Nabokov amava molto gli enigmi, gli scacchi e i taccheggi letterari

Il sapere comico (la tradizione e le tecniche dell’arte di far ridere un pubblico) si fonda su regole originate dall’esperienza, come quella insegnata da Stan Laurel a Jerry Lewis: la chiusura di una gag dev’essere chiara, poiché il pubblico confuso non ride. Regole di questa fatta ce n’è a bizzeffe, e sono il vero tesoro dell’artista di professione. “Così estesa e incalcolabile è l’arte, così segreto è il suo gioco” (Borges, 1932). Si tratta di segreti pragmatici che impari in anni di interazioni con un pubblico, di studio della comicità, di dialogo coi maestri: per questo un comico esperto è piuttosto certo, in anticipo, dell’effetto esilarante delle sue gag (le poche eccezioni confermano la regola), mentre lo stesso non può dirsi del dilettante, definito come tale proprio dai suoi fallimenti ripetuti. Gli incerti del mestiere servono agli incerti del mestiere per imparare come si fa (ci si mettono minimo 10 anni).

L’irritazione da pun, dicevamo, permette all’osservatore di distinguere il comico dall’enigmista: è un indizio di personalità. Il pun ha nell’inglese una lingua ideale, piena com’è di parole dal suono simile; ma a Samuel Johnson irritavano i pun sciocchi (“quibbles”) di Shakespeare. Anche Borges non sopportava i pun: “Il gioco di parole, generalmente, è solo una sciocca ostentazione d’ingegno” (Borges, 1975). “È come se prima di un’operazione matematica qualcuno notasse che il 9 è un 6 a rovescio” (Borges, 1919-1929). Quanto a Socrate, nell’Eutidemo (IV sec. a.C.) dice a Clinia che i giochi di parole sono bambinate (paidià); e paragona i sofisti, che li usano, a burloni che ti tolgono la sedia da sotto mentre stai per sederti.

Al contrario, Nabokov amava la sfida: gli piaceva comporre problemi scacchistici (ne pubblicò alcuni insieme con sue poesie), nascondeva nei suoi testi miriadi di citazioni e di taccheggi da scoprire, e i suoi romanzi erano rompicapi sofisticati: Pale Fire tenne “in scacco” i lettori professionisti per 37 anni, prima che Brian Boyd (1999) risolvesse l’arcano del testo, cioè chi avesse scritto, nella finzione, le due parti: poema e apparato critico. Entrambi Shade? Entrambi Kinbote? Chi, se no? Per arrivare alla soluzione sorprendente occorre leggere il libro tre volte, poiché lo scacchista Nabokov previde la successione delle tre soluzioni nella mente del lettore, le prime due false, la terza giusta. Non stupisce, dunque, che Nabokov amasse i pun e i giochi linguistici; ma univa la loro funzione stilistica (ornamentale, ritmica) a quella poetica (la caratterizzazione, oppure il jamais vu), sicché i fili del tropo risultano invisibili. In tal modo evitava l’inezia del pedante, che non vede le immagini, ma le sillabe. Nabokov praticava i quattro tipi di pun individuati dai retori medievali: paronomasia (accostare due parole dal suono simile: “Ada, or ardor”, “books and brooks”, “soundless and boundless”, “crash of symbols”; “postbrandial brandy”); antanaclasi (una parola viene ripetuta con spostamento di significato: “In this chapter Pushkin stops at nothing to have his story move, and move the reader”); sillessi (una parola viene usata solo una volta, con due significati contemporaneamente, come in Twolice Lautrec, che è una transfonetizzazione con sillessi polisemica: Toulouse Two-louse Two-lice); e asteismo (replicare alle parole dell’interlocutore intendendole in un altro senso; frequente in Shakespeare. Gertrude: Amleto, tu hai offeso tuo padre. Amleto: Signora, voi avete offeso mio padre. Per “padre”, Gertrude intende il suo nuovo marito, Claudio, mentre Amleto intende il proprio padre, ucciso da Claudio).

