Il “pacco Bertolaso” già bocciato dal Cts. E in Umbria fa flop

Il piano di salvaguardia della sanità regionale varato a novembre, con la “superconsulenza” di Guido Bertolaso, è rimasto solo su carta. Così ora l’Umbria di Donatella Tesei si trova impreparata di fronte alla drammatica impennata dei contagi nella provincia di Perugia, con la presidente leghista costretta a implorare l’arrivo di un surplus di fondi e farmaci al governo nazionale. Tutto ciò mentre lo stesso Bertolaso si vede fermare dal Comitato tecnico-scientifico la valutazione sul suo piano vaccinale in Lombardia, che il governatore Attilio Fontana spera di “esportare” in tutto il Paese, come già consigliato da Matteo Salvini e ieri anche da Silvio Berlusconi al premier incaricato Mario Draghi. Intanto il flop del documento umbro, presentato in pompa magna il 16 novembre scorso, è nei numeri: il piano avrebbe dovuto portare alla creazione di “ulteriori 40 posti letto di terapia intensiva, per una disponibilità complessiva di 167 posti letto”. Ma dal dashboard del ministero della Salute, aggiornato all’8 febbraio, si apprende che l’Umbria oggi è dotata di 130 posti di terapia intensiva. In pratica solo tre posti in più rispetto a ottobre, sebbene sia stato raggiunto “l’obiettivo” minimo imposto dal governo di 14 posti ogni 100mila abitanti.

Un ruolo importante l’avrebbe dovuto recitare l’ospedale da campo da 4,5 milioni di euro promesso da Tesei il 7 aprile 2020. Sarebbe dovuto sorgere a Bastia Umbra, ma dopo tutta una serie di ritardi e cambi di appalto, è stato montato alle spalle dell’ospedale Silvestrini di Perugia. La struttura mobile è stata consegnata il 7 febbraio, ben 10 mesi dopo la dichiarazione d’intenti di Tesei. E non è ancora attiva. Non solo. Ci sono stati problemi anche rispetto ai 12 posti letto di terapia intensiva previsti al suo interno. Lo certifica un documento del 19 dicembre, firmato dal dirigente regionale Sandro Costantini e inviato all’Althea Spa – la società che ha realizzato l’ospedale da campo – con all’oggetto la “non conformità dello shelter installato per la terapia intensiva” e la “diffida ad adeguare e a presentare le certificazioni della struttura”. “Il collaudo è terminato lunedì”, ha assicurato ieri il capogruppo della Lega, Stefano Pastorelli. Ma secondo fonti del Fatto Quotidiano, l’ospedale da campo sarebbe stato “consegnato con riserva e in via d’urgenza” e senza le terapie intensive.

La situazione in Umbria è drammatica. In particolare in provincia di Perugia, ormai da giorni in lockdown. La regione ha l’Rt più alto d’Italia (1,18). Ieri Tesei, in consiglio regionale, ha detto che “la variante brasiliana rischia di diventare il nuovo mostro” e ha invocato 50mila dosi di vaccino anti-Covid in più, ristori per le zone rosse e l’anticipo delle cure con la tecnica dei monoclonali. Gli ultimi dati riferiscono di 77 persone in terapia intensiva, per una soglia di saturazione del 56%, su una popolazione totale (890mila abitanti) che è un terzo di quella di Roma. Manca anche il personale, con il bando per 20 anestesisti che ha portato all’assunzione di sole 10 nuove unità. “La maggioranza che guida questa regione è stata incapace di monitorare e intervenire in modo tempestivo”, ha affermato il capogruppo regionale del M5S, Thomas De Luca, che ha aggiunto: “Troppo tardi, il rischio di paralisi della sanità è palese”.

In tutto questo, che fine ha fatto Bertolaso? Incaricato il 4 novembre come “super consulente” di Tesei per la sanità umbra, dopo il varo del piano e l’intervento “a titolo personale” del 30 novembre a Spoleto, dell’ex capo della Protezione civile si sono perse le tracce. Anche il trasferimento di malati Covid nel “suo” ospedale-astronave di Civitanova Marche – a 150 km dal capoluogo – non è mai stato attuato. Bertolaso, come noto, ora è a Milano a fare il “super consulente” del governatore lombardo Attilio Fontana e della neo-assessora Letizia Moratti. Sua la firma sul piano vaccinale di massa della Lombardia, che secondo Fontana dovrebbe essere una “best practice da proporre anche a livello nazionale”, tanto che Matteo Salvini ha proposto il “modello Bertolaso” anche al premier incaricato Mario Draghi. Ma la valutazione del piano vaccinale lombardo, in chiave nazionale, è stata “sospesa” dal Cts: “Ci sono altre priorità”, spiegano dal ministero della Salute.

Il piano: vaccinare entro giugno i malati gravi e tutti gli over 70

In ordine molto sparso, le Regioni hanno avviato le somministrazioni dei vaccini o perlomeno apriranno le prenotazioni entro due settimane, per chi ha più di 80 anni. Chi ha malattie gravi dovrebbe farcela entro marzo/aprile, i 70/79enni tra maggio e giugno. La regola dettata dal ministero della Salute è semplice: se avete meno di 55 anni (ma più di 18) e state bene, il vostro vaccino è AstraZeneca. Almeno “preferenzialmente”, così si legge nel piano vaccinale aggiornato l’8 febbraio. Le consegne sono appena iniziate. Se invece avete più di 55 anni o soffrite delle patologie indicate nel piano, avrete i vaccini Pfizer/Biontech o Moderna, a cui “si attribuiscono maggiori capacità protettive”, cioè un’efficacia superiore al 90%.

