Trump: impeachment atto II. “Da mesi sobillava la folla”

Un dibattito e un voto sulla legittimità costituzionale di un procedimento contro un presidente già decaduto aprono oggi il secondo processo d’impeachment a Donald Trump, accusato d’istigazione all’assalto al Campidoglio il 6 gennaio. La Ap testimonia “un senso d’urgenza” nella politica: tutti vogliono chiudere in fretta questo capitolo. Il presidente Joe Biden continua a tenersene fuori: “Lasciamo che se ne occupi il Senato”, risponde a chi gli chiede se Trump dovrebbe perdere i suoi diritti politici. Al termine del processo, il Senato, in caso di condanna, potrebbe, infatti, interdirlo dai pubblici uffici. Da domani, le parti avranno 16 ore ciascuna per presentare le loro tesi. Poi, l’accusa, rappresentata da nove deputati democratici, potrà chiedere un dibattito e un voto sulla convocazione di testimoni. Trump ha già fatto sapere che non intende deporre.

Il capo d’accusa parla d’incitamento all’insurrezione. La documentazione allegata, di cui il Washington Post pubblica estratti, vuole dimostrare che il discorso di Trump ai suoi fan il 6 gennaio è solo la punta dell’iceberg: il magnate sobillava i suoi sostenitori da subito dopo le elezioni, come indicano i tweet e le dichiarazioni rilasciate da molti dei rivoltosi arrestati – oltre 150 –. Il processo, che sarà sospeso venerdì e riprenderà domenica su richiesta di uno dei due avvocati dell’ex presidente, David Schoen, per fargli rispettare il Sabato ebraico, potrebbe concludere il dibattimento la prossima settimana, quasi in metà tempo rispetto al primo impeachment.

In una memoria depositata ieri, i difensori di Trump definiscono il procedimento uno “smaccato teatro politico”, sostengono l’incostituzionalità del procedimento contro un presidente già decaduto e negano che il suo comizio, peraltro – dicono – protetto dal primo emendamento della Costituzione, avesse lo scopo di incitare i fan ad assaltare il Congresso. Sulla costituzionalità il Senato s’è già pronunciato una prima volta la scorsa settimana, con 55 voti a favore – fra cui cinque repubblicani – e 45 contrari. I legali del magnate sostengono che il processo rappresenterebbe “un pericolo per la democrazia e per il diritti che abbiamo cari”. Ma l’accusa respinge le loro tesi, ribadendo che Trump “spinse consapevolmente all’insurrezione violenta”: “Non c’è valida scusa per la sua condotta. E gli sforzi di sottrarsi alle proprie responsabilità sono controproducenti: Trump ha violato il suo giuramento e ha tradito il popolo americano”.

Secondo uno degli strateghi della sua campagna elettorale, Jason Miller, il magnate, se condannato, potrebbe decidere di fondare un terzo partito: il piano è per ora fermo, ma il progetto potrebbe andare avanti se i senatori repubblicani gli dovessero votare contro. Miller conferma che Trump è seriamente tentato dal candidarsi alle presidenziali del 2024: “Gli piacerebbe correre un’altra volta”. Il progetto sarebbe però irrealizzabile se l’ex presidente, oltre a essere condannato, fosse interdetto dai pubblici uffici. E c’è chi già gli costruisce intorno un’aura di martire. Brad Parscale, ex manager, poi licenziato, della campagna 2020, gli lancia un appello su Twitter: “Devi correre per le Presidenziali del 2024. Io ci sono, e tu? Visto che ti hanno messo sotto accusa per due volte devi candidarti di nuovo”. Parscale è convinto che il secondo impeachment darà dei “superpoteri” a Trump, facendone, appunto, “un martire”.

Le testimonianze pubblicate dal Wp sono inquietanti. Jessica Marie Watkins, una barista dell’Ohio, fondatrice di una sua milizia, cominciò a pianificare un’azione insurrezionale subito dopo il voto e, quando partì per Washington ai primi di gennaio, aveva chiaro in testa il suo obiettivo: impedire che il Congresso certificasse il risultato delle elezioni. “Trump vuole che tutti i patrioti siano presenti”, scriveva ai suoi sodali il 29 dicembre. C’è poi lo scambio di messaggi intercettati dagli inquirenti: Kenneth Grayson, un adepto di QAnon di Pittsburgh, scriveva il 23 dicembre, in caratteri tutti maiuscoli, stile Trump: “Io ci sarò (il 6 gennaio, ndr) per celebrare la più grande festa di tutti i tempi, se Pence rovescia il voto in Senato. O ci sarò per investire la Capitale, se Trump ci dice di farlo”. Intanto, la politica è tutta un fermento. Il senatore dell’Alabama, Richard Shelby, eletto ininterrottamente dal 1986, non si candiderà nel 2022 – è il quarto a rinunciare, creando incertezze nei ranghi repubblicani.

Pci, quel “tagliacuci” sulla rivoluzione

Per potersi definire “Comunisti a modo nostro”, come recita il titolo del loro dialogo appena pubblicato da Marsilio, Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli hanno scelto un ben strano modo di celebrare il centesimo anniversario della scissione di Livorno: saltare a piè pari i primi ventitré anni del partito, dal 1921 al 1944.

