11 mesi e 20 giorni: questo è l’orizzonte di Mr. Bce a Chigi

Undici mesi e una ventina di giorni. Questa, se si guarda con attenzione al campo da gioco della politica romana, è la probabile durata del governo che Mario Draghi si appresta a varare, appoggiato più o meno da tutti e contrastato davvero da nessuno. Tra undici mesi e una ventina di giorni, infatti, il Parlamento sarà convocato in seduta comune per la prima volta per eleggere il successore di Sergio Mattarella, il cui mandato scade il 3 febbraio 2022. A quel punto, come tutti i partiti sanno, per come si è messa la legislatura c’è un candidato unico al Colle ed è proprio Mario Draghi (l’unica possibile altra soluzione, pur residuale, la vedremo alla fine). Questo, ovviamente, comporterebbe il ritorno al voto nella primavera del prossimo anno, soluzione che – peones e partitini a parte – non dispiace sostanzialmente a nessuno.

La presumibile non lunga durata della permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi dovrebbe spingere, dunque, a una certa cautela nel rimpolpare sui media l’agenda del premier incaricato – che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa – di quintali di riforme, ovviamente epocali. I compiti del prossimo esecutivo, d’altra parte, sono enormi anche senza. Ovviamente l’ex presidente della Bce dovrà gestire la pandemia: di quanto e come aprire dovrà iniziare a occuparsi entro lunedì per la mobilità extra-regionale; se continuare col sistema delle zone a colori dovrà deciderlo entro il 5 marzo; di campagna vaccinale ha già parlato lui e delle mille altre incombenze legate al Covid non stiamo qui a dire. Restando sul tema pandemia, peraltro, un primo impegno sarà varare subito il decreto Ristori 5, quello per cui il Parlamento ha già autorizzato maggior deficit fino a 32 miliardi: difficile, in questo caso, che le priorità siano diverse da quelle disegnate dal precedente esecutivo (aiuti a chi ha chiuso, Cig, blocco dei licenziamenti, eccetera).

L’altro impegno ovvio sarà il rapporto con l’Ue che dovrà essere giocato su diverse questioni. In primo luogo il Recovery Plan da presentare alla Commissione europea entro fine aprile: è presumibile che sarà riscritto in maniera sensibile. Insieme a questo va portato a termine l’accordo sulla programmazione 2021-2027, il normale bilancio europeo (già molto avanzato). A latere si giocherà la partita più importante e che rappresenta il vero valore aggiunto di Draghi a Palazzo Chigi: la discussione non facile sulla riforma del Patto di Stabilità, vale a dire il sistema dei – vecchi, insensati e pericolosi – vincoli di bilancio previsti dai Trattati Ue. Il desiderio dei “rigoristi” di tornare quanto prima (cioè dal 2023) al business as usual dei consolidamenti fiscali e degli zero virgola è evidente tanto nei documenti (vedi il regolamento per l’uso del Recovery approvato ieri) che nei comportamenti: alla Spagna, ad esempio, Bruxelles ha già chiesto la riforma (il taglio) delle pensioni per approvare il suo Piano di ripresa.

Il lavoro sulle regole fiscali europee influenzerà anche l’altro appuntamento fondamentale del governo: quello con la legge di Bilancio da presentare in autunno, che disegnerà il quadro triennale dei conti pubblici (2022-2024). Di fatto – tra Recovery Plan, programmazione Ue e finanziaria post-Covid – Draghi traccerà il bilancio dello Stato per i successivi cinque anni almeno. In questo contesto potrebbero essere abbozzate, come collegati o deleghe, le “grandi riforme” (senza aggettivi, né contenuti) di cui sempre si parla sui media: giustizia civile, P.A. e fisco. Le posizioni della sua maggioranza, su questi temi, sono a dir poco eterogenee: risulta difficile, al momento, immaginarsi un accordo (forse un taglio delle tasse per la fascia di reddito 28-55mila, non proprio una riforma). In mezzo, peraltro, andrebbero risolte cosette di non poco conto e su cui la sintesi sarà complicata: Alitalia, Mps, una tornata da 500 nomine in primavera, etc…

Passiamo adesso alla soluzione “B”: può Draghi restare a Palazzo Chigi fino a fine legislatura (primavera 2023)? In un solo caso: che Sergio Mattarella accetti, come Giorgio Napolitano, un secondo, breve mandato. L’attuale capo dello Stato lo ha sempre escluso e ancora in questi giorni – sollecitato sul tema – lo staff del Quirinale rispondeva col recente discorso per i 130 anni dalla nascita di Antonio Segni, nel quale Mattarella cita l’invito al Parlamento del suo predecessore a introdurre il divieto di rielezione alla presidenza della Repubblica abolendo, contestualmente, il “semestre bianco”. Parrebbe un no, ma anche Napolitano disse no finché non disse sì.

