienza il presidente della Generalitat che allora vinse le elezioni guidando il fronte dei separatisti, Quim Torra, con i leader che incriminati per “sedizione” fuori dal carcere in attesa del terzo grado di giudizio, in queste urne da cui ognuno vorrebbe trarre una rivincita per sé, la Storia ha inserito un’incognita: il Covid-19. E da qui, il candidato che – stando ai sondaggi – può spiazzare e spezzare i due fronti: Salvador Illa, ministro della Salute del governo socialista di Pedro Sánchez, fiore all’occhiello dell’amministrazione centrale, sebbene non tutti gli spagnoli lo ritengano all’altezza della missione anti-pandemia. Eppure il suo nome come presidente è dato testa a testa (21,8%) con quello dell’ex vicepresidente e presidente reggente, Pere Aragones candidato di Esquerra Republicana (20,5%) e con Laura Borras, la numero uno di Junts per Catalunya (19,8%), solo perché il vero numero uno, l’ex presidente in auto esilio in Belgio, Carles Puigdemont non ha potuto scegliere il primo posto. “Si tratta di elezioni molto importanti, perché se da un lato possono ratificare la continuità del progetto indipendentista tre anni dopo il suo collasso, cosa che sarebbe da studiare nelle facoltà di scienze politiche, è possibile che si verifichi un cambiamento se i partiti costituzionalisti prendono la maggioranza e si concretizza la possibilità di un’alleanza: il tripartito Socialisti, Esquerra e Los comunes”, spiega il professor David Jiménez, autore del libro La crisis que cambió España. Secondo Jiménez, tuttavia, “non è chiaro che questa del tripartito sia una vera alternativa all’indipendentismo. Potrebbe essere solo un ritorno al passato, cioè ai due governi degli anni 2000 che ebbero una formazione simile”, dice. Un ritorno al prima della crisi, che a detta dello storico “sarebbe una strada senza uscita” che non terrebbe conto dell’avvenimento più importante degli ultimi 20 anni: il referendum, per non parlare del fatto che “fu proprio quella alleanza fallita”, secondo lui “a fare da combustibile alle dinamiche successive”. E infatti il dibattito tra Esquerra e socialisti è già molto teso in una campagna elettorale irriconoscibile, e non solo per i comizi online, ma anche per la partecipazione attiva dei principali leader del governo rosso-viola, Sanchez e il suo vice, Pablo Iglesias, schierati su fronti opposti col primo a dare il cuore – simbolo della campagna – per Illa e il secondo a tifare per Jéssica Albiach. Una campagna irriconoscibile anche per “la mancata catarsi degli indipendentisti”, come la definisce Jiménez e per il fallimento annunciato di Ciudadanos che al contrario delle urne di dicembre del 2017, quando fu in grado di portare al voto il 26% degli elettori che mai avevano votato, alzando la partecipazione alle urne, ora secondo i sondaggi si attesterebbero al 6,9%. “Ciudadanos con Ines Arrimadas nel 2017 riesce a rappresentare per la prima volta il movimento costituzionalista catalano che non aveva mai avuto voce prima di allora e che mai si era sentito rappresentato dalle istituzioni”, spiega Jimenez. “Una Catalogna silenziosa che scende in piazza per la prima volta 7 giorni dopo il referendum per l’indipendenza del 1° ottobre e che a dicembre fa di Ciudadanos il primo partito. È l’avvenimento con cui si chiude quell’anno di tensione”.

Un voto quello per Cs che oggi i sondaggi danno in parte condizionato dall’astensione (50%), convitato di pietra di queste urne Covid in cui il 30% dei seggi elettorali non è riuscito a costituirsi per le defezioni degli scrutatori impauriti dal virus, in parte passato ai socialisti. Secondo lo storico spagnolo, si tratta di un voto che migra verso “il partito più forte della fazione che lo rappresenta”, anche se “non sentito del tutto in linea con il programma”. Inevitabilmente queste saranno anche le elezioni di prova per gli indipendentisti, che “sono stati bravi a passare rapidamente da una narrazione che prometteva l’indipendenza a tutti i costi, a una che parte dal 2017 per puntare sulla retorica della repressione, i prigionieri politici ecc.”. Un fronte, quello dei separatisti che si giocano l’amnistia, che ha vinto nel 2017 e che si accinge a rifarlo, “pur senza aver mai ottenuto per i propri elettori ciò che avevamo promesso”, conclude Jimenez. Ciò che appare chiaro, secondo l’autore del libro sulla crisi, è che quella storia si stia “ancora scrivendo. Il quadro è ancora in movimento”, fermo restando le ripercussioni che quegli eventi venuti da lontano, “dal mancato compimento del sistema di autonomie sottinteso nella Costituzione del 1978” hanno generato. Una su tutte: la nascita dei nazionalisti. L’ultradestra di Vox, che ha preso le mosse contro le rivendicazioni di autonomia, in Catalogna domenica è data al 6%, al pari del partito di Iglesias e della sindaca di Barcellona, Ada Colau. Un partito nazionalista da 3 milioni di elettori in Spagna contro 1 milione e mezzo di indipendentisti catalani. La storia continua.