Liquidati come “una lunga notte buia”, col loro carico di eroismo e ferocia; e pazienza se furono gli anni del sogno rivoluzionario, dell’opposizione clandestina al regime fascista, dello stalinismo, della guerra, della Resistenza partigiana… il centenario va postdatato. Macaluso lo dichiara fin dalla prima pagina: per lui la vera storia del comunismo italiano comincia dal rientro in patria di Togliatti e dall’“accantonamento” del leninismo. Che permetterà la trasformazione del Pci in partito di massa, “non dico socialdemocratico, ma che si richiama alla tradizione socialista”.

Se vorrete dedurne che nel 1921 i due autorevoli ex dirigenti comunisti sarebbero rimasti col riformista Filippo Turati al Teatro Goldoni, anziché seguire Bordiga, Terracini e Gramsci al San Marco, non avrete tutti i torti. Tanto è vero che nella meticolosa rivisitazione da essi compiuta delle svolte della sinistra nel Dopoguerra, il senno di poi li condurrà quasi sempre a dar ragione alle componenti socialdemocratiche: che si tratti di Saragat contro Nenni nel 1947; del ripudio del marxismo decretato dalla Spd nel 1959 a Bad Godesberg; o del braccio di ferro sulla struttura del salario fra Craxi e Berlinguer nel 1984.

Lungo tutto questo arco di tempo il capolavoro politico del “partito nuovo” di Togliatti viene ascritto alla capacità del Migliore di guidare una trasfigurazione programmatica sotto l’ombrello dell’ideologia, tale da consentire ai nostri di autorappresentarsi più socialisti dei socialisti. Paghi del fatto che la “via italiana al socialismo” più nulla aveva a che spartire col “fare come in Russia” d’antan. Lo stesso compromesso storico proposto alla Democrazia cristiana da Berlinguer nel 1973, altro non sarebbe che il compimento di questa strategia togliattiana. Per cui a Berlinguer andrebbe semmai rimproverata la persistente visione anticapitalista, che gli impedisce di aderire fino in fondo al modello di società occidentale.

Logico che da questo tagliacuci della propria storia esca ridimensionata la figura di Antonio Gramsci, ridotto a malinconico pensatore solitario. L’ammirazione nostalgica dei nostri va tutta al Togliatti che fin da subito aveva voltato le spalle all’esperienza consiliare torinese dell’“Ordine nuovo”, convinto com’era che il conflitto sociale debba restare solo una leva al servizio del primato della politica. Ciò che spiegherà l’eterna diffidenza del gruppo dirigente comunista nei confronti dei movimenti per i diritti civili e di quant’altro emergesse alla sinistra del Pci.

Resta da giustificare la prosecuzione fino al 1989 del legame del Pci con l’Unione Sovietica. E qui i due autori si differenziano. Macaluso, seppur con imbarazzo, definisce inevitabile finanche il plauso all’invasione dell’Ungheria nel 1956, visto che l’appartenenza al blocco comunista forniva al Pci un sostegno insostituibile. Petruccioli è più critico nel confronto con la vecchia guardia e ci regala una testimonianza impressionante. Il giorno in cui crolla il Muro di Berlino va a bussare all’ufficio di Alessandro Natta per chiedergli un consiglio su come reagire. Ne ottiene una risposta sconsolata e terribile: “Caro Petruccioli, cosa volete fare… Ha vinto Hitler!”. Certo Natta non era un bolscevico; ma per un militante come lui, iscrittosi al Pci nel 1945, anche dopo il fallimento della Rivoluzione d’ottobre permaneva la necessità di un ordinamento sociale alternativo al capitalismo.

Più coerente di Macaluso e Petruccioli, un altro ex comunista a loro vicino, Paolo Franchi, pubblica per La nave di Teseo un saggio, “Il Pci e l’eredità di Turati”, in cui sostiene che il suo partito “si farà passo passo molto, ma molto, più ‘turatiano’ di quanto dicano le storie che vanno per la maggiore”. Peccato solo – sia detto per inciso – che anche lui sposi la grossolana forzatura secondo cui Umberto Terracini nel 1982 avrebbe detto: “A Livorno aveva ragione Turati”. Falso. Ben altro dovrebbe essere lo spirito con cui guardare un secolo dopo a quella pur tragica separazione, per trarne insegnamento.

Né ci aiuta in tal senso il pamphlet di uno storico militante come Luciano Canfora, La metamorfosi (Laterza), che svolge un ragionamento opposto a quello di Macaluso e Petruccioli condividendone però l’assurda post-datazione al 1944 dell’atto di nascita del Pci. Fervente togliattiano anch’egli, Canfora non crede affatto che il “partito nuovo”, indicando l’unità nazionale e le riforme di struttura come via italiana al socialismo, fosse destinato a sciogliersi nell’indistinto “democratico”. Anzi, sostiene che Occhetto, D’Alema e gli altri coetanei di matrice togliattiana nel 1989 avrebbero trascinato il partito al suicidio, facendosi alfieri di valori antitetici a quelli delle origini. Peccato che anche Canfora scelga di trascurare l’eredità, imbarazzante ma fertile, di quei primi ventitré anni “del ferro e del fuoco” in cui il partito forgiò il suo profilo ideale di avanguardia delle classi subalterne che aspiravano a un mondo nuovo, a una redenzione collettiva, alla giustizia sociale.