Draghi abbraccia Berlusconi. La maggioranza è già al bivio

Stavolta, anche Silvio Berlusconi è sceso a incoronare il governo di unità nazionale. E se non fosse bastata la sua presenza, per quanto straordinaria, ci si è messo il calendario a celebrare il matrimonio perfetto: un attimo dopo la sua uscita dalla Camera, faceva il suo ingresso – con il medesimo obiettivo – l’arcinemico Beppe Grillo.

Tutti insieme sulla barca di Super Mario, che ha il potere di cancellare un trentennio di storia politica italiana. E infatti ride, quando si trova davanti il Caimano, per nulla ferito: “Grazie per essere venuto”, gli dice, dandogli di gomito e non solo perché con il Covid si usa così. “Ti sei preso una bella gatta da pelare…”, solidarizza lui, dandogli del tu.

Solo che nessuno sapeva, in quelle ore felici, che sarebbe arrivato il video di Beppe Grillo a rischiare di mettere tutto in discussione. “Un attimo di pazienza”, chiede il garante 5 Stelle. Perché vuole che Draghi “ripeta pubblicamente quello che ha detto a noi”. E soprattutto non faccia entrare la Lega, che “di Ambiente non capisce niente”. Se sia un veto totale al Carroccio, si capirà nelle prossime ore: di certo, alla vigilia della sua nascita, il governo di tutti potrebbe già non esistere più.

E pensare che in dote, Berlusconi ha portato il “modello Bertolaso”, il commissario per tutte le occasioni che – insiste il leader di Forza Italia – può tornare buono anche per la campagna vaccinale di prossima organizzazione. Draghi non si sbilancia neanche stavolta. Anche se, durante le consultazioni di ieri, si è spinto ad apprezzare il lavoro fatto finora sul fronte della Sanità guidata da Roberto Speranza e pure lo “spirito precauzionale” che ha ispirato l’azione del governo Conte nella gestione della pandemia. Non proprio un segnale rassicurante per la vulgata secondo cui “adesso arriva Draghi e riapre tutto”. Piuttosto, ma qui siamo davvero all’interpretazione dei fondi di caffè, un segnale positivo per la riconferma del ministro in quota LeU.

Di nuovo, Draghi si è tenuto alla larga dal tema della “squadra” e del “perimetro”: nulla fa pensare che abbia cambiato idea rispetto al governo misto, composto da tecnici e politici, ma le parole di Grillo mandano in crisi l’impianto della maggioranza da Fratoianni a Salvini.

Fino a ieri sera tutti notavano solo il nervosismo del leader leghista, che è uscito dalle consultazioni dovendo di fatto rinnegare anni di battaglie: dall’immigrazione fino al Recovery, su cui ieri a Bruxelles gli europarlamentari del Carroccio hanno votato a favore, e alla flat tax, la fiscalità “piatta” a cui Draghi ha già opposto l’idea di una riforma di stampo “progressivo” (che poi è quello che dice la nostra Costituzione). Il Pd, d’altro canto, spera ancora che l’impianto “europeista” del programma Draghi possa alla fine trovare il modo di estromettere la Lega, tanto più che anche dall’Europa cominciano a levarsi le voci di chi vede l’assoluta “contraddizione” di far sedere al governo uno che è “alleato di Le Pen e dell’estrema destra tedesca” (a parlare è il leader dei Socialisti europei, Iratxe Garcia Perez). Il dramma è totale, anche perché Salvini – che pure ieri, al termine delle consultazioni, è apparso ai più come “nervoso” e “imbarazzato” – nel governo vuole entrarci da ministro: non tanto per interesse personale, quanto per evitare di lasciare spazio al suo antagonista, quel Giancarlo Giorgetti che della svolta “europeista” è da tempo sostenitore. Ma, ragionano tra gli ex giallorosa, Draghi potrebbe mai sostenere in Ue una foto sua insieme a Salvini? Finirà che di politici ne entreranno assai pochi. Con buona pace di chi questo governo pensava di poterlo imbrigliare.

Per dire: l’irriconoscibile Matteo Renzi – mai così cauto e silente – resterà fuori, anche per evitare le ovvie ricadute sul reddito a cui l’ingresso al governo lo costringerebbe, dovendo obbligatoriamente rinunciare a “board” e consulenze. D’altronde, non pensava certo a lui, Draghi, quando immaginava “politici all’altezza”. Più facile si ispiri alla “rosa di persone di alto profilo” che ha già pronta Berlusconi. Lui sì che sa come si aggirano, i conflitti d’interessi.

