Medici guariti? A casa con gli anticorpi

Anche al piano nobile del ministero della Salute si rendono conto che forse è necessario cambiare. Per il momento però, spiegano, per i medici (e gli infermieri e le altre professioni sanitarie) la legge prevede l’obbligo vaccinale: chi non si vaccina viene sospeso (a zero stipendio) e se contrae il virus e poi guarisce resta sospeso. Anche se ha gli anticorpi, la memoria cellulare e quello che chiamiamo immunità naturale. Anche se per almeno tre mesi dall’infezione non può vaccinarsi perché è sconsigliato.

“La guarigione non è, in base alla normativa vigente, circostanza idonea a legittimare la revoca della sospensione”, ha scritto il ministero della Salute il 17 febbraio nel parere richiesto dalla Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo), che il 27 gennaio aveva invitato gli Ordini provinciali a “valorizzare l’immunizzazione a seguito del contagio” ma poi si è adeguata. “Questa situazione riguarda medici che hanno evitato di vaccinarsi eludendo l’obbligo introdotto ad aprile – ha detto ieri Filippo Anelli, presidente Fnomeceo –. E se uno di loro deve aspettare 3 mesi per vaccinarsi, perché ‘pentito’ ma nel frattempo si è infettato, non mi sembra uno scandalo. Non penso che sia etico sostenere chi oggi prova a non aderire alle norme”. Sono circa 3.200 i medici sospesi, lo 0,7%. Lo stesso dovrebbe valere per gli infermieri (meno di 2.000 sospesi, lo 0,4%) e per le altre professioni sanitarie: a breve il confronto con il tecnici della Salute.

La nota carenza di medici e infermieri sembra contare meno dell’intento premiale/punitivo nei confronti di chi si è vaccinato e di chi non l’ha fatto. Senza contare che “la letteratura internazionale conferma che l’immunità naturale è migliore e più duratura rispetto all’immunità indotta dal vaccino”, come ha detto ieri Nino Mazzone, capo del Dipartimento di Area medica, Cronicità e Continuità assistenziale dell’Asst Ovest Milanese, mettendo in guardia dal rischio di overtreatment legato alla vaccinazione di chi è già immune. “Gli operatori sanitari guariti dovrebbero essere esentati dall’obbligo di vaccinazione”, ha scritto sulla rivista The Lancet Rheumatology. Dennis G. McGonagle, dell’Università di Leeds. A seconda degli studi l’immunità naturale dura fino a 9 o 15 mesi.

In Italia prevale invece la logica del green pass rafforzato: rendere la vita impossibile a chi non si vaccina per aumentare le somministrazioni e limitare, così, la pressione sui servizi sanitari, più fragili rispetto ad altri Paesi che non hanno sistemi simili. Però ogni ministero va per conto suo: la Difesa riammette i militari inadempienti all’obbligo vaccinale (10 mila circa i sospesi) ma guariti. Anche al ministero dell’Istruzione, che ha sospeso qualche migliaio di lavoratori non vaccinati, sembrano sulla linea morbida a giudicare da una circolare che riammette chi ha il green pass rafforzato, quindi anche i guariti (per 6 mesi). È la regola che vale per gli over 50, ora obbligati, nei settori dove ai più giovani basta il tampone: rischiano la multa di 100 euro, ma possono lavorare.

La Lega rompe sul decreto. I “bellissimi” vanno a pezzi

Era solo giovedì quando lui, Mario Draghi, li aveva attaccati dopo la pazza notte del Milleproroghe in cui il governo era andato sotto quattro volte: “Io e i ministri lavoriamo, il Parlamento deve garantire i voti, così non andiamo avanti”. Loro, i partiti, scavallato il weekend di (finto) armistizio, alla ripresa dei lavori gli hanno fatto capire che il Parlamento è cosa loro. E che, a un anno dalle elezioni, non hanno alcuna intenzione di ammainare le proprie bandiere. Così, è bastato un emendamento presentato dalla Lega per abolire il green pass che “il governo bellissimo” (copyright Draghi) andasse in mille pezzi. Per tre volte nella stessa giornata. Che si conclude con lo strappo della Lega che non vota, astenendosi, il mandato al relatore per portare il decreto Covid in Aula oggi. Ergo: non vota il provvedimento. Tant’è che in serata un ministro allarga le braccia sconsolato: “Così si va a votare a giugno”.