La vaccinazione può iniziare anche prima che sia completata la Fase 1, dedicata a personale sanitario, operatori e ospiti delle residenze per anziani e ultraottantenni. Poi ci sono sei categorie, con un preciso ordine di priorità.

Malati gravi e meno gravi categorie e tempi previsti

La prima è costituita dalle “persone estremamente vulnerabili” e cioè “affette da condizioni che per danno d’organo pre-esistente, o che in ragione di una compromissione della risposta immunitaria a Sars-CoV-2 hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare forme gravi o letali di Covid-19, a partire dai 16 anni di età” (gli under 18 possono fare solo Moderna): c’è un dettagliato elenco di malattie respiratorie, cardiocircolatorie, oncologiche, diabetiche, autoimmuni, cerebrovascolari con specifica indicazione delle condizioni cliniche richieste, fino a dializzati, trapiantati, sindrome di Down e obesità con indice di massa corporea superiore a 35. Secondo le tabelle del piano sono poco più di due milioni di persone e potrebbero essere vaccinate ad aprile. Da qui a giugno infatti, salvo ritardi, l’Italia dovrebbe ricevere 26,7 milioni di dosi tra Pfizer/Biontech (20,8 milioni) e Moderna (5,8), di cui 10,6 milioni entro marzo, ma circa 12 milioni vanno a operatori sanitari, Rsa e over 80 (6 milioni in tutto).

Seguono i 75-79enni (2,6 milioni), poi i 70-74enni (3,3 milioni), indipendentemente dalle condizioni di salute: per loro, ricorda il piano, il tasso di letalità (decessi/contagiati) è sopra il 10%. Difficilmente avranno il vaccino prima di maggio ma dovrebbero esserci dosi per tutti entro giugno. La quarta categoria è composta da chi soffre delle patologie di cui sopra ma “senza quella connotazione di gravità”: sono 5,8 milioni di persone, il tasso di letalità è ritenuto “inferiore” a quello degli over 70 ed è improbabile che siano vaccinate tutte prima dell’estate. Infine, quinto gruppo, chi ha tra 56 e 69 anni: 11,9 milioni di persone, letalità tra 0,5% (56-60) e 3% (60-69). Secondo il piano e le tabelle attuali dovranno aspettare, è la “criticità” individuata dalle Regioni che ieri sera hanno chiesto di somministrare anche sopra i 55 anni il vaccino AstraZeneca, “consigliato” dall’Aifa solo per i più giovani.

Under 55 sani: si parte da prof e poliziotti

È un vaccino tradizionale, si conserva facilmente in frigorifero, ha un’efficacia stimata al 66% (come molti antinfluenzali) almeno in attesa di nuovi dati. Fino a marzo, gli under 55 avranno il vaccino se lavorano nei “servizi essenziali”, si legge nel piano. Che indica il “personale scolastico e universitario docente e non docente, le Forze armate e di Polizia, i setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità” e per il resto lascia fare alle Regioni. È probabile che tocchi ai trasporti, agli enti locali, tutti si mettono in fila.

Da AstraZeneca, salvo intoppi, entro marzo arriveranno circa 5,3 milioni di dosi, sufficienti per le categorie indicate: circa 1,5 milioni di dipendenti tra scuola e università comprese le private, 600 mila nelle forze armate e di polizia e 93 mila tra detenuti e personale delle carceri, a cui però bisogna sottrarre chi ha più di 55 anni o soffre di malattie varie. Da aprile a giugno AstraZeneca promette ben 22 milioni di dosi, anche quelle per gli under 55 senza problemi di salute. A marzo l’Agenzia europea Ema potrebbe approvare il vaccino Johnson&Johnson e prima ancora, eventualmente, il russo Sputnik.

Jobs act, crac bancari e “riforme” disastrose

La grande stampa italiana, si sa, diffida dei dilettanti al potere. Eppure, la narrazione del ‘votate solo chi sa governare e non, s’intende, i cosiddetti “scappati di casa”, non ha accompagnato gli esecutivi dell’ultimo ventennio. Una rapida e inesaustiva rassegna basta a ricordarci, da B. a Renzi a Gentiloni, che la sagra del fallimento nell’arte di governo ci accompagna da tempo.

Lavoro e welfare. Come noto, la precarietà piace alla destra, ma è un pallino del centrosinistra di governo. Il meglio lo ha espresso il governo di Matteo Renzi con il Jobs act. La riforma (fine 2014) fu dettata da Confindustria (con tanto di documento). Di correttivi ne sono arrivati parecchi (oggi si discute la riforma degli ammortizzatori sociali che serve a coprirne le tante falle). Le mitiche “politiche attive” (altra gamba della riforma) non son mai decollate. Il fiorentino l’approvò insieme a 20 miliardi di sussidi alle assunzioni per magnificarne i risultati. Quelli veri però sono arrivati con il decreto Poletti che nell’aprile 2014 liberalizzò l’uso dei contratti precari (facendoli letteralmente esplodere).