Memento Monti

Se anche gl’iscritti 5Stelle gli diranno sì, Mario Draghi avrà la fiducia più larga della storia repubblicana: 596 deputati su 629 e 302 senatori su 321. Gli voterebbero contro soltanto i 33 deputati e i 17 senatori FdI (e meno male che c’è la Meloni: i governi senza opposizione esistono solo nelle dittature). Un record bulgaro che straccerebbe quello dell’altro SuperMario, Monti, “fiduciato” 10 anni fa con 556 voti alla Camera e 281 al Senato (contrari solo i 59+25 leghisti, a cui s’aggiunsero ben presto i 21+12 dipietristi di Idv, che avevano votato solo la prima fiducia per poi passare all’opposizione). Monti per tre mesi fece il bello e il cattivo tempo sull’onda di un’emergenza drammatica: lo sfascio economico-finanziario in cui il governo B.-3 ci aveva precipitati. Poi, dinanzi alle scelte impopolari di massacro sociale dettate dalla lettera della Bce di Trichet & Draghi, che fecero pagare ai pensionati e ai lavoratori l’intero costo della crisi, la luna di miele finì e iniziarono i distinguo dei partiti. B., capo di quello di maggioranza relativa, iniziò a fare il capo dell’opposizione con la grancassa dei suoi media: Monti passò dal consenso al dissenso e fu persino costretto a sloggiare anzitempo. Tentò di vendicarsi fondando Scelta Civica con Fini e Casini, ma nel 2013 prese poco più dei voti degli alleati Fli e Udc. Gli elettori punirono duramente anche i due azionisti principali del suo governo, FI e Pd, che persero 6,5 e 3,5 milioni di voti, regalando il 25,5% ai debuttanti 5Stelle.

Ora, Draghi non è Monti e l’Italia del 2021 non è quella del 2011: grazie a Conte e ai presunti “incompetenti”, lo Stato non ha problemi di cassa, anzi sta per incamerare 250 miliardi dall’Ue tra Recovery e fondi di coesione, non appena presenterà quel Plan che sarebbe già pronto se l’Innominabile non l’avesse preso in ostaggio dal 5 dicembre. E le altre emergenze sono avviate a soluzione da Conte e dai presunti “incompetenti”, con una gestione della pandemia e una campagna vaccinale tra le più efficaci d’Europa. Ma i frutti di quella cascata di soldi si vedranno tra qualche anno, quando anche Draghi sarà passato (forse al Colle). Il suo governo, però, è molto simile a quello di Monti perché tiene tutti dentro. Il che oggi è un elemento di forza. Ma, quando cambieranno i sondaggi e finirà la luna di miele coi partiti, sarà un fattore di debolezza. A meno che qualcuno non creda davvero che il M5S della Spazzacorrotti, delle manette agli evasori, della legge sul voto di scambio politico-mafioso e della blocca-prescrizione possa convivere amabilmente per due anni con un corruttore seriale, pregiudicato per frode fiscale, nove volte prescritto per gravi reati, amico e finanziatore dei mafiosi.

O che Salvini si sia convertito all’europeismo, alla progressività fiscale e all’accoglienza. O che Pd e LeU abbiano archiviato per sempre le differenze destra-sinistra. Più si avvicineranno le elezioni, più ciascun partito riscoprirà le differenze dagli altri, non foss’altro che per trovare qualcosa da dire agli eventuali elettori. Ai quali ciascuno dovrà presentare i propri successi degli ultimi mesi, se ne avrà ottenuti. E sarà un guaio soprattutto per il M5S che, avendo il gruppo parlamentare più ampio e gli elettori più esigenti, avrà suscitato le maggiori aspettative. Nel Conte-1 aveva 9 ministri (più il premier) contro 8 leghisti e 3 indipendenti. Nel Conte-2, 11 ministri (più il premier) contro 9 del Pd, 1 di LeU e 2 indipendenti. Infatti è sua la gran parte delle leggi di questi tre anni. Ma con Draghi, a quel che si dice, avrà 3 o 4 ministri su 20 o più. E nessuno sa ancora quali. Cosa potrà mai ottenere o mantenere? Che senso ha il mantra del “restare dentro per controllare meglio”? Certo, se strappasse ai vecchi e nuovi alleati Giustizia, Lavoro, Ambiente-Sviluppo e Istruzione con l’impegno scritto, in un contratto di governo, di non toccare le loro leggi-bandiera, sedersi a quel tavolo sarebbe giusto, anzi doveroso. Ma non è aria: tra qualche giorno, salvo miracoli, l’ammucchiata degli altri partiti riesumerà la prescrizione con un emendamento al Milleproroghe.

