200 dollari a dose: così l’élite si vaccina, l’altro Brasile crepa

Sui principali quotidiani online brasiliani la pandemia è quasi assente. Al massimo si pubblica uno studio sulla depressione sorta dalla lunga convivenza con il virus, convivenza che durerà almeno finché le vaccinazioni non produrranno quell’immunità di gregge necessaria a debellarlo. In compenso – sostiene l’articolo de Folha di S. Paulo – la gente si scopre più solidale. Non tutti. Tra coloro che il coronavirus ha reso più altruisti in Brasile c’è da depennare gli iscritti alla lista, sempre più lunga, del vaccino d’élite. Sì, perché mentre il Paese si conferma il secondo al mondo per vite umane perse – 230 mila decessi – nonché terreno di nascita di due delle varianti più dure del Covid, tanto che a Manaus, dopo la mattanza della prima ondata è arrivata l’ecatombe del B.1.1.248, di dosi vaccinali ne sono arrivate 13,9 milioni per 210 milioni di abitanti, e la copertura è dell’1% dal 18 gennaio.

La responsabilità è del presidente Jair Bolsonaro, prima negazionista del virus, poi incapace di arginarlo, infine pessimo gestore del piano di immunizzazione, tanto da valergli le richieste di impeachment da parte del suo stesso partito. Così c’è chi fa come il manager Eduardo Menga e sua moglie, che nel Paese più diseguale dell’America Latina, paga 200 dollari a dose per vaccinarsi prima degli altri, grazie a un accordo della catena di cliniche private che mette in lista i ricchi. È la versione snob dei salta-fila. Privilegiati brasiliani che “senza togliere nulla al sistema pubblico”, come spiega Eduardo all’Ap, si immunizza dal Covid prima di tutti. “Potrebbe essere un’alternativa, e chi ne ha la possibilità dovrebbe coglierla”, chiosa il manager che da San Paolo si è trasferito in campagna a tele-lavorare. D’altra parte “la pandemia rende la disuguaglianza del Brasile ancora più evidente, perché se il virus non va per classi sociali, la cura sì”, spiega il professore di Antropologia all’Università di Notre Dame, Roberto DaMatta all’Ap. E i vaccini “privati” sono solo l’ultimo passo, dopo il mercato nero dell’ossigeno o il caso, portato alla luce proprio da DaMatta, di un giudice che si è rifiutato di eseguire l’ordine di un poliziotto di indossare la mascherina, anzi, ha chiamato il capo della sicurezza dello stato per protestare e ha strappato la multa di 20 dollari. Per non parlare delle manovre dei dipendenti della Corte Suprema per essere inclusi nelle liste dei prioritari insieme agli operatori sanitari e che avendo ricevuto un no come risposta, hanno provato a tenere 7mila dosi di siero per sé e le proprie famiglie dal laboratorio statale che produrrà AstraZeneca. “È ormai normalizzato e accettato che mentre i poveri e i neri muoiono di Covid senza che questo provochi alcuna pressione sul governo, i benestanti si organizzano per ricevere il vaccino”, conclude DaMatta. Bolsonaro ha dichiarato che per immunizzare la popolazione ci vorranno 16 mesi, e per gli under 65 non se ne parla di ricevere la dose prima della fine dell’anno. Da qui l’ultimo passo: i dirigenti dell’associazione brasiliana delle cliniche private – 30 mila in tutto il Paese – hanno negoziato con la società farmaceutica Bharat Biotech per aggiudicarsi Covaxin. E la lista d’attesa è già lunga, ancora prima dell’approvazione del vaccino, sulla quale non sembrano però esserci dubbi, visto che l’associazione dei giudici dello Stato di Rio Grande do Sul ha chiesto ai propri membri se fossero interessati a entrare nel sistema delle cliniche. Potrebbe rivelarsi “non soltanto un problema etico, ma pratico”, spiega ad Ap Gonzalo Vecina, capo dell’agenzia sanitaria brasiliana dal 1999 al 2003.

“Se questa storia va avanti, avremo due file: quella di chi può pagare 200 dollari e potrà vaccinarsi la prossima settimana, e un’altra di chi non può permetterselo che non scorrerà per mesi”. Un controsenso perché “quello che bisogna capire è che la pandemia non avrà fine finché non sarà finita per tutti”, conclude. Il 26 gennaio, Bolsonaro ha dichiarato di aver firmato la petizione di un gruppo di dirigenti brasiliani per ottenere 33 milioni di dosi da AstraZeneca: metà per loro e metà per il sistema sanitario. Tra i sottoscrittori ci sono 11 società più importanti del Paese, da Petrobas, al produttore di acciaio Gerdau, all’operatore telefonico Oi. “Un modo per rilanciare l’economia”, ha commentato il presidente, appoggiato dal ministro dell’Economia, Paulo Guedes. AstraZeneca si è rifiutata di assecondare la richiesta: nessuna corsia preferenziale. A schierarsi contro le manovre delle élite è stato finanche l’ex governatore della Banca centrale del Brasile, Antonio Fraga. “C’è bisogno di uno sforzo coordinato per rispettare le categorie a rischio”.

