Anche le parti sociali si mettono in fila per sostenere Mr Bce

Lui, abbottonato senza mai scoprirsi. Loro, unanimi nel dare un consenso inedito. Alle consultazioni delle “parti sociali” – da Confindustria ai sindacati, dal commercio ai lavoratori dello spettacolo fino al Terzo settore e alle associazioni ambientaliste – Mario Draghi non ha parlato quasi mai se non per dire “buongiorno” e “grazie”. Unica deroga, il “pizzino” politico dal sapore democristiano, trasmesso alle associazioni ambientaliste sul ministero della Transizione ecologica.

Ma a parte la “mossa” politica, Draghi non ha fatto trapelare altro. E non ne ha avuto particolare bisogno visto il sostegno pressoché unanime ricevuto dalle associazioni di categoria. Ognuna con le proprie esigenze sciorinate al presidente incaricato, ma unite da un punto in comune: la soddisfazione per essere stati annoverati nelle consultazioni ufficiali.

Prima di Draghi solo Pier Luigi Bersani lo aveva fatto e, prima di lui, il buon Franco Marini, morto l’altroieri, che ebbe nel 2008 un rapido mandato esplorativo dopo la fine prematura del secondo governo Prodi. Un giro con le parti sociali, ricorda agli amici della Cisl, l’ex segretario Sergio D’Antoni – che Draghi lo conosce bene – lo aveva fatto il primo governo Berlusconi, arrivato inaspettatamente alla guida del governo dopo le elezioni vinte nel 1994. Ma fu un giro molto formale, come si scoprirà nella grande mobilitazione sindacale contro il suo progetto di riforma delle pensioni.

La grande unanimità di consensi registrata ieri è un buon viatico per Draghi – e una notizia non esaltante per la dialettica sociale – e si spiega con questa possibilità di sedersi al tavolo e quindi con l’opportunità di tornare a fare i “corpi intermedi”, i mediatori sociali, ruolo senza il quale le associazioni di categoria perirebbero.

La richiesta più urgente è forse quella avanzata da Cgil, Cisl e Uil, relativa al blocco dei licenziamenti che scade il 31 marzo. I sindacati ne hanno fatto un punto centrale durante tutta la pandemia e ancora oggi chiedono che i lavoratori non siano abbandonati. Il sindacato, come anche Confindustria, chiede allo stesso tempo che siano riavviati i cantieri delle grandi opere, al netto del Recovery: ferroviarie, stradali, quel pacchetto di interventi per i quali, poco prima di dare le dimissioni, il governo Conte aveva proceduto alla nomina di ben 37 commissari.

E allora, si ragiona in ambiente sindacale, si potrebbe arrivare a un meccanismo che colleghi il progressivo sblocco del divieto di licenziare al contestuale avvio dei cantieri con un piano di rimessa in moto degli appalti. Sulla base, sembrerebbe, di un “modello Genova” – ampie deroghe alle normative e centralizzazione delle autorizzazioni – a cui Draghi si è già riferito.

L’ex presidente della Bce ha inviato un altro segnale oltre a quello sulla Transizione ecologica: aver ricevuto l’Agis, l’associazione che raggruppa gli esercenti cinematografici e tutti gli operatori dello spettacolo, di fronte ai quali il presidente del Consiglio incaricato ha parlato di “disastro culturale”, significa voler dare centralità a un settore piuttosto distrutto dalla pandemia.

Nessun cenno alla scuola dopo le dichiarazioni sulla opportunità di prolungare l’anno scolastico. Sul punto è intervenuta la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, ma solo per ribadire la necessità di ricominciare a settembre con tutti i docenti ai loro posti, senza riferimenti alle polemiche di questi giorni che pure ci sono state (e tra l’altro, ieri a Roma, si sono avute, al Socrate e al Mamiani, nuove occupazioni studentesche).

Il voto su Rousseau: si può dire sì o no, non c’è l’astensione

Il segnale che serviva per la votazione su Rousseau, quella da cui dipende la nascita di un governo, è arrivato, sotto forma di superministero alla Transizione ecologica. Così oggi, dalle 10 alle 18 (quindi non nel consueto arco di 24 ore) gli iscritti dei Cinque Stelle decideranno sulla piattaforma web se appoggiare l’esecutivo dell’ex nemico Mario Draghi, rispondendo a un singolo quesito: “Sei d’accordo che il M5S sostenga un governo tecnico-politico, che preveda un super ministero della Transizione ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal M5S, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Draghi?”. Niente opzione del no sulla piattaforma, pure prevista nella prima bozza. E soprattutto niente astensione, invocata dai “ribelli” del Senato capeggiati da Barbara Lezzi e sostenuta anche da Alessandro Di Battista. Ieri Davide Casaleggio, il patron della piattaforma, ha provato fino all’ultimo a inserirla nel quesito. Ma il reggente Vito Crimi e Beppe Grillo hanno fatto muro, in un corpo a corpo durato ore. Per questo il voto, già rinviato rispetto alla prima convocazione (le 13 di ieri), è slittato ancora, a questa mattina. “Casaleggio ci ha fatto impazzire, insistendo su problemi burocratici e tecnici” sibilano dal M5S, dove da tempo è considerato un avversario.