L’empito di fede rivoluzionaria maturato nelle sofferenze della Grande Guerra è il grande rimosso di questo centenario. E invece andrebbe studiato con rispetto, un secolo dopo, tanto più in un tempo che di nuovo si presenta drammatico. Peccato che gli ex comunisti, rimasti togliattiani di destra e di sinistra, o divenuti turatiani fuori tempo massimo, mostrino di appassionarsi esclusivamente alle controversie successive. Sembra che per loro ragionare di utopia rivoluzionaria sia solo un’infantile perdita di tempo.

Invece, chi potrebbe aiutarli a riconoscere il valore dell’utopia come leva motrice del cambiamento e ispiratrice dei movimenti di massa, è proprio il patriarca Antonio Gramsci. Ho trovato un piccolo aneddoto significativo nel diario di Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1926, dopo l’arresto di Gramsci, gli subentrò alla guida del partito. Quando lei e Umberto Terracini al confino di Ventotene subivano l’ostracismo del partito che li aveva espulsi, perché colpevoli di aver criticato il patto Hitler-Stalin e di indicare la prospettiva unitaria della Costituente, Camilla traeva consolazione dall’amicizia con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi. Il quale era stato tradotto sull’isola dal carcere di Turi, dove aveva fraternizzato con Gramsci. Lei stessa, quand’era detenuta lì vicino, a Trani, ne ricevette notizia dall’illustre prigioniero. Scrive dunque di Schicchi la futura senatrice a vita Ravera: “Era uno di quegli anarchici con cui Gramsci amava conversare. ‘Anche l’utopia serve al cammino degli uomini – mi diceva poi Gramsci, sorridendo – fa la sua tenue luce, là dove ciò che realmente sarà non sappiamo’…”. Ecco, forse è proprio l’utopia a mancarci, cent’anni dopo.

 

Lettera alle vittime della nostra indifferenza

Tu eri sul ponte di Genova,
tu eri nella scorta di Moro e di Falcone,
tu eri la madre raggiunta per sbaglio
dal proiettile della camorra,
tu eri in Irpinia nel bar Corrado,
nel palazzo di cemento disarmato,
tu eri sotto la diga a Longarone,
tu eri a Bologna, quel giorno di agosto
alla stazione, tu eri nell’acqua a Lampedusa,
tu eri in piazza a Brescia,
tu eri in Armenia, in Amazzoniain Palestina,
tu eri la terra tu sei ancora la terra
dei morti di fame e dei paesi spopolati,
tu sei la terra degli animali allevati e uccisi
in nuovi campi di sterminio,
tu sei un continente di plastica nei mari,
tu sei quello che una volta era il diavolo
e ora si chiama il clima
e ruba il ghiaccio alle cime,
annerisce i polmoni ai bambini.
Le vittime non possono parlare,
dobbiamo farlo noi e ricordare
le vittime del passato e batterci per evitare
le vittime future, è uno scandalo
che si uccida una donna per gelosia,
che un padrone sia diecimila volte più ricco
dei suoi operai e tutto questo non accade per caso,
non abbiamo scuse,
non ha scuse chi non paga le tasse
e poi si lamenta della sporcizia nelle strade,
non ha scusa chi nasconde la sua ricchezza
per non dividerla con gli altri,
non ha scuse chi ogni giorno confonde
i pensieri per nascondere le innocenze ed esaltare le colpe.
Piuttosto ogni giorno si può parlare
a chi è solo, si può lenire
una ferita. Se è grave ogni crimine, è grave ogni indifferenza,
ogni indugio inutile
nell’imbuto della nostra vita.

Mail box

 

Salvini ministro di che? Le risposte a Padellaro

Per risolvere il rebus che affligge Padellaro e Gomez mi permetto di suggerire la profetica intuizione di Fabrizio De André che, più di 30 anni or sono ne La domenica delle salme ipotizzò un ministro dei Temporali dedicandovi una strofa che ben si addice a mister 49 milioni.

Marco Garnero

 

Nessun ministero a Salvini perché se fossi Draghi, escluderei dai ministeri tutti i capi partito!

Andrea Bondanini

 

Mi complimento con Padellaro per la stupenda disamina su Salvini ministro. Spietata? No, radiografica. E la radiografia non inventa, legge solo quello che c’è. Salvini ministro è una contraddizione in termini. E poi potrebbe farlo solo d’estate, a spiagge aperte.

Fabrizio Virgili

 

Credo sia opportuno che Draghi inserisca delle figure tecniche, pertanto ritengo debba essere confermata Luciana Lamorgese quale ministro degli Interni. Vedrei molto bene Matteo Salvini quale Sottosegretario, ovviamente senza deleghe, a tale ministero.

Lucia Andreoni

 

Desidererei partecipare al Concorso a premi “Quale ministero avrà Salvini?”: il ministero dell’Agricoltura (due braccia che tornano alla loro origine) alla faccia della Bella (si fa per dire) Nova. O il ministro dell’Incoerenza, con ampia facoltà di nominare come Sottosegretari tutti i trasformisti e i poltronisti, felicissimi di mettere i loro sederi (o facce) sulle poltrone.