Il testimone: “So chi uccise David Rossi”

Caso David Rossi, terzo atto. Nuove rivelazioni sulla morte del manager del Monte dei Paschi potrebbero portare alla riapertura di una nuova inchiesta per omicidio (sarebbe la terza): “Lo ha ucciso un uomo albanese che vive a Milano insieme a due complici – riferisce un testimone – Il movente del delitto sono fatti di cui era a conoscenza riguardanti lo Ior (la banca vaticana). Sapeva di festini a base di cocaina, con politici e magistrati, vi aveva partecipato, erano presenti ragazze minorenni provenienti dalla Romania. In una di queste occasioni, sull’Argentario, fu picchiato perché non aveva portato alcuni documenti che gli erano stati chiesti”. David Rossi precipita dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013. Mps in quel momento è nel pieno della bufera giudiziaria. Per due volte la Procura di Siena ha archiviato le vicenda come un suicidio, tesi cui la famiglia non ha mai creduto.

L’ombra dei depistaggi, e l’ipotesi di ricatti hard a magistrati, aveva portato a un’ulteriore indagine della Procura di Genova, anch’essa archiviata poche settimane fa. A rimandare gli atti ai pm toscani, a oltre sette anni dai fatti, è adesso è il gip ligure Franca Borzone: “Le dichiarazioni relative alla morte di Rossi, su cui è stato aperto un procedimento penale, e nel cui ambito andrà valutata la riapertura delle caso. Le indagini andranno svolte dalla Procura di Siena”. Il testimone è un ex escort, si chiama William Villanova Correa, ha 27 anni, e sta scontando vent’anni per l’omicidio di una giovane prostituta, Lucelly Molina Camargo. Delle sue rivelazioni finora erano trapelati solo riferimenti a presunti incontri hard. È la prima volta che dal suo verbale, inedito, emergono riferimenti al presunto omicidio di Rossi: “Se volete indagare sulla sua morte dovete partire dall’amante della persona che ho ucciso, un dirigente Mps. È una barzelletta che si è ammazzato”. L’interrogatorio si svolge il 21 dicembre 2018 nel penitenziario di Massa, di fronte al pm Niccolò Ludovici. Ulteriori elementi sono stati aggiunti il 24 gennaio 2019 dopo il trasferimento a Volterra: “Le cose che so non mi fanno stare bene”. “Conosce chi lo ha ucciso?”, chiede il pm. “Sì, era il mio fidanzatino. Mi disse che aveva un lavoretto da fare, era un dirigente di banca, e che erano in tre”. Incalzato dal magistrato, il testimone fa anche un cognome. Ma si rifiuta di andare oltre. “Temo di essere ucciso”.

Villanova, precisa la sua educatrice, è un soggetto “fragile” e il giudice mette in guardia da un possibile “protagonismo narcisistico”. La polizia non ha trovato riscontri nei suoi computer. La sua credibilità, insomma, andrà vagliata. Ma al provvedimento del gip, potrebbe aggiungersi un’istanza degli avvocati della famiglia, Mario Pirani e Carmelo Miceli. Decisi a chiarire se la pista ha è solida o se si tratta di dichiarazioni senza riscontro, che non fanno che riaprire una ferita dolorosa.

Crisi Mps, il 2021 in perdita. Dubbi dei revisori sui conti

Giornata campale quella di oggi per le sorti del Monte dei Paschi di Siena. Alle 9 stamane l’amministratore delegato Guido Bastianini e il direttore finanziario Giuseppe Sica presenteranno agli analisti i risultati di bilancio del 2020 varati ieri sera dal cda della banca. I conti certificheranno la dimensione del capitale che il Monte dovrà chiedere a breve agli azionisti. Secondo indiscrezioni, entro il primo trimestre Rocca Salimbeni avrà un deficit di capitale di almeno 300 milioni che potrebbe salire a un miliardo e mezzo entro fine anno, a fronte di una capitalizzazione attuale di poco più di 1,3 miliardi.