Però alla fine eccola, la votazione. Rinviata da Grillo perché prima servivano rassicurazioni pubbliche da Draghi. Arrivate, ma non dal presidente incaricato a cui pure il Garante si era rivolto martedì notte in un video: “Ci dica cosa vuole fare”. L’ex Bce ha capito le esigenze del M5S lacerato, bisognoso di un trofeo per recuperare almeno un po’ di contrari. Però non voleva mostrarsi così sensibile alle richieste dei partiti, almeno non così e non ora. E allora ha fatto in modo che poco prima delle 19 lo dicesse la presidente del Wwf, Donatella Bianchi, appena uscita delle consultazioni a Montecitorio: “Draghi ci ha detto che ci sarà un ministero della Transizione ecologica”. Cioè la principale richiesta del Garante, quella di un superministero che si occupi di Ambiente accorpando le deleghe di tre dicasteri.

Anche se un omonimo Dipartimento già esiste nell’attuale ministero dell’Ambiente, come ha fatto notare ieri sera l’uscente Sergio Costa. Di certo Grillo aveva invocato il nuovo ministero nel video di martedì e lo aveva chiesto al presidente incaricato al tavolo delle consultazioni. Ieri mattina, aveva insistito con un post: “Un superministero così lo hanno Francia, Spagna, Svizzera, Costa Rica e altri Paesi. Mettiamo dei fiori nei nostri bazooka!”. Un appello al banchiere che non si decideva a parlare. Ma in giornata qualcosa si è mosso, grazie alla mediazione di Roberto Fico, il presidente della Camera che la settimana scorsa aveva preparato la telefonata tra Grillo e Draghi, rivelata dal Fatto. È stato lui a fare da pontiere in una mattinata abbastanza agitata, incrociando le rispettive richieste e cercando un punto di caduta (ma secondo l’Adnkronos ci sarebbe stato anche un contatto diretto tra i due). Così i grillini hanno potuto preparare quel voto che Grillo non avrebbe voluto. Ma era inevitabile, “altrimenti non avremmo retto la fronda del no” dicono vari big. Ancora forte, però. Il voto non potrà essere una formalità. Così ieri sera i big si sono esposti a favore di Draghi, a partire da Giuseppe Conte: “Se fossi iscritto a Rousseau voterei sì”. E poi Luigi Di Maio: “Capisco i dubbi, ma mi fido di Grillo”.

Invece Crimi rimarca: “Abbiamo ribadito a Draghi che il M5S non potrà sostenere l’attivazione del Mes, e che la riforma della prescrizione ha come soddisfacente punto d’incontro politico l’accordo raggiunto con il Pd e LeU, oltre il quale non andremo”. Paletti ufficialmente invalicabili. Poi c’è la partita dei ministeri. I 5Stelle ne chiedono tre, ma su questo Draghi non ha dato garanzie, a nessuno. Dal M5S dicono che Di Maio voglia restare alla Farnesina, e che Stefano Patuanelli possa traslocare dal Mise ai Rapporti con il Parlamento. E al superministero? Negli incontri con Draghi, Grillo l’ha detta così: “Per quel ruolo dobbiamo trovare il miglior nome possibile, perché sarà fondamentale per il Recovery Plan. Un tecnico, uno scienziato…”. Un nome da definire, pare.

Superministero ecologico. Ok di Draghi, Grillo spera di convincere gl’iscritti 5S

“Secondo le sue prerogative costituzionali, Mario Draghi porterà la lista dei ministri al presidente della Repubblica”. L’affermazione di Bruni Tabacci, letta in controluce, dice quello che i partiti a questo punto hanno capito: il premier incaricato il governo lo farà da solo, sceglierà lui i ministri, deciderà lui come riempire le varie caselle. Confrontandosi con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ma senza entrare nelle contrattazioni con i partiti. “No, grazie, non mi servono”, ha risposto, non a caso, a chi gli chiedeva se gli servissero delle rose di nomi. E così i Palazzi della politica brancolano nel buio, aspettando di capire come si chiuderà l’operazione. Mentre, dietro a una soddisfazione di facciata, si vede netto e chiaro il disappunto dei più di fronte al loro repentino ridimensionamento.

Ieri, per tutta la giornata, Montecitorio aspettava una dichiarazione di Draghi, alla fine delle consultazioni con le parti sociali. Nulla è arrivato da parte di uno che sa perfettamente che le parole sono politica e che usarle in giornate di passaggio può spostare gli equilibri. Draghi non interferisce con il ragionamento tormentato all’interno del Movimento 5 Stelle. Anche se trapela il fatto che farà il governo dopo il voto su Rousseau, anche in caso di astensione da parte di M5S. Ma il segnale che Beppe Grillo aspettava arriva per bocca della presidente del Wwf, Donatella Bianchi.

Il ministero della Transizione ecologica “dove le competenze ambientali saranno ulteriormente rafforzate”, ci sarà, dice lei, uscendo dalle consultazioni con Mario Draghi. Nella tarda mattinata di ieri, ci sarebbe stato un contatto che ha sbloccato la trattativa tra il premier incaricato e il fondatore del Movimento 5 Stelle.