I numeri in Parlamento e nel governo sono contro i 5Stelle. I media esultano come un sol uomo per la “fine dell’incompetenza”, cioè per la loro fine, preferendo di gran lunga la competenza dei criminali e dei loro compari (nessuno scandalo per la presenza alle consultazioni di B. e del tappetino di Bin Salman). Che senso ha piazzare qualche ministro, magari nei posti sbagliati, per poi assistere impotenti ai nuovi e vecchi alleati che giocano a bowling con le loro conquiste? Se proprio non si vuole dire di no al governo Draghi, cioè a Mattarella che l’ha imposto con la manovra a tutti nota, nulla impone di dire sì, per giunta al buio (a meno che il voto su Rousseau non sia un concorso di bellezza: “Vi piace Draghi?”). Si possono dettare condizioni sui temi del M5S. E, se vengono respinte, ci si può astenere per avere le mani libere e votare di volta in volta su ciascun provvedimento. Per questo il quesito deve prevedere “fiducia” e “sfiducia”, ma anche “astensione”. Se prevarrà la berlingueriana “non sfiducia”, il governo Draghi diventerà pienamente “politico”, perché dovrà scegliere ogni giorno se dipendere dalla Lega o dal partito di maggioranza relativa. E si vedrà anche se la futura coalizione giallorosa M5S-Pd-Leu intorno a Conte esiste ancora, o è soltanto un pezzo di antiquariato o un’esca per gonzi.

L’“abbandonologa” Pellegrino tra lutti, ombre e panni caldi

Ritorna al romanzo l’autrice autodefinitasi “abbandonologa”, neologismo poi inserito nell’autorevole enciclopedia Treccani. La protagonista di La felicità degli altri (La nave di Teseo) è Cloe, è una “sventurata vittima di un’architettura del disamore”. Il canovaccio è un viaggio a ritroso nel tempo, in attesa di “rimettere insieme i pezzi originali del suo edificio distrutto”, un passato di delusioni “residui di esperienze carbonizzate”.

Cloe attraversa tutte le tappe della via crucis interiore dell’abbandonata, dalla casa dei genitori e della perdita alla collina dell’accoglienza, sempre in cerca della luce nelle tenebre: “I nostri corpi generano ombre che ci camminano a fianco, come buoni amici, amici di cui fidarsi. A volte ci precedono, scovando il fosso prima che ci finiamo dentro. Perché le maltrattiamo?”. Tematica cara alla scrittrice esoterica Pamela Lyndon Travers, creatrice di Mary Poppins e del suo indicare senza svelare: “Passando attraverso gli ostacoli e uscendone dall’altra parte le ombre diventano sagge. Quando saprete quello che sanno le ombre, saprete molto”.

Cloe incontrerà un misterioso Professore veneziano, candido e gentile, complice nel tessere la tela del “non visibile”: “Caravaggio dipingeva l’ombra, il buio. Conosceva il luogo oscuro. Si sporcava le mani con la vita vera, quella che gli altri non vedono perché disturba. La luce nei suoi dipinti, la luce su cui noi ci soffermiamo per indicarne il genio, è un bianco che si afferma per contrasto: se non ci fosse ombra, non lo vedremmo”. La poetica relazione tra la giovane Cloe e il saggio Professore è una valida evoluzione di Bill Murray e Scarlett Johansson in Lost in translation: “Ci fermiamo e restiamo così fianco a fianco nella notte, disperati privi di disperazione. Restiamo sconosciuti l’uno all’altra, poveramente assorti nel buio che ci accoglie”.

Con pazienza la protagonista prenderà coscienza di essere amata e, come per abscissione, perderà alcune foglie per rinascere più rigogliosa: “La via della guarigione non è nel dominio di Babele, nelle costruzioni focalizzate o nel castigamatti: è nell’ascolto che si perfeziona il mistero di ciascuno”. La metamorfosi si compie conoscendo un bambino abbandonato di cui, segretamente, s’innamora: “Penso che non è vero che sono figlio di nessuno. Mio padre non viene mai qui perché vive in cielo. Sono figlio di Dio, sai”. La felicità degli altri è un compendio di ricerche e viaggi interiori senza cercare risposte perché “la risposta non è mai dove speriamo di trovarla, ma un panno caldo là dove fa male”.

“La montagna va rispettata: me l’insegnò Mike (con l’orso)”

“Cinque minuti. Ma mi parvero ore”.

Cosa accadde in quel tempo sospeso, caro Massimiliano Ossini?

Giravamo una delle prime puntate di Linea Bianca. Sul ghiacciaio dell’Adamello. Da Cima Cresta, che è dedicata a Giovanni Paolo II, scendevamo verso un rifugio. Ero in cordata con la troupe e le guide. Caddi in un crepaccio. Attorno a me la superficie della neve congelata era liscia come uno specchio. Ogni mio movimento era deleterio. Sapevo che mi avrebbero tirato su, ma davvero quello sembrava un tempo infinito. L’incidente mi ha segnato dentro. Siamo passeggeri in questa vita, nessun contrattempo quotidiano può indurci a sprecare la nostra esistenza con delle stupidaggini.

Non è stato il solo momento critico del suo programma dedicato alla montagna.