Il tema è estremamente caldo perché PalazzoChigi il 18 ottobre ha firmato il decreto per avviare il percorso di uscita del Tesoro dall’azionariato di Mps, di cui ha i due terzi del capitale acquisito nel salvataggio pubblico del 2017, e che in base ai tempi concordati con la Commissione Ue andrà concluso entro metà 2022, quando sarà approvato il bilancio 2021 previsto in perdita, secondo l’ultimo aggiornamento del piano industriale. Ma è difficile trovare azionisti ed eventuali partner per un istituto che registra solo perdite dal 2011 e negli anni scorsi ha già bruciato una raffica di aumenti di capitale

La questione del rafforzamento patrimoniale è esiziale. Il 6 febbraio Repubblica aveva indicato in 500 milioni l’ammontare di un prestito subordinato da emettere “per rimpolpare almeno in parte il capitale entro febbraio e consentire la ‘continuità aziendale’ malgrado la forte perdita dei conti 2020, che il mercato stima in 1,5 miliardi”. Dopo la richiesta della Consob, Mps l’8 febbraio ha dovuto diffondere una nota nella quale ha smentito l’emissione di un bond subordinato e ha però confermato l’interesse del fondo americano Apollo che “ha richiesto accesso alla data room” per verificare la situazione del Monte. Silenzio sui dubbi dei revisori dei conti di Pwc.

Le indiscrezioni hanno avuto l’effetto di far decollare le azioni in Borsa. Da giovedì hanno segnato un rialzo del 28 per cento. Il 28 gennaio il cda di Mps ha approvato un “capital plan” da presentare alla Banca centrale europea come richiesto dalla Bce il 28 dicembre 2020 riguardo ai requisiti patrimoniali: “Nel caso in cui la realizzazione di una soluzione strutturale non dovesse avvenire in un orizzonte di breve/medio termine, il capital plan prevede un rafforzamento patrimoniale di 2,5 miliardi che, se realizzato, è previsto avvenire a condizioni di mercato e con la partecipazione pro-quota dello Stato italiano. Il rafforzamento patrimoniale è soggetto all’approvazione degli azionisti”. Ma in una lettera inviata alla Consob e ai revisori dei conti di Pwc il 7 febbraio il fondo di investimento Bluebell Partners, guidato da Giuseppe Bivona, ha scritto che “sarebbe del tutto assurdo” ipotizzare che un revisore possa approvare il bilancio “in regime di continuità aziendale sapendo che esiste un gravissimo shortfall di capitale senza che l’emittente abbia prima dimostrato di aver ricevuto un impegno a fermo e irrevocabile da parte dei soci di ricapitalizzare la banca”.

La questione Mps torna così sul tavolo di Mario Draghi. Dopo l’autorizzazione alla fusione con AntonVeneta firmata nel 2007 come governatore della Banca d’Italia, ora dovrà risolvere definitivamente il problema della Banca come premier. Rumors su una possibile operazione con Unicredit (o Banco Bpm), previo regalo pubblico, si rincorrono da mesi.

La prescrizionenon piace all’Ue

Molti di coloro che vorrebbero il ritorno alla prescrizione che continua a decorrere anche dopo una condanna in primo grado si dichiarano europeisti, ma evidentemente ignorano la ben diversa posizione dell’Unione europea sulla questione.

La Corte di giustizia dell’Unione europea (grande sezione), con sentenza 8 settembre 2015, aveva ritenuto che la previgente prescrizione italiana fosse in contrasto con l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).

La normativa italiana prevede un termine di prescrizione il cui decorso può essere interrotto dal compimento di determinati atti processuali. Dopo l’interruzione il termine ricomincia a decorrere, ma complessivamente non può superare un quarto del termine massimo. Ad esempio, se un reato è punito con una pena non inferiore a sei anni di reclusione, la prescrizione è di sei anni che decorrono dalla commissione del reato. Se viene compiuto un atto interruttivo (ad esempio l’interrogatorio dell’imputato) i sei anni ricominciano a decorrere da tale ultimo anno, ma il termine complessivo non può superare sette anni e sei mesi.

La Corte di giustizia Ue aveva deciso che un sistema simile pregiudicava la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea come in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva). Di conseguenza con la sentenza citata (chiamata Taricco) la Corte Ue aveva stabilito che i giudici nazionali dovessero disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui poneva un limite di un quarto alla proroga del termine di prescrizione.

In alcuni casi i giudici nazionali disapplicarono tale limite, condannando anche quando, in applicazione del limite di cui all’art. 160 e 161 del codice penale, era maturata la prescrizione. Altri giudici si posero il problema che la disapplicazione loro demandata dalla Corte Ue strideva con alcuni vincoli costituzionali (divieto di retroattività di norme sfavorevoli in materia penale, riserva di legge nella stessa materia, indeterminatezza del concetto di gravi frodi) e sollevarono questioni di legittimità costituzionale.

La Corte costituzionale con ordinanza n. 24 del 2017 sollevò questione di pregiudizialità comunitaria innanzi alla Corte di giustizia Ue segnalando la possibilità di contro limiti quali la prevedibilità delle decisioni, la non retroattività e la natura sostanziale (e non processuale) della prescrizione italiana, la riserva di legge.