(7. Continua)

 

Quel fascino discreto di astenersi

Sono convinto che in queste ore decisive per il futuro della Nazione non siano in pochi a meditare sul fascino discreto dell’astensione. Per i grillini più lacerati, tra coloro cioè chiamati a decidere sulla piattaforma Rousseau se il M5S debba concedere oppure no la fiducia al nascente governo Draghi, la terza opzione non sarebbe forse un provvidenziale salvagente? E il nì coniato dal professor Michele Ainis non farebbe un gran comodo ai Fratelli d’Italia, combattuti tra l’orgoglioso isolamento propugnato da sorella Giorgia e il timore di finire inutilizzati nel frigorifero dello storia, come accadde a Giorgio Almirante al tempo dell’onda nera missina? E poi, astenersi in prima battuta per poi decidere quali provvedimenti dell’esecutivo di SuperMario votare e quali no non sarebbe il modo migliore per marcare stretto quell’intruppone di Matteo Salvini? Siate sinceri compagni duri e puri di LeU, esserci ma anche non esserci non è il vostro sogno nel cassetto per evitare contaminazioni con i sequestratori di Ong e gli amici di Casapound? (quanto a Roberto Speranza abbia pazienza e salti un giro).

L’elogio delle mani libere rievoca un antico governo della non sfiducia. Era il 31 luglio 1976, e mentre l’Italia viveva l’ordinaria emergenza del terrorismo e della lira a picco, nasceva il terzo gabinetto Andreotti con il voto favorevole della Dc e dei sudtirolesi, e le astensioni di Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli. Riuscì, pensate, a restare a galla un paio d’anni. Da ciò si ricava la natura multiforme dell’astensione che oltre alla consueta modalità sospensiva può manifestarsi nella veste opportunista (qui lo dico e qui lo nego), cinica (che mi dai in cambio?), intimidatoria (il nì che promette un no), fausta (oppure un sì). Si può dare vita insomma a un ventaglio cangiante di posizioni, a un acrobatico triplo salto con piroetta, o se preferite a un kamasutra di salute pubblica. Va detto infine che nello stretto interesse del premier pervenire (o non frapporre ostacoli) a una scrematura dei più incerti e dubbiosi potrebbe non essere un danno. Per arginare il rischio di un’ammucchiata troppo indistinta e dunque incline alla contrattazione sfibrante e alla politica del rinvio. Ma ecco qui di seguito un paio di massime utili. “Non appena ci manifestiamo in un modo o nell’altro, ci facciamo dei nemici. Se vogliamo farci degli amici o conservare quelli che abbiamo, l’astensione è di rigore” (Emil Cioran). Ma anche: “Nel rischio astieniti” (Marcello Marchesi).

Il vecchio De Gasperi. È tornato tra di noi

 

• “Preciso, sintetico, quasi perentorio, un drago…”, racconta piacevolmente colpita Emanuela Rossini, vicecapogruppo del gruppo delle Minoranze linguistiche. “È alle prese con una realtà che non ha precedenti nella storia di questo Paese, forse solo De Gasperi prima di lui”, chiosa il socialista Riccardo Nencini. A De Gasperi pensa anche Bruno Tabacci, che racconta come “chi non abbia mai conosciuto Draghi prima d’ora si possa sentire anche in soggezione una volta che ce l’ha davanti, per determinazione e lucidità”.
Il riformista

• L’arrivo di Draghi fa rivivere quel filo che dalla visione di Spinelli alla tenacia di De Gasperi ci ha spinto nel gruppo degli ideatori e dei fondatori (dell’Europa). Che ci siano “convertiti” non è una tragedia. Al contrario. Se vogliamo, conferma la bontà della causa.
Corriere della Sera

• Vaccino Draghi alle banche. L’ex numero uno Bce ha in mente un pacchetto-credito e gli istituti volano in Borsa. I titoli festeggiano le possibili fusioni. Piazza Affari +1,5%, giù lo spread.
Milano Finanza

Scandalo TeleJato, Ingroia: “Un processo senza prove”

Una richiesta di condanna spropositata, ingiusta e folle, a 11 anni e mesi 6 di reclusione per Pino Maniaci, superiore ad alcuni degli imputati condannati in primo grado per la Trattativa Stato-mafia, ben superiore alla condanna definitiva a Marcello Dell’Utri per un ventennio di collusione con la mafia, (…) ben superiore alla condanna dell’ex giudice Silvana Saguto, a 8 anni e 6 mesi per corruzione, falso e abuso d’ufficio”.