Che il patatrac fosse nell’aria lo si era capito di buon mattino, quando la Lega in commissione Affari Sociali alla Camera aveva provato a sfruttare le assenze del lunedì per tentare un blitz sul green pass durante la discussione sul decreto Covid: “Mettiamo al voto il nostro emendamento per abolirlo dal 31 marzo” dichiarava con malizia il deputato triestino Massimiliano Panizzut dopo aver già votato una volta contro il governo, e con FdI e gli ex M5S, per abolire la quarantena per i bambini. Al che, vista la malaparata, la sottosegretaria ai Rapporti col Parlamento del Pd Caterina Bini, su ordine di Palazzo Chigi, era costretta a sospendere i lavori e rinviare tutto al pomeriggio per evitare che il governo andasse sotto. Ma non è bastato l’intervento del ministro Federico D’Incà a salvare la situazione. La Lega si è impuntata, fomentata dai colleghi di Fratelli d’Italia, a partire da Wanda Ferro, che agitavano il drappo rosso della fine del green pass con gli alleati del Carroccio: “Diamo un colpo al premier”. Nel frattempo i leghisti provavano a convincere i colleghi del M5S a votare per l’abolizione del pass, mentre il Pd era costretto a mandare Emanuele Fiano a fare da vedetta in commissione per evitare scherzetti dai pentastellati: “Non azzardatevi a votare l’emendamento leghista” minacciava Fiano. Nel mentre la deputata grillina anti pass Federica Dieni occupava la sala del Mappamondo per convincere i suoi colleghi di commissione a “non fare cavolate” e votare con la Lega l’abolizione del certificato verde. Anche i 5 Stelle però avevano i loro grattacapi presentando un emendamento per estendere i tamponi anche alle parafarmacie ottenendo però il parere contrario del Mef (mancate coperture finanziarie) proprio per mano della grillina Laura Castelli. “Se non cambiate il parere, noi votiamo con la Lega per abolire il green pass” era la minaccia del capogruppo 5S Davide Crippa al suo ministro D’Incà. Dopo pranzo era costretto a intervenire anche Silvio Berlusconi per placare i suoi e annunciare che serve “un allentamento delle restrizioni” ma non spaccando il governo. E così, nella riunione di maggioranza del pomeriggio, ci si è arrivati in un clima da tutti contro tutti. E non è bastato il richiamo di D’Incà a far scendere tutti a più miti consigli e per preservare “l’unità della maggioranza”. Niente da fare. La Lega ha alzato il muro annunciando di voler mettere al voto il proprio emendamento con parere contrario del governo, mentre il M5S ha ottenuto almeno che l’esecutivo si rimettesse all’aula (nessun parere) sul suo emendamento sulle parafarmacie.

Risultato: maggioranza in mille pezzi. L’emendamento leghista per abolire il green pass viene bocciato con 22 no e 13 sì ma votano a favore Lega, FdI e gli ex 5 Stelle, Pd e M5S contro e Forza Italia si astiene. Anche la norma grillina sulle parafarmacie non passa grazie all’asse centrodestra più renziani. La maggioranza per mezz’ora è pura fantasia. Alla fine il Carroccio si astiene sul provvedimento e minaccia di ripresentare gli emendamenti oggi in Aula. Restano le scorie. Salvini avverte Draghi che il Parlamento “fa il suo lavoro”, Enrico Letta drammatizza: “Chiediamo serietà”. Meloni provoca il leghista: “Non ci si può rassegnare alla deriva liberticida”. Peccato che il governo da questo orecchio non ci senta: i tecnici di Palazzo Chigi e del ministero della Salute stanno lavorando a una road map per superare lo stato d’emergenza, ma non hanno alcuna intenzione di accantonare il green pass.

Il “green” Sala ci riprova e lancia il Partito Verde (che già litiga coi Verdi)

Il progetto è ciclico e la retorica del “nuovo partito verde” promette sempre bene, con quell’aria chic che non impegna. Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche del 2023, però, Beppe Sala potrebbe fare sul serio, accreditandosi come volto – adesso va di moda dire “federatore” – di un’area cattolica ed ecologista.

Come anticipato ieri da La Stampa, il sindaco di Milano sta parlando con diversi parlamentari rimasti senza dimora dopo la diaspora grillina e le spaccature dentro LeU. L’obiettivo è farsi trovar pronto per l’anno prossimo, quando la “cosa” verde potrà misurarsi con le urne.

Ma al di là delle legittime ambizioni di Sala, i problemi non mancano. Pur in un clima da unità nazionale, appare complicato tenere insieme storie politiche diverse – tra gli interlocutori del sindaco c’è l’ex Sinistra Italiana Loredana De Petris, ma pure la forzista Mara Carfagna – con il solo collante dell’ecologia. Il rischio è quello di annacquare le posizioni, finendo così per proporre l’ennesimo partito di centro in concorrenza con mille altri (da Carlo Calenda a Matteo Renzi, peraltro tutti grandi sostenitori della rielezione di Sala lo scorso autunno).