Dunque, il superministero dovrebbe tenere insieme le deleghe di Sviluppo economico (senza la Comunicazione), Infrastrutture e Ambiente. Ma a chi andrà non è dato sapere, anche se si parla di un super tecnico.

La fase delle consultazioni, a ogni modo, si è conclusa ieri. Oggi sarà una giornata di lavoro e di riflessione, in attesa che maturi la decisione di andare al Colle, con la lista dei ministri. Potrebbe essere già domani sera o sabato. Ma intanto, i leader dei partiti si aspettano almeno di essere contattati per essere messi a parte delle decisioni.

Dopo il voto di Rousseau, Draghi farà il governo, anche con l’eventuale astensione dei Cinque Stelle. Qui finiscono le relative certezze. Per il resto, si va per supposizioni. Il premier incaricato andrà in Parlamento a inizio settimana. I partiti – per conto loro – continuano nel loro travaglio. Il Pd ha cercato di far passare all’ex presidente della Bce il proprio disagio rispetto a un esecutivo insieme alla Lega. Ma è ormai scontato che il Carroccio ci sarà. Per questo i dem ci tengono a mettere puntini sulle “i” più di principio che di sostanza.

“Noi a Draghi abbiamo detto che se si allarga di più il perimetro, non mettiamo veti, ma vanno precisati meglio i punti e chiariti meglio gli obiettivi e il cronoprogramma sulle cose che vogliamo fare”, ha ribadito ieri il vice segretario del Pd Andrea Orlando a Porta a Porta. Ripetendo quello che è il mantra che ripetono un po’ tutte le forze politiche: “Sta a Draghi valutare la compatibilità delle posizioni politiche tra le forze che hanno recepito l’appello del capo dello Stato”.

Oggi pomeriggio, Nicola Zingaretti riunisce la direzione: vuole ancora una volta un voto sulla linea, mentre sarebbe pronto ad attaccare frontalmente tutti quelli che in questi giorni hanno sconfessato le mosse della segreteria dopo averle, appunto, votate in direzione. Mezzo partito che critica la gestione della crisi, che chiede un congresso e mette in discussione l’amalgama, ovvero l’alleanza strutturale con M5S. Sullo sfondo, la competition per entrare al governo. Che se vede ufficialmente in lizza Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, contempla anche l’eventuale entrata di Nicola Zingaretti. Che lui ci stia pensando è dato per assodato. Ma al Nazareno ribadiscono che Salvini non può entrare. All’interessato non dispiacerebbe, anche per non essere spodestato dall’altro in pista, Giorgetti. Ma nessuno sa se davvero ci saranno ministri politici e quanti. Per dirla con fonti leghiste, in risposta all’ipotesi Salvini al governo “decide Draghi”. E lui lo sta ancora facendo.

Poche balle, dateci il Mes

Passi per l’idea geniale del competente Draghi di tenere le scuole aperte fino a luglio, che quando la lanciò l’incompetente Azzolina fu spernacchiata da tutti. Passi per i banchi a rotelle, monumenti allo spreco e dannosi alla salute quando li comprarono gl’incompetenti Conte, Azzolina e Arcuri, e ora orgoglio e vanto delle scuole dei gesuiti che fecero di SuperMario il competente che sappiamo. Passi per i famosi “ritardi sui vaccini” degl’incompetenti Conte, Speranza e Arcuri che han portato l’Italia al primo posto in Europa e agli elogi della competente Ursula. Però, sul Mes, spiacenti ma non possiamo transigere. Per un anno chiunque passasse per strada, fosse Nina Moric o Scalfarotto, Tina Cipollari o la Boschi, ci ha frantumato i santissimi con il grazioso omaggio da 36-37 miliardi che l’Europa voleva donarci e che noi, masochisti, non passavamo mai a ritirare per darla vinta agli scappati di casa grillini, all’incompetente Conte e ai brubru fasciolegameloniani. Tant’è che, a furia di insistere, alla fine ci eravamo quasi convinti.

Sole 24 Ore: “Gualtieri: senza Mes, tensioni di cassa”, “Lettera-appello dei sindaci: ‘Il governo chieda il Mes’”. Patuelli (Abi): “È indispensabile attivare il Mes”. Corriere: “Le Regioni spingono sul Mes”. Fontana (Corriere): “Mes, governo paralizzato da ideologia e illusioni”. Panebianco (Corriere): “Perché il Mes è scomparso dai radar politici?”. Mieli: “Alla fine Conte e M5S chiederanno il Mes”. Repubblica: “Pd e Renzi sul Mes: ‘Se l’avessimo chiesto oggi avremmo i soldi’”, “Il Mes non è una trappola”, “Ue in pressing su Roma per il Mes. Gentiloni: ‘Il bazooka serve tutto’”, “Il Tesoro spinge sul Mes”, “Il governo punta al Mes”, Bonanni (Rep): “L’Italia non può dire no al Mes”. Folli (Rep): “Il Mes è l’asso nella manica del Pd”, “Prorogare lo stato d’emergenza sanitario connesso al ritorno del Covid mal si concilia col rifiuto del Mes”, “Quei 37 miliardi diventano urgenti, le casse pubbliche languono, i 5S dovranno rivedere la loro posizione”, “Nel Mes la chiave dei nuovi scenari”.