Giulio Guagliardo

 

Partecipo al concorso a premi indetto da Antonio Padellaro, esprimo la mia preferenza: gli affiderei il ministero di Economia e Finanza vista la rete di commercialisti di cui dispone, sarebbe un successo garantito! Ai 49 milioni già investiti, aggiungerebbe 209 miliardi da gestire.

Mario Rovegno

 

Vorrei rispondere al concorso a premi “Quale ministero per Salvini?”: Salvini non ha bisogno di essere ministro, egli partecipa a questo governo futuro come Anima in seconda.

Draghi è il Sole, Salvini il Filosofo, colui che aprirà gli occhi agli abitanti della caverna Italia (quel luogo oscuro governato da M5S-Leu-Pd con intermediazione di Conte da oltre sei lustri).

Francesca Della Pietra

 

Un “Fatto terapeutico” in un Paese alla deriva

Nel Fatto trovo genuinità, allergia per ciò che sa di falso, aderenza alla realtà senza secondi fini, sano umorismo, insomma tutte cose che considero terapeutiche per un Paese malato. Speriamo solo in una pronta guarigione, perché a farne e spese sono soprattutto i più deboli e gli esclusi.

Luciano Giovannini

 

Quanto amo le battute di Sordi (corrette)

Caro Travaglio, i tuoi editoriali sono sempre strepitosi e, da soli, valgono il prezzo del giornale, ma quello di domenica mattina è stato semplicemente grandioso!

Solo una piccola precisazione: la battuta di Sordi “I tedeschi si sono alleati con gli americani” non è da La grande guerra ma da Tutti a casa. Certo è una svista da niente rispetto al serissimo argomento dell’editoriale, ma te lo segnalo da cinefilo a cinefilo.

Carlo Stevan

Caro Carlo, è vero! Mi sono sbagliato.

M. Trav.

 

L’ossessione dei cronisti per la “competenza”

A Otto e mezzo ho sentito Concita De Gregorio che ripeteva ossessivamente di “ministri competenti” e di “competenza”. E adesso chi glielo spiega che i probabili candidati sono Rosato, Bellanova, Boschi, Salvini, ecc.?

Salvatore Griffo

 

DITITTO DI REPLICA

Dispiace che da una conversazione telefonica informale, occasionale e volta, come mi era stato detto, a costruire un mio profilo strettamente personale sia venuto fuori una sorta di ritratto-intervista non troppo benevolo nei miei confronti (ma questo ci sta) insieme a frasi virgolettate nei riguardi di Matteo Renzi che mai ho dichiarato. Dispiace, anche perché Antonello Caporale è un bravissimo giornalista con il quale intrattengo da anni una amicizia. Con Renzi, dopo la crisi da lui provocata, ho un dissenso politico molto forte. Ma mai, sottolineo mai, mi sono lasciato andare, in tutte le mie esternazioni pubbliche, ad attacchi personali e a forme di odio politico. Né il mio stile di comportamento ha potuto incoraggiare qualcuno a perseguire la strada dell’insulto e del disprezzo, abbandonando quella di un confronto anche aspro ma esclusivamente politico.

Goffredo Bettini

 

Stimo le idee e la libertà con le quali Goffredo Bettini le esprime. Mi spiace molto che senta di dover smentire un colloquio certo informale, ma non fantastico, come sa. Intuisco le ragioni, resta intatta la stima insieme a ogni virgola dell’articolo da me firmato.

Antonello Caporale

Vaccini. La fase due per gli over 80 è gestita dalle Regioni (alcune ferme)

 

Buongiorno, perché non date notizie su come verranno vaccinati gli anziani tra i 70 e gli 80 anni che vivono da soli e non hanno Internet? Useranno i piccioni viaggiatori?

Margherita Demontis

 

Gentile Margherita, lei non dice in quale Regione vive. La precisazione è fondamentale, perché non è stato stabilito un unico sistema di accesso alla somministrazione del vaccino anti Covid uguale per tutte le Regioni. Attualmente è ancora in corso la fase uno, cioè quella riservata agli operatori sanitari e sociosanitari e agli ospiti delle case di riposo. Non tutte hanno dato avvio alla fase rivolta agli over 80 e ancora non è stato stabilito come avverrà quella destinata alle persone comprese nella fascia di età tra i 70 e gli 80 anni.

Tra quelle che hanno già iniziato a vaccinare gli ultraottantenni o si apprestano a farlo ci sono vari sistemi di prenotazione. L’Emilia-Romagna ha dato il via libera alla fase due concentrandosi prima di tutto sugli anziani non autosufficienti. In questo caso sono gli stessi servizi delle aziende sanitarie a contattare le persone per fissare la data della prima vaccinazione, alla quale seguirà il richiamo. In seconda battuta, dal 15 febbraio, sarà possibile prenotarsi anche tramite il Cup, le farmacie dotate di un centro unico di prenotazione, il fascicolo sanitario elettronico, un portale dedicato. La Regione Lazio ha attivato una piattaforma online attraverso la quale è possibile fare la prenotazione e fissare giorno, ora, luogo della somministrazione, fornendo il proprio codice fiscale. Ha però anche previsto una linea telefonica per tutti coloro che non hanno Internet o non sono in grado di utilizzarlo. In alternativa, il cittadino può rivolgersi al proprio medico di medicina generale. In Campania sono stati coinvolti i medici di base, chiamati a collaborare con le aziende sanitarie per effettuare le prenotazione online per i loro assistiti. Soluzione alla quale sta lavorando anche la Regione Piemonte. In Liguria, invece, si potrà prenotare il vaccino anche in farmacia.