La Corte Ue (Grande sezione) con sentenza 5 dicembre 2017 ribadiva il contenuto della sentenza Taricco (punti 29-39), ma rilevava che – sino all’adozione della direttiva (Ue) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio – il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di Iva non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore Ue (punto 44), con la conseguenza che la Repubblica italiana era libera, “a tale data”, di assoggettare il regime della prescrizione “al principio di legalità dei reati e delle pene” (punto 45). Affermava poi che “il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile”, riflette le “tradizioni comuni agli Stati membri” e ha identica portata rispetto al corrispondente diritto garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (punti 51-55).

Spetta perciò al giudice nazionale il compito di verificare se il riferimento operato nella sentenza Taricco (punto 58) a “un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile”. Ove incertezza fosse rilevata dal giudice nazionale, essa “contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile”, con la conseguenza che “il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione” (punto 59). In ogni caso il divieto di retroattività vigente in materia penale impone di escludere che possano essere disapplicate le norme sul regime di prescrizione “interno” per i fatti commessi prima della pronuncia Taricco; altrimenti, gli accusati potrebbero essere “retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (punto 60).

Detto questo l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale richiamava la responsabilità del legislatore e la Corte di giustizia ha stabilito che “spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 Tfue”.

Questo significa che il ritorno puro e semplice al precedente sistema di prescrizione, invocato da alcune forze politiche anche in occasione della recente crisi di governo, porterebbe all’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia per violazione di tali obblighi.

 

Mario, di solito così non si fa (in tv)

Imposte, architravi, battenti, frontoni, stipiti. Vedute diurne, notturne, serotine, antelucane. I telegiornali hanno scoperto un inedito amore per i dettagli architettonici, nella speranza che da quei serramenti si veda spuntare Mario Draghi. Invece niente, sempre il solito spezzone di repertorio con lui che annuncia di avere accettato l’incarico e fila via. Immaginiamo il giro di proposte che Draghi sta ricevendo dai talk show per avere l’uomo della Provvidenza (e della previdenza): chi gli offre il trono e chi la felpa, chi il collegamento dal mercato che fa uno del popolo e chi un’ora di monologo senza interruzioni, chi schiera i suoi commentatori stellati e chi lo invita a vergare di proprio pugno le domande preferite. In fondo, è quel che accade regolarmente con i leader di partito. Invece non c’è trippa per gatti, il massimo dello scoop resta Alan Friedman che intervista Giancarlo Magalli compagno di liceo. Non sappiamo se Draghi, come dice il mantra, provenga da un altro pianeta; ma nel rapporto con i media arriva davvero da un altro tempo: il tempo in cui un uomo politico, se investito di responsabilità, riteneva di imporre alla propria immagine un passo indietro, non cento slogan in avanti. Lanciamo il cuore oltre l’ostacolo, chi siamo noi per porre dei veti, pensiamo all’interesse del Paese, pensiamo ai nostri figli, faremo la nostra parte, abbiamo detto al presidente incaricato Sgarbi, troviamo la sintesi, il governo sia politico, l’acqua sia bagnata… L’assembramento ad accaparrarsi il microfono si fa sempre più selvaggio mentre Draghi continua a tacere, la finestra resta vuota, e l’abisso di stile mediatico tra lui e i suoi aspiranti palafrenieri aumenta. Chi siamo noi per dare consigli a Draghi? Meno di nessuno. Però tra i criteri di selezione per la squadra di alto profilo suggeriremmo anche l’attrazione per le telecamere. Più uno sta fisso in tv, meno me lo porterei a Palazzo Chigi.

Mail Box

 

Il futuro ci riserverà politici più seri?

Nonostante questa poco edificante situazione, confermo di vedere ampi spazi di “buona politica” uscire da un tale marasma. Ho sentito l’ex presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa e devo dire di averlo trovato: appropriato nel suo discorso, pacato, serio, rilassato, preciso, lineare e pieno di speranza per il futuro. Una persona a modo, che da tempo la politica non aveva avuto, una persona di cui l’Italia può andarne fiera di porlo come esempio per le nostre giovani generazioni. Eppure parlava e sembrava chiedere scusa alla gente che gli stava intorno perché pensava di essere ingombrante, solo che, invece, aveva fatto solamente “il suo dovere”. Ho posto Conte come prima figura, ma ci sono, nella coalizione da lui guidata, altri giovani che mi trasmettono quella fiducia e mi portano a fare queste affermazioni positive del futuro. Però bisognerà adottare degli accorgimenti affinché non si possano verificare delle degenerazioni dei parlamentari che passano da una sponda all’altra mediante una modifica della Costituzione applicando il testo Zagrebelsky “la decadenza del parlamentare che cambia”. Avremo ora un Parlamento formato da 400 parlamentari e un Senato da 200 e, il popolo sovrano avrà la possibilità di controllare il lavoro politico dei propri eletti. Se hanno fatto bene si possono rivotare, altrimenti si cambia. E così facendo nei prossimi 15-20 anni noi potremmo iniziare ad avere, veramente, un governo del popolo. Dipende ora da noi. Certo, molti di noi non ci saranno, ma se non altro avremo aperto una strada per i nostri giovani per il loro futuro.