Sala questo lo sa e da tempo rimanda la discesa in campo nazionale, su cui pesano dubbi personali oltreché organizzativi: “Ma siamo sicuri che Beppe prenda i voti fuori da Milano?”.

La domanda se la pone uno dei parlamentari che più stimano l’ex manager di Expo (figurarsi che ne pensano gli altri) e per questo il sindaco cerca sponde pure tra i 5Stelle, immaginando convergenze già tentate senza successo a Milano e magari realizzabili come alleanza su scala nazionale. Un modo per dare sostanza al progetto anche al Sud, approfittando dei buoni rapporti sia con Beppe Grillo sia con Giuseppe Conte. Ma le relazioni personali non bastano per costruire un partito, men che meno per prendere i voti.

In cerca di buoni consigli, in passato il sindaco si sentito spesso con il decano della Democrazia cristiana, Gianfranco Rotondi, che potrebbe incontrare tra un paio di settimane. Lo scorso anno ha annunciato tra le fanfare mediatiche l’iscrizione ai Verdi europei (di cui nessuno, nemmeno i Verdi europei, ha più saputo nulla per mesi), poi si è messo contro gli ambientalisti milanesi sul progetto del nuovo stadio di San Siro.

E anche questo nuovo progetto nazionale non parte coi migliori auguri di chi, nell’area “verde”, si impegna da anni e non attendeva certo l’arrivo di un “salvatore della patria”. Con Angelo Bonelli, co-fondatore di Europa Verde insieme all’ex M5S Eleonora Evi, Sala non si è sentito in questi giorni, ma l’ex deputato è perplesso all’idea di un “partitone” ambientalista: “Stento a credere che quello delineato da La Stampa sia il suo progetto. In ogni caso, noi di Europa Verde siamo impegnati a costruire una forza verde di governo, ma rigorosa sulle politiche del clima, certamente non stampella di Cingolani e del governo”. Come a dire: di stare insieme a Mara Carfagna, ministra che più volte ha ammesso di “sognare” il Ponte sullo Stretto di Messina e che fa parte di un governo tutt’altro che green, Bonelli e soci non hanno alcuna voglia.

E Beppe Sala, già city manager con Letizia Moratti ai tempi dell’amministrazione milanese di centrodestra, non dà sufficienti garanzie a chi invece dovrebbe essere dalla sua stessa parte: “Stiamo crescendo nei sondaggi – si smarca ancora Bonelli – nonostante siamo esclusi dalle televisioni, a differenza per esempio di Calenda, che pur con percentuali molto simili alle nostre è onnipresente da mesi”.

Neanche una giornata di dibattito e Sala è già riuscito a generare il primo paradosso: fare il partito verde contro i Verdi.

Raitre ospita il “nemico”. Da Fazio gli anti-Report

Più spari contro i suoi programmi e più in Rai ti invitano, stendendoti davanti tappeti rossi.

Domenica sera a Che tempo che fa Fabio Fazio ha ospitato il direttore del Riformista Piero Sansonetti insieme a quello di Tgcom Paolo Liguori. Il motivo era il lancio della tv del Riformista, che da poco ha visto la luce, in joint venture con il Tgcom di Mediaset. Insomma, un bello spottone in prima serata in uno dei programmi più visti di mamma Rai.

Tutto normale? Fino a un certo punto, perché proprio il Riformista è il giornale che più sta sparando contro un altro programma Rai, Report di Sigfrido Ranucci. In Viale Mazzini la cosa non è passata inosservata tanto da provocare un tweet da parte del consigliere di amministrazione Riccardo Laganà: “Trovo singolare nei tempi e nei modi che su Rai3 si promuova la web tv del Riformista quando da settimane lo stesso giornale tenta di condannare Report e Ranucci con tesi già discusse in tribunale”. Di “variante della sindrome di Stoccolma” parla invece l’ex segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani, visto che “un quotidiano che mette nel mirino Ranucci e la Rai gli offre una prestigiosa vetrina”.

Tra l’altro a farlo è la stessa rete, la Rai3 diretta da Franco Di Mare, dove va in onda Report, che riprenderà in aprile. Per la cronaca, Sansonetti e Liguori hanno diffusamente parlato con Fazio dello stato della giustizia e del sovraffollamento delle carceri, ribadendo l’appoggio ai referendum, specialmente quello che vuol limitare la custodia cautelare in carcere.

