Elezioni Israele. Un sovranista dell’ultradestra a fianco di Bibi

In Israele, che andrà al voto alla fine di marzo, si stilano le liste dei candidati, si fanno gli “apparentamenti” fra i partiti ma è soprattutto il momento della scelta dei guru e degli strateghi elettorali. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha nominato un ex giornalista del sito di notizie di destra Breitbart, autore di libri che contestavano l’idoneità di Barack Obama alla presidenza, come capo della sua campagna per le elezioni della Knesset. Aaron Klein, che sta già lavorando come stratega politico per Netanyahu dallo scorso anno, è un ex conduttore di programmi radiofonici statunitensi ed ex capo dell’ufficio di Gerusalemme di Breitbart News. Venne nominato all’epoca dal presidente esecutivo del sito, Steven Bannon, l’ideologo sovranista che in seguito sarebbe diventato uno stratega chiave di Donald Trump e infine un suo detrattore. Klein è l’autore di numerosi libri su Obama, titoli assai critici se non mistificatori come The Manciurian President: i legami di Barack Obama con comunisti, socialisti e altri estremisti anti-americani oppure Fool Me Twice. Smascherati i piani scioccanti di Obama per i prossimi quattro anni e Reati impensabili: il caso per la rimozione di Barack Obama dall’incarico. Netanyahu, che sta combattendo una dura battaglia per la sua rielezione, ha una lunga storia di utilizzo di consiglieri statunitensi per le sue campagne elettorali. Ma non è il solo. Uno dei suoi principali sfidanti, Gideon Sa’ar – ex compagno di partito e di governo di Netanyahu – ha recentemente assunto come consulenti diversi esperti di “The Lincoln Project”, un’organizzazione repubblicana anti-Trump.

La posta in gioco per questo voto è altissima. Quarte elezioni in meno di due anni, tutte volute da Netanyahu che ogni volta ha sperato di ottenere una vittoria netta per allontanare lo spettro dei quattro processi per corruzione che l’attendono. Bibi è obbligato a vincere perché in Israele l’immunità fra i politici vale solo per il premier in carica e sarà per lui una battaglia durissima, specie a destra.

 

Thaci e i suoi fratelli d’armi: eroi in patria, criminali all’Aja

Il Tribunale speciale dell’Aja ha confermato, a titolo definitivo, il 30 novembre scorso, l’incriminazione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità di Hashim Thaçi, l’ex leader politico dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), e di altre tre persone, Kadri Veseli, ex capo dello Shik, il servizio di intelligence dell’Uck, ora deputato e leader del Partito Democratico del Kosovo (Pdk), Jakup Krasniqi, ex portavoce dell’Uck ed ex presidente del Parlamento del Kosovo, e Rexhep Selimi, deputato ed ex dirigente dell’Uck. La notizia incombeva come una spada di Damocle sulle teste dei quattro uomini sin dalla fine di giugno, quando le Camere speciali del Kosovo hanno reso noti i capi di accusa.

Thaçi e i suoi ex “compagni d’armi” sono sospettati di aver partecipato a una “azione criminale congiunta” responsabile di almeno 100 omicidi commessi tra il marzo 1998 e il settembre 1999. I tre accusati “attraverso questi crimini, hanno tentato di imporre il loro pieno controllo sul Kosovo, procedendo a intimidazioni illegali, maltrattamenti, violenze e allontanando chiunque venisse considerato un oppositore”, si legge nell’atto di accusa, un testo di più di 200 pagine. “Queste accuse sono del tutto infondate. Mi dichiaro non colpevole”, si è difeso Hashim Thaçi, presentandosi in aula durante la prima udienza al tribunale dell’Aja, il 9 novembre scorso. Senza sorprese, gli altri tre imputati, comparsi a loro volta davanti ai giudici nei giorni seguenti, si sono dichiarati non colpevoli e hanno lasciato la parola ai loro legali, tutti di fama internazionale, anche se non è ancora chiaro chi pagherà i loro onorari. In paesi come la Bosnia-Erzegovina e la Serbia, spesso il denaro dei contribuenti è stato utilizzato per coprire le spese della difesa di criminali di guerra.

In ogni caso, si assiste all’Aja a uno strano gioco delle sedie giudiziario con la presenza, tra le altre cose, di un ex procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (Tpij), questa volta in veste di avvocato.