Economia. Il rapporto dei governi ad alta dose di competenza con la crescita è sempre stato conflittuale. Al netto dei disastri dell’era Berlusconi (memorabile Renato Brunetta che rivendicava la paternità della cura lacrime e sangue di Mario Monti), gli ultimi 20 anni ci hanno consegnato una crescita stagnante. La stretta fiscale del governo del senatore a vita ha portato la più violenta recessione dal Dopoguerra (prima del Covid): un calo cumulato di 300 miliardi di Pil secondo una simulazione fatta dal Tesoro nel Def dell’aprile 2017. Due giorni prima del “Salva Italia”, Elsa Fornero era scoppiata a piangere al momento di presentare la stretta sulle pensioni (di cui quasi l’intero arco politico ha chiesto per anni l’ammorbidimento prima che arrivasse Quota 100 dei “barbari”). La stretta fiscale ammontava a 65 miliardi di “maggiori entrate” (Imu, Tares, aumento dell’addizionale Irpef regionale, etc) e 25 di “minori spese” (cioè tagli). Doveva ridurre il deficit pubblico e far calare il rapporto debito/Pil rassicurando i mercati. Lo spread, poco sotto i 400 punti, salì a 515 punti il 23 dicembre 2011 con l’ok del Parlamento al testo. La cosa andò avanti fino al whatever it takes con cui Mario Draghi nel luglio successivo salvò l’euro. Il debito/Pil è salito di oltre 10 punti. Il piccolo cabotaggio dei governi Renzi e Gentiloni non ha permesso di recuperare il terreno: nel 2017 il Pil era inferiore di 6 punti al picco pre-2008.

Riforme.La legislatura passata è stata quella dei mega-disegni costituzionali: al netto dei contenuti, la “riforma Boschi” era confusa e tecnicamente sciatta. Venti milioni di italiani l’hanno respinta (e questo a tacere dello scempio dell’Italicum, la seconda legge elettorale in fila cassata dalla Consulta). Quanto a pessimi drafting legislativi (la redazione delle norme) difficile elencarli tutti: la riforma Madia della P.a. (cassata a più riprese dalla Consulta e riscritta); il Codice degli appalti del 2016 corretto a più riprese; la riforma delle Province targata Delrio (le cancellò, ma lasciando loro stessi compiti ma meno fondi e personale).

Scuola. Ci limitiamo qui alla “buona scuola”, riforma ideologicamente tarata sull’alternanza scuola-lavoro, la chiamata diretta e la valutazione dei prof da parte dei dirigenti, la confusa mobilità fra docenti che ha inimicato al centrosinistra il mondo della scuola.

Ambiente. La dozzina di decreti “Salva Ilva” per disinnescare i pm di Taranto hanno scandito l’ultimo decennio, ma la cornice ideologica della competenza si è costruita sui mitici “sblocca cantieri” (pallino bipartisan, va detto): la strada l’ha aperta la “criminogena” (Raffaele Cantone dixit) Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2002 e il culto della grande opera senza controlli (i risultati? Secondo la Fillea realizzato poco più del 15% delle opere, 603 quelle incompiute). Renzi ha chiuso il quadro con lo “Sblocca Italia” che considerava, tra le altre cose, “strategici” gli inceneritori.

Fisco. Una lunga scia di condoni, da quello tombale di inizio millennio targato B. fino alla voluntary disclosure (scudo sui capitali rientrati dall’estero) del governo Renzi (senza considerare le rottamazioni delle cartelle). A fine 2015 lo statista di Rignano tentò perfino di depenalizzare la frode (avrebbe cancellato la condanna di B.).

Credito. È forse il settore dove il dilettantismo dei competenti ha dato il meglio di sé: la sgangherata “risoluzione” di Etruria e delle altre banchette (tosando azionisti e obbligazionisti) ha devastato il sistema bancario; il Montepaschi lasciato a bagnomaria per un anno da Renzi e nazionalizzato dallo Stato; le popolari venete regalate a Intesa Sanpaolo con dote pubblica etc. Una distruzione di valore senza precedenti.

Gli “Incompetenti” battono i “competenti”

Ora che arrivano i “migliori” e i competenti, gli “incompetenti” saranno finalmente dimenticati. Eppure quelli che in questi anni sono stati definiti “gli scappati di casa” lasciano sul terreno un po’ di cose. Eccone un elenco.

Lavoro e welfare. Tra il 2018 e il 2020, “incompetenti” come Luigi Di Maio, Nunzia Catalfo o Pasquale Tridico (sbeffeggiati un giorno sì e uno no) hanno prodotto il Reddito di cittadinanza, che ha dato riparo economico a circa 3 milioni di persone (mai nella Repubblica era stata coperta una simile platea di poveri), il decreto Dignità, che ha messo un limite all’abuso dei contratti a termine, l’estensione della Cassa integrazione a tutte le categorie fino ad arrivare all’Iscro, la Cassa integrazione per gli autonomi istituita nel gennaio 2021. Una linea all’insegna di quella “coesione” fatta da loro sembrava orribile, ma detta da Draghi vuoi mettere?

Economia e bilancio. Se nel primo governo Conte lo spread ha fatto ballare l’Italia con mercati finanziari scettici rispetto all’ipotesi sovranista e anti-euro, a partire dalla crisi del Papeete il divario dei tassi tra Btp italiani e Bund tedeschi è passato dai 222 punti del 13 agosto 2019 ai 106 del 6 gennaio 2021, quindi la metà. In mezzo c’è stata la crisi Covid, che ha fatto schizzare lo spread fino ai 267 punti il 21 aprile 2020, ma poi la discesa è stata netta. Molto più netta della riduzione da 106 a 93 di questi ultimi giorni. In questo stesso periodo non sono stati effettuati tagli al welfare, anzi con il primo governo Conte è stata realizzata “quota 100” che ha ridotto in parte gli effetti della riforma Fornero, e con il secondo governo Conte è stato abolito il superticket sanitario. Sono state prima sterilizzate e poi eliminate le clausole di salvaguardia che prevedevano l’aumento dell’Iva, clausole fissate dall’ultimo governo Berlusconi.