Il Riformista, dicevamo, è uno dei quotidiani più schierati contro Report. Dal 9 febbraio, ha dedicato sette articoli a Sigfrido Ranucci, innanzitutto sul caso degli insulti via sms tra il conduttore e i parlamentari Andrea Ruggieri (FI) e Davide Faraone (Iv) per il caso delle presunte molestie del conduttore a due giornaliste svelate da una lettera anonima, caso finito nel nulla dopo un audit interno in Rai.

Ma il Riformista ha preso la palla al balzo per andare a ripescare una vecchia storia del 2014 per cui Ranucci è stato prosciolto da due Procure (anche se ora la Corte dei Conti indaga per danno erariale): un filmato in cui il giornalista tratta per acquisire un video compromettente sull’ex sindaco di Verona, Flavio Tosi. Secondo il Riformista, Report sarebbe una sorta di centrale di dossieraggio che usa soldi pubblici per acquisire materiale, ma la vicenda era già stata archiviata dalla magistratura, con tante scuse a Ranucci.

M5S e i sospetti sul segretario dem: “Insegue ancora chi lo ha tradito”

Carlo Calenda con il suo veto al Movimento “non è certo un problema”, giurano i Cinque Stelle. Ma l’Enrico Letta che ha dichiarato di voler vincere assieme a lui le Politiche “quello sì che è un problema”, soffiano dal Movimento. Neanche piccolo, se un big morde così: “Letta insegue ancora quelli che lo hanno tradito”. Ovvero Matteo Renzi e appunto Calenda, con cui i dem stanno stringendo accordi in molte città per le amministrative della prossima primavera. E saluti al M5S, congelato dall’ordinanza del tribunale civile di Napoli, quindi costretto ad attendere l’udienza del 1° marzo sul suo ricorso. “Siamo pressoché bloccati, e poi al 99 per cento il processo verrà spostato a Roma” sussurrano dai piani alti. Tradotto, i tempi per il giudizio di merito si allungheranno. Chissà quanto ne hanno parlato ieri nel loro colloquio telefonico il segretario dem e Giuseppe Conte, chiacchierata anche riparatoria dopo i sorrisi tra Letta e Calenda nel congresso di Azione. “Quello con il M5S è un rapporto che dura e durerà” ha assicurato il segretario dem durante la direzione del Pd.

Ma anche tra i contiani c’è malumore, per l’insistenza di Letta sul campo largo. Non a caso, ieri gli hanno nuovamente chiesto un segnale concreto sul salario minimo, “una priorità” secondo il veterano dem. Così proprio Conte via Twitter gli ha ricordato: “Basta votare il nostro ddl al Senato per passare subito dalle parole ai fatti”. Però i dimaiani vedono il varco e pungono, con Sergio Battelli: “Cosa vogliamo fare da grandi? E cos’è il campo progressista?”.

“Intercettazioni di Ferri: ora decida la Consulta”

Cosimo Ferri continuerà a essere processato dal Csm? Oppure la Camera dei deputati con il no all’utilizzo delle intercettazioni lo ha salvato dal processo disciplinare, come magistrato in aspettativa, coinvolto nello scandalo nomine che, invece, per Luca Palamara ha significato l’espulsione dalla magistratura?

È attesa per questa settimana l’ordinanza del collegio del Csm che deve decidere se accogliere la richiesta della difesa del deputato renziano e storico leader di Magistratura Indipendente di buttare tutto nel cestino, dopo il voto a Montecitorio o se, invece, accogliere la richiesta della Procura generale della Cassazione di sollevare conflitto di attribuzione con la Camera davanti alla Corte costituzionale. “L’azione disciplinare a carico di Cosimo Ferri non poteva essere esercitata e non può essere proseguita”, ha sostenuto l’avvocato Luigi Panella, venerdì scorso, all’udienza disciplinare, proprio perché la Camera, il 13 gennaio, ha dichiarato inutilizzabili le intercettazioni a suo carico, quelle dell’ormai arcinoto incontro, in vista della nomina del procuratore di Roma, all’hotel Champagne della Capitale, il 9 maggio 2019, con Palamara, intercettato, Luca Lotti imputato a Roma per Consip e deputato renziano, e 5 membri del Csm poi costretti alle dimissioni e nei mesi scorsi sospesi temporaneamente dalla magistratura. Quelle registrazioni, ha sostenuto l’avvocato, sono il nucleo portante dell’accusa: “Tutto l’atto di incolpazione è fondato su intercettazioni che la Camera ha giudicato inutilizzabili,” quindi “un atto che si fonda sulla violazione della Costituzione non può avere spazio” e “la prosecuzione del procedimento è impossibile perché bisognerebbe azzerare tutto l’atto di incolpazione”. Conclusione: chiedo “che sia disposta l’immediata distruzione delle intercettazioni”.