È un fiume in piena l’ex magistrato Antonio Ingroia, che fino a qualche anno fa vestiva i panni della pubblica accusa della Procura di Palermo nei processi sulla Trattativa e sui depistaggi di Stato. Oggi Ingroia è l’avvocato del giornalista Pino Maniaci. Si tratta del fondatore di TeleJato, la televisione di Partinico (Palermo), ritenuto in passato uno dei baluardi dell’informazione antimafia isolana, fino al 2016, quando venne travolto dall’inchiesta della Dda di Palermo sulla mafia di Borghetto, piccolo Comune del Palermitano, che portò all’arresto di 10 esponenti del clan, per associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni.

Maniaci è imputato per quattro episodi di estorsione ai danni di sindaci e amministratori di Borghetto e Partinico, perché li avrebbe minacciati di diffondere “notizie lesive” per la loro “reputazione e immagine”, ottenendo in cambio somme di denaro, tra i 200 e 300 euro, e l’acquisto di 2 mila magliette con il logo dell’emittente. Inoltre, Maniaci è accusato anche di diffamazione per aver “offeso e denigrato la reputazione” di tre cronisti locali. Accuse pesanti – su cui inizialmente pendeva anche l’aggravante mafiosa (poi caduta) – per le quali la sostituta procuratrice Amelia Luise ha chiesto la condanna a 11 anni e 6 mesi, più un’ammenda di 5 mila euro. “Siamo su Scherzi a Parte oppure siamo nel Palazzo di Giustizia di Palermo? – dice l’avvocato Ingroia davanti al giudice della corte d’Assise, Mauro Terranova –. Siamo nel palazzo che fu di Falcone e Borsellino, oppure siamo ripiombati nel ‘palazzo dei veleni’, il palazzo dei corvi istituzionali e degli sciacalli che facevano le imboscate alle persone perbene come Falcone e Borsellino, solo perché erano contro il Sistema?”. Nelle oltre due ore di arringa, Ingroia ha difeso Maniaci definendolo vittima di un “processo kafkiano” in una “vicenda processuale rappresenta della verità rovesciata”, in cui “l’uomo senza colpa è trasformato nel colpevole da giustiziare ingiustamente”.

“Un castello di accuse infondate – aggiunge Ingroia – che ha visto la morte civile di un uomo, sbattuto in tv insieme ai mafiosi, gli stessi che ha denunciato per tutta la sua carriera. Un’operazione che aveva una funzione: la stigmatizzazione mediatica e la condanna immediata per Maniaci”.

Secondo la difesa, gli amministratori “non subirono minacce e soggezione” dal giornalista, anzi sarebbero stati loro “a pagare Maniaci tentando di corrompere per il suo silenzio”, per far mutare la “sua linea editoriale”. L’ex magistrato ha citato anche le dichiarazioni rese in controesame da una delle vittime che ha negato di aver subito “minacce e estorsioni da Maniaci” e di non aver “mai pagato l’affitto della casa” al giornalista. La colpa del direttore di TeleJato, secondo Ingroia, sarebbe stata denunciare a più riprese le opacità del giudice Saguto, ex presidente del tribunale di prevenzione palermitano nella gestione dei beni confiscati. “La Saguto venne più volte presso la caserma dei carabinieri di Partinico che indagava su Maniaci. Le intercettazioni della Procura di Caltanissetta registrano l’interesse e le sollecitazioni della Saguto perché le indagini della Procura di Palermo su Maniaci si accelerino e arrivino in fretta a destinazione. Bisognava colpire Maniaci per delegittimare le sue inchieste sul Sistema Saguto, così da salvare il soldato Saguto”.

A cinque anni di distanza dall’inizio dell’indagine, bisognerà attendere l’8 aprile, quando verrà emessa la sentenza di primo grado.