Alle Grotte di Frasassi seguii lo stesso percorso degli scopritori di quella meraviglia naturale, tentando di calarmi dal buco aperto in alto sul terreno. Una fenditura poco più larga della mia testa. Non soffro di claustrofobia, ma provai panico trovandomi irrimediabilmente incastrato, il petto bloccato nella roccia, i piedi penzoloni. Gli amici del soccorso speleologico mi tirarono via di lì, con qualche ammaccatura. La lezione è che non ci si improvvisa esperti. La montagna va rispettata, compresa. Se accetti la tua condizione di sudditanza, ti “parla” per rassicurarti.

Qual è il sogno proibito per un conduttore avventuroso, autore peraltro di libri di successo sull’argomento?

I settemila dell’Himalaya, con il mio socio autore Lino Zani e magari con una guida di Alagna, Michele Bucchi, che in quella zona sacra dell’alpinismo ha contribuito alla sua ripulitura: quelle vette sono diventate, purtroppo, discariche di plastica e di bombole di ossigeno lasciate sui campi base dagli arrampicatori. Se riusciremo ad andare, documenteremo tutto.

Ha imparato molte cose inseguendo l’infinitamente grande, ma qualcosa di dannatamente piccolo l’ha perseguitata.

Ho contratto il Covid, nella prima ondata, quando noi marchigiani ci sentivamo lontani dal cuore della pandemia. Pensavo: mi alimento correttamente, faccio sport, sono giovane. Invece per i primi tre giorni fu terribile: dolori lancinanti alle ossa e alle gambe, solo i farmaci potevano darmi sollievo. Anche in questo caso, scoprii come siano importanti i rapporti profondi tra le persone. Siamo stati messi in ginocchio da un elemento invisibile, dovremmo essere più solidali.

C’è una vocazione pedagogica anche nel programma partito ieri e che ogni giorno fino al 19 febbraio condurrà alle 17.30 su Rai2, Campioni di domani.

In parallelo con i mondiali di sci a Cortina, abbiamo messo in campo 24 giovanissimi aspiranti assi delle nevi, provenienti da 12 club di tutto il Paese. Con noi due giurati speciali, fenomeni di questo sport, come Kristian Ghedina e Wendy Siorpaes. I ragazzi sono coinvolti in gare di gruppo, non individuali. E in una competizione aggiuntiva con quesiti di cultura generale su montagna e alpinismo. Qui prevale, appunto, la logica della solidarietà. Se uno cade, gli altri non continuano la discesa per fare un tempo record: lo aspettano. Non conta la vittoria, ma la conquista del valore della fatica, che serve nello studio, nello sport e nella vita.

Ossini, vent’anni di carriera in tv con passaggi a Unomattina, La vita in diretta, Geo & Geo fino a Linea Bianca. Con un battesimo d’eccezione accanto a Mike Bongiorno.

Era un quiz su Sky, Sei più bravo di un ragazzino di quinta. Per la prima volta, Mike si propose nel ruolo di concorrente, mentre io ero il conduttore! Mi chiedevo: come diavolo posso io, debuttante, fare domande alla leggenda Bongiorno? Ma lui, che era dipinto come un burbero, fu gentile e disponibile. Ricordo come una medaglia d’oro il momento in cui si girò verso la telecamera e disse: “Questo giovane Massimiliano farà tanta strada”. E ancor di più quando ci raccontò della sua impresa al Polo Nord, dormendo in tenda, e la paura provata davanti a un orso bianco. Ma la passione per la montagna non lo abbandonò mai. Come accade anche a me.

Magna-magna: La cucina è politica

Narrano le cronache medievali che Oddone, conte di Parigi, nel lontano 888 fu preferito a Guido come Re dei Franchi perché il suo contendente si accontentò di un pranzo da due soldi. Il mangiare frugale non si addiceva a un re.

Un personaggio, ancor prima che una personalità, si definisce anche a partire da ciò che mangia. Nell’antica Grecia, dove la dietetica è branca della medicina e insieme principio di condotta dell’uomo adulto, ci si ispirava al criterio della moderazione, tra i re di Francia meno. Il biografo Eginardo inizia la sua Vita Karoli scrivendo falsamente di Carlo Magno che “era moderato nel mangiare e nel bere”. In realtà i suoi pasti contavano sempre quattro portate e la carne non mancava mai. L’imperatore soffriva di gotta e di svenimenti e i suoi medici sapevano che era colpa dalla sua alimentazione, ma non potevano privarlo dell’autorità conferita dal nesso tra carne e potere.

Il potere del cibo è sempre andato al di là del suo valore nutrizionale. Una tavola apparecchiata è veicolo di idee. Per secoli il “convivio” è stato la cornice della letteratura e della filosofia, o dell’arte. Uno degli aspetti che sembra meno scandagliato è il legame del cibo con il politico. Ce lo ricorda una raccolta di saggi curata dal medievista e storico dell’alimentazione Massimo Montanari, intitolata Cucina politica (Laterza): un itinerario nella storia umana a partire dall’uso della cucina nella sfera pubblica.