Ma secondo il procuratore generale aggiunto della Cassazione, Carmelo Sgroi, la Camera dei deputati ha fatto confusione tra profili penali e disciplinari, ha usato “una lente distorta”, un transfert tra azione penale e azione disciplinare. “La ragione di conflitto si annida nelle motivazioni – argomenta Sgroi – perché la Camera ha deciso che le intercettazioni esprimevano l’intenzione di investigare su Ferri prima della riunione all’hotel Champagne”, ma è stata “accertata la totale estraneità di Ferri all’inchiesta penale” di Perugia a carico di Palamara. Lo dicono “le sezioni unite civili della Cassazione”; lo dice anche “il gup di Perugia”. Secondo Sgroi è bene che si esprima la Corte costituzionale “perché accettare questo modo di intendere la prerogativa dell’articolo 68, terzo comma (divieto di intercettare un parlamentare senza autorizzazione, altra cosa sono le intercettazioni indirette come in questo caso, ndr) significa” avallare “in qualche modo una sorta di immunità dal processo”. In sostanza, per l’accusa “c’è un errore di prospettiva. La valutazione della Camera va fatta sul procedimento penale non sul disciplinare”. In ogni caso, ha concluso il pg “espungere le intercettazioni che sono il nucleo fondante dell’incolpazione indirizza il procedimento verso un esito probatorio diverso ma non verso l’improcedibilità” anche perché “il materiale di prova non è solo questo”.

Bustine di nicotina, il renziano fa il regalo a British Tobacco

Il registro delle lobby c’è, ma non serve quasi a nulla. La proposta di legge sulle lobby, ferma al Senato dopo l’ok della Camera, è mutilata da un emendamento che ne ha ridotto l’efficacia. Nel frattempo loro, le lobby, brigano per riformulare secondo i propri interessi i testi in discussione in Parlamento, al di fuori di ogni trasparenza.

L’ultimo esempio è un pacchetto di norme ad aziendam inserito dal governo in sede di conversione del decreto Milleproroghe: 15 commi che regolano il “regime di circolazione e vendita” in Italia delle nicotine pouches, bustine di nicotina da mettere in bocca per soddisfare il bisogno di fumo senza sigarette. Su questo prodotto, British american tobacco (Bat) – primo colosso mondiale del settore – punta per sbarcare nel porto franco di Trieste con un nuovo stabilimento su cui ha investito mezzo miliardo. E perciò lavora da oltre un anno per far approvare le norme che ne consentano il commercio (l’ultimo tentativo, fallito, risaliva alla legge di Bilancio).

Ora l’obiettivo è (quasi) raggiunto grazie all’emendamento al Milleproroghe che il governo, con un blitz dell’ultimo minuto, ha riformulato secondo i desideri di Bat. Ma soprattutto grazie a Ettore Rosato, il presidente di Italia Viva che si è battuto anima e corpo per la causa: le cronache lo raccontano sveglio fino all’alba a presidiare i corridoi di Montecitorio, nonostante non fosse membro di alcuna delle due Commissioni che discutevano il testo (la Affari costituzionali e la Bilancio). “È stato di piantone tutta la notte e ha esultato in modo plateale all’approvazione”, ricorda Raffaele Trano di Alternativa.

Rosato, triestino, contattato dal Fatto, giustifica lo sforzo con un impegno per la città. Ma Bat è la stessa azienda che negli anni passati ha finanziato con 253 mila euro la fondazione Open: in cambio, secondo i pm di Firenze, l’ex ministro Luca Lotti si è “ripetutamente adoperato in relazione a disposizioni normative di interesse” per l’azienda, da cui l’accusa di corruzione. Su una di queste, l’innalzamento dell’onere fiscale minimo sul tabacco, Lotti coinvolse anche Rosato, ai tempi capogruppo del Pd.