Riforme. Nel primo governo Conte è stata approvata la riforma più invisa al mondo politico-parlamentare, l’abolizione, o quasi, dei vitalizi parlamentari. Con la norma del 2011 si era già passati a una più tradizionale pensione basata sui contributi versati e godibile dal 65° anno di età, ma solo per gli eletti dal 2012 in poi. Nel 2019, invece, è stato ricalcolato l’importo dei vitalizi preesistenti. Riforma ancora più profonda, perché di rango costituzionale, è stata la riduzione del numero dei deputati e dei senatori che dalla prossima legislatura saranno 600 in tutto contro i 945 attuali. Riforma suggellata da un referendum popolare che ha visto il Sì prevalere con il 70%.

Ambiente e clima. Le cronache più recenti si concentrano sul Superbonus del 110% per l’efficienza energetica degli edifici. Intervento di forte incidenza e diffusione, peraltro comune a molti Paesi europei. Ma l’ambiente ha avuto un grande rilievo, nel regno degli “incompetenti”, a cominciare dal decreto “Terra dei fuochi” con la messa in bonifica dei territori, e poi lo stop alle trivelle, la legge “salva Mare”, il decreto Clima, la riforma della Commissione Via che valuta l’impatto ambientale dei progetti infrastrutturali, osteggiata in tutti i modi. Fino al tanto contestato e irriso bonus Mobilità con l’incentivo di 500 euro per l’acquisto di bici, la gestione informatica è stata disastrosa, ma i cui obiettivi sono strategici.

Scuola. Il primo governo Conte ha visto a capo del ministero dell’Istruzione un dimenticato, e dimenticabile funzionario dell’Amministrazione scolastica, ma il secondo ha puntato prima su un professore di Economia, Lorenzo Fioramonti, e poi su una preside, due volte laureata, Lucia Azzolina. Forse la ministra più contestata del governo uscente, la cui gestione della crisi scolastica è stata considerata, ad esempio dall’Unesco, nella media europea. Pagherà l’immagine negativa costruitale attorno sui “banchi a rotelle” mentre l’unica critica vera che può esserle mossa è non aver portato a fondo un suo classico cavallo di battaglia: la riduzione delle “classi pollaio”. In tempi di Covid non era ovviamente facile. Per il resto è stata la ministra che si è schierata sempre dalla parte dei docenti e degli studenti.

Giustizia. Alfonso Bonafede è stato accusato di tutto, ma con il suo ministero si è avuta l’approvazione della legge Anticorruzione, con l’aumento delle pene per i reati di corruzione per l’esercizio della funzione e appropriazione indebita. È sua la sospensione della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le norme per la trasparenza di partiti, movimenti politici e fondazioni politiche, le “manette agli evasori” nei casi di omessa o infedele presentazione della dichiarazione dei redditi e Iva. E poi la legge sul voto di scambio politico-mafioso che ha inasprito le pene fino a 15 anni, fino alla norma che ha evitato la scarcerazione di boss mafiosi con il pretesto dell’emergenza Covid. Il procuratore generale di Torino, Enrico Saluzzo, come ha ricordato Gian Carlo Caselli, ha dato atto al ministro della Giustizia di “una forte accelerazione sul fronte delle strutture e dell’innovazione, con ‘salti’ nel futuro che in condizioni normali avrebbero richiesto anni”. Chissà se è incompetente anche Saluzzo.

Europa. Sul Corriere della Sera di lunedì scorso, il “principe” dei quirinalisti, Marzio Breda, scriveva che, non è forse grazie a Draghi che “le prime due formazioni politiche di questo Parlamento (5 Stelle e Lega) abbiano mutato opinione e si siano convertite all’ancoraggio europeo?”. Quando il M5S, tra molti mal di pancia interni, decise di votare l’attuale presidente Ursula von der Leyen, avviando la vera “svolta” europeista, al Corriere erano forse distratti così come quando l’Italia è riuscita a ottenere i 209 miliardi per il Recovery plan che costituisce il vero fondamento del “competente” governo Draghi. Che non potrà che ringraziare “l’incompetente” che lo ha preceduto.

Un anno di Covid: alunni tra noia e rabbia

Un disagio a volte latente, a volte manifesto, altre volte ingestibile: il Covid, la didattica a distanza e le scuole aperte a singhiozzo ci hanno consegnato giovani e giovanissimi in condizioni psicologiche non certo ottimali. In particolare, secondo quanto raccontano i dati dell’Ordine degli psicologi elaborati assieme al ministero dell’Istruzione, è cresciuta negli scorsi mesi una “emergenza” da stress e depressione. I dati sono particolarmente interessanti perché si basano su interviste rivolte ai genitori, quindi su ciò che hanno notato accadere ai figli quando la scuola è stata chiusa, vuoi per orientamento nazionale, vuoi per autonome decisioni regionali.

La metà degli intervistati ha rilevato cambiamenti nel comportamento dei figli. Due le informazioni rilevanti: l’aumento degli sbalzi d’umore inspiegabili e la maggiore irritabilità, soprattutto nella fascia 3-14 anni. Poi, difficoltà di concentrazione e tristezza generalizzata. Alla domanda “Perché pensa che i bambini non gradiscano la didattica a distanza?” al primo posto sono state identificate la “noia” e la mancanza della dimensione sociale.