Stampa: “Mes, ecco il piano Speranza”, “Pronto il piano per il Mes”, “Mes, l’ira di Zingaretti contro Conte”, “Conte si prepara a dire di sì al Mes”, “Di Maio apre: sul Mes si può trattare”. Giannini (Stampa): “Langue penosamente la trattativa tra Pd e M5S sui 36 miliardi del Mes… L’Uomo della Provvidenza direbbe che è l’ora delle scelte irrevocabili”. Veronica De Romanis (Stampa): “Col Mes più credibili”, “La Sanità rischia, ora il Mes”, “Quell’assurdo rifiuto del Mes”.

Messaggero: “Visco sferza Conte: ‘Sul Mes troppi pregiudizi, ci sono soltanto vantaggi’”, “L’Italia adesso punta al Mes”.

Giornale: “Il governo: niente Mes. Berlusconi: serve subito”, “Allarme Mes: senza il prestito il Paese è fallito”.

Claudia Fusani (Riformista): “I 5Stelle cedono al Pd che porta a casa il Mes”.

Foglio: “Perché sì Mes”, “La fase 3 non può funzionare senza i fondi del Mes subito”.

Domani: “Avremmo dovuto prendere i soldi del Mes”.

Sassoli: “L’Italia non rinuncia al Mes. È garanzia contro le crisi bancarie” (sic), “Il Mes è un’opportunità. Tasso insuperabile” (ma non era il tonno?). Gentiloni: “Cara Italia, è tempo di Mes”, “L’Italia prenda il Mes, conviene”. Zingaretti: “Il governo non può più tergiversare sul Mes, sul tavolo risorse mai viste”. Francesco Forte, detto Mezzolitro: “Servizi sanitari scolastici e liquidità per lo Stato: perché il Mes è decisivo”, “La Caporetto dei conti viene da lontano. E serve il Mes”. Juncker, l’Altro Mezzo: “Il Mes può aiutare l’Italia”. Delrio: “Conte decida sul Mes”. Enrico Letta: “Adesso prendiamo il Mes”, “Mes e piano green: è l’ora della svolta o vincerà l’egoismo”. Monti: “La via possibile per il Mes”. Toti: “Sul Mes i governatori di destra ci sono”. Speranza: “Soldi subito col Mes”. Bonaccini: “Rischiamo uno scontro sociale, nessuno si opponga ai miliardi del Mes”, “Lunare dire no a 36 miliardi”. Bonino: “È solo un tabù ideologico, follia non usare il Mes”, “Conte ha bloccato il Mes per pagare il pizzo al M5S”. Cottarelli: “L’Italia prenda i fondi del Mes”. Marattin: “Ragioni per cui l’Italia non potrà che dire sì al Mes”. Bellanova: “Sì al Mes, anche coi voti azzurri”. Scalfarotto: “Alla Puglia serve il sì al Mes” (sic). Tria: “I fondi del Mes vanno usati subito”.

A levarci i dubbi residui provvidero i nostri spiriti guida Matteo e Maria Elena nei giorni caldi della crisi. Lui: “Qual è il punto decisivo per la rottura? Tanti. Ma su tutti il Mes” (15.1), “Non voterò mai un governo che di fronte a 80mila morti non prende il Mes” (17.1). Lei: “Iv ha chiesto al governo di prendere il Mes, non di prendere Meb” (12.1). Ora si scopre che Draghi il Mes non lo vuole. E i giornaloni preparano la ritirata: il Mes – dicono restando seri – non serve più. E Meb fa la gnorri: “Abbiamo sempre detto che il Mes non era per noi imprescindibile. Se si possono ottenere più soldi per la Sanità a un tasso migliore, non siamo innamorati del Mes. Prima di Draghi, era lo strumento più conveniente”. Ah ecco, avanti Mario e dopo Mario. Ma è tardi. Ci avete messo l’acquolina in bocca e adesso aspettiamo il bocconcino servito in tavola. Sennò potremmo sospettare che quelli di prima non fossero incompetenti o quelli di adesso non siano competenti. Quindi poche balle: ce l’avete promesso e ora ce lo date. Punto. E Mes.

“Wonder Woman 1984” si scopre femminista, ma la vera supereroina è l’alter ego Diana Prince

Wonder Woman 1984 arriva venerdì in digitale su una teoria di piattaforme, da Prime Video a Sky Primafila. Le sale sono ancora – si punta a una riapertura a ridosso di Pasqua – chiuse, per la nuova avventura di Diana Prince, ormai incalzata dall’homevideo statunitense, non si poteva fare altrimenti. È il nuovo cinema pandemico, in America #WW84 è approdato a Natale in sala e sul servizio streaming di Warner Bros. Hbo Max, e tocca abituarvisi. Senza nulla togliere al grande schermo, l’importante alla fine sono sempre i film: brutti o belli.