Sui rapporti tra decisori pubblici ed emissari privati, tuttavia, in Italia non ci sono regole di trasparenza. O meglio, alla Camera esiste dal 2017 un “Registro dei rappresentanti di interessi” che però è un’arma spuntata: intanto perché disciplina solo l’attività di lobbying svolta all’interno di Montecitorio (mentre il grosso dei contatti avviene al di fuori) e poi perché impone obblighi ridottissimi, con sanzioni che restano sulla carta. Basta guardare la relazione sull’attività di Bat nel 2020 (di quella del 2021, da pubblicare entro il 31 gennaio 2022, non si hanno ancora tracce): risulta che rappresentanti aziendali hanno incontrato nel corso dell’anno Rosato e Maria Elena Boschi, oltre a Debora Serracchiani del Pd, Giorgio Silli di Coraggio Italia e Luca Carabetta del M5S. Ma non è dato sapere quante volte, per quanto tempo o (soprattutto) gli argomenti dei colloqui, riassunti in espressioni generiche (quali ”comunicazione trasparente e costruttiva volta a un confronto sulle tematiche di riferimento”) e non riferite al singolo incontro. In teoria il collegio dei Questori potrebbe richiedere integrazioni e sanzionare le mancanze, in pratica non succede mai. Alcune aziende non hanno mai pubblicato una relazione, altre non specificano neanche i nomi dei deputati (ma scrivono cose tipo “membri della commissione Bilancio” e così via).

Tutt’altre ambizioni avrebbe la proposta di legge approvata dalla Camera a inizio 2022, che prevede un registro da istituire presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato con un “agenda degli incontri” che il lobbista dovrebbe aggiornare ogni settimana indicando luogo, data, ora e durata, soggetto che ha formulato la richiesta, sintesi e contenuto dei temi trattati. Anche qui con un buco notevole, perché un salvacondotto votato da tutti i partiti (esclusi 5S e Alternativa) esclude Confindustria e le altre organizzazioni imprenditoriali, nonché i sindacati, dagli obblighi di trasparenza. Secondo la ong The Good Lobby, “un controsenso che aggrava per legge l’asimmetria già esistente di fatto, legittimando la posizione dominante delle sigle imprenditoriali”.

Open, il Pd fa scudo a Renzi contro i pm che lo accusano

Enrico Letta si cosparge il capo di cenere, in ginocchio di fronte a Matteo Renzi: questo pomeriggio, in aula al Senato, i dem voteranno per trascinare di fronte alla Corte costituzionale dei magistrati di Firenze che hanno chiesto il rinvio a giudizio per finanziamento illecito dell’attuale leader di Italia Viva, allora segretario Pd, nell’ambito dell’indagine su Fondazione Open ritenuta dagli inquirenti la munifica cassaforte del Giglio magico all’epoca in cui al Nazareno si tirava la cinghia con i dipendenti in cassa integrazione. Un orientamento che va per la maggiore in vista dell’ufficio di presidenza del gruppo che si terrà prima di pranzo e dove l’unica opzione scartata in partenza è scontentare Renzi dicendo no al conflitto di attribuzione che pretende sia sollevato da Palazzo Madama a tutela delle sue prerogative di parlamentare. Ma in casa Pd pare scartata anche l’ipotesi di astenersi, ancorché su questa posizione abbia tenuto l’asse con i 5Stelle in Giunta delle immunità lasciando al centrodestra e a Iv l’onere di stigmatizzare l’operato dei pm fiorentini che Renzi ha denunciato di fronte ai loro colleghi di Genova. La via maestra del Pd per l’aula, dunque, è quella di dire sì al conflitto di attribuzione. Se non per convinzione di ciascuno e tutti, per necessità comune.

“Credo che alla fine voteremo a favore di Renzi al di là del merito della vicenda Open. Non può sfuggire il passaggio politico che abbiamo di fronte e che passa da questa questione: dobbiamo evitare di consegnare Italia Viva al centrodestra, che aprirebbe uno scenario devastante a partire dalla riforma Cartabia attesa in Parlamento e dei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega”, spiega un autorevole esponente del Pd a Palazzo Madama, che poi chiosa: “Letta non reggerebbe il manifestarsi di una maggioranza di questo genere”. Né che i dem si spaccassero come una mela: non è un mistero per nessuno che in molti nel gruppo abbiano posizioni filorenziane. E che sarebbero comunque pronti a votare anche in dissenso dal partito se mai l’indicazione ufficiale fosse quella di dire no al conflitto di attribuzione. Un’opzione che non pare essere comunque sul tavolo: “Se ci asteniamo andiamo sotto, ma i nostri potremmo tenerli insieme. Se votiamo contro andiamo a sbattere e renderemmo ancora più evidente la forza dell’asse centrodestra-Iv”.

E l’asse Pd-5S? Pace, anche se ieri durante la direzione dem, Letta è stato particolarmente zuccherino definendosi fiero “del lavoro portato avanti con gli alleati del M5S, un rapporto politico fondamentale che dura e durerà”. Ma intanto va arato anche il rapporto con Renzi, anche al prezzo di qualche imbarazzo.