Si tratta di Andrew Cayley, uno dei legali di Kadri Veseli che, a metà degli anni 2000, aveva portato avanti i processi a diversi membri dell’Uck. Il secondo avvocato dell’ex leader dello Shik è Ben Emmerson, celebre in Kosovo per aver ottenuto due volte l’assoluzione del primo ministro Ramush Haradinaj, comparso davanti al Tpij con l’accusa di crimini di guerra, persecuzione e tortura per gli anni in cui era a capo dell’Uck. Anche gli altri avvocati presenti al processo sono degli habitués della giustizia internazionale, poiché hanno già difeso imputati di Ruanda, Libano o ancora Libia. L’avvocato di Hashim Thaçi non ha esitato ad attaccare le Camere speciali su uno dei punti più delicati di questo processo: i sospetti di traffico di organi che pesano sull’Uck. “Dove sono finite le accuse di furto di organi?”, ha detto Dennis Hooper, sottolineando come questo aspetto era sembrato inizialmente “la ragion d’essere del processo”. L’ex procuratrice generale del Tpij, Carla Del Ponte, aveva sostenuto nel suo libro di memorie, pubblicato nel 2008, che in una “casa gialla” nei pressi del comune di Burrel, nel nord dell’Albania, diversi prigionieri dell’Uck erano stati sottoposti al prelievo di organi, spiegando poi che le era stato impedito di portare avanti le sue indagini. Il Consiglio d’Europa aveva quindi affidato un’inchiesta al senatore svizzero Dick Marty. Il clamoroso rapporto di Marty, approvato all’inizio del 2011, aveva confermato le accuse di Carla Del Ponte e aperto la strada alla creazione di un tribunale speciale incaricato di giudicare i crimini dell’Uck. Tuttavia, questo presunto traffico di organi umani non figura tra le accuse che pesano su Hashim Thaçi e sui suoi ex compagni.

Le Camere speciali hanno comunque confermato tutte le altre: secondo l’atto di accusa, centinaia di persone sono state rapite, interrogate, torturate, picchiate, maltrattate e detenute in una quarantina di siti in Kosovo e nella vicina Albania. Serbi, rom, anche albanesi considerati dei “traditori” o “collaboratori”. Questi crimini sono stati commessi durante il conflitto del 1998-99, ma anche dopo, e nonostante più di 40 mila soldati della Nato fossero di stanza nell’ex provincia serba. “La nostra guerra è stata pulita e giusta”, ha ribadito davanti ai giudici Rexhep Selimi, che vorrebbe che questo processo “dimostri che ci siamo battuti per la libertà”. In attesa che venga fissata la data del processo, i quattro imputati hanno annunciato la loro intenzione di presentare una domanda di liberazione provvisoria.

L’istruttoria sarà condotta da Alan Tieger, il pubblico ministero che ha fatto condannare all’ergastolo dal Tpij, Radovan Karadžic, il capo politico dei serbi di Bosnia durante la guerra. Durante queste prime udienze, Tieger ha detto di essere in possesso di “testimonianze di decine di vittime” e che le avrebbe mostrate pubblicamente. La protezione dei testimoni sarà una delle sfide principali di questo processo: tutti quelli citati dal Tpij contro gli ex leader dell’Uck, si erano o ritrattati una volta alla sbarra o avevano rifiutato di assistere all’udienza. Di fatto, il Tpij aveva finito per moltiplicare le assoluzioni e gli imputati, rilasciati uno dopo l’altro da ogni accusa, si sono guadagnati lo status di “martire” una volta rientrati nel loro paese.

A fine settembre, quando il cerchio si stava stringendo attorno al presidente Thaçi, la potente associazione dei veterani di guerra dell’Uck aveva fatto sparire alcuni fascicoli riservati delle Camere speciali, compromettendo, volontariamente, la sicurezza di alcuni testimoni. L’obiettivo era chiaro: indebolire l’istituzione molto controversa in Kosovo. “I veterani si sono detti: la Corte ritiene di essere in grado di proteggere i suoi testimoni, eppure abbiamo potuto accedere ai loro nomi. È dunque tutta una finta”, ha detto Bekim Blakaj, che dirige l’ufficio del Centro per i diritto umanitario di Pristina. La Ong serbo-kosovara si batte con coraggio dalla metà degli anni 90 per far luce su tutti i crimini di guerra commessi nell’ex Jugoslavia. Tanto più che quel leak di documenti aveva rivelato che pubblici ministeri internazionali avevano sollecitato “la parte serba” a portare avanti le loro proprie investigazioni “contro gli albanesi”. In Kosovo, dove più dei tre quarti della popolazione considera che la Corte speciale non è imparziale, perché prenderebbe di mira esclusivamente i crimini commessi dall’Uck – in teoria quelli dei serbi sono stati giudicati dal Tpij –, tutto ciò ha contribuito a risvegliare l’unità nazionale intorno alla figura di Hashim Thaçi e agli altri ex dirigenti dell’Uck. E anche se le loro formazioni politiche, screditate da molteplici scandali di corruzione, sono uscite sconfitte nell’autunno del 2019 dalle ultime elezioni legislative. “Nessuno può giudicare la nostra lotta”, ha dichiarato il primo ministro Avdullah Hoti, benché sia membro della Ldk, la Lega democratica del Kosovo, il partito creato dall’ex presidente Ibrahim Rugova, principale avversario politico dell’Uck. Sono passati più di vent’anni dai fatti che devono essere giudicati, molti protagonisti sono morti, e molte famiglie di vittime non nascondono il loro scetticismo: le Camere speciali possono riuscire dove il Tpij ha fallito? Se Hashim Thaçi e i suoi ex compagni venissero condannati, l’intera narrazione storica su cui è stato costruito lo Stato più giovane dell’Europa verrebbe messa in discussione. Riconoscere la colpa degli eroi dell’indipendenza manderebbe in frantumi il mito della “guerra patriottica”, che deve essere per forza “giusta e pulita”, avanzato sin dalla fine delle ostilità. “La società kosovara non ha ancora dimostrato di essere capace di affrontare i lati oscuri del suo movimento di liberazione”, ha scritto a ottobre l’editorialista Enver Robelli sul grande quotidiano Koha Ditore. Concludendo: “Coloro che hanno abusato dell’uniforme dell’Uck non dovrebbero aspettarsi di ricevere elogi”.