Le conviene quindi mettersi in contatto con il suo medico di base per sapere quale sistema è stato adottato nella Regione in cui vive. Senza dimenticare che per gli anziani sono previsti i vaccini americani Pfizer e Moderna, mentre quello europeo sviluppato da AstraZeneca è rivolto alle persone fino ai 55 anni di età.

Natascia Ronchetti

Dall’ammucchiata di potere si salvano Calenda e Meloni

Ormai è fatta: tutti, o quasi, sono entrati nella retoricissima modalità “governo di unità nazionale”. E quando è così vale tutto. A quel punto è tutto un piovere di “Draghi santo subito” e “Franza o Spagna purché se magna”. Soprattutto: a quel punto, che è poi questo, ciò che fino al minuto prima pareva impossibile – e inaccettabile – diventa auspicabile. Anzi addirittura meraviglioso. E allora vai con Salvini che governa con Fratoianni (bum!), Calderoli con Zingaretti (daje!) e Berlusconi con Di Maio (c’mon).

Detto che Draghi è persona dal profilo inattaccabile e che gli auguriamo ogni fortuna (che sarebbe poi la nostra), il suo governo si presenta a oggi – con rispetto parlando e non per colpa sua – come una delle più grandi schifezze nella storia dell’umanità. Lega col Pd, Forza Italia con Movimento 5 Stelle, centristi e cosiddetti radicali con LeU. Una roba da vomito, ma se osi dirlo ti guardano come il cacadubbi che fa lo schizzinoso dinnanzi a ostriche & champagne. È tutto capovolto, e quando scatta il concetto di “unità nazionale” devi ingoiare tutto. Altrimenti sei un traditore.

Gad Lerner parla di “commissariamento della democrazia parlamentare” ed è vero, perché ricorrendo a Draghi si è implicitamente ammesso che la politica ha fallito. Corradino Mineo ci vede invece qualcosa di positivo, ovvero una sorta di “normalizzazione” della Lega, passata – in un secondo! – da sovranista a europeista. È vero che lo scenario è devastante e come la giri ti fai male. Ed è anche vero che, di fronte a una tragedia, un Paese dovrebbe sapersi unire. Certo. Ma questo varrebbe in un Parlamento fatto da De Gasperi, Parri e Pertini. Lì si che avrebbe senso questa sorta di Grande Partito Unico, in grado di andare oltre ogni divergenza. Ma davvero, oggi, c’è qualcuno che crede al senso dello Stato di Salvini, Berlusconi e Gasparri? Davvero qualcuno crede a Borghi & Bagnai folgorati sulla via dell’europeismo? Davvero qualcuno crede che il povero Draghi, zavorrato da una maggioranza che a oggi andrebbe dall’estrema sinistra (si fa per dire) all’estrema destra (non si fa per dire), potrà fare qualcosa di fortemente politico? A parte i ristori e il piano vaccinale (che sarebbe già tantissimo, certo), dovrà anzitutto altro tirare a campare. Altro che conflitto di interessi, prescrizione e transizione ecologica!

Giornalisticamente sarà pure una gran frattura di palle, perché vivremo in un clima mellifluo da “adesso fingiamo tutti di andare d’accordo”. E l’unico da bastonare resterà Conte, che anche dopo la crisi rimane quello più amato dagli italiani (con Draghi) e che potrebbe uscire più forte dal nuovo governo (che appoggia), essendo ormai ufficialmente il leader del campo progressista, ma che per i baccelli lessi di certi talk show iper-renziani rimarrà Il Gran Puzzone.

In questa cacofonica orgia garrula per la grande ammucchiata, si salvano giusto due leader. Il primo è Calenda, che a questa perversione ha sempre creduto e ora giustamente esulta. La seconda è la Meloni. Durante la pandemia ha dato il peggio di sé (ma i sondaggi la premiano). Ha una classe dirigente non di rado irricevibile (chiedere a Report). E i suoi interventi alla Camera sono foneticamente raggelanti. Ma è forse l’unica coerente. Lo è stata con il Conte-1, accettando il tradimento di Salvini. E lo è adesso, di fronte alle corna del solito Matteo e pure di Silvio. Di fatto farà opposizione da sola (chissà le urla!). Se Draghi farà il miracolo, ne uscirà con le ossa rotte. Ma se l’informe caravanserraglio fallirà, nel 2023 Fratelli d’Italia stravincerà a mani basse. Auguri.