A dicembre sulla vicenda Open il Pd si era astenuto nel passaggio in Giunta per le immunità, motivando la scelta con la decisione della nuova maggioranza centrodestra-Italia Viva di bocciare la richiesta di acquisire gli atti indispensabili per esprimersi in maniera compiuta e fondata sulla promozione del conflitto di attribuzione. Rivendicando che “la precondizione del garantismo è basarsi sul merito” (copyright Anna Rossomando). Ma adesso il merito pare passato in secondo o terzo piano in casa dem, dove non è più tempo di equilibrismi né di anime belle: ora si tratta di certificare che i pm di Firenze hanno sviato l’indagine e violato le prerogative del senatore di Rignano. Che a dicembre si è presentato subito agli inquirenti, forte del voto appena incassato in Giunta a suo favore, per chiedere alla Procura di archiviare la sua posizione (a proposito di Procure: quella di Modena ha trascinato il Senato di fronte alla Consulta per lo scudo accordato a Carlo Giovanardi). Dopo la richiesta di rinvio a giudizio Renzi ha denunciato i suoi accusatori: la richiesta è stata firmata dal procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal Csm; dal procuratore Turco, che gli ha arrestato i genitori di Renzi e dal procuratore Nastasi, “accusato da un ufficiale dell’Arma dei carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente Mps David Rossi”.

“Mosca ora si sentirà autorizzata a sparare”

Pietro Batacchi, analista militare e direttore del periodico Rivista Italiana Difesa, commenta con tono preoccupato la decisione del presidente russo Vladimir Putin. “Il riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche separatiste del Donbass da parte del Cremlino cambia l’equazione, restringendo lo spazio per soluzioni diplomatiche”.

Perché questa decisione rende la situazione ancora più esplosiva?

A questo punto, anche sotto l’aspetto formale, un’eventuale guerra non sarebbe più tra i separatisti del Donbass e Kiev bensì apertamente tra Ucraina e Russia. In questi otto anni, cioè dalla rivolta di Maidan e quindi dall’annessione della Crimea, Mosca ha sempre negato di avere inviato soldati e mezzi militari nel Donbass ma, d’ora in poi, se i separatisti le chiederanno sostegno militare e finanziario, fatto del tutto probabile, glieli potrà fornire ufficialmente in quanto la legge russa lo permette.

Così facendo Mosca viola gli accordi di Minsk?

A violare gli accordi di Minsk sono i separatisti perché ufficialmente la Russia non era parte del tavolo dei negoziati. Secondo questi accordi le Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Luhansk avrebbero dovuto ottenere un’autonomia da Kiev, non l’indipendenza.

Cosa può ancora fare la diplomazia, visto che il processo di Minsk è fallito definitivamente ?

Non sarà facile trovare una nuova strada per negoziare, ora è inevitabile una reazione da parte dell’Ucraina e dell’Occidente. Kiev non può permettersi che un pezzo del proprio territorio venga definitivamente sottratto e l’Occidente non può consentire che questo succeda: dopo la Crimea sarebbe un’ulteriore sconfitta

Cosa prevede?

Una reazione dura sotto il profilo delle sanzioni e un ulteriore rafforzamento del dispositivo militare della Nato nei paesi dell’Europa Orientale.

La linea di condotta della Nato non ammette l’adesione di paesi in cui vi sia in atto un conflitto. Di conseguenza al Cremlino per evitare l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica sarebbe potuto bastare tenere l’Ucraina destabilizzata con la prosecuzione della guerra ibrida o a bassa intensità, senza dover scatenare una guerra di conquista di tutto il territorio ucraino, non crede?

In linea teorica questo è vero, ma a Putin non basta più. Vuole escludere una volta per tutte non solo l’ipotesi di un ingresso dell’Ucraina quanto un ulteriore allargamento a Est della Nato.

Il numero di soldati e di mezzi finora ammassati dal Cremlino lungo i confini con l’Ucraina sarebbero sufficienti per una invasione su larga scala?

A mio avviso no, pensi che per Desert Storm gli americani hanno impiegato mezzo milione di soldati, poco meno di 200 mila che è il numero di soldati russi che si stima siano stati dispiegati. Anche la logistica non è appropriata per un’eventuale guerra di conquista del territorio che, peraltro, dalla guerra in Iraq e Afghanistan in poi, si è capito non essere sostenibile economicamente oltre che geopoliticamente.

Cosa intende per dispositivo logistico?

Per esempio che i soldati russi devono provvedere ad acquistare con i propri soldi il cibo per alimentarsi. La Russia non è più ricca come un tempo, anche a causa delle sanzioni, per questo non è nell’interesse di Putin fare una guerra per conquistare tutta l’Ucraina.