Traduzione di Luana De Micco

“Il Pci era libertà e speranza di non essere solo dei servi”

Norberto Natali ricorda quella volta che guidò una delegazione della gioventù comunista – Fgci, corrente filosovietica – in visita ai fratelli maggiori di Mosca. Sorride beffardo: “Era da poco morto Breznev e noi eravamo lì per ricucire i rapporti con l’Urss, sfilacciati dallo strappo di Berlinguer. Il capodelegazione era tornato a Roma due giorni prima. Ne approfittai per rilasciare una ‘dichiarazione congiunta’ che in realtà era soltanto mia: un comunicato dei comunisti italiani contro la Nato”. Mostra un titolo di giornale e una fotografia a prova della sua impresa. “Alle Botteghe Oscure uscirono pazzi. Pensavano fosse un falso fabbricato a Mosca: non hanno mai saputo che era uno scherzo. Né che ero stato io”. Oggi Natali porta gli occhiali scuri: una vita di militanza gli ha fiaccato il corpo e tolto la vista. Lo spirito è intatto. È una memoria storica assoluta di Casal Bruciato, il suo quartiere, e della storia del Pci. Le due entità – la periferia e il partito – hanno vissuto a lungo in simbiosi: la sezione “Francesco Moranino” era la chiesa laica al centro del villaggio. Poi il Pci ha abdicato, la sezione ha chiuso e l’ultima volta che l’opinione pubblica si è occupata di Casal Bruciato è stata per le proteste organizzate da CasaPound contro un alloggio popolare assegnato a una famiglia rom. Ma ci arriviamo con calma.

La prima domanda tiene insieme tutte le altre: cos’era per lei il Pci?

La possibilità di non essere solo dei servi, la speranza di essere persone libere.

Si spieghi.

Ero operaio ma vivevo bene. Guadagnavamo il triplo dei proletari di oggi, sapevamo di poter contare su pensione e liquidazione. Non ci sentivamo sotto il ricatto del bisogno.

Per lei era merito del Pci?

Finché c’era il Pci nessun lavoratore s’è mai trovato in mezzo a una strada da un giorno all’altro. Questa è stata la sua funzione storica: non lasciare nessuno da solo, oppresso o sfruttato. Contava il rapporto di forza tra le classi costruito nel tempo. Tutto l’asse politico era orientato molto più a sinistra di oggi.

Casal Bruciato tra gli anni 60 e 70 è diventata una somma di tutti gli esclusi di Roma: arrivavano sfollati, alluvionati e senza casa dalle altre borgate. Qual è stato il ruolo del Pci nel quartiere?

La sezione era centrale, il segretario era un po’ capopopolo e un po’ confessore. Gli chiedevano di risolvere pure le beghe familiari: andavano a sfogarsi da lui le donne degli alcolizzati e di chi aveva problemi di droga.

C’era molta droga?

E tanto alcolismo. Mi ricordo la battuta di un segretario di sezione: “Maledetto vino, si ricordano del partito solo quando sono ubriachi!”. Il Pci provava a esercitare una funzione di controllo sulla criminalità e sullo spaccio. Era il fulcro di una rete sociale di palestre, circoli e attività ricreative. La droga era già dappertutto, ma c’era anche la lotta. E molta più allegria.

C’era la “Carlo Levi”, una scuola di boxe che ha sfornato campioni. E dove era stato recuperato il ring delle Olimpiadi di Roma ‘60, su cui aveva combattuto Cassius Clay.

Era un’occupazione sottratta a una speculazione edilizia, l’aprimmo insieme a Marcello Stella, un compagno della Moranino. Ha tenuto lontani tanti ragazzi dalla strada. Ora è chiusa anche quella.

Quanto prendeva il Pci a Casal Bruciato?

Sì e no il 40%, nella circoscrizione eravamo intorno al 50. Anche il Movimento Sociale era forte, in alcune vie prendeva il 15%, ma non si è mai vista nemmeno l’ombra della loro presenza: quando c’era il Pci non si palesavano fascisti, CasaPound o Salvini. Sono i prodotti dell’assenza del Partito.

Un anno e mezzo fa è scoppiata la protesta contro una famiglia rom. Casalbruciato è razzista?

Hanno partecipato persone che conosco. Comunisti, gente che stava con Berlinguer.

E che ci facevano con Casapound?