Luigi Pavan

 

Nel prossimo esecutivo serve un’opposizione

Con la Lega, il Movimento fece un contratto scritto, tradito. Col Pd fece un contratto di 27 punti, tradito. E adesso con Draghi dovrebbe dare appoggio sulle chiacchiere? Ma non scherziamo. Io voterò un no convinto su Rousseau. Dovremmo dare appoggio esterno solo su singoli provvedimenti. Facciano il governo Pd-Lega-Berlusconi-Renzi-Calenda-Bonino-Lupi-Sgarbi&C.

Massimo Giorgi

 

Un appello al M5S: prosegui nelle tue lotte

Ho le idee chiare sul fatto di votare per l’ingresso del M5S nel governo Draghi. Non sarei meravigliato più di tanto se tutti i balordi che conosciamo tentassero di riportare il numero dei parlamentari a 945 e oltre. Per me il M5S deve continuare con forza a credere nei suoi valori e lottare dall’interno nel governo.

Biagio Stante

 

I grillini dovrebbero stare nella maggioranza

Non sono iscritto al M5S e quindi non posso votare sulla piattaforma Rousseau. Sono però un cittadino molto preoccupato di ciò che sta accadendo in Italia. Spero che gli amici del Movimento dicano “sì” all’ingresso in maggioranza e nella compagine governativa. Il momento è gravissimo e per questo ritengo che sia opportuno verificare di persona il corretto utilizzo dei finanziamenti europei.

Luigi Roselli

 

Subito una legge contro i voltagabbana

Una proposta riguardante l’annoso problema dei voltagabbana: una legge di iniziativa popolare, radicalmente riformata nei decreti attuativi, composta da un solo articolo da sottoporre al voto dei cittadini: “Art. 1 – Il deputato o senatore che è stato eletto candidandosi con una formazione politica non può fondare un nuovo partito o aderire a un nuovo gruppo parlamentare. Lo stesso vale per altri casi che opprimono la vita democratica degli italiani da generazioni senza via d’uscita”.

Silvio Bosco

 

I miei dubbi sulla crisi e sul nuovo premier

Gentile Direttore, nel sottolineare la linearità delle motivazioni per il conferimento dell’incarico a Mario Draghi, desunte dalle stesse parole del capo dello Stato, ritengo inevitabile riscontrare una contraddizione politica difficilmente superabile. Quale risultato può essere realisticamente perseguito, affinché “le forze politiche… conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”? Lei stesso ha giustamente asserito l’illusorietà di qualunque decisione di essere tecnicamente neutrale… Orbene, come potrebbero non esserlo, a loro volta, le innumerevoli scelte che un governo deve assumere giornalmente? Aggiungo altresì un secondo punto derivante dalla sua dichiarazione perentoria sull’inesistenza di ogni positiva propensione di Mario Draghi, in ordine all’incarico conferitogli. Presumendo che di tale orientamento non potesse non essere consapevole anche il capo dello Stato, come si spiega l’immediatezza con cui, appena verificato l’insuccesso del tentativo del presidente della Camera, ha potuto ottenere la disponibilità di Mario Draghi?

Pierluigi Sorti

 

Caro Pierluigi, le sue domande sono anche le mie. Credo che l’unico a poter rispondere sia proprio Mario Draghi.

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato ieri a pagina 14 intitolato “Uccisa a coltellate in strada a Lodi: fermato il compagno”, in merito al femminicidio di Piera Napoli, abbiamo indicato Salvatore Bagliore invece di Salvatore Baglione. Ci scusiamo con gli interessati e i lettori.

FQ

Recovery Fund. Ora attendiamo quali novità saprà scrivere Draghi

 

Al primo giro di consultazioni del presidente incaricato, abbiamo constatato, a detta delle varie delegazioni, che Mario Draghi è un uomo molto cortese e ha ascoltato con attenzione le istanze di tutti (ci mancherebbe anche il contrario). Addirittura, alcuni gruppi gli danno piena fiducia a prescindere dal programma e dagli intenti che esporrà (si spera), e alla maggior parte dei pennivendoli basta e avanza la sola definizione di Alto Profilo. Tuttavia, la mia domanda è la seguente: il famoso Recovery Plan che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva proposto (in bozza) e per giunta migliorato grazie al contributo critico di Mr. Bean (al secolo Renzi), è possibile pubblicarlo? Anche per confrontarlo con quello che verrà presentato dall’”Alto Profilo” Mario Draghi?