Ecco cosa farò se sarò premier

Alle prossime elezioni mi presenterò candidato con l’ambizione di diventare premier visto che questa carica l’ha ricoperta anche la suorina catto boyscout Matteo Renzi. È quindi doveroso che io presenti il mio programma ai concittadini.

In politica estera seguirò la linea indicata da Angela Merkel che qualche anno fa disse apertis verbis e senza coperture diplomatiche: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Quindi basta con questa alleanza sperequata per cui gli americani possono tenere sul nostro territorio 60 basi militari, alcune nucleari, e noi sul loro nemmeno una garitta.

Basta con l’extraterritorialità di queste basi per cui i militari americani possono provocare disastri come il Cermis (20 morti) o stuprare le nostre ragazze, ma non vengono giudicati in Italia bensì negli Stati Uniti e questi processi vanno a finire regolarmente nel nulla. Basta con la Nato, altra alleanza sperequata. La Nato, al cui comando per salvare le apparenze viene messo un qualche Quisling norvegese o danese è un organismo nelle piene mani americane di cui gli Stati Uniti si sono serviti per convincere o costringere alcuni Paesi europei, fra cui l’Italia, a partecipare a guerre d’aggressione disastrose (Serbia, Iraq, Libia) che si sono poi regolarmente rivolte contro l’Europa. La Nato, in realtà, è stato lo strumento con cui gli Stati Uniti hanno tenuto per anni, e ancora tengono, l’Europa in uno stato di minorità, militare, politica, economica e alla fine anche culturale e linguistica. A questo proposito, anticipando una parte del programma che fa parte della politica interna, potenzierò le istituzioni culturali all’estero perché la lingua italiana, depurata del romanesco-basic english attualmente usato, resta una delle più belle del mondo con una varietà di sfumature che, per quel che ne so, appartiene solo al russo e non certamente all’inglese che è una lingua soprattutto commerciale (sia detto con tutto il rispetto per Shakespeare e Oscar Wilde).

La mia formula per l’Europa è da sempre la stessa: unita, neutrale, autarchica, armata e nucleare. Unita politicamente, oltre che economicamente, perché nessun Paese europeo, nemmeno la Germania, può far fronte da solo a grandi agglomerati come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e a quel potere indefinibile, ma decisivo, che è la grande finanza internazionale. L’Europa politica cui penso non avrà più come punti di riferimento periferici gli Stati nazionali, in prospettiva destinati a sparire, ma le “macroregioni” cioè aree coese dal punto di vista economico, sociale, culturale e anche climatico, che è la vecchia idea Bossi-Miglio. Perché soprattutto in un momento in cui la globalizzazione sembra voler e poter omologare tutto è indispensabile restituire alle persone un’identità anche locale. In questo senso l’Italia è fortunatamente ricchissima: per restare, a titolo d’esempio, al solo Veneto, Rovigo è diversa dalla molto vicina Verona, Verona da Vicenza, Vicenza da Treviso, Treviso da Padova, per non parlare di Venezia che fa caso a sé.

Come diceva Angela Merkel, l’Europa deve poter fare da sé non solo dal punto di vista economico, ma anche militare. Bisogna quindi togliere alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere l’Atomica non per aggredire nessuno, ma perché l’Atomica è il deterrente necessario per potersi difendere da soli senza pelose supervisioni. È assurdo che l’Atomica, oltre a Stati Uniti, Russia e Cina, ce l’abbiano Paesi come il Pakistan, il Sudafrica, Israele e non la Germania e quindi, con essa, l’Europa.

Europa neutrale, quindi equidistante fra Stati Uniti e Russia, però con una certa predilezione per quest’ultima perché più vicina geograficamente, culturalmente, inoltre indispensabile per i tedeschi e per noi italiani dal punto di vista del rifornimento energetico.