 

Il “governo della Provvidenza”: priorità e tempi ancora oscuri

Guardo le agenzie di stampa, seguo tutti (sic) i talk show, leggo i commenti di accalorati giornalisti e affermati studiosi e mi sorgono “spontanee” molte domande. Il governo Draghi che verrà dalle nuove consultazioni potremo finalmente annoverarlo fra quelli scelti dal popolo (che diventerebbe una nuova anomalia italiana: altrove non succede da nessuna parte)? Otterrà presto una legittimazione elettorale di qualche tipo? Almeno il prestigioso capo del governo otterrà quel mandato politico-elettorale che è sempre mancato al Prof. Giuseppe Conte? Oppure, tutta questa discussione va giustamente lasciata alla polemica politica/politicista del pretestuoso passato? La mia nota posizione è tutta costituzionale (art. 94): “Il governo deve avere la fiducia delle due Camere” (incidentalmente, non sta scritto “della maggioranza assoluta”). Quella fiducia il governo Conte l’aveva formalmente avuta.

Ho qualche ricordo del passato dei molti governi italiani e delle valutazioni tanto dei politici quanto dei commentatori. Qualsiasi tentativo di accordi fra governo e opposizione e fra partiti di opposti schieramenti veniva, anzi, è sempre stato prontamente e da quasi tutte le parti bollato come “inciucio” e “ammucchiata”? Tutti, compresa anche Giorgia Meloni, alla quale, sbagliando, si rimprovera l’autocollocamento all’opposizione, si riempiono la bocca con nobili definizioni: governo di unità nazionale, governo di larghe intese, governo di alto profilo, governo tecnico-politico. Manca soltanto il riferimento al governo della Provvidenza, che pure sarebbe il più appropriato poiché, da molte parti, all’incolpevole Draghi, sul cui volto immagino un leggero sorriso, è stata attribuita la caratterizzazione di uomo della Provvidenza. Non ho mai né pensato né scritto che nelle democrazie non si possano avere accordi fra governi e opposizioni. Non ho mai usato le parole inciucio e ammucchiata. Credo, però, che una riflessione sulle caratteristiche delle componenti di un governo Draghi e delle sue qualità sia più che opportuna, essenziale. Ho regolarmente criticato e ironizzato sulla sequenza di totale ipocrisia di coloro che ogniqualvolta è necessario trovare candidature a livello nazionale e locale (attualmente, per molte cariche, non “poltrone”, di sindaco) sentenziano: “Prima i programmi poi i nomi”. Come se i nomi, di persone minimamente conosciute, non portassero con loro una biografia professionale e, talvolta, politica. Draghi è proprio uno di quei nomi che portano con sé una storia fatta di successi europei e, in parte, come governatore della Banca d’Italia, anche nazionale. Ledo la maestà di qualcuno se, ricordati i suoi decisivi meriti nel salvare l’euro e l’Ue, affermo che avrei ritenuto preferibile fin dall’inizio che tutti (o quasi) gli esponenti delle delegazioni partitiche consultati dicessero: “Draghi ottima scelta, ma aspettiamo di vedere quali sono i suoi punti programmatici”? I titoli li sappiamo tutti. Ci piacerebbe conoscere le priorità e la tempistica. L’improvvisa conversione di Matteo Salvini mi spinge a pensare che Draghi abbia detto o comunque fatto chiaramente capire che esiste una condizione preliminare discriminante per fare parte del suo governo: l’accettazione piena e convinta della presenza italiana nell’Ue. Infine, mi rimane una preoccupazione. Premessa, in Italia non è fallita la politica, sempre relativamente debole, ma sono falliti i politici irresponsabili che aprono crisi senza sapere risolverle. Adesso, qualcuno dice che tocca a un governo tecnico/politico ovvero, interpreto, composto da persone con competenze e da uomini e donne di partito. Altri sostengono che è l’ora del governo dei migliori. Resto in scettica attesa dei requisiti che debbono possedere i migliori e dei criteri con i quali valutarli.

 

Draghi è liberista o no? Si vedrà mossa per mossa

Di questi tempi l’arredo più comune in casa dei (numerosissimi) Bene Informati è una sfera di cristallo. Basta darvi un’occhiata per sapere che cosa farà il governo Draghi. Ed ecco affollarsi i Bene Informati certissimi che farà solo cose giuste, anzi perfette, anzi miracolose; ma anche altri Bene Informati, disposti a giurare che sarà tutto sbagliato, anzi deplorevole, anzi odioso. Il tutto condito di citazioni virgolettate: onde non manca chi ha detto e scritto che Draghi è fra i principali responsabili della “macelleria sociale” neoliberista.