La soprintendente, la figlia e il regista. Le clip promozionali si girano “in famiglia”

Le clip promozionali per le attività della Soprintendenza archeologica di Milano vengono realizzate dal regista con cui collabora la figlia della Soprintendente, in qualità di “operatrice” e “ideatrice”. Il caso coinvolge l’architetto Antonella Ranaldi, soprintendente per la città metropolitana di Milano, il dirigente del Mibac che ha in mano i dossier più scottanti della città: dalla riconversione/abbattimento dello stadio di San Siro, ai nuovi metrò, fino alla recente polemica delle palme davanti alla Basilica di San Vittore. Ranaldi lunedì prossimo presenterà l’anteprima del video che documenta i lavori del Pan, Parco Amphitheatrum Naturae, il parco archeologico dell’Anfiteatro di Milano. Il cortometraggio porta la firma di John Bandieramonte, regista che si avvale della collaborazione stabile di Marta Ranaldi, la figlia 25enne della Soprintendente.

“Marta non percepisce alcun compenso, lo fa per passione, a titolo gratuito… un po’ sfruttata”, dice al Fatto Antonella Ranaldi. “Si tratta di uno stage formativo utile per il suo curriculum, ma totalmente a titolo gratuito”, conferma Bandieramonte. Fatto sta che il videomaker, 37 anni, secondo quanto dichiarato da Ranaldi, avrebbe incassato circa 6.000 euro per un lavoro, “tutto pagato dagli sponsor, una piccolissima parte rispetto al costo degli scavi”, assicura. Sul sito di Palazzo Litta non compaiono però affidamenti di questo tipo, né nella sezione “Trasparenza”, né altrove.

Sempre a Milano, Bandieramonte, su input della Soprintendenza, sta lavorando anche al video relativo alla giornata di smontaggio e rimontaggio del muro romano ritrovato durante gli scavi del metrò M4. Anche questo pagato dalla Soprintendenza, ma senza traccia di gara. Sulla stessa giornata esistono già altri due filmati: uno girato dalla truppe incaricata da Atm – la società che gestisce i trasporti a Milano – e l’altra da Salini Impregilo, la società che sta costruendo il metrò. Quello di Bandieramonte è il terzo video sullo stesso argomento. Sei mesi fa, il 15 luglio 2020, presentando il restauro della basilica di San Lorenzo Maggiore, la Soprintendenza annunciava che era in lavorazione “un video che accompagni i visitatori”, per “la regia di John Bandieramonte su idea di Marta Ranaldi”. Anche di questo incarico sul sito non si trova traccia. Ma il regista e la sua stagista hanno firmato anche alcune clip – sempre volute dalla Soprintendenza – che ruotano sui monitor di Grandi Stazioni, la società del gruppo Fs che gestisce le principali stazioni ferroviarie italiane.

“Senza di noi il sistema collassa: ora prorogateci”

“Io oggi sono qui a manifestare, domani accompagnerò una ragazza al colloquio con un’azienda. Ma non si tratta di una persona che prende il Reddito di cittadinanza, semplicemente ha trovato l’annuncio, si è candidata e noi le prestiamo consulenza”. Ieri, per la prima volta, i navigator di Anpal Servizi sono scesi in molte piazze italiane per chiedere di non essere mandati a casa a fine aprile, data di scadenza dei loro contratti. Ne hanno approfittato per provare a smentire i falsi miti coi quali, nell’ultimo anno e mezzo, è stata descritta la loro professione. Come racconta questo operatore, per esempio, i loro utenti non sono solo quelli che ricevono il sussidio anti-povertà, ma tutti quelli che si rivolgono ai centri per l’impiego.

I sindacati Nidil Cgil, Felsa Cisl e UilTemp vogliono una proroga di un anno dei loro co.co.co., ma per capire i margini di trattativa bisogna aspettare che si insedi il nuovo governo: il tentativo è di far entrare la norma nel prossimo decreto Ristori. “Senza di noi – fa notare un altro navigator al presidio di Montecitorio – i centri per l’impiego andrebbero in difficoltà: già oggi, nonostante noi e altri collaboratori, non c’è personale sufficiente e dopo lo sblocco dei licenziamenti ci sarà un’ulteriore massa di persone che chiederà aiuto per ricollocarsi. Il rischio è che vengano abbandonate”. Finora ognuno dei circa 2.400 navigator ha assistito circa 200 persone, oltre ad aver gestito i rapporti con centinaia di aziende. Le relazioni con gli utenti – spiegano – sono frequenti e informali; spesso ci si sente su Whatsapp e l’aiuto è anche per questioni più banali come la creazione dell’identità digitale. “Durante il lockdown – dicono – abbiamo lavorato solo telefonicamente, ma con alcuni di loro non è stato facile tenere i rapporti a distanza. Oltre a queste difficoltà, la domanda di lavoro da parte delle imprese è stata molto scarsa e anche la formazione ha subito una battuta d’arresto”.