Luigi Galati

 

Caro Luigi, la pubblicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (questo il suo effettivo nome in italiano), nelle ultime bozze presentate dal governo, è un testo di 136 pagine. Come si può dedurre, non è possibile pubblicarlo integralmente su queste pagine. Avremo modo di utilizzarlo, ovviamente, per confrontarlo con quello che il nuovo governo Draghi, se nascerà, intende presentare da capo. Sarà senz’altro interessante capire quali sono davvero le critiche di incompiutezza, indeterminazione e improvvisazione che sono state mosse al governo uscente. Noi abbiamo dedicato molte pagine a spiegare la struttura dei piani che via via sono stati realizzati. Nel confronto con quelli europei, ad esempio, abbiamo potuto verificare che tutti hanno molti elementi in comune, peraltro dettati dalle Linee guida europee, molto stringenti. Il 37% della spesa dedicata alla transizione ecologica, il 20% a quella digitale, la centralità della “coesione sociale”. La narrazione di un documento migliorato dai renziani è, appunto, una narrazione visto che le 62 “considerazioni” del partito di Renzi rappresentavano per lo più un attacco concentrico al governo di cui faceva parte. Quella bozza si è bloccata per effetto della crisi, accumulando quindi un ritardo considerevole anche se c’è tempo fino al 30 aprile per presentare il Piano. Draghi lo riscriverà, saremo molto attenti nel capire come.

Salvatore Cannavò

Viva la democrazia, abbasso l’aristocrazia (“whatever it takes”)

Ricordate la scena dei parlamentari sculacciati da Giorgio Napolitano come scolaretti (“sordi”, “inconcludenti”, “irresponsabili”) eppure felici e plaudenti davanti alla ramanzina presidenziale? Era il 23 aprile 2013, giorno dell’irrituale (e incomprensibile) insediamento bis di Giorgio Napolitano, chiamato a salvare la patria dalle forze politiche incappate nel cortocircuito dell’elezione quirinalizia. Quel momento, uno dei più tristi della nostra recente storia, ci è tornato in mente in questa ultima settimana di crisi di governo, a causa delle parole di un altro presidente della Repubblica. Sergio Mattarella ha chiesto ai partiti di sostenere il tentativo di Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo: “Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.

L’ora è grave. Non per Mario Draghi in sé, ma per la nostra democrazia, mai così maltrattata. Le parole di Mattarella (che come quelle del suo predecessore possono, e anzi devono, essere oggetto di analisi critica anche se non sembra più possibile farlo) suggeriscono che “l’alto profilo” sia in contrapposizione con la “formula politica”. La qual cosa si traduce in una delegittimazione, non priva di pericoli, della democrazia rappresentativa. Senza dire che l’idea di un governo tecnico, inteso come neutrale, è una pia illusione. Ogni scelta è politica (lo è stata, eccome, anche quella del whatever it takes) e nessun governo può prevedere quale realtà dovrà affrontare. Per fare un esempio, una pandemia di queste proporzioni non era in alcun modo preventivabile. Dunque i governi decidono e incidono sulla realtà sociale, per come si manifesta in quel momento. Un’altra idea tossica è quella della tecnica neutra (su cui Emanuele Severino, pur non riferendosi certo alla politica, ha speso parole sagge e previdenti): una bugia divenuta incontrovertibile verità. Le forze politiche di forte non hanno più nulla, visto il sollievo con cui hanno accolto un “governo senza colore” (nell’Italia dei colori pandemici!). Non dimentichiamo che gli esecutivi svincolati dal consenso popolare hanno lasciato segni poco popolari e per nulla neutri.

L’implicita contrapposizione tra competenza e politica ha già fatto danni incalcolabili: il dibattito pubblico è ostaggio di un revanscismo livoroso e pericoloso verso i rappresentanti del popolo (dunque, del popolo) che si specchia nell’estasi con cui ci riferisce ai nuovi salvatori della patria. Come se il popolo non fossimo noi tutti, destinatari di una serie di diritti e doveri politici, protagonisti dell’autodeterminazione che si esprime con il voto. Il popolo viene citato solo nell’accezione dispregiativa (il “populismo” dei talk show). Arrivano “i migliori”: ma migliori di chi? Del popolo e dei populisti, di elettori ed eletti. Siamo sicuri che sia un bene far passare l’idea che ci può salvare solo un’aristocrazia affrancata dal popolo? Mentre i leader dei partiti si affannano a invocare il governo dei migliori sembra non si rendano conto che l’altro termine della comparazione sono loro: i peggiori. Abbiamo dovuto leggere che gli ottimati sono una reazione “all’uno vale uno”. È vero, la democrazia è esattamente questo: una testa un voto, non ci sono voti che valgono di più. La nostra Costituzione è tutta fondata sul principio di uguaglianza che ora si rinnega senza imbarazzi. Perché “non c’è alternativa”, perché “sennò vince Salvini”. Non è vero: un’alternativa c’è sempre. Magari non è la “migliore”, ma è di tutti, anche di quelli che sono peggiori e di quelli che si sentono, inspiegabilmente, migliori (per lo più scrivono sui giornali). La democrazia ha bisogno di tutti, e va difesa whatever it takes.