Si sono serviti della destra per motivazioni comprensibili e sbagliate. È stato un grido: sono povero e incazzato. Ci avete lasciato soli. Il quartiere è pieno di precari. Le case del Comune sono pericolanti, senza manutenzione, con i riscaldamenti rotti per mesi e l’acqua che scende dai soffitti. L’unica volta che abbiamo visto il sindaco, i preti e i giornalisti è stata per i nomadi.

La destra mette radici?

Nei seggi delle case popolari la Lega ha preso 127 voti su 954, il Pci ne prendeva 600. Il problema non sono quelli che votano a destra, è la scomparsa degli altri, l’assenza della sinistra.

Una vita nel partito è stata una battaglia anche fisica.

Ero nel servizio d’ordine che ha accompagnato Berlinguer in Calabria per la campagna dell’83. Il Corriere della Sera lo definì un “servizio d’ordine inappuntabile ma pesante” (sorride). Prima del comizio di Reggio un ‘ndranghetista dei De Stefano aspettava Enrico per strada, credo volesse farsi fotografare mentre gli dava la mano. Con un paio di compagni venuti da Melissa (Crotone) mi sono avvicinato al mafioso e ai suoi amici. Il boss era seduto al tavolo di un bar, si è alzato per andargli incontro ma non è riuscito a fare molti passi (ride).

Col Pci non si scherzava.

Ma si rideva pure molto. Ricordo l’occupazione femminile di uno stabilimento della Fezia. I padroni avevano assoldato dei delinquenti di Guidonia, che di notte entravano nella parte posteriore della fabbrica per terrorizzare le ragazze. Ci organizzammo in quattro per andarle a proteggere: ci piazzammo due su un lato, due sull’altro, nel buio completo, in silenzio. All’improvviso alle nostre spalle si accesero le luci, sentimmo un gran vociare: era la fine del turno di un’altra fabbrica, la Sciolari. Uscirono 200 operai che ci passarono davanti ridacchiando, facendo le più ovvie battute su quei quattro maschi accucciati e infrattati nell’oscurità. Ci siamo fatti tante risate.

E oggi?

I partiti sono un’avventuretta elettorale, una conventicola di aspiranti assessori e onorevoli. Il Pci era un’altra cosa.

A.A.A. luoghi sacri vendonsi. Buonsollazzo, grandi affari

Le antiche chiese non sembrano sfuggire al destino che incombe su tutto il patrimonio culturale italiano: il bivio avvelenato tra rovina materiale e rovina morale. Per quanto diverso dalla terribile sorte di abbandono e saccheggio che devasta l’Italia sacra soprattutto al Sud, anche il passaggio dal culto di Dio al culto del dio mercato è, a suo modo, distruttivo.

Le chiese vengono vendute: diventano gusci vuoti, spogliati da tutti gli oggetti che animavano la loro vita quotidiana, perdono la leggibilità architettonica, e la dimensione pubblica. Il risultato è quasi sempre grottesco, come testimoniano le fotografie di molti siti immobiliari: piscine azzurre sotto campanili romanici ancora coronati dalla croce, sontuosi mobili bar sugli altari, divani multicolori piazzati simmetricamente sotto le croci di consacrazione ancora fissate alle pareti delle navate.

Accanto alle residenze private, ci sono le infinite chiese di complessi monumentali alienati a privati, e spesso oggi convertiti in resort di lusso. Il sito castelli.net vanta una sezione monografica: “Hotels unici con cappella privata – Italia: scopri la nostra collezione tematica”. Tra tutti quelli censiti, spicca l’isola di San Clemente nella Laguna di Venezia, oggi interamente trasformata nel San Clemente Kempinski Palace Venice: compresa la monumentale chiesa conventuale fondata nel XII secolo, prima agostiniana e poi camaldolese, che accoglie tuttora una pagina importante della storia della scultura barocca. L’unico lato simpatico della vicenda è che un’isola e una chiesa che rappresentavano una tappa del viaggio dei soldati veneziani che salpavano per combattere i turchi, appartenga oggi al gruppo turco Permak.

Proprio in questi giorni, invece, va in vendita un luogo amatissimo dai fiorentini, la Badia del Buonsollazzo, in Mugello: monastero benedettino, e poi cistercense, fondato nel 1100, e rinato in pelle barocca grazie al fin troppo pio granduca Cosimo III e al suo geniale “Bernini toscano”, cioè Giovan Battista Foggini. 5700 metri quadri di edificio, 54 ettari di terreno, a un prezzo stracciatissimo: 2 milioni e 750 mila euro, trattabili.

L’agonia del Buonsollazzo, meta di tante spensierate passeggiate estive, dura da un pezzo: i Camaldolesi l’hanno ceduto nel 2004 a un industriale padovano, che aveva costituito la Buonsollazzo srl per farne un albergo, o una beauty farm. Poi, dopo che la Soprintendenza aveva posto il vincolo, tutto si era fermato: ma oggi ecco la svolta. Un altro pezzo di storia se ne va: i fiorentini ci sono ormai abituati.