Le ’ndrine e i rifiuti radioattivi: “Qui è come Chernobyl”

Rifiuti ferrosi, ma anche rifiuti radioattivi. La ’ndrangheta in Lombardia diversifica il business facendo girare in quattro anni oltre 60 milioni di euro. Nel maggio 2018, 17 tonnellate di materiale radioattivo vengono sequestrate a Brescia. Pochi giorni prima un imprenditore vicino al gruppo mafioso sbotta: “Do per scontato che la roba è italiana, ma fatta venire da dove? In cavi da Chernobyl per avere una radioattività del genere? Per quella roba lì la mettono in galera”. A gestire gli affari era il calabrese Cosimo Vallelonga, alias “la mantide” coinvolto in alcuni processi di mafia tra cui il maxi-blitz “Infinito” del 2010, e già ritenuto vicino alla cosca Mazzaferro. L’operazione conclusa ieri dalla Guardia di finanza di Milano e dalla Questura di Lecco con il coordinamento della Procura di Milano ha coinvolto 18 persone. Tre di loro, Vallelonga compreso, sono accusate di associazione mafiosa. Vallelonga gestiva tutto dagli uffici del mobilificio Arredomania in provincia di Lecco. Qui sono stati immortalati “incontri di mafia” con personaggi di spicco legati alla potente cosca del boss Franco Coco Trovato. I rifiuti ferrosi venivano rivenduti “in nero” attraverso l’emissione di fatture false. Diverse le società “cartiera” che emettendo fatture false davano “copertura contabile” alla vendita a terze società che bonificavano il prezzo dei rifiuti su reali conti correnti di altre società legate anche a Vallelonga. Da qui poi il denaro veniva monetizzato in contanti con prelievi quotidiani che in tre anni hanno raggiunto la cifra di 29 milioni. Il denaro veniva reimpiegato in un sistema di usura, in ristoranti e autosaloni. Le intercettazioni poi spiegano il livello mafioso. Vincenzo Marchio, vicino a Vallelonga: “La gente ci descrive come fossimo dei diavoli, parlano come se ammazzassimo la gente così a caso, non è vero, sappiamo farlo quando serve, se non serve faccio la persona normale”. Conclude Vallelonga: “Qui facciamo come in Calabria”.

Abruzzo, colata di cemento vicino al mare. La struttura turistica “occupa” la spiaggia

Una colata di cemento sulla spiaggia, a pochissimi metri dalla battigia e dal mare, “fin quasi sulla zona bagnata dal moto ondoso”. Succede a Fossacesia, in Abruzzo, per realizzare una struttura turistica nel cuore di quel paradiso naturalistico che è la Costa dei trabocchi. La denuncia è del coordinamento “Tu Vi.V.A.”, che raggruppa più di 70 realtà tra associazioni, comitati e imprese del turismo. Prende le mosse da una serie di foto che stanno facendo il giro dei social, con condivisioni e commenti. “Siamo sconcertati per ciò che ci sembra un’occupazione invasiva e legata a un vetusto progetto di sfruttamento delle spiagge – protestano gli ambientalisti, che hanno inoltrato le foto alle autorità –. Poi tutti a lamentarsi dell’erosione costiera e a chiedere soldi pubblici per difendere l’indifendibile”. Due mesi fa aveva sollevato una ridda di polemiche un altro progetto nell’area: la costruzione di bagni vista mare, una sfilata di “pugni nell’occhio” rigorosamente in cemento.

Ecco il modello Lombardia: medici fiscali non immunizzati

Proprio nel giorno in cui il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, dichiara che i liberi professionisti lombardi forse non dovranno attendere il 4 marzo per il vaccino (come raccontato dal Fatto), perché informalmente Regione Lombardia avrebbe riferito di voler anticipare i tempi, scoppia il caso dei medici fiscali. Anche loro, liberi professionisti al servizio dell’Inps, non lo avranno fino a marzo. Nonostante ogni giorno visitino lavoratori in malattia. “È una discriminazione incomprensibile – protesta nell’anonimato uno di loro – ogni mese facciamo circa 140 visite, entrando nelle case di malati, stando a contatto con loro, i familiari, i conviventi. Siamo esposti al rischio. Però il Pirellone si è dimenticato di noi. E intanto si vaccinano gli amministrativi e i loro figli…”.