Peccato che fra i primi a parlare criticamente di “macelleria sociale” dopo Sergio Cofferati fu, nel discorso ufficiale di chiusura dell’esercizio 2009 della Banca d’Italia, lo stesso Draghi, allora governatore. Proviamo a rivedere il contesto di quella citazione (era il 31 maggio 2010; presidente del Consiglio Berlusconi, ministro dell’Economia Tremonti). Draghi sottolineava l’essenziale importanza di “misure di contrasto all’evasione fiscale”, tanto più che “confrontando i dati della contabilità nazionale con le dichiarazioni dei contribuenti, si può valutare che tra il 2005 e il 2008 il 30 per cento dell’Iva sia stato evaso: in termini di gettito, sono oltre 30 miliardi l’anno, 2 punti di Pil”. L’evasione fiscale, continuava Draghi, “è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga; riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola gli interventi a favore dei cittadini con redditi modesti. L’obiettivo immediato è il contenimento del disavanzo, ma in una prospettiva di medio termine la riduzione dell’evasione deve essere una leva di sviluppo, deve consentire quella delle aliquote; il nesso fra le due azioni va reso visibile ai contribuenti”, anche perché “i costi dell’evasione fiscale e della corruzione divengono ancora più insopportabili; la stagnazione distrugge capitale umano, soprattutto tra i giovani”. Ed è in questo contesto che il governatore aggiunse, parlando a braccio: “‘Macelleria sociale’ è una espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i primi responsabili della macelleria sociale”. Da allora sono passati dieci anni, complesse vicende di politica interna e internazionale, una pandemia ancora in corso. È possibile, sfera di cristallo in mano, divinare se Draghi a Palazzo Chigi sarà “neoliberista” o “keynesiano” ?

Di fronte a questo bivio i Male Informati (fra cui, lo dico con imbarazzo, io stesso) riescono solo a balbettare alcune banalità. Per esempio questa: quel che il presidente del Consiglio incaricato potrà e saprà fare non dipende solo da lui, per autorevole e competente che sia. Dipende anche da essenziali fattori di politica interna, almeno tre. In ordine d’importanza crescente: primo, la mappa dell’appoggio parlamentare che riuscirà a costruire, non solo in un iniziale voto di fiducia, ma in una paziente navigazione legge per legge, giorno per giorno, manovra per manovra e con una geometria sempre potenzialmente variabile (Renzi è il più attivo dei trasformisti, ma non il solo). Secondo fattore, le persone che verranno chiamate a ricoprire tutti i ministeri, non solo quelli della Salute o dell’Economia. Infine, la cosa più importante sarà vedere che cosa in concreto il suo governo riuscirà a mettere in cantiere e a realizzare, camminando sul terreno franoso di fragili maggioranze temporanee e in un contesto sanitario e internazionale imprevedibile.

Se già nel 2010 Draghi aveva chiaro che ridurre l’evasione fiscale è premessa indispensabile per più efficaci politiche sociali, per la riduzione delle aliquote, per interventi a favore dei cittadini con redditi modesti e dei giovani, contro la stagnazione e per la crescita del Paese, potrà tener saldo il timone del governo verso questi obiettivi, resi più urgenti e più ardui dalla decrescita che ora viviamo? Le spinte che gli verranno da un arco assai eterogeneo di possibili sostenitori obbligherà probabilmente il suo governo a qualche compromesso, ma fino a che punto la diplomazia degli accordi a ogni costo, delle convergenze parallele, delle quadrature dei cerchi rischierà di comprometterne l’azione e l’efficacia? In nome dell’emergenza sanitaria si creeranno artificiose convergenze su grandi riforme strutturali e costituzionali, come avvenne sotto il governo Monti, quando con voto quasi unanime il Parlamento varò frettolosamente la riforma dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio? Non meno insidiosa di ogni inefficienza è infatti l’illusione dell’efficienza in nome delle “larghe intese” che qualcuno pensa di resuscitare dimenticando che sono già state ripetutamente stipulate, violate, demolite. A chi non ha a portata di mano una sfera di cristallo non resta, in questi giorni di incertezza, che guardare allo scenario politico di un prossimo governo Draghi col massimo rispetto, ma con gli occhi bene aperti.

 

Dario Fo e Shakespeare contro gli accademici supercritici e spulciaioli

Un enigmista e un comico tengono entrambi alla primogenitura delle proprie invenzioni, ma con una differenza sostanziale: gli enigmisti difendono la paternità delle chiavi che consentono il gioco poiché considerano le loro trovate una prova di virtuosismo (Bartezzaghi, 2017), i comici invece vogliono evitare l’usura altrui delle proprie gag, per preservarne l’effetto sorpresa, necessario a indurre la risata. Un comico, dunque, ritiene oziosa la domanda che si pone l’enigmista e semiotico Bartezzaghi (2017) quando, dopo aver notato che il zazzarazzaz di Paolo Conte è un palindromo, si chiede se l’autore del palindromo sia Conte, oppure lui che se ne è accorto. I comici sono teatranti, e il loro atteggiamento è quello di Dario Fo, che non si faceva scrupoli a rubare da chicchessia, come Shakespeare, perché per un teatrante quel che conta è la performance, ovvero la sua abilità nel portare il pubblico alla reazione voluta; e biasimava gli eruditi “supercritici-spulciaioli” (Fo, 1987) che scandagliavano i suoi canovacci cercando di rintracciare i prestiti da cui erano composti per tacciarlo di scarsa “originalità”. A un teatrante che conosca il proprio mestiere, la critica di non avere “originalità” risulta assurda quanto la pretesa di essere “originali”; per un teatrante, infatti, è “originalità” anche recuperare le cose dimenticate poiché se ne vede la loro attualità, la loro possibilità di ritorno, la loro novità: come fa il Pierre Menard di Borges, che riscrive il Don Chisciotte parola per parola trecento anni dopo, facendolo ridiventare, in un nuovo contesto, “originale”. È l’arte dei grandi. 1851, Rigoletto, libretto di F.M. Piave: “La donna è mobile”. Prima di lui l’avevano scritto Schiller: “Veranderlich ist Frauensinn”; e Tennyson: “Woman is various and most mutable”; e Victor Hugo: “Une femme souvent n’est qu’un plume au vent”; e Tasso: “Femmina, cosa mobil per natura”; e Boccaccio: “Giovine donna è mobile e vogliosa/ volubil sempre come piuma al vento”; e Virgilio: “Varium et mutabile semper femina”. Dario Fo satireggiava il potere trovando il presente nel passato; deplorava gli accademici spulciaioli; allo stesso tempo, in apparente contraddizione, corroborava i suoi scritti con dotti riferimenti a studiosi di fama; e poi, da trickster, subito ne citava di inventati (“il libro di un certo professor Civolla, sui Fabulatori dell’Alto Verbano”), riportando il discorso sul piano del gioco teatrale, parodistico, detronizzante: “Le nostre fonti non sono sempre attendibili, ma certo sono quasi sempre affascinanti… Troverete testi con il titolo originale in tedesco o in inglese. L’ho fatto solo per impressionarvi” (Fo, 1987). Come insegna Godard, “Non conta quello che prendi, conta dove lo porti”.