Questo, co-scritto e diretto da Patty Jenkins, sta nel mezzo, dissociato tra un buon piano ravvicinato di relazioni, psicologie e uno stracco campo lungo di azioni Cgi. Se Gal Gadot si conferma splendida e indomita, per la secchiona sfigata Barbara Minerva, e quindi la nemesi Cheetah, salutiamo la sempre brava, e sottovalutata, Kristen Wiig. Al netto di dialoghi non troppo premianti, con versatilità, autoironia e charme dà del filo da torcere alla padrona di casa, che pure ha presenza scenica da vendere: una bella lotta, cui il versante fracassone risulta indifferente, se non controproducente. New entry il villain Pedro Pascal che dà a Max Lord riverberi esplicitamente trumpiani: “Non sono un truffatore, ma una stimata personalità televisiva”, tornano Chris Pine (Steve Trevor), Robin Wright (Antiope) e Connie Nielsen (Hippolyta), mentre la Prima guerra mondiale lascia spazio, e purtroppo il tempo che trova, agli anni 80 reaganiani, in cui i sogni son desideri e i desideri Dreamstone, una pietra che permette di esaudirne uno a testa. Diana sceglierà di riabbracciare il suo Steve, Barbara di scoprirsi bomba sexy, ma a unirle, oltre all’impiego allo Smithsonian Museum, è la presa in carico della condizione femminile del XX secolo, molestie maschili comprese.

Invero, la minaccia principale per il women’s empowerment di Jenkins e Gadot sta nella stessa creatura marchiata Dc e partorita da William Moulton Marston: è palese che funzioni, come il film, più quale Diana che Wonder Woman, più da eroina che da supereroina, ma anziché esaltarne il traguardo ideologico si stigmatizza il difetto estetico, si emenda la colpa industriale. Negli universi cinefumettistici, par di capire, funziona ancora così, e lo zampino di Zack Snyder, qui produttore e alle prese con Wonder Woman già nel rumoroso Justice League, è sensibile, ahinoi. Quando nel prologo la piccola Diana prende una scorciatoia in una gara, la zia Antiope la cazzia: “Nessun vero eroe è nato dalla menzogna”. Giusto, e dagli effetti speciali?

“Piccola rinascita” a Sanremo nonostante i noti rottamatori

A meno di un mese dall’inizio Festival più travagliato di sempre, la conferenza stampa che abitualmente si svolge al Casinò, ieri si è tenuta su una piattaforma web: non c’è nulla di abituale in questo Sanremo 71. Non si può dar torto al direttore artistico Amadeus quando parla della necessità di trovare “un punto di equilibrio tra le 75 pagine di protocollo sanitario e lo show”. Nelle autunnali intenzioni di Viale Mazzini avrebbe dovuto essere l’edizione della rinascita. “Ma – ha spiegato il direttore di Rai1 Stefano Coletta – questo rito collettivo che ci apprestiamo a mettere in scena sarà il Festival della consapevolezza”. O almeno, ha precisato il direttore artistico, “di piccola rinascita. Abbiamo il dovere di dare al pubblico cinque serate di serenità”.

Fronte del virus. La Città dei fiori, notizia degli ultimi giorni, è interessata da un incremento dei contagi: oltre a due professori di una scuola, tra il confine italo-francese e Sanremo l’incidenza si aggira su 4,5 casi ogni diecimila abitanti e la pressione sul Covid hospital di Sanremo è cresciuta significativamente. Per questo la Regione ha deciso di anticipare la campagna vaccinale per i frontalieri under 55. È possibile che vengano decise misure restrittive per le prossime due settimane, il che potrebbe addirittura essere una buona cosa, perché consentirebbe di avere numeri bassi nei giorni del Festival. Lunedì, il prefetto di Sanremo aveva spiegato che la gestione della città nel periodo di maggiore afflusso di persone è un lavoro in itinere: “Abbiamo individuato quali possono essere alcune criticità, ma non c’è nulla di deciso. Abbiamo anche valutato che non sarà necessario emettere provvedimenti drastici come zone rosse, chiusure e via dicendo”. Vedremo se sarà davvero possibile. Certo è che l’assenza di divieti espliciti potrebbe incoraggiare l’entusiasmo dei fan. Si registra intanto un mini caso Covid: un tecnico che aveva lavorato alle prove del Festival negli studi De Paolis di Roma è risultato positivo al tampone. “Per fortuna le prove erano già finite, abbiamo attivato il tracing per chi era entrato in contatto. Per precauzione abbiamo rinviato la partenza di alcuni tecnici per Sanremo”, ha spiegato il vicedirettore di Rai1, Claudio Fasulo. Che ha anche chiarito: se un cantante risulterà positivo, è previsto il ritiro dalla gara. Mentre se dovesse accadere ad Amadeus, Fiorello ha messo in chiaro che “dirigere l’orchestra” non è mestiere suo: “Si preparino Carlo Conti e Fabio Fazio”.