Per un lungo periodo si è potuto tranquillamente affermare che dietro un grande politico c’era un grande cuoco. Il 13 febbraio 1466 lo chef più conosciuto di allora, Mastro Martino, fu chiamato da Papa Paolo II a preparare ravioli per una colazione di carnevale offerta al popolo in piazza San Marco a Roma. Nel Rinascimento e nei secoli successivi i banchetti vengono spesso usati come forma di spettacolo. Alla corte del re Sole, che è forse il momento in cui l’esercizio del potere finisce di più per coincidere con l’esercizio della forchetta, la tavola è un archetipo del lusso e della forza: l’avvicendarsi delle portate rappresentano quei principi di ordine e simmetria che informano il suo regno.

Si attribuisce a Talleyrand, camaleontico ministro francese che si schierò prima con la Rivoluzione e poi con la Restaurazione, l’invenzione del parmigiano sulla minestra. Ma il merito è forse più del cuoco che si portò al Congresso di Vienna, Antonin Carème, leggenda delle salse e inventore, pare, del cappello da chef. Le sue creazioni in cucina evitarono alla Francia sconfitta di uscire troppo male dai negoziati. Tanto che a Luigi XVIII che gli inviava ordini, Talleyrand rispose: “Sire, ho più bisogno di casseruole che di istruzioni”.

Un trionfo di “gastrodiplomazia”, come l’avrebbe chiamata il critico Auguste Escoffier sul finire del XIX secolo. Del resto, anche i summit di oggi non sono privi di dimensione conviviale. Pure quando le relazioni sono tese. Cucina politica mette in copertina la foto di un accigliato Ronald Reagan mentre impugna le bacchette accanto a Zhou Enlai, durante una visita in Cina nel 1972. Simile è il testa a testa di fronte a un hamburger tra Obama e Medvedev nel 2010.

In fondo, parlando del programma politico non si usa volentieri l’immagine della “ricetta”? A volte è successo l’opposto: i nomi di politici sono serviti a battezzare determinate composizioni culinarie. Ricordiamo il “pollo alla Rudinì” (dal nome di un politico di fine 800) inserito da Artusi nella sua sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.

L’ultima apparizione in pompa magna del cibo sulla scena politica è forse il momento dei totalitarismi. Cucina politica disserta anche sull’uso propagandistico della “tradizione culinaria”, oltre che, dal 1945 in poi, sull’alimentazione come terreno di coltura del consumismo dell’American way of life. Una stagione definita dal connubio tra il fast food e la “democratizzazione” dello zucchero. Per capire la portata della rivoluzione culturale, si paragoni il “mangino brioches” di Maria Antonietta con la generalizzazione della Girella.

Ma nel dopoguerra la gente aveva fame. Oggi che di cibo ce n’è fin troppo (in Occidente), il problema sembra tornato quello della dieta. Quando Donald Trump rivelò in un’intervista di mangiare troppi hamburger, la reazione non fu certo la stessa di quella dei medici di Carlo Magno. Forse oggi il cibo non è più instrumentum regni, manifestazione di potere. L’unione tra opulenza a tavola e forza di legge pare ridotta a reminiscenza del passato. E leggendo Cibo e politica viene da pensare che la sfida più attuale in un mondo dove tante persone non raggiungono ancora il livello di sussistenza alimentare è una nuova “dietetica” esportabile su scala globale.

Tutte le mosse di Matteo 2.0. Ora citofonerà ai sovranisti

Quando pensavamo di averle viste tutte, sfiniti da un anno di epidemia, ancora frastornati dall’inglese di Renzi, dall’italiano di Di Maio e dalle scottanti testimonianze degli amici del catechismo di Mario Draghi, è arrivata pure la svolta europeista di Matteo Salvini. Roba che nella lista delle svolte improbabili che potevano accadere nel 2021 veniva esattamente dopo la svolta vegana di Salt Bae e quella satanista di Fabio Fazio. Inevitabilmente travolto dalle polemiche per il suo ennesimo cambiamento di rotta, Matteo Salvini ha deciso di interpretare il ruolo dell’europeista convinto cercando di acquisire maggior credibilità, per cui grazie ad alcune indiscrezioni trapelate dal suo staff, siamo in grado di rivelarvi quali saranno le sue prossime mosse:

1) Come prima cosa, basta con questo nome così provinciale, così arretrato, così italiano. Matteo Salvini diventerà Matthew Little Rescue.