Apertura economica alla Cina perché è assurdo che noi europei, e noi italiani in particolare, non si possa avere accesso, con scambi reciproci, a un Paese che conta un miliardo e 200 milioni di abitanti destinati a diventar presto dei forti consumatori, perché questo non garba agli Stati Uniti. Ottime relazioni economiche con la teocrazia iraniana, come abbiamo sempre avuto fino a quando gli Stati Uniti di Donald Trump, ma non solo di Trump, hanno posto un veto, perché noi non abbiamo nulla da temere dall’Iran, il problema riguarda semmai Israele e il suo grande protettore americano.

In politica interna, senza negare alcuna delle fondamentali libertà individuali, sarò fortemente statalista e socialista nel senso nobile di questo grande filone di pensiero laico che riprendendo dal cristianesimo delle origini si pone a difesa degli “umiliati e offesi”, cioè dei ceti che oggi vengono chiamati, con pudica ipocrisia, “svantaggiati”. La sanità – ospedali, aziende farmaceutiche, farmacie –, dovrà tornare tutta in mano pubblica. Sarà potenziata, nei limiti resi possibili da un debito pubblico enorme accumulato negli anni Ottanta grazie al trio Craxi-Andreotti-Forlani (elargizioni pubbliche in cambio del consenso ai partiti), la ricerca medico-scientifica perché abbiamo dovuto accorgerci che non abbiamo aziende farmaceutiche in grado di produrre vaccini nonostante le influenze potenzialmente mortali non nascano certo con il Covid-19. La Scienza sarà libera in ogni settore perché la scienza è conoscenza e quindi consustanziale all’essere umano, ma non sarà totalmente libera la Scienza tecnologicamente applicata perché, soprattutto in campo medico ma non solo, pone problemi etici e sociali gravissimi.

Per non farla troppo lunga faccio mio il programma che Fausto Bertinotti, prima che, dopo anni di coraggiose lotte sindacali e politiche, si facesse imbalsamare come presidente della Camera, espose a uno scandalizzatissimo Enzo Biagi: “Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Imposta patrimoniale progressiva su tutte le forme di ricchezza. Tassazione di Bot sopra 150/200 milioni. Obbligo scolastico fino ai 18 anni. Manovra economica senza tagli né tasse”.

Quindi state sereni, pardon tranquilli, miei cari concittadini: è del tutto evidente che non sarò mai premier della Repubblica italiana.

 

Ora non fate i timidi: diteglielo a Mario…

Adesso perònon fate i timidi: dite anche a Mario Draghi che se non chiede il Mes pandemico si va tutti a casa. Come forse si sarà capito dall’editoriale del direttore, Il Fatto avvia una campagna affinché renziani, berlusconiani, confindustriali, eccetera ritrovino la voce: non vi dovete vergognare perché quello è Draghi e vi guarda come degli organismi monocellulari, tornate al coretto sul Meccanismo europeo di stabilità, dai che lo sapete (i 36 miliardi regalati senza condizioni, “possiamo rifare subito tutti i pronto soccorso”, “la campagna vaccinale”…). Lo diciamo per voi, non ci fate mica una bella figura. E invece niente: è già partita la ritirata. “Se si possono ottenere più soldi per la sanità con un tasso migliore, noi non siamo innamorati del Mes…” (Maria Elena Boschi). “La convenienza del Mes è il differenziale di costo di finanziamento (circa zero vs 1,5% a maggio 2020 e 0,7% recentemente). Se questo differenziale si annulla o quasi, ovviamente non vi è più convenienza” (Luigi Marattin). “Il Mes? Coi tassi minimi è sempre meno conveniente”, cioè il tasso del Mes è ancora più basso di quello del Btp, ma “bisogna vedere se, bilanciando costi e benefici, il gioco vale la candela considerando che il prestito richiesto al fondo Salva Stati è comunque sottoposto a dei vincoli, normati dai Trattati…” (Il Sole 24 Ore). Ah, ci sono vincoli? Ah, i costi-benefici? Però rispetto a un mese fa, quando sbavavate sul Mes, è cambiato poco: ieri il decennale italiano dava un rendimento teorico attorno allo 0,5%, l’8 gennaio – quando Italia Viva inizia la crisi anche sui “soldi del Mes” – era allo 0,51% e tutti gli analisti lo davano in calo nei prossimi mesi con lo spread avviato a 50-60 punti. Questo – Conte o non Conte, Draghi o non Draghi – per effetto del protrarsi degli acquisti della Bce sul mercato dei titoli di Stato. Insomma, cari amici, la situazione è la stessa di inizio gennaio e quindi non fatevi intimidire: tirate fuori il pallottoliere e calcolate i risparmi, fossero pure 100 milioni l’anno “la differenza deve metterla chi non vuole il Mes” (sempre Marattin, ma nel 2020), pure Draghi se del caso. Dai che ce la fate, noi vi siamo vicini: mica vorrete lasciar pensare alla gente che eravate in malafede?