 

La metamorfosi. Oggi uno va a letto sovranista e si sveglia europeista

Lasciamo da parte l’agiografia canaglia, i 768.000 compagni di scuola di Draghi già censiti dai giornali (era il più bravo), le notazioni sportive (calcio, basket, sempre insuperabile, non si hanno notizie su hockey e sci di fondo, ma arriveranno), il casale in campagna, la moglie silenziosa, il rigore morale, eccetera eccetera. Sarebbe facile farci dell’ironia, ma suonerebbe tutto già sentito, perché se c’è una stupidaggine nazionale storica è quella dell’esultanza per la scoperta geografico-politica dell’ultima spiaggia. Era “l’ultima spiaggia” Monti, era “l’ultima spiaggia Renzi”, e si è visto. Ora c’è questa nuova “ultima spiaggia”, Draghi, il che fa supporre che basta, chiuso, spiagge buone non ce n’è più, e l’alternativa è schiantarsi sugli scogli. Invidio l’abbondanza di litorali balneabili, ecco, mettiamola così.

Sistemata la questione entusiasmo, comprensibile e in qualche modo prevista, resta sospesa a mezz’aria la vecchia favola, sempre affascinante, del “governo dei migliori”. Ma per ora, non conoscendo nomi e biografie di questi migliori, si accetta che ci sia un governo del migliore – Draghi – e tutti gli altri più o meno quelli di prima, cioè i peggiori, cacciati in vari modi, sbertucciati per mesi, accusati di ogni schifezza. Avremo dunque quelli che mangiavano i bambini a Rignano insieme a quelli che rivogliono la lira, insieme a quelli che insistono per ricoprirci di soldi se stiamo sul divano a fare un cazzo, che è l’interpretazione del Reddito di cittadinanza di quelli che non ne hanno bisogno, eccetera eccetera. E anche qui si potrebbero fare notazioni linguistiche interessanti, per esempio perché parole come “ammucchiata” o “accozzaglia”, diventino di colpo “responsabilità nazionale”. Insomma, una riforma la si è già portata a casa, quella del vocabolario, con il Mattarella-Draghi al posto del Devoto-Oli.

È tutto un girarci intorno, però, mentre la questione centrale resta un’altra, quella del “commissariamento della democrazia parlamentare” con tutto il contorno di commenti su una classe politica che “ha fallito”, i partiti che “sono morti”, e altre sentenze simili, per cui è ora che arrivi uno bravo e rimetta le cose a posto. Appoggiato però – Comma 22 – dalla stessa classe politica che “ha fallito” e dagli stessi partiti che “sono morti”. Mah.

Allo stesso tempo, per onestà e completezza, va detto che sì, in effetti, non è facile assolvere la politica così come la vediamo oggi. Non per nostalgia, ci mancherebbe, ma le svolte politiche appartenevano un tempo a noiose consuetudini e riti, tipo discussioni interne, votazioni, congressi (qui un po’ esagero), persino discussioni nella base (qui esagero troppo), e comunque scontri tra affinità e divergenze. Oggi – superate quelle vetuste antichità – uno va a letto sovranista amico di Orbán e si sveglia europeista fan della Von der Leyen, come un Gregor Samsa alla rovescia, che si corica scarafone e si sveglia persona normale.

Si ride di questa assurda metamorfosi, ma non è l’unica. C’è anche la metamorfosi di tutti quelli (tutti, quindi) che amano usare la parola “mai”, una fesseria, perché dire “mai con questo” e “mai con quello” e alla fine doverci andare a vivere per forza, non è una bella figura. Un mimetismo tattico che non incoraggia, diciamo, la rivalutazione delle forze politiche in campo (eufemismo); o meglio insegna a tutti che principi sventolati come sacri, punti fermi, valori non negoziabili, erano alla fine non troppo fermi, non troppo sacri e negoziabilissimi.

 

Salvini fascio-leghista era e resta un pericolo

Ieri ci si sono messi in due su questo giornale, Padellaro e Travaglio, a sfottere chi negli anni scorsi denunciava il pericolo rappresentato da Salvini per il nostro sistema democratico. Salvo ora ritrovarselo di fianco, entusiasta sostenitore di Draghi. Perfido, ma come sempre acuto, si chiede Padellaro: non sarà che l’unità nazionale abbia come d’incanto emendato Salvini, trasformandolo da minaccia a risorsa della democrazia? E Travaglio rincara la dose interpellando “maestrini dalla penna rossa” e “compagnucci” che non sollevano obiezioni di fronte alla repentina giravolta.