Aprendo il sito dell’Istituto per il Sostentamento del Clero dell’arcidiocesi appaiono subito le sezioni “affitti” e “vendite”. E tra quest’ultime si trova un complesso immobiliare che “si trova in località Bagnano in aperta campagna, poco distante da Certaldo ed è composto da Chiesa, Canonica e alcuni volumi ex-rurali. (…) La Chiesa, esternamente si presenta con la facciata in muratura in laterizio intonacata e tinteggiata; l’interno è spoglio, con un’unica navata illuminata da due finestre a lunetta poste sulle pareti laterali. Due gradini in pietra rialzano il presbiterio, dove una piccola abside semicircolare si apre sottolineata da un arcone in pietra squadrata. A sinistra dell’altare si trova l’accesso ai locali un tempo adibiti a sacrestia e ripostiglio di arredi sacri”. La descrizione continua, senza pietà: laddove per secoli si sono celebrati i santi misteri, oggi è tutto molto chiaro. Di riservato c’è solo la trattativa.

Ben 170 delle chiese dell’arcidiocesi di Firenze si trovano sul mercato, ha dichiarato al Corriere fiorentino don Giuliano Landini, presidente del locale Istituto per il sostentamento del clero: e non si tratta di un’istituzione povera, ma del più cospicuo proprietario immobiliare del suo territorio, con oltre duemila beni tra chiese, case e terreni agricoli. Un retaggio del passato che potrebbe consentire alla Curia di mettere in campo una politica dello spazio che la distinguesse da quella corsa alla rendita e alla speculazione che ha devastato il tessuto civile e sociale di Firenze, spopolata e totalmente asservita all’industria intensiva di un turismo disumanizzante.

Invece, tutto il contrario: in piena pandemia, per esempio, è stato venduto a privati il grande Convitto della Calza situato nell’Oltrarno fiorentino, un antico complesso conventuale già costosamente (e orrendamente) trasformato in centro congressi, e in casa di riposo per sacerdoti. Invece di proporre un progetto sociale che restituisse alla città uno spazio cruciale nell’unico quartiere ancora vivo del centro storico, la Curia ha pensato solo a “liberarsi di ciò che non serve” (così l’economo diocesano): senza nessuna coscienza del dovere dell’utilità sociale, che la Costituzione lega così strettamente alla proprietà privata. E “se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera?” (Luca 16, 11).

La sai l’ultima?

 

Covid Sconvolgente scoperta della Nivea: “La pandemia ha aumentato la solitudine”

L’ultima ricerca sul Covid ha permesso di arrivare a una conclusione sconvolgente: la pandemia fa sentire le persone molto sole. È il prodotto di uno studio sicuramente rigoroso, condotto non da un’università pubblica o da un altro centro del sapere, ma da un’azienda privata. È stata la Nivea, noto marchio di cosmetici, a realizzare un proprio paper indipendente – denominato #careforhumantouch (l’importanza del tocco umano) – che ha permesso di giungere a queste conclusioni originali. “Il contatto umano è considerato essenziale per la felicità e la salute. Tanto che per una persona su due, l’isolamento durante la pandemia ha causato una sensazione di solitudine mai provata prima”. Chi se lo sarebbe mai creso. Lo rivelano – spiega l’Ansa – non uno, ma ben “due studi scientifici mondiali pubblicati da Nivea, marca leader in prodotti per la cura della pelle, condotti prima e durante la pandemia di Covid-19”. Per fortuna che ci sono aziende che lavorano per la collettività.

 

Myanmar Mentre la ginnasta-influencer fa lezione online alle sue spalle sfila l’esercito che va a fare il golpe

Fare ginnastica, cascasse il mondo. È la filosofia di Khing Hnin Wai, insegnante di aerobica birmana che ha fatto fortuna con le lezioni pubblicate sui social. L’ultima ha superato i confini locali ed è stata vista in tutto il mondo: Khing svolgeva i suoi esercizi di fronte alla telecamera come se nulla fosse, intanto alle sue spalle stava prendendo forma un colpo di Stato. Nella solita inquadratura usata da Khing, fissa sul viale principale di Naypyitaw, capitale di Myanmar, sono entrati i mezzi blindati dell’esercito. “Anche il 31 gennaio – scrive il Messaggero – Khing Hnin Wai ha iniziato a saltellare davanti all’obiettivo, mentre i suoi follower la seguivano sui social. E mentre il convoglio dell’esercito passava dietro di lei per andare a fare il colpo di Stato. Sembra assurdo ma è così. La stessa Khing Hnin Wai ha spiegato che tiene lezione in quel luogo da 11 mesi e di non essersi accorta del golpe alle sue spalle”.