“Città antifascista e anticomunista” Polemica a Genova

Genova città medaglia d’oro alla Resistenza, “si riconosce nei valori dell’antifascismo”. Ma anche. “Nell’anticomunismo”. E già che ci siamo, è anche contro: “L’antidemocrazia”, “la violenza verbale”, “psicologica” (e, perché no) ai “ai danni urbani)”. Eccolo qui l’ordine del giorno del consiglio comunale del capoluogo ligure che ha scatenato il caos. Soprattutto in casa del centrosinistra. Tutto nasce da una proposta del M5s, che chiedeva l’impegno ad aderire all’Anagrafe antifascista del Comune di Stazzema: dal luogo teatro di una delle più cruente stragi nazifasciste della Seconda Guerra Mondiale, è partita infatti una proposta di legge mettere al bando la propaganda nazifascista. Così formulata, la dichiarazione è indigesta alla maggioranza di centrodestra di Marco Bucci (in particolare a Lega e Fdi). Per questo il capogruppo di Forza Italia, Mario David Mascia, ne ripropone una versione “ecumenica” (per l’Anpi scandalosa oltre che “antistorica”): Genova aderisce a una sua versione di “anagrafe antifascista” (ma anche) “anticomunista e antieversiva”. Qualsiasi cosa significhi, l’opposizione implode: il M5s è l’unico contrario; Italia Viva vota con la destra e lo rivendica; il Pd si astiene. Ed è quello che se la passa peggio. Gianni Cuperlo, indignato, chiede scusa a nome dei consiglieri. Costretti a tornare sui propri passi: “È stato un errore”, dice il capogruppo dem Alessandro Terrile. Una svista. “Rossi e neri tutti uguali?”. Se lo chiedeva spaesato e spazientito Nanni Moretti in una scena memorabile di Ecce Bombo: “Ma chi è che sta parlando?”.

Oscar, Rosi corre tra i doc: Italia fuori dai premi clou. Colpa nostra

Notte fonda. Il documentario Notturno di Gianfranco Rosi, candidato dall’Italia per la corsa ai 94esimi Oscar, è stato escluso dalla shortlist del miglior film internazionale, già straniero. Analogo risultato era stato raggiunto dal suo precedente Fuocoammare, e spulciando le predictions d’Oltreoceano stavolta c’era pure da aspettarselo. Per non ricadere nel tafazzismo patrio, urge rivoluzionare il procedimento di designazione, e dunque di costituzione della commissione preposta, in seno all’Anica.

Il primo provvedimento può essere certamente appaltato a un bravo marmista, che al civico 286 di viale Regina Margherita, sede romana dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali, dovrebbe scolpire le seguenti parole: “È un bellissimo film, ma andava candidato all’Oscar nella categoria dei documentari. Questa scelta è un inutile masochistico depotenziamento del cinema italiano che poteva portare agli Oscar due film…”.

La considerazione, ora doppiamente profetica, si deve a Paolo Sorrentino, che da membro della commissione ad hoc nel 2016 eccepì sull’indicazione di Fuocoammare: senza indugio, chiamate lo scarpellino. Notturno come Fuocoammare, che poi centrò la cinquina, corre tra i documentari, avanti va pure il titolo che avremmo dovuto candidare, già in cinquina film straniero ai Golden Globes: La vita davanti a sé di Edoardo Ponti, con Sophia Loren, che piazza in pre-nomination colonna sonora e la canzone di Laura Pausini Io sì (Seen). Semaforo verde anche per il trucco di Pinocchio di Matteo Garrone. Per l’Oscar al film internazionale l’Italia può consolarsi con Filippo Meneghetti, regista del francese Due, mentre Luca Guadagnino, coproduttore di The Truffle Hunters, compete con Rosi tra i doc. La nomination del film ex straniero manca all’Italia da La grande bellezza di Sorrentino, che nel 2014 la trasformò in statuetta: sono passati sette anni, quanto ancora vogliamo aspettare?