In generale, nell’ultimo anno, i problemi psicologici nei ragazzi sono aumentati del 24 per cento, si è passati a utilizzare la tecnologia dalla media di un paio d’ore ore al giorno alle otto ore e più. E anche se sembra che le prestazioni scolastiche non ne abbiano risentito in qualità, una rilevazione concentrata sugli adolescenti, con un campione di 200 classi delle scuole medie, ha invece sottolineato limiti crescenti sulla “rielaborazione personale dello studio” . “I docenti – si legge – lamentano uno studio molto passivizzato, permanenza dei contenuti di studio molto brevi: come se i ragazzi cercassero di ‘togliersi via’ il problema delle verifiche, il tutto in maniera ancora più evidente di quanto già non fosse nella scuola prima della pandemia”. In sintesi, la mancanza di interazione diretta ha generato un aumento del disinteresse, soprattutto verso i contenuti.

La nostalgia della scuola in presenza è stata sentita dal 94 per cento degli studenti (il 54% dice “molto”, il 40 “abbastanza”) e il 98 per cento a settembre è stato felice di poter rientrare in aula. “Il dato più allarmante è che solo il 2 per cento dei giovani italiani, a gennaio, ha riferito di provare gioia o allegria – ha spiegato qualche giorno fa il presidente del Cnop, David Lazzari – I dati dell’indagine ci consegnano uno scenario molto chiaro: la didattica a distanza non attutisce i danni dell’impossibilità di andare a scuola e porta soprattutto stress, noia, fatica”. Ciò che di positivo è stato fatto finora è l’aver previsto la presenza, nelle scuole, di sportelli a disposizione sia dei ragazzi che dei docenti. Quaranta milioni sono stati stanziati per il rientro di settembre, altri 68 erano stati chiesti per il comparto formazione del prossimo decreto ristori, che avrebbero dovuto garantire il servizio non solo per quest’ultima parte dell’anno scolastico, ma anche per l’estate e l’inizio del prossimo.

Una richiesta inserita nei circa 350 milioni chiesti per il settore che dovrebbe coprire eventuali corsi di recupero e soprattutto – nell’ottica del ministro dell’Istruzione uscente Lucia Azzolina – costituire un aiuto per tutti quegli studenti che arrivano da contesti sociali spesso non attrezzati, culturalmente e/o economicamente, per affrontare il disagio psicologico dei ragazzi.

I sindacati: no alla scuola fino a luglio, la Dad è lavoro

Un terreno scivoloso su cui si vedrà a brevissimo quanto il nuovo premier incaricato Mario Draghi riuscirà a camminare senza cadere nei tranelli di una ipertrofia sindacale nella scuola molto attenta ai diritti dei docenti (anche giustamente, se si considerano i livelli salariali, di cui ci si dimentica spesso), meno a quelli degli studenti. Certo, ieri ne ha avuto un primo assaggio: è bastato che trapelasse il suo orientamento favorevole all’ipotesi di tenere aperte le scuole fino a giugno inoltrato per scatenare reazioni orizzontali. Erano attese: fuori dalle battaglie ideologiche e dalle tifoserie da social, è un fatto che l’ipotesi del prolungamento dell’anno scolastico fosse già stato ipotizzato dalla ministra dell’Istruzione uscente, Lucia Azzolina, e messo nero su bianco come prossimo argomento da affrontare nelle linee guida siglate con le Regioni il 23 dicembre scorso. Oggi, quel momento è arrivato, con o senza Draghi.

Sul prolungamento dell’anno scolastico, i sindacati confederali, quelli di base, gli studenti e pure l’Associazione nazionale dei presidi sono allineati: prolungare di default l’anno scolastico significa non dare valore alla didattica a distanza che i docenti hanno portato avanti da inizio anno (dunque lavoro a tutti gli effetti) e che gli studenti hanno – seppur con le eccezioni del caso – seguito. Inoltre, si rischierebbero disparità di trattamento tra gli studenti delle diverse Regioni, visto che non tutte hanno tenuto aperte o chiuse le porte in modo omogeneo. Ognuna ha praticamente fatto come le era più congeniale, soprattutto per le scuole superiori. Solo le sentenze dei Tribunali amministrativi sono riuscite, qualche settimana fa, a riportare tutti in classe (e comunque almeno al 50 per cento), salvo i casi in cui tutto è stato sospeso di nuovo dalla ennesima ordinanza. “Tra le mille difficoltà prodotte dalla pandemia e le inefficienze che abbiamo denunciato, una cosa è innegabile: la scuola ha retto e ha fatto la sua parte” spiega il segretario Flc Cgil, Francesco Sinopoli.

Le scuole dell’infanzia e del primo ciclo, poi, hanno ripreso le attività in presenza già a settembre. “L’offerta formativa – dice Sinopoli – è stata garantita”. Diverso è invece il tema del recupero degli apprendimenti: “Siamo pronti a discuterne, ma la soluzione non può essere il prolungamento generalizzato del calendario. Ci sono scuole che hanno la necessità del recupero e altre no. La risposta non può che essere la valorizzazione dell’autonomia delle singole unità scolastiche”. Ben accolta, invece, l’ipotesi di accelerare sui vaccini e di dare priorità anche agli insegnanti, già prevista dai piani vaccinali precedenti. Lo stesso vale per i tamponi rapidi: da mesi il ministero li chiede (anche questa voce presente nelle linee guida di dicembre), ma né dal ministero della Sanità né dalle Regioni si è mai arrivati a un punto di svolta. Nell’ultimo decreto Ristori, quello che non ha ancora visto la luce, tra i 500 milioni di “ristori formativi” che il Miur sperava di portare a casa, c’erano sia i soldi per i corsi di recupero sia quelli per permettere alle scuole di stringere convenzioni con i privati per i test rapidi.