Joe Biden e l’Unione minacciano sanzioni, ma è la solita solfa

Stop agli investimenti in Donbass: nessuna azienda Usa potrà investire o avere scambi commerciali con le repubbliche di Donetsk e Luhansk. A Washington, costretto a richiamare il segretario di Stato Blinken e il capo di Stato maggiore Milley alla Casa Bianca durante la festa del Presidents’ Day, Joe Biden ha firmato il suo primo ordine esecutivo dopo la scelta pericolosa del presidente Putin.

Nella notte colloqui telefonici con i leader europei e con Zelensky: con il leader di Kiev Biden ha parlato 35 minuti. “Il riconoscimento dei due territori separatisti in Ucraina è una palese violazione del diritto internazionale, l’Unione reagirà con sanzioni contro chi è complice di questo atto illegale”, hanno scritto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e Josep Borrell. Per l’Alto rappresentante della politica Estera Ue è arrivato il momento più buio: “La più grande minaccia alla pace e alla stabilità in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale” è in atto, in discussione ci sono “i principi raggiunti dopo la Guerra Fredda”. A reagire per prime alla scelta del leader di Mosca sono state Germania e Francia. Arrabbiati, ma ancora disponibili a sedersi al tavolo degli sforzi diplomatici, il presidente Emmanuel Macron e il cancelliere Olaf Scholz, che hanno espresso “delusione”, ma nessun dietrofront sui negoziati. La linea di contatto con Eliseo e Bundestag rimane ancora aperta con Mosca, ma è stato indetto un vertice trilaterale con Kiev. Subito dopo l’incendiario discorso del leader russo, Zelensky ha comunicato su Twitter l’avvio di una riunione urgente del Consiglio nazionale di sicurezza. Annulla la sua missione in Congo per la situazione che precipita nei dintorni di Kiev anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, oggi rientrato a New York. Nelle ore in cui il Cremlino rendeva noto che il presidente Putin avrebbe firmato l’atto di riconoscimento dell’indipendenza delle due repubbliche ribelli del Donbass, Borrell concludeva il suo “più lungo e intenso incontro” Consiglio dei ministri Ue. Per l’Alto rappresentante l’Europa è “pronta a tutto ciò che è necessario” pur di evitare una nuova Bosnia-Erzegovina nel cuore della sua mappa: Putin “si sbaglia di grosso” e “sta privando il suo popolo di una prospettiva europea”. Borrell aveva minacciato l’escalation sanzionatoria dell’Unione già prima che Putin firmasse.

Non solo Mosca: finirà nel mirino delle sanzioni anche Minsk se la Bielorussia “prende parte all’aggressione, se c’è una partecipazione con disponibilità del territorio o delle istituzioni”. Pronto ad essere iscritto nella black list europea probabilmente anche il serbo-bosniaco Milorad Dodik, leader della Republika Srpska. A queste mosse si è già detta contraria Budapest: ha già fatto sentire il suo no prima degli altri il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto. Nonostante Borrell abbia ribadito che l’Europa risponderà “come un forte fronte unito”, su punizioni e pene da spedire alla Russia gli alleati finora non hanno mai concordato, né hanno mai raggiunto un barlume di unanimità.

Ogni Stato con Mosca mantiene legami e alimenta interessi diversi. Le misure restrittive finiranno per coinvolgere il più volte nominato gasdotto della discordia, il Nord Stream 2, la vena sotterranea che bypassa il territorio ucraino – da cui transita oggi un terzo del gas russo verso l’Europa – , che parte dalla penisola di Yamal per arrivare direttamente in Germania. Il progetto, costato oltre 11 miliardi a causa delle precedenti sanzioni, è stato terminato ed attende solo le autorizzazioni necessarie per entrare in funzione. Se decidesse di bloccare questa operazione, l’Unione finirebbe per colpire al cuore non solo Mosca, ma anche l’economia di Berlino. Adesso è più probabile che venga bersagliato pure il sistema bancario della Federazione: “la bomba nucleare” finanziaria potrebbe essere lanciata. Le sanzioni potrebbero privare banche e aziende russe del sistema di pagamento internazionale Swift. Mentre la crisi si dipana schizza alle stelle non solo il prezzo del gas, ma anche quello di altri materiali: la Rusal, l’azienda russa che produce il 6% dell’alluminio mondiale, già colpita da sanzioni Usa, potrebbe essere vittima delle nuove misure restrittive di Bruxelles. Lo stesso destino può toccare alle società russe che estraggono e producono nikel, acciaio, cobalto, oro, platino.