Ospiti con tributi. Sul palco vedremo i Negramaro e Alessandra Amoroso e un omaggio a Ornella Vanoni. Non hanno invece ancora sciolto la riserva altri due grandi nomi, Adriano Celentano e Roberto Benigni. Tra i desideri di Amadeus c’è anche Alessia Bonari, l’infermiera-simbolo di questo orribile anno, la cui foto ha fatto il giro del mondo. Fiorello ha promesso un omaggio a Little Tony (che ieri avrebbe compiuto 80 anni) “con capelli a banana e giacca con le frange”. Nel primo promo del Festival, il comico si è presentato con una “faccia di cortesia”, quella del politico toscano “bravo a fare le crisi”, di cui non ha bisogno di fare il nome: “Dal 2 al 6 marzo mettiamo in crisi Sanremo”, #ignorasanremo. Non ci saranno i cinque collegamenti (idea dello sponsor unico Tim) con i teatri di cui si era vagheggiato. Motivazione ufficiale: i teatri sono chiusi, ha detto Amadeus, e dunque tanta solidarietà ma niente collegamenti. Si potrebbero fare senza pubblico, penserete voi: diciamo che la probabile uscita di scena di sponsor “politici” come il ministro uscente Dario Franceschini non aiuta.

Congiunti e conduttori. Amadeus ha risposto a una domanda sulla moglie Giovanna Civitillo, chiamata con Giovanni Vernia e Valeria Geraci a condurre il Primafestival, la striscia quotidiana che precede la serata all’Ariston. La cosa crea imbarazzi? Pare di no, è successo tutto praticamente a sua insaputa. “Questo è un lavoro di gruppo, fortunatamente io non mi occupo di tutto. Del Primafestival si occupano Fasulo e Lucio Presta (che è anche il manager di Amadeus, ndr). Mi è stato comunicato tre giorni fa che Rai Pubblicità e lo sponsor Suzuki desideravano Giovanna. La cosa mi ha fatto piacere. Giovanna ha una vita professionale indipendente da me. Io sono contento se Rai Pubblicità e lo sponsor hanno pensato a lei”. Questa la versione di Ama, che alla fine si è lasciato andare a un commento (gaffe o pizzino?): “Ci si scandalizza della moglie e non dell’amante”.

È africano il poeta maledetto

Siamo abituati a pensare ai poeti maledetti a partire dalla famosa antologia di Paul Verlaine, intitolata Les poètes maudits, in cui figuravano Tristan Corbière, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, Marceline Desbordes-Valmore, Villiers de l’Isle-Adam, compreso il curatore con lo pseudonimo di Pauvre Lélian, tutti poeti rigorosamente francesi.

Più tardi, nei primi decenni del Novecento, un poeta tunisino di origine italiana, Mario Scalesi, pubblicò postumo, nel Ventitré del secolo scorso, un libro intitolato Le poesie di un maledetto, iniziando la letteratura africana di espressione francese.

Scalesi (1892-1922) era nato a Tunisi da genitori emigrati di origine italiana. A cinque anni cadde dalle scale di casa sua, danneggiando la colonna vertebrale. Abbandonò gli studi per fare il contabile, collaborando con le più importanti riviste tunisine. Morì nel manicomio di Palermo a soli 30 anni.

Ora Le poesie di un maledetto sono state tradotte in italiano con la cura di Salvatore Mugno per la casa editrice Transeuropa: la raccolta sarà in libreria da marzo.

A quasi un secolo dalla morte del poeta tunisino, Mugno ben ricostruisce la sua fortuna critica, che è stata strisciante fino a oggi, in Francia ma anche in Italia. Già nella prima poesia del volumetto, intitolata Lapidazione, il poeta scrive: “Questo libro, incurante della gloria, estraneo ai giochi cerebrali… trabocca di funebri versi,/ questi non gridano che la rivolta/ che sale da un vita tenebrosa e non da freddo spleen premeditato./ Ammalato ho raccontato i miei anni, gli stessi di un giovane paria in lacrime…/ schernito dai tormenti innumerevoli, vituperato come un appestato/, o fratelli che m’avete maledetto…”.

Il giovane Scalesi ingobbito fu bullizzato dagli studenti e dai suoi stessi compagni di gioco, e perfino lapidato. Nella poesia L’incidente racconta la sua caduta dalle scale: “Era Natale. L’inverno africano,/ quell’inverno simile ad aprile, sbocciava nell’aria balsamica/ sotto le indorature del sole./ Poco illuminata era la scala/ quando il mio piede posò nel vuoto”. Seguono due splendidi ritratti dei suoi genitori e quello del bacio alla sorellina defunta.

Sfilano, poi, i desideri verso fanciulle che lo respingono, lui che è amante della Vita: “Ciò che bramavo senza sosta/ era la tua tenerezza,/ non certo la tua carne”. O come vorrebbe essere il Nostro un puro spirito, cancellando la sua carne ferita, o come vorrebbe amare senza toccare la pelle delle fanciulle in fiore.

Il sogno lo ispira: “Ho tanto sognato di te che ho perduto la tua realtà”, scriveva il surrealista Robert Desnos. Ci sono anche versi dedicati a Gabriele D’Annunzio, in cui dice che la poesia non è più quella, “la lira è rotta”. Non amando il poetichese dei parnassiani, si avvicina a Charles Baudelaire e a Corbière, più che a Rimbaud. Il suo maledettismo – che lo spingeva ad accusare la Natura – era intriso dei versi del nostro Giacomo Leopardi. E i suoi amori sono “gialli” come quelli di Corbière, e nascono dal rifiuto.

Anche i poveri di Scalesi somigliano a quelli bretoni. Consiglio Le poesie di un maledetto ai giovani poeti di oggi che di multietnicismo vorrebbero nutrirsi.