 

Torino Nasconde la marijuana nelle scarpe, ma la puzza di piedi non copre quella dell’erba: arrestato un pusher

Sperava che la puzza dei piedi fosse più forte dell’odore della marijuana che portava con sé. Per questo un pusher trentacinquenne di Rivoli, nell’hinterland torinese, aveva nascosto l’erba nelle scarpe di un altro passeggero della sua auto, convinto di superare i controlli di polizia. Sbagliato: i pedalini fetidi non sono bastati ed è scattato l’arresto. “Fermato in auto durante un controllo alla circolazione stradale – scrive l’Ansa – i militari hanno effettuato una perquisizione personale durante la quale sono stati rinvenuti alcuni grammi di marijuana occultati nelle scarpe di una persona che era con lui in macchina. Nella successiva perquisizione domiciliare sono stati trovati tre barattoli in vetro contenenti 260 grammi dello stesso stupefacente, nonché materiale per il confezionamento delle dosi”. Lo spacciatore è stato arrestato, mentre “il passeggero è stato segnalato alla Prefettura come assuntore di droga”.

 

Il titolo della settimana “Magalli, compagno di liceo di Draghi: ‘Era corretto, non faceva mai la spia ai prof’”

Straordinario e impressionante lo scappellamento collettivo della stampa nazionale nei confronti di Mario Draghi. Dal giorno dell’incarico conferito, sui quotidiani sono state lodate le capacità pubbliche quasi metafisiche ma pure le meraviglie private di questo colossale servitore dello Stato italiano. Tra i titoli di giornale quasi erotici su Super Mario, uno più di tutti ha colpito la nostra sensibilità, quello dell’Huffington Post. “Magalli, compagno di liceo di Draghi: ‘A scuola era corretto, non faceva mai la spia ai prof’”. Giancarlo Magalli, Draghi, Roma, i banchi del liceo, le bagatelle giovanili: è tutto troppo forte, troppo vivido. “Draghi era intelligente, simpatico e una persona molto corretta: non era uno di quelli che faceva la spia al professore – dice Magalli scoppiando in una risata – Insomma, era estremamente piacevole. Da ragazzino era come adesso, con la sua riga, pettinato come adesso e sempre con quel sorriso che era il suo biglietto da visita”. Che meraviglia.

 

San Antonio La bolla di Game Stop fa arricchire un bimbo di 10 anni: la mamma gli aveva regalato azioni per gioco

L’incredibile bolla di GameStop, la catena di negozi di videogame che è volata in Borsa grazie all’iniziativa goliardica di un gruppo di utenti del forum Reddit, ha regalato migliaia di dollari a un bambino di 10 anni di San Antonio. La mamma di Jaydyn Carr pochi mesi prima gli aveva regalato simbolicamente 10 azioni di GameStop, il negozio che suo figlio amava tanto, per iniziare a insegnarli il funzionamento della Borsa. La scorsa settimana in pochi minuti il valore di quelle poche azioni è passato da 60 dollari a 3.200. First reaction, shock: la mamma non poteva crederci. Poi le è venuto il dubbio: e ora che si fa? Quelle azioni andavano vendute prima che la bolla scoppiasse, però appartenevano a suo figlio e non sarebbe stato giusto decidere al posto suo. Con grande sollievo, il piccolo Jaydyn ha deciso di vendere. Così il bimbo ha messo da parte una discreta somma di denaro che lo aiuterà negli studi e ha ricevuto la più divertente lezione possibile sullo strambo funzionamento dei mercati finanziari.

 

Cagliari Si affida alle bamboline voodoo per allontanare le amanti dal marito: una 60enne a processo per stalking

Il nostro meraviglioso paese ci regala ancora storie di deliri mistici e torture medievali. Una sessantenne di Sarroch (Cagliari) si è affidata ai potenti mezzi del voodoo per allontanare due donne che era convinta avessero una relazione sentimentale con il marito. L’esoterica signora esercitava la sua discreta opera dissuasiva lanciando bamboline trafitte da spilloni nelle abitazioni di queste due presunte tentatrici.
Purtroppo non solo questo. Come scrive LaPresse, “secondo l’accusa, le minacciava e perseguitava, con insulti e pedinamenti, fino a tentare di bruciare l’auto di una delle due. Secondo il pm Marco Cocco, che ha chiesto il rinvio a giudizio per atti persecutori accolto dal gup Giorgio Altieri, la donna era letteralmente ossessionata dal presunto doppio tradimento, tanto da stazionare per ore davanti alle abitazioni delle due, pedinarle e urlare insulti e minacce, sfociate poi secondo l’accusa in stalking”. La gentile signora sarà processata a Cagliari il prossimo 21 settembre.

 

Bologna Droga e prosciutti: la festa di compleanno in una salumeria è rovinata dall’arrivo dei carabinieri

Droga e salumi: what else? A Bologna un gruppo di ragazzi si è chiuso in una salumeria, serrande rigorosamente abbassate, con una discreta quantità di stupefacenti. Una festa di compleanno sui generis, tra insaccati e erbe aromatiche. I carabinieri felsinei purtroppo non hanno apprezzato. Lo racconta Bologna Today: “Prosciutto, salame e droga: questo il menù di una festa di compleanno in una salumeria, con saracinesche abbassate, ieri sera a Bologna. In barba a tutti i provvedimenti anti-covid. I Carabinieri del Nucleo Radiomobile di Bologna, transitando davanti a una salumeria di Bologna, si sono accorti che all’interno del locale, chiuso e con la saracinesca abbassata, era in corso una festa di compleanno tra giovani. Nove in tutto gli invitati, due dei quali in possesso di alcuni grammi di hashish e marijuana. Per loro, oltre alla sanzione prevista per aver violato la normativa sugli assembramenti, che è stata inflitta a tutti, è scattata anche una segnalazione alla Prefettura di Bologna per uso personale di sostanze stupefacenti”.