Nessuna novità, invece, su uno dei dossier urgentissimi: l’esame di maturità. La ministra lascia nel cassetto una ordinanza che prevede per tutti i maturandi la formula del maxi orale già utilizzata lo scorso anno. Il Pd, in realtà, chiedeva la reintroduzione almeno del compito scritto di italiano, ma nell’ottica del ministero a fare da scrematura basterà la reintroduzione dello sbarramento all’ammissione. Dietro, c’è l’idea di dare ai maturandi di quest’anno le stesse regole riservate a quelli del 2020, ma anche pari opportunità a tutti, indipendentemente da come le Regioni abbiano gestito le aperture. Senza contare il rischio che per i contagi, una prova scritta salti improvvisamente senza possibilità di spostarla altrove.

Addio a Franco Marini, fu pugnalato due volte sulla via del Quirinale

Fino a qualche settimana fa, Franco Marini lo si poteva incontrare mentre passeggiava dalle parti di Montecitorio, berretto in testa e sguardo di chi cerca (ancora) di carpire lo spirito del tempo. Di certo, non poteva coltivare per l’ennesima volta il sogno fallito di salire al Quirinale. Ma mentre la Repubblica vive l’ennesimo momento di passaggio, con l’incarico di formare il governo affidato a Mario Draghi, quel sogno fallito sembra diventare l’emblema dei corsi e ricorsi semi comici e semi tragici della nostra storia.

Marini, segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano, è morto ieri, stroncato dal Covid, a 87 anni. Due volte aveva cercato di diventare presidente della Repubblica, nel 1999 e nel 2013. Entrambe s’era trovato in mezzo a una crisi di sistema, fatto fuori da una transizione tra ere politiche, con ruolo dei partiti ridimensionato. Lui che era diventato presidente del Senato nel 2006 (contro Giulio Andreotti), con un’elezione da manuale della politica politicante, con le correnti che “firmavano” le schede per mandare avvertimenti ed evitare tradimenti. Inciampando così su un “Francesco Marini”, ma diventando “Franco Marini”, “Marini Franco” e “Sen. Franco Marini”.

Nel 1999, i partiti tutti insieme scelsero Carlo Azeglio Ciampi, figura che incarnava il concetto stesso di responsabilità nazionale, con un gioco di poker portato avanti da Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, che lasciò tra i vinti quelli che avevano “gareggiato” con lo schema degli schieramenti tradizionali. Marini era convinto di avere in “tasca” lo scambio con D’Alema: lui andava al Colle, l’altro restava a Palazzo Chigi. In corso d’opera, il Lìder Massimo capì che si sarebbe blindato meglio con Ciampi al Quirinale. Con buona pace dell’allora segretario del Ppi, che cercò di portare avanti, pure a giochi fatti, la candidatura di Rosa Russo Iervolino. Per sbottare poi con un definitivo “D’Alema mi ha tradito” e subire il processo dei compagni di partito, eredi della Dc. Indizi che parlano: con Ciampi ad assistere allo spoglio che lo avrebbe portato al Colle c’era l’allora direttore generale del Tesoro, Draghi.

Nel 2013, dopo il fallimento di ogni strategia, i partiti si presentarono (metaforicamente) in ginocchio da Giorgio Napolitano per chiedergli il permesso di rieleggerlo e lo applaudirono in piedi mentre in Parlamento, appena votato il bis, lui li scudisciava senza pietà. Ci aveva pensato Pier Luigi Bersani a offrire in pasto ai franchi tiratori il nome di Marini, pensando di intercettare il voto di B. Ma lo aveva già bruciato Matteo Renzi, con un’operazione che in un colpo solo avrebbe ucciso sia uno dei suoi padri politici sia il segretario dem. Negli studi di Daria Bignardi decretò, alla vigilia dell’apertura dell’urna quirinalizia: “Votare Marini è un dispetto per il Paese”. Un colpo preannunciato in una lettera a Repubblica, in cui ricordava che il candidato non era riuscito neanche a entrare in Parlamento. “Ciao Franco”, ha twittato ieri Renzi. Tra i primi, ça va sans dire.

L’ultima giravolta di Salvini nell’Ue: dice sì al Recovery

Di prima mattina, quando a Bruxelles si riuniscono i 29 europarlamentari leghisti, la decisione è presa. Matteo Salvini, nella notte tra lunedì e martedì, aveva già capito che il voto al Parlamento Ue sul regolamento del Recovery and Resilience Facility (RFF), su cui la Lega si era già astenuta una volta, sarebbe dovuto diventare un “sì” netto, anche per dare a Mario Draghi una prima prova della sua svolta “europeista”. E il leader del Carroccio lo aveva fatto capire ai suoi fedelissimi: “Se entriamo al governo e vogliamo gestire i 209 miliardi del Recovery, non possiamo astenerci sul suo regolamento a Bruxelles”.

Così, dopo il colloquio con Draghi a Montecitorio, Salvini fa capire che la direzione è quella: “L’ho detto a Draghi, un conto era usare i prestiti dall’Europa con un governo Conte che non aveva condiviso niente con nessuno, un conto è essere protagonisti del buon utilizzo di questi fondi, la qual cosa comporta anche un cambio di atteggiamento e di fiducia da parte della Lega”. Sull’immigrazione Salvini abbassa i toni barricaderi (“Chiedo solo di rispettare le regole europee”), depone la ruspa (“adesso serve per costruire”) e poi fa professione di europeismo citando il discorso di Giovanni Paolo II a Compostela del 1982: “Europa ritrova te stessa, riscopri le tue origini e ravviva le tue radici. Torna a vivere dei valori autentici che hanno reso gloriosa la tua storia”.