Da Razzi e Maglie a Verdini e Sgarbi: i “draghetti” minori

L’afflato universale che avvolge Mario Draghi (sempre sia lodato) nella sua epifania politica è un omaggio continuo alla fantasia. Non solo Beppe Grillo e Silvio B. che s’incrociano a Montecitorio, per citare i “draghetti” maggiori. Ieri mattina, nella piazza davanti alla Camera, è ricomparso Diego Volpe Pasini, primo teorico del patto renzusconiano (il piano della “Rosa tricolore”) e guru di Forza Italia per qualche tempo. L’ex azzurro si è presentato come leader dei ristoratori romani e ha manifestato a favore di Draghi for president. Meraviglioso.

Così come emoziona Maria Giovanna Maglie, mutante craxian-trumpiana, che sul Foglio ha iscritto San Mario alla confraternita sovranista: “Entrare al governo è la mossa più sovranista che Salvini possa fare. La più patriottica”.

È la galleria spettacolare dei “draghetti” minori, che seguono in fila indiana i generali dell’ammucchiata prossima ventura. E ognuno ritaglia e cuce il Draghi desiderato. Sul Riformista della ditta Sansonetti & Romeo (Alfredo, quello di Consip eccetera eccetera), laddove il sogno è un mondo senza magistrati e senza giustizia, l’innocentista Tiziana Maiolo si appella a Draghi e a quella che già ritiene la Guardasigilli: Marta Cartabia, presidente emerito della Consulta. La preghiera è speranza e programma allo stesso tempo: “Arrestate di meno”.

Draghi sovranista e garantista. E munifico. Alessandro Sallusti sul Giornale della Famiglia di B. ha condotto un’intensa campagna per l’economista aduso alle nebbie teutoniche. Motivo: “Draghi non è Monti. Ci sono i soldi dell’Ue, non deve tagliare, deve spendere”. È il Recovery Plan trasfigurato in un Bengodi grondante banconote per 209 miliardi di euro. Anche per questo, domenica sul Tempo degli Angelucci, Luigi Bisignani, addetto ai fornelli delle cucine ministeriali e clientelari di Gianni Letta, ha dato il benvenuto a San Mario. I “draghetti minori” sono soprattutto berlusconiani, si è capito. Un plotone nutrito. Guido Bertolaso, altro lettiano controverso, vorrebbe prendere il posto di Domenico Arcuri nella lotta al virus, sospinto da Lega e Forza Italia. E Denis Verdini, oggi ai domiciliari, già nel dicembre 2019 vaticinava su Draghi con il genero Matteo Salvini e l’amico allora renziano Luca Lotti.

A destra, l’entusiasmo draghiano è più virulento della variante inglese del Covid: Renato Brunetta, Nicola Porro e Mario Giordano, Maurizio Belpietro e Vittorio Feltri. L’altra sera, proprio da Porro, l’imprenditore Renzo Rosso, quello dei jeans, ha motivato così il suo draghismo: “In Italia c’è troppa democrazia”.

Draghi sovranista, garantista, munifico e autoritario. Non c’è argine a questo afflato. “Tutto caldo dell’afflato dell’ammirazione”, poetava Carducci. Persino Arturo Artom, altro imprenditore, stavolta vicino a Casaleggio, si è allineato: “Draghi è l’ultima occasione per il M5S”.

Quando tracima, però l’emozione tradisce. Uscendo dalle consultazioni, l’ex alfaniano Maurizio Lupi, che si dimise da ministro per un Rolex donato a suo figlio da un ingegnere, ha detto: “Abbiamo riconfermato al presidente incaricato Sgarbi…”. E Sgarbi rise, accanto a lui.

L’ultima parola va all’eterno Antonio Razzi: “Draghi è un’ottima scelta”. San Mario Responsabile. Il catalogo è completo o quasi.

Mogadiscio, tutti contro Farmajo

Non si fermano le proteste contro il presidente Mohamed Abdillahi “Farmajo” nella martoriata Somalia, la nazione fallita del Corno d’Africa. Dopo decenni di guerra civile, la Somalia è schiacciata dalla morsa del terrorismo islamico di al-Shabaab che ne impedisce la stabilizzazione. E ora la posizione del presidente uscente rischia di renderla ancora più instabile