Quando l’erudito si chiede “Cosa fa di una frase neutra una frase comica?” sbaglia la domanda, e così la risposta gli sfugge. La differenza fra le due frasi, infatti, non sta in un quid, ma in quomodo. Con la domanda giusta, la risposta è immediata: “Chi fa di una frase neutra una frase comica? Un comico”. Il quomodo di un comico comprende i fattori che ogni studioso digiuno di prassi teatrale mette fra ciò che elude le sue teorie. Due sono preminenti: 1) comici si nasce: doni di natura (non ultimo, il fenotipo) e ambiente forgiano la psicologia dell’individuo adatto al ruolo del capro espiatorio buffo; 2) l’esperienza permette a un comico di affinare il suo controllo degli imponderabili (pubblico, contesto, circostanze & C.): un comico è tanto più bravo quanto maggiore è il suo controllo della comunicazione comica, cioè quanto più è esperto nel pilotaggio della ricezione, che permette all’uditorio di cogliere l’intenzione comica dei suoi atti. (6. Continua)

 

Recalcati e il povero Renzi: i veri malati di mente siamo noi italiani che lo odiamo

Uno legge che La Stampa ospita l’intervento di uno specialista della psiche sulla crisi scaturita dalla caduta del governo causata da un leader col 2% dei consensi e pensa: finalmente! Era ora che qualcuno desse ex cathedra una bella ripassata a Renzi, che si ritiri a meditare e a fare esercizi col diaframma in qualche casale toscano, povero ragazzo. Poi legge e scopre che i malati di mente sono in realtà i “conformisti” che pensano che Renzi sia “un corsaro”, “una canaglia”, insomma “un poco di buono”: praticamente il 90% degli italiani. L’autore, lo avrete capito, è Massimo Recalcati, il Lacan della Leopolda.

“Perché difendo Matteo Renzi”, s’intitola in effetti il referto. Intanto, perché c’è “un coro unanime e rabbioso” secondo cui Renzi “sarebbe vittima patologica del suo Ego” (il condizionale è perché da quelle parti sono garantisti: uno non è patologicamente accecato dal suo Ego fino alla terza diagnosi). Colpa di D’Alema, secondo cui Renzi è il politico più impopolare d’Italia (ma quando mai!), e di Bersani, colpevole di aver usato la parola “orgasmo”, che in italiano vuol dire anche smania e voglia ardente, per indicare la fregola di Renzi di far cadere il governo. Sentite come l’ha capita Recalcati: “Non credevo alle mie orecchie di psicoanalista quando in televisione l’ho ascoltato definire Renzi, in modo allusivo, come un eiaculatore precoce”.

Con l’augurio di farsi ri-tarare il metaforimetro nelle trombe d’Eustachio di psicoanalista, agevoliamo al terapeuta l’assoluta garanzia che tutto pensiamo di Renzi, fuorché che abbia un problema idraulico-genitale, sebbene, come egli sa senz’altro, nella spasmodica ricerca del potere perduto l’ansia da prestazione possa inibire o pervertire l’istinto sadico-penetrativo. Ma non è questo: è che “questo Witz (Recalcati chiama “Witz” il motto di spirito perché è laureato, ndr) ha radunato attorno a sé tutti gli ex-rottamati da Renzi”, sempre quello del 2%. “Eccoli, ho pensato. Ti giri un attimo e ritorna immancabile il paternalismo della sinistra tradizionalista e il suo immancabile livore!”.

Insomma, fatevi curare, voi lividi paternalisti, tradizionalisti, dediti alla “demonizzazione del figlio bastardo di Rignano” ( “figlio” in senso metaforico, s’immagina, non figlio di Tiziano). Manca il “masochisti” con cui il prof. refertò chi votava No al referendum, 20 milioni di italiani: segno che nel frattempo siamo un po’ guariti (come testimonia il 2% di consensi di cui gode il soggetto in questione).