L’ecatombe. La crisi da Covid spiegata coi numeri del cinema (senza dimenticare “l’effetto Zalone”)

Tutti sanno che, in una crisi epocale come quella innescata dal Covid e dalle misure per combatterlo, ci sono settori che sono stati letteralmente rasi al suolo: cercheremo di spiegare cosa significa parlando di cinema, che è un’industria che ha il vantaggio di essere, all’ingrosso, un’esperienza che riguarda tutti. Nel mondo, secondo Hollywood Reporter, i ricavi ai botteghini sono passati dai 42 miliardi di dollari del 2019 agli 11,5 miliardi del 2020, sono cioè diminuiti di oltre il 72% con un curioso addendum di geo-politica culturale, per così dire: per la prima volta le sale cinesi hanno prodotto più ricavi di quelle americane (2,7 miliardi contro 2,3).

In Italia, secondo i dati Cinetel, il box office l’anno scorso ha segnato incassi per 182,5 milioni di euro con 28,1 milioni di biglietti staccati: in entrambi i casi siamo al 71% abbondante in meno rispetto al 2019, che fece segnare 635 milioni di euro di ricavi con oltre 97 milioni di presenze. Se si parte dall’8 marzo 2020 però, quando inizia il lockdown, i risultati sono questi: incassi per 33,7 milioni di euro dovuti a 5,3 milioni di paganti, il che equivale – rispetto allo stesso periodo del 2019 – ad un calo del 93,2% degli incassi e del 92,9% delle presenze. Dati simili, peraltro, si registrano un po’ in tutta Europa: sull’anno la Gran Bretagna fa segnare un -75%, la Spagna -72,4%, Francia e Germania -69,5%.

Un’ecatombe per gli esercenti e per l’industria. Non solo sale a lungo chiuse e pubblico in calo anche nei periodi di apertura (parziale), ma anche meno produzioni: nel 2020 sono stati distribuiti in sala 246 nuovi film di prima programmazione (-277 rispetto al 2019) di cui 124 di produzione o co-produzione italiana (-93), in molti casi – va detto – anche per effetto del rinvio dell’uscita a tempi migliori. Per capirci sulla portata dell’evento, il settore audiovisivo nel 2019 dava lavoro a 61mila persone direttamente e ad altre 112mila in via indiretta (giovani e donne erano più della media nazionale): inattività e perdite di stipendio e incassi sono state coperte solo in minima parte da Cassa integrazione, sussidi a vario titoli, ristori e – per i più fortunati – brevi periodi di lavoro (o di lavoretto).

E dire che l’anno era iniziato benissimo. Fino al 21 febbraio gli incassi in Italia viaggiavano a un ritmo del 20% superiore rispetto all’anno prima. Merito soprattutto di Checco Zalone: il suo Tolo Tolo, uscito all’inizio di gennaio, è il campione del box office 2020 con 46,2 milioni di euro di incassi (un quarto di quelli totali). Dietro al comico pugliese si piazzano Me contro te – il film della coppia di youtuber Sofì & Luì (9,5 milioni) e Odio l’estate con Aldo, Giovanni e Giacomo (7,5 milioni) per un podio di sole produzioni italiane (due Medusa e una Warner Bros Italia, società che – insieme a 01 Distribution, cioè la Rai – incamerano il 70,1% degli incassi 2020).

L’effetto Zalone, per così dire, determina una novità statistica di assoluto rilievo: la quota di mercato dei film italiani passa dal 21,2 al 56,5% e i relativi incassi calano sì, ma assai meno di quelli totali (103,2 milioni di euro contro i 135 milioni del 2019, – 23,5%).

 

Per l’Italia le grandi opere vanno bene a prescindere

Nella più recente versione del Piano italiano di ripresa e resilienza (Pnrr) Matteo Renzi aveva ottenuto di ampliare molto le spese in deficit in infrastrutture di trasporto mai valutate, con l’argomento “tanto i soldi ci sono”. Ovviamente i soldi non ci sono, ma è vero che lui e l’allora suo ministro Graziano Delrio sono riusciti, molto brillantemente, a far finta che ci siano, nel senso che quegli investimenti, e moltissimi altri non valutati, sono stati formalmente approvati dal Cipe (cComitato interministeriale per la programmazione economica).