2) Quest’estate niente vacanze a Milano Marittima. Matteo Salvini opterà infatti per le coste fiamminghe, così vicine a Bruxelles, ma separate da un esteso braccio di mare dalla sporca, sovranista Inghilterra. Ha già prenotato ombrellone e lettino nel noto stabilimento balneare “Papeten” dove si intratterrà con la nota cubista Sasha von der Leyen la quale, in una sorta di rito battesimale-europeista, gli verserà due litri di Stella Artois doppio malto nelle mutande. Per le vacanze con i figli ha invece previsto due mete diverse: con il ragazzo, dai Paesi Bassi, risalirà su una moto d’acqua della polizia tedesca tutto il Reno, fino alla Svizzera. Con la bambina andrà nel noto parco a tema della Lego, Legoland, in Danimarca, per capire se grazie al suo nuovo slancio europeista il grande colosso di giocattoli è interessato a inaugurare una costola del loro parco tematico: Legaland. La principale attrazione di Legaland riguarderà proprio il ritrovato amore della Lega per la moneta unica, ovvero scoprire sotto quale mattoncino siano stati nascosti i famosi 49 milioni di euro.

3) Niente più selfie con cibo italiano. Basta arance di Sicilia, carciofi romani, salumi marchigiani, risotti milanesi, pesti genovesi. Da ora in avanti, nelle foto di Salvini, solo würstel e crauti, tarte tatin, paella e bacalhau frito. La sua nuova macchina della propaganda social, The beast of Luca Morisi, avrà ancora le donne come principale bersaglio, ma non più le europeiste Boldrini e Rackete, bensì quelle colpevoli di rappresentare un’italianità troppo stereotipata. Morisi ha già ideato le prime pesanti invettive contro Maria Grazia Cucinotta. Una fabbrica di pneumatici nel Veronese sta confezionando una bambola gonfiabile con le fattezze di Manuela Arcuri perché il leader possa portarla con sé sul palco in occasione del suo prossimo incontro pubblico.

4) In arrivo gadget e t-shirt col nuovo slogan della Lega: Europeans first!.

5) Infine, se suona il citofono e sentite una voce minacciosa che chiede: “Mi dicono che qui abita un sovranista!” non abbiate paura: è Matteo Salvini che cerca di convincere Mario Dragons di essere cambiato. Il tempo di una nuova ammucchiata al governo e tornerà a dare la caccia agli spacciatori tunisini.

Noi, nel frattempo, siamo in cerca di quelli da cui si rifornisce lui. Perché per dire “sono diventato improvvisamente europeista? Lascio queste etichette ad altri. Io sono una persona molto pragmatica e concreta” deve averne trovato uno che vende roba, buonissima. La vogliamo anche noi.

Germania, Svezia e Polonia cacciano i diplomatici russi

Commentando la notizia dell’espulsione dalla Russia dei diplomatici tedeschi, svedesi e polacchi, avvenuta durante la visita a Mosca dell’Alto commissario per la politica estera dell’Ue Josep Borrell, il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas aveva assicurato: “I russi non rimarranno senza risposta”. Ieri il Cremlino ha capito che non stava scherzando. Germania, Svezia e Polonia hanno ripagato Mosca con la stessa misura: da Varsavia, Berlino e Stoccolma sono stati cacciati i diplomatici della Federazione. “Con questa scelta il governo risponde alla decisione russa intrapresa venerdì scorso” ha riferito il ministero degli Esteri tedesco, il cui ambasciatore è stato allontanato da Mosca per “comportamento inappropriato al suo status” e aver preso parte alle manifestazioni di piazza che si sono ripetute da un lato all’altro della Federazione in solidarietà con l’oppositore Aleksej Navalny, ora agli arresti.

“La mia visita a Mosca ha evidenziato che la Russia non vuole un dialogo costruttivo con l’Ue. Spetterà agli Stati membri decidere i prossimi passi e potrebbero includere sanzioni”. Borrell – smentendo quanto riferito al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov solo qualche giorno fa, quando gli aveva assicurato che nessuna ritorsione economica era all’orizzonte – ha cambiato versione appena rientrato in Europa. A Bruxelles, dopo la pioggia di critiche ricevute, ha incontrato le alte cariche dei Paesi europei che puniranno la Russia per violazione dei diritti umani. Una condanna verso il dicastero degli Esteri russo è arrivata unita dagli eurodeputati. Era “un incontro da fare, necessario, le relazioni con le autorità russe sono al momento estremamente complicate”. In difesa dell’Alto Rappresentante, di cui hanno chiesto le dimissioni nei giorni scorsi le autorità baltiche, si è espressa la presidente della Commissione europea Von der Leyen: “Che fosse un viaggio delicato lo sapevamo prima che partisse”.

The Crown e le pressioni per tenere segreto il tesoro

L’inchiesta del Guardian esce in una domenica pomeriggio resa più sonnolenta dalla tempesta di neve che si è abbattuta sull’Inghilterra. Il bersaglio è altissimo. “La Regina ha spinto per un cambio legislativo per occultare la propria ricchezza”.