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha convocato una riunione di emergenza mentre a Mogadiscio si svolgono nuove manifestazioni per chiedere che il presidente Mohamed Abdillahi Farmajo lasci l’incarico, scaduto due giorni fa. I manifestanti vogliono inoltre che l’Onu riconosca i crimini commessi da Farmajo. I partiti dell’opposizione intanto hanno comunicato che non riconoscono più l’autorità del presidente. Il suo mandato è scaduto senza che venisse trovato un accordo sul percorso che dovrebbe portare la Somalia alle elezioni. L’incertezza incombe dunque sul Corno d’Africa dopo lo slittamento delle elezioni naturalmente previste con la scadenza del mandato del presidente l’8 febbraio. Le consultazioni di quest’anno sono una tappa decisiva per tentare di riportare un po’ di speranza nella popolazione non solo somala. La condotta e i risultati del voto avranno un effetto a catena sulle relazioni sociali, politiche ed economiche nell’intero Corno d’Africa. L’esito di questa crisi è considerato cruciale perchè determinerà anche ciò che accadrà quando le forze di pace dell’AMISOM dell’Unione africana si ritireranno entro l’anno e la sicurezza del paese ricadrà solo sotto la responsabilità delle deboli forze armate somale. I militari e la polizia somala hanno dimostrato di non essere in grado di difendersi da sole dagli attacchi terroristici di Al-Shabaab. Alcuni aspiranti dell’opposizione alla carica di presidente vedono il capo dello stato in carica, noto con il soprannome Farmajo, come un pericolo esistenziale per la Somalia. Accusano infatti il presidente di sabotare deliberatamente il processo elettorale per assicurarsi la permanenza al potere. L’attuale impasse è stata innescata dallo stato federale del Jubaland e dalla regione semiautonoma del Puntland dopo che entrambi si sono rifiutati di firmare un patto che introduceva un nuovo sistema elettorale. James Swan, l’inviato delle Nazioni Unite è riuscito a risolvere lo stallo, con Jubaland e Puntland che hanno concesso di eleggere membri al comitato elettorale.

I presidenti di Jubaland e Puntland sono convinti che Farmajo stia alimentando il nazionalismo per distruggere la struttura federale dello Stato somalo.

L’impeachment prosegue, ma Trump preferisce il golf

Le inchieste gli piovono addosso da ogni angolo: l’impeachment in Senato, la manipolazione dell’esito delle elezioni in Georgia, le tasse non pagate e altre – sospette – frodi a New York. Ma Donald Trump si mostra tranquillo: il magnate ex presidente è sicuro che i senatori repubblicani non lo abbandoneranno e che non ci saranno i voti per condannarlo nel processo da ieri in corso davanti al Senato. Se passa lo scoglio dell’impeachment, come già fece un anno fa, Trump potrà programmare con maggiori certezze il suo futuro. Intanto, dice, “con i numeri che ho posso andare a giocare a golf tranquillo”. Nell’aula del Senato, il processo s’è aperto con un dibattito sulla costituzionalità del procedimento, che i legali del magnate con- testano perché Trump non è più presidente. L’esito del voto era scontato – la causa andrà avanti –, ma l’andamento della discussione conferma che la fronda repubblicana è limitata: per una condanna, ci vorranno 17 defezioni su 50 senatori, oltre un terzo. Il 26 gennaio, alla prova generale di questo giudizio, i repubblicani anti-Trump furono cinque; la Cnn ne ipotizza sette al massimo.

Per l’interdizione dai pubblici uffici, che impedirebbe a Trump di ricandidarsi nel 2024, basterebbe invece la maggioranza semplice. La difesa bolla il processo come una montatura politica, L’accusa, condotta da Jamie Raskin, deputato del Maryland, mostra le scene dell’assalto al Congresso il 6 gennaio e replica: “È il più grave crimine costituzionale mai commesso da un presidente.” “Se questo non è un reato e un misfatto degno di impeachment in base alla nostra Costituzione non vedo cos’altro potrebbe esserlo”. Nell’aula del Senato sono state trasmesse alcune crude immagini dell’assalto al Congresso, suscitando diverse emozioni fra coloro che quel giorno erano assediati dai “patrioti” di Trump. Sullo schermo anche una clip dell’ex presidente che rivolgendosi ai rivoltosi affermava: “Vi amo, siete veramente speciali”.

“Donald Trump ha chia- ramente violato il suo giuramento da presidente”, ha aggiunto Raskin, convinto che le responsabilità del repubblicano siano palesi. È la prima volta nella storia che un presidente Usa subisce due processi per impeachment: il primo un anno fa, per il Kievgate; questo, ora, per avere istigato l’attacco al Campidoglio. Le speranze dei Democratici di spuntarla sono basate sul fatto di disporre – dice Raskin – di “prove concrete e solide.” La linea di difesa iniziale degli avvocati di Trump, Bruce Castor e David Schoen, è che il Senato non ha il potere di perseguire il loro cliente, divenuto ormai un privato cittadino. La Costituzione non dice esplicitamente che il Senato può processare un ex funzionario pubblico, ma molti giuristi ritengono che il procedimento sia legittimo, citando precedenti del XIX secolo: il più noto è quello dell’ex Segretario alla Guerra del presidente Ulysses Grant.

Archiviata l’eccezione di costituzionalità, da oggi le parti avranno sino a 16 ore a testa per illustrare le loro tesi. Un duello a colpi di video: l’accusa userà quelli del comizio di Trump il 6 gennaio e dell’assalto che ne seguì, la difesa replicherà con filmati di vivaci comizi di politici democratici. Intanto, l’ufficio del segretario dello Stato della Georgia ha aperto un’indagine formale sui tentativi di Trump di ribaltare il risultato delle elezioni: l’ancora presidente esercitò pressioni sul segretario di Stato Brad Raffensperger perché gli trovasse “abbastanza suffragi” per rovesciare l’esito del voto.

Buone notizie, invece, per uno della ‘banda Trump’ graziato dal magnate: Paul Manafort, manager della campagna 2016, non sarà perseguito dai magistrati di New York per gli stessi reati già contestatigli da quelli federali, coperti dal perdono presidenziale.