Poi, nella riunione via Zoom con i suoi 29 europarlamentari, il leader della Lega spiega che il voto a favore “è la conseguenza della fine dell’austerity, senza aumenti di tasse”. E conclude: “Saremo parte attiva e non spettatori come con Conte”. Così, prima di cena, i capigruppo Marco Zanni e Marco Campomenosi annunciano il voto favorevole del Carroccio “per dare concretezza alla nuova fase che sta per iniziare”. La piroetta è completa: la Lega a Bruxelles, prima forza del gruppo sovranista e nazionalista “Identità e democrazia” che va da Marine Le Pen all’estrema destra tedesca di Afd, si era astenuta a dicembre sul bilancio europeo 2021-2027 che sbloccava i 209 miliardi del Recovery e poi aveva ripetuto l’astensione a gennaio sul regolamento. Il voto al Parlamento Ue è iniziato alle 20 e mentre andiamo in stampa non si è ancora concluso. Il regolamento sarà approvato a larga maggioranza ma il dato politico resta: i 29 europarlamentari della Lega, non determinanti, hanno votato sì spaccando il gruppo di Id che si è astenuto insieme a quello dei conservatori (Ecrr) di cui fa parte Fratelli d’Italia.

Che il vento nella Lega fosse cambiato lo si era capito già ieri mattina quando, durante il dibattito in aula, il leghista “no euro” Antonio Rinaldi aveva cambia completamente i toni: “Dobbiamo avere il coraggio e la forza di modificare, con il concorso di tutti, le regole concepite oltre 30 anni fa”.

Il voto favorevole della Lega non dovrebbe cambiare la collocazione del partito a Bruxelles: nonostante lo screzio tra il presidente del gruppo Marco Zanni e il vicepresidente Jorg Meuthen (Afd) sulla figura di Draghi, la Lega per ora resterà nel gruppo sovranista e il voto “ribelle”, spiegano fonti leghiste, viene giustificato col fatto che sulle “questioni economiche” i partiti hanno “libertà di scelta”.

Ma il motivo è più di convenienza politica: al gruppo sovranista non conviene perdere i 29 leghisti prima delle elezioni in Francia e in Germania. In più il Ppe non ha alcuna intenzione di accogliere il leghista. Ma il voto di ieri e l’ingresso della Lega nel governo Draghi crea imbarazzo nel gruppo dei Socialisti di cui fa parte il Pd: “La presenza della Lega nella maggioranza è in contrasto con le alleanze europee che la vedono unita a Le Pen e l’estrema destra tedesca, un fattore di instabilità per il nuovo governo” dice la capogruppo a Bruxelles Iraxte Garcia Perez. Della stessa idea l’europarlamentare della sinistra indipendente vicino a Nicola Zingaretti, Massimiliano Smeriglio: “A Bruxelles c’è un cordone sanitario per non dare cariche a chi fino a ieri voleva cancellare l’Ue – dice al Fatto – ora l’ingresso della Lega nel governo ci preoccupa molto perché a volte con l’obiettivo di alfabetizzare i barbari, alla fine sono loro che sfasciano il sistema dall’interno”.

Rinviato voto su Rousseau. Grillo: “Draghi sia chiaro”

È riapparso dopo tre giorni, e forse ha dovuto proprio farlo. Ma non è bastato neanche lui, Beppe Grillo, a dare una rotta chiara al suo M5S, a mettere ordine. Perché nel martedì in cui il Garante riappare alla Camera innanzitutto per rivedere Mario Draghi, la votazione sulla piattaforma web Rousseau, quella fissata per oggi per decidere se dire sì o no al governo dell’ex Bce, salta. Tutto rinviato, per decisione in serata proprio dello stesso Grillo. “Draghi ci deve garantire pubblicamente le cose che ci ha promesso alle consultazioni”, spiega all’ora di cena ai suoi, riuniti a Montecitorio. Ma c’è anche altro. Ossia il fatto che il Garante ha subìto il voto sulla piattaforma. “Davide Casaleggio è riuscito a imporsi, sfruttando la pressione dei parlamentari contrari” dicono. Non solo. Bisogna anche capire se e quanti ministri verranno concessi al M5S dal presidente incaricato. Per tutte queste ragioni, attorno alle 22, Grillo diffonde un suo video in cui apre a Draghi, ma alle sue condizioni: “Mi sono trovato di fronte a un signore che pare un grillino, mi chiama l’Elevato: ma aspetterei che dicesse in pubblico quanto ha detto a noi stasera, ossia che il Reddito di cittadinanza è una grande idea e che noi abbiamo cambiato la politica”. Invoca “un ministero per la Transizione energetica”, il fondatore, vuole un governo fondato sull’ambiente. “Ma non deve entrarci la Lega – avverte – perché non capisce nulla di ambiente. E Draghi mi ha detto ‘vediamo”. Il Carroccio pare un problema, insomma. Così “prima di votare aspettiamo che dica cosa vuole fare”. “Sembra che ci sia, mi dava ragione su tutto” aggiunge il fondatore. Però “vi chiedo un po’ di pazienza”.