Siccome mi riconosco fra quei “compagnucci” (suvvia Marco, questa parola poteva usarla Guareschi a metà del secolo scorso), e credo di non essere il solo qui al Fatto, chiarisco subito di non avere nessuna intenzione di scusarmi per aver segnalato il pericolo rappresentato dalle pulsioni fascioleghiste di Salvini. Anche nel 2018, quando voi le minimizzavate e sostenevate il governo di cui faceva parte.

Ma prima di arrivarci bisognerà pur spendere qualche parola sul commissariamento della democrazia parlamentare cui siamo disgraziatamente pervenuti e che tanta miope euforia sta suscitando. Le consultazioni dei partiti testé concluse sono state surreali. La velocità con cui hanno ripudiato posizioni ferreamente dichiarate fino al giorno prima dimostra che non si tratta più di partiti, ma piuttosto di gruppi dirigenti allo sbando. Chiamati a votare una fiducia “a prescindere”, senza nemmeno che il premier incaricato venisse chiamato a rendere pubblico il suo programma di governo. I giornali ne pubblicano solo vaghe indiscrezioni, suggerite non si sa bene da chi. L’unica cosa chiara è che, su mandato del Quirinale, spetterà solo a Draghi decidere, visto che i partiti hanno fallito. Prendere o lasciare.

L’Italia ha già conosciuto, per brevi periodi, governi di unità nazionale e “del presidente”. Ma stavolta è diverso: non sono stati i partiti maggiori a prendere atto dello stato d’eccezione in cui versa il Paese e a scegliere di conseguenza. Non di unità nazionale si tratta, ma di un governo imposto dall’alto a leader pericolanti che hanno fatto buon viso a cattivo gioco, nella speranza di sopravvivere al terremoto. Come ha scritto Ezio Mauro, la politica ha abdicato alla tecnocrazia. Cedendo il passo a una sorta di “dittatore benevolo” (cito Michele Salvati, convinto estimatore di Draghi).

Qui veniamo alla posizione imbarazzante in cui si trova il Pd. Senza bisogno di aspettare i futuri libri di storia, immagino sia chiaro ai suoi dirigenti quali son stati i settori dell’establishment che hanno manovrato affinché la ricostruzione post-Covid non toccasse a un governo Conte sbilanciato a sinistra. Lo hanno abbattuto alla luce del sole. Che intorno a Draghi e ai suoi prossimi ministri, per lo più sconosciuti, possa formarsi una nuova classe dirigente in grado di riformare lo Stato, fronteggiare lo spettro della povertà e riconvertire un’economia malata, per ora è solo un atto di fede. Ancor più arduo è confidare in Draghi come regista di nuovi schieramenti.

Mattarella gli ha chiesto di formare un governo fondato su una maggioranza bipartisan. Malvolentieri, ma M5S e Pd l’hanno accettato. Dovranno convivere con la Lega, dopo aver digerito Berlusconi, avendo Salvini confermato di essere disposto a cambiare le sue idee con la stessa frequenza con cui si cambia le felpe. Del resto il Pd (come il M5S), sul tema immigrazione, da Minniti in poi, si era già dimostrato subalterno alla propaganda salviniana.

Padellaro e Travaglio rivendicano di aver considerato Salvini sempre e solo un “cazzaro” anche quando, seduto al Viminale in divisa da poliziotto, esaltava e catalizzava in nome della “cattiveria necessaria” l’odio per gli stranieri diffuso nella nostra società. Resto convinto che il riconoscerne la spregiudicatezza di leader senza principi vi abbia indotti a sottovalutarne la pericolosità. Sbagliavamo a denunciarne i comportamenti razzisti e le strizzate d’occhio ai fascisti? Non credo proprio: prima di incespicare nel suo stesso trionfo elettorale (34% nel 2019) mancò poco che portasse a compimento il disegno putiniano della “democrazia illiberale”. Poi cominciò il suo declino, che sembra averlo addomesticato. Dentro al governo Draghi, resterà imprigionato come gli altri. In attesa che la Lega trovi un sostituto.

 

Caro Gad, premesso che il copyright dei compagnucci è di Alberto Sordi-Mariopio “compagnuccio della parocchietta”, io ho il massimo rispetto per chi, come te, considera o considerava Salvini un fascista ecc., anche se penso che il fascismo sia una cosa troppo seria per un cazzaro che ricorda più Ridolini che Mussolini. Ma non ho alcun rispetto per quasi tutta l’intellighenzia di sinistra che s’è fatta bella per tre anni con la finta Resistenza anti-salviniana da salotto (televisivo e non) e ora tace sul centrosinistra che va al governo con Salvini. Anzi, acconsente. Anzi, applaude.

Marco Travaglio