Nessun medico fiscale milanese è stato vaccinato, a differenza dei loro colleghi in altre regioni. Oltretutto l’Inps, che li paga a visita effettuata, non ha fornito né mascherine né camici. “Li dobbiamo cambiare dopo ogni visita, con una spesa di circa 1.000 euro al mese! E poi noi non visitiamo in studio, dove si usano tutte le norme di sicurezza, andiamo noi dai pazienti. A volte troviamo stranieri che vivono in quattro in un monolocale e non possiamo obbligare nessuno a indossare le mascherine”. L’unica arma che resta è rifiutarsi di visitare, “ma così non ci pagano. Ho scritto anche all’assessore Moratti, non ci ha mai risposto nessuno”.

L’Oms: “Il virus non viene da un laboratorio cinese”

Non c’entrano i laboratori, ma gli animali, anche se non si sa con certezza quali, e forse il freddo: quello che mantiene il cibo congelato. Secondo quanto riferito nella conferenza conclusiva dagli esperti dell’Oms arrivati in missione in Cina il 14 gennaio scorso, il SarsCov2 è di origine animale e non è esclusa l’ipotesi di trasmissione dai cibi congelati. Non ci sono prove della presenza del virus prima del dicembre 2019, quando cominciò a strisciare nel mercato di Huanan. Primo epicentro del focolaio della malattia è stata Wuhan, megalopoli estesa quanto Chicago ma più popolosa di New York, e, secondo quanto appurato finora, “non è arrivato dall’estero”, come suggerito timidamente da Lian Wannian, a capo della delegazione scientifica di Pechino.

La task force di 17 esperti Oms provenienti da dieci Paesi diversi – sempre accompagnati dai 17 scienziati della controparte cinese – ha ribadito che l’ipotesi del virus nato in laboratorio non ha prove fondate, è una teoria che possiede tutti gli ingredienti per un film thriller, ma non per una scoperta dalla dignità scientifica. “Non ci sono prove che sia scappato dal laboratorio di biosicurezza dell’Istituto di virologia di Wuhan”, ma la notizia è un’altra: questa tesi non verrà investigata oltre.

L’immagine che dipinge la squadra dell’Oms è quella “classica da inizio epidemia”: la malattia ha cominciato a diffondersi “tra la gente che lavorava e comprava al wet market, non si sa come sia stato introdotto e si sia diffuso nel sito”, gli infetti hanno riportato sintomi a fine dicembre e inizio novembre 2019. Questi i dati riferiti dallo zoologo Peter Ben Embarek, che però ha fatto convergere anche un’incertezza nel rapporto finale: il virus era presente anche “in soggetti non legati al mercato, quindi non è chiaro”.

Intanto negli 11mila campioni di sangue di animali prelevati in 31 diverse province cinesi non c’è traccia dell’infezione: bisogna pertanto studiare “i pipistrelli fuori dalla Cina”, ma c’è da analizzare anche pangolini, visoni, gatti e altri felini per trovare “l’ospite intermedio” che ha permesso il contagio con gli umani, con ulteriori ricerche mirate. Altre indagini saranno destinate ai campioni di sangue prelevati dai pazienti cinesi e da cui sono già emersi “dettagli cruciali”, hanno riferito gli esperti che ora lasceranno la Cina per raggiungere altre nazioni, ma “senza alcun vincolo a una località” specifica. Il team procederà alla comparazione delle sequenze genetiche raccolte in Cina con quelle di pazienti in altri Stati. Chi rimaneva in attesa di una clamorosa e definitiva scoperta sull’origine della malattia che ha ucciso già più di due milioni di persone dovrà affidarsi al risultato di ricerche future e più complessive e accettare quest’approssimazione progressiva alla verità.

Embarek ha poi concluso: “È cambiata radicalmente l’immagine che avevamo prima? Credo di no”.