Agli imprenditori del Nord piace di più la Lega di governo

Bisogna guardare quassù al Nord, per capire come mai la giravolta di Matteo Salvini non abbia provocato alcuna fibrillazione dentro la Lega. Si è convertito in un amen dal sovranismo antieuropeo al sostegno europeista a Mario Draghi. Nei Cinquestelle il passaggio politico verso il governo acchiappatutti sta scatenando infiniti dibattiti e rotture dolorose; tra i parlamentari e i leader, ma anche e soprattutto nella base dei militanti, che non capiscono perché dire sì prima di sapere i contenuti dell’accordo di governo; e non sopportano di stare in un’ammucchiata con quello che una volta era lo Psiconano, oltre che con Salvini e con Renzi. Nella Lega, invece, non un sussulto: il partito che all’Europarlamento si era astenuto sul Recovery plan, ora è compatto attorno a Supermario: senza neppure chiedere garanzie sul programma e pur avendo già ricevuto un primo no sulla Flat tax. “Non poniamo veti e non diciamo no pregiudiziali”, dichiara Salvini. “Responsabilità, velocità ed efficienza: noi ci siamo”. Il tono marinettiano nasconde la fretta di chiudere un accordo senza star lì a spiegare il perché e il percome. Bisogna esserci e basta. “Per il bene del Paese”, come recita l’eterna e onnivora formula delle liturgie politiche dalla vecchia Dc a oggi.

Bisogna guardare quassù al Nord, all’area più ricca e produttiva d’Europa, tra Lombardia e Veneto, per capire che le felpe di Matteo e i suoi proclami guerrieri vanno bene per nutrire gli entusiasmi elettorali del popolo leghista. Ma la sostanza, quella che gli ricordano i Giorgetti e gli Zaia, è che bisogna essere seduti al tavolo dove si decide la sorte dei 209 miliardi portati a casa da Giuseppe Conte, ma che sarà Draghi a distribuire. Gli imprenditori, i commercianti, gli artigiani del Lombardo-Veneto apprezzano le felpe (o le tollerano), ma poi vogliono i soldi. Gente concreta, saldamente piantata in un sistema europeo e internazionale, con un export che neppure il Covid ha fiaccato, sono un blocco sociale che – archiviate le utopie secessioniste bossiane – sta con una Lega di governo, da cui aspetta risposte e sostegno. Dei sofismi di Borghi, dei grafici di Bagnai si appassionano con moderazione: vedono 209 miliardi in arrivo e chiedono di sapere dove andranno a finire.

Ecco perché Salvini procede con “responsabilità, velocità ed efficienza” sulla via di Damasco, anch’egli fulminato da Draghi. E si unisce – solo con qualche necessaria sobrietà in più – al coro di chi inneggia al salvatore della Patria. In verità, visti i paletti, le condizioni e i controlli che l’Europa ha messo al Recovery, per gestirlo in Italia non occorrerebbe un drago, ma basterebbe un buon funzionario. Il governo Conte era riuscito a portare a casa un buon malloppo, ad avviare con qualche successo il piano vaccinale (siamo terzi in Europa), a tenere aperte le scuole, a perdere meno punti di Pil di quanto si temesse (anche proprio grazie al sistema lavoro-imprese del Lombardo-Veneto). Proprio per questo non si poteva lasciargli il possibile successo del Recovery e dei vaccini, che avrebbe reso stabile l’alleanza Cinquestelle-Pd-LeU e solida la leadership di Conte. Ci ha pensato il killer (o sicario – Bettini dixit – di mandanti più potenti di lui) a spezzare in piena pandemia il punto d’equilibrio, avvelenando quello che lo specchio delle sue brame ripeteva essere, se non il più bello del reame, almeno di certo tanto più gradito di lui. Ora l’approdo è il sostegno ecumenico a Draghi, nuovo principe azzurro. Ma la domanda è: come sarà possibile, finita la messa cantata sull’altare, tenere insieme in sacrestia keynesiani e salviniani, Cinquestelle e Confindustria, reddito di cittadinanza e tifosi dell’evasione (e della prescrizione), partito dell’ambiente e partito del cemento? Sarà anche santo, Draghi, ma il miracolo di accontentare tutti e tenere insieme gli opposti è proprio impossibile.