In effetti, tuttora, l’esatto ammontare del patrimonio di Elizabeth è ignoto. Secondo le accuse, la Corona avrebbe agito abusando di uno strumento arcaico ma perfettamente legale: il Queen’s Consent, descritto dal costituzionalista David Allen Green come “Il diritto della monarca (e dell’erede al trono) di essere consultata, e porre il veto su qualsiasi legge che abbia un impatto sugli interessi privati della Corona. È un diritto strutturale a fare pressione che va oltre i sogni della più cinica società di “affari pubblici’ di Westminster”.

Che la Corona abbia approfittato di questa prerogativa è un sospetto affrontato nel 2013 in un rapporto della Commissione parlamentare sulle riforme costituzionali, le cui conclusioni non dissipavano i dubbi: Il Queen’s Consent, si legge nel rapporto, non è un processo puramente formale, altrimenti non si spiegherebbe la fitta corrispondenza fra uffici parlamentari e avvocati di Corte. Ma ai parlamentari non risultava, allora, che “la legislazione proposta sia mai stata alterata per effetto delle procedure di consenso reale”.

L’accurato lavoro di ricerca del Guardian sembra provare il contrario: “Documenti scoperti nei National Archives rivelano che l’avvocato personale di Elizabeth Windsor ha fatto pressione sui ministri perché cambiassero progetti di legge, allo scopo di impedire che i suoi interessi venissero divulgati al pubblico”. Siamo negli anni Settanta e, secondo il Guardian, quelle pressioni sarebbero riuscite nello scopo di creare una struttura occulta, una shell company chiamata Bank of England Nominees Limited, che avrebbe “protetto con un velo di segretezza proprietà e investimenti privati della Regina almeno fino al 2011”.

La soluzione sarebbe stata trovata da Geoffrey Howe, allora ministro del Commercio del governo conservatore di Ted Heath che, con la consulenza della Bank of England, avrebbe inserito una norma che consentiva al governo di esentare alcune società dal rivelare l’identità dei loro reali proprietari: stratagemma esteso a capi di Stato, governi, autorità monetarie centrali ma in realtà concepito per beneficiare la Regina. Quel governo cadde, ma la legge venne approvata identica da quello successivo del laburista Harold Wilson. Buckingham Palace replica negando tutto: “Il Queen’s Consent è un processo parlamentare, in cui il ruolo della sovrana è puramente formale. Il consenso è sempre garantito dalla monarca quando è richiesto dal governo. Ogni illazione che la sovrana abbia minacciato di bloccare progetti di legge è semplicemente sbagliata”. Attenzione: il Guardian non parla di minacce di veto, ma solo di vantaggi derivanti dal poter valutare le proposte legislative in anticipo. Ieri il quotidiano ha rincarato la dose, con un database online di oltre 1.000 leggi su cui Elisabetta avrebbe ‘spinto’ nei suoi 69 anni di regno. Dalla Corona sarebbe arrivata la richiesta di modifiche a norme che avrebbero avuto un impatto sul patrimonio di famiglia.

Dopo il golpe, la legge marziale. Il generale: “Tra un anno il voto”

Divieto di proteste e di riunioni con più di 5 persone, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 4 del mattino. Così ha deciso il regime militare birmano decretando la legge marziale in molte zone di Mandalay, la seconda città del Paese. Questo mentre sui media statali ieri – riferendosi per la prima volta alle proteste scoppiate in seguito al colpo di Stato che ha portato il generale al potere – il ministro dell’Informazione birmano ha dichiarato che “la democrazia può essere distrutta se non c’è disciplina” e che la giunta militare dovrebbe “intraprendere azioni legali per prevenire atti che violano la stabilità dello Stato, la sicurezza pubblica e lo Stato di diritto”. Un primo duro avvertimento seguito alle repressioni della polizia che ieri ha usato i cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti che chiedono la liberazione di Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari. Anche il comandante dell’esercito Min Aung Hlaing, che ha guidato il colpo di Stato ed è ora a capo del Paese ha parlato per la prima volta in tv. In un discorso durato 20 minuti, ha giustificato la presa del potere: “Un’azione dovuta dopo le frodi elettorali – ha detto – Nuove elezioni si svolgeranno tra un anno, con la successiva cessione del potere ai vincitori”, ha assicurato Hlaing. L’Unione europea e il Regno Unito hanno chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, ha fatto sapere l’ambasciatore britannico a Ginevra Julian Braithwaite: “una richiesta per una sessione speciale sulle implicazioni per i diritti umani della crisi in Myanmar”. L’Australia invece ha chiesto alla Birmania il rilascio immediato di un consigliere australiano del governo di Aung San Suu Kyi che è stato arrestato dopo il golpe militare. Si tratta del consigliere per la politica economica Sean Turnell, che dopo aver annunciato sui social l’arresto, non è più risultato reperibile. “Abbiamo chiesto il rilascio immediato del cittadino australiano Sean Turnell”, ha fatto sapere la ministra degli Esteri Marise Payne. L’ambasciata australiana in Myanmar ha fornito a Turnell “ampio supporto durante questo calvario”, ha aggiunto.