Nel tardo pomeriggio il Garante lo aveva rivisto assieme alla delegazione del Movimento, piazzando anche qualche battuta: “Ad ascoltarla presidente lei pare quasi un grillino come noi”. Sorrisi, saluti, poi il reggente Vito Crimi era uscito per dire che era andata bene: “Draghi non ha neppure citato il Mes”. E invece no. A cambiare tutto è sempre Grillo, che arriva a Montecitorio nel primo pomeriggio, quando la Camera è ancora in ebollizione per la presenza di Silvio Berlusconi. Quello che per lui era lo psiconano, il nemico. A giorni gli ex poli opposti potrebbero stiparsi nello stesso governo. Ma prima bisogna fare i conti anche con l’Alessandro Di Battista che urla ovunque no e con decine di parlamentari che invocano l’astensione, in aula ma prima sulla piattaforma, come un’opzione da inserire tra i quesiti. Una via per far partire comunque il governo Draghi, e magari per rendere più difficile espellere i contrari, visto che da Statuto chi vota no a un esecutivo composto anche dal M5S va cacciato subito. I “ribelli”, da Barbara Lezzi a Elio Lannutti, fino ai deputati Raphael Raduzzi e Alvise Maniero, si ritrovano alle 21 in un V-Day sul web.

E c’è anche Di Battista, che nel pomeriggio ridà la linea in una diretta su Facebook con Andrea Scanzi: “Io voterò no, ma credo pure che chi si astiene non entra nel governo. Può essere un’opzione ragionevole”. Però Grillo vuole altro, e lo ha ribadito ad alcuni interlocutori: “Il M5S per ora ha esaurito la sua spinta, ma se restiamo al governo la ripartenza che si avrà col Recovery Plan sarà anche merito nostro”. Quindi bisogna dire sì su Rousseau. Grillo e Crimi nelle scorse ore avevano arginato Casaleggio, che aveva proposto suoi quesiti, convergendo su una formula più secca. Nella bozza si chiedeva di dire sì “a un governo Draghi con dentro ministri del M5S”, oppure no, obbligando i parlamentari a votare contro la fiducia “e a valutare i singoli provvedimenti”. Sullo sfondo, l’incubo scissione: anche dei sostenitori del sì. “Lunedì alla Camera hanno riunito i capi commissione, e hanno detto che in caso di vittoria sul No su Rousseau avrebbero comunque votato la fiducia”.

Nell’attesa, Grillo torna da Draghi, e gli dice: “Sa, dobbiamo tenere conto della nostra base”. Dopo oltre un’ora riemerge e prende sotto braccio Stefano Buffagni. Poi in serata, il video. E il caos.

Supermario non è Ruby e ora B. non è più malato

È tornato sulla scena politica, Silvio Berlusconi. Ha voluto essere lui a incontrare il presidente incaricato Mario Draghi, ieri alle consultazioni per il nuovo governo acchiappatutti. Buon segno, la presenza del vecchio fondatore di Forza Italia, che negli ultimi mesi si è fatto vedere poco in pubblico — specialmente nei Tribunali dove era convocato.

Ieri a Palazzo Chigi Berlusconi si è mostrato, per fortuna, in gran forma. Quando invece si tratta di processi da seguire, giudici a cui rispondere, udienze a cui essere presenti, la salute si manifesta malferma e scattano le richieste di legittimo impedimento. L’ultimo appuntamento, saltato, era stato il 14 gennaio. Convocato dalla Procura di Roma per essere sentito come persona informata sui fatti, a proposito dell’indagine sull’audio del giudice Amedeo Franco, l’ex presidente del Consiglio si era dato assente (giustificato): aveva fatto sapere ai pm romani che a quell’interrogatorio non poteva proprio essere presente perché ricoverato nel Principato di Monaco per aritmia cardiaca. Quel giorno avrebbe dovuto planare da Montecarlo a Roma per spiegare come era nata la registrazione (abusiva) della conversazione ad Arcore del 6 febbraio 2014, nella quale il giudice Franco (che nel 2013 aveva firmato pagina per pagina la sentenza di condanna definitiva per frode fiscale di B., accusato di aver nascosto all’erario milioni provenienti dai diritti televisivi di Mediaset) si rimangiava la decisione e andava a dire al suo condannato che la corte si era comportata come un “plotone d’esecuzione”. Assente (giustificato) a Palazzo di giustizia il 14 gennaio, ieri Silvio è presente a Palazzo Chigi.

Quello stesso giorno di metà gennaio, era stato convocato anche a Siena, dove è in corso uno dei tre tronconi del processo Ruby 3, per la precisione quello in cui è imputato di corruzione in atti giudiziari per aver pagato il silenzio del testimone Danilo Mariani, il riservatissimo pianista delle serate del bunga-bunga, che ha ricevuto generosi bonifici per 170 mila euro. Anche al Tribunale di Siena era arrivata una istanza dei legali di Berlusconi, che avevano presentato richiesta di legittimo impedimento. Il processo era stato bloccato. Ventiquattro ore dopo, il paziente era stato felicemente dimesso dall’ospedale ed era tornato, per fortuna, nella sua villa in Costa Azzurra.

È da molti mesi che la salute impedisce i liberi movimenti del fondatore di Forza Italia e soprattutto la sua presenza nei Tribunali e nelle Procure. Il Covid lo aveva costretto al ricovero al San Raffaele di Milano. Poi era stata l’aritmia cardiaca a bloccarlo a Montecarlo. Si era aggiunto anche qualche cavillo giudiziario, come quello che aveva fermato il Ruby 3 (troncone di Milano) il 30 novembre e poi ancora il 21 dicembre 2020: per un cambio di capo d’imputazione con connessi tempi di notifica. Insomma: pandemia e aritmia hanno costretto Silvio a stare lontano dalla scena pubblica. Ma SuperMario ha fatto il miracolo (l’ennesimo).