Vale la pena di ripercorrere l’esemplare vicenda. In principio vi furono le grandi opere di Berlusconi, mai valutate, col Pd all’opposizione che strillava. Arriva la “sinistra ferroviaria” al governo (lo slogan era prima attribuito ai socialisti) ma decide, tra il tripudio degli studiosi, che tutto va valutato. Fa anche delle regole, note come “”Linee Guida”. Poi il colpo di genio: tutto va valutato, ma per gli altri. I “progetti strategici” (chiamarli grandi opere pare brutto) decisi da loro no. Questo per 133 miliardi, cioè per tutto il possibile. E li fa approvare tutti in solido dal Cipe, sotto forma di piani pluriennali delle Ferrovie e di Anas. Il gioco da cui dipendono le affermazioni di Renzi è fatto. Tutto è “strategico” e approvato, e si rendono disponibili dei soldi. Poi arrivano al governo i 5Stelle con la Lega, e la storia si ripete: tutto va valutato in modo trasparente! Poi cambiano idea, e decidono di non valutare niente (salvo la Tav in Valsusa). La Lega è d’accordo, come poi lo sarà il subentrato Pd nel governo Conte II.

Il termine “valutare”, cioè mettere in dubbio l’arbitrio dei decisori, e magari chiamarli poi a rispondere dei risultati, sparisce dal lessico politico (insieme a “concorrenza”, e forse non a caso). Ovvio che con queste premesse per le grandi opere elencate nel Pnrr non c’è traccia di valutazioni.

Si è valutata solo la prima versione del piano a livello macroeconomico, con il (buon) modello europeo Quest III. Gli impatti sulla la crescita economica sono risultati ottimi (e non si può non crederci: era dichiarato esplicitamente che “si assumeva a priori che tutti gli investimenti fossero i più efficienti possibili”), Forse vergognandosi, nell’ultima versione si fa solo un breve cenno al modello, mentre l’intero capitolo è scomparso. Eppure esistono radicate tecniche di valutazione usabili con facilità per gli obiettivi “crescita economica” e “impatto ambientale”, che certo non sono gli unici, ma dall’Europa sono considerati molto rilevanti. E si ricorda che “valutare” significa anche scegliere tra alternative. Per esempio, può essere opportuno che in un contesto di grave recessione, quale quello generato dalla pandemia, le analisi costi-benefici tradizionali (indicate dalle Linee Guida italiane o europee), siano affiancate da altri strumenti. Sarebbero utili analisi del tipo input-output, che possono misurare, per la fase di cantiere, sia gli effetti occupazionali di un investimento che l’impatto sul Pil, cioè sulla crescita (sono i noti “moltiplicatori” le analisi costi-benefici misurano invece soprattutto gli impatti delle opere nella fase di esercizio). Inoltre la parte costi-benefici, che può risultare troppo complessa per confrontare un grande numero di progetti, può essere semplificata con tecniche sulle quali qui non possiamo dilungarci.

Ma certo esiste una soglia di analisi, oggi mancante, al di sotto della quale non è accettabile che si vada. Si tratta di fare previsioni sul traffico servito (può sembrare incredibile, ma non esistono, o non sono pubbliche). Da queste è poi semplice derivare sia l’analisi finanziaria (costi-ricavi), che quella ambientale, almeno per quanto concerne il CO2, cioè l’impatto sui cambiamenti climatici, che ha un certo rilievo negli obiettivi europei. Poi certo esistono anche obiettivi sociali diversi dall’ambiente e dalla crescita, che possono anche modificare le priorità tra progetti che fossero emerse dalle analisi (per esempio, obiettivi distributivi, cioè l’impatto su diverse categorie sociali). Ma deve essere una scelta trasparente.
Può anche darsi che progetti così poco e male analizzati provochino reazioni negative in Europa, e che Draghi condivida queste reazioni. Lo scrivente, da discussant di una estesa ricerca della Banca d’Italia (Draghi regnante) era riuscito a far mettere, nell’ultimo discorso da governatore dell’attuale presidente incaricato, la frase fatale “per le decisioni riguardanti le infrastrutture, sono necessarie analisi costi-benefici…”.

Solo un filo di speranza, si è detto: infatti Draghi si troverà di fronte un Parlamento che detesta qualsiasi analisi che metta in dubbio la spartizione partitica dei soldi pubblici. E lo chiamano “il primato della politica”.

Schiaffo a Berlino. Più trasparenza sui conti dei colossi

Ormai non riuscirà più a fermare la macchina in corsa, il ministro dell’Economia tedesco Peter Altmaier. La presidenza portoghese, che ha appena preso le redini dell’Ue fino a giugno, ha messo all’ordine del giorno del prossimo consiglio Competitività la decisione sulla nuova direttiva del country-by-country reporting, ovvero la rendicontazione Paese per Paese delle attività delle multinazionali (quanti ricavi e quante tasse prodotte), perché sa che avrà una maggioranza a favore.

Si tratta del primo passo nella giungla della fiscalità in Europa, una battaglia durissima andata avanti per cinque anni a Bruxelles. “Data l’importanza della proposta – ha scritto a Investigate-Europe un portavoce del governo di Antonio Costa – la presidenza portoghese sta portando l’argomento ai ministri della Competitività che si riuniranno in videoconferenza il 25 febbraio. L’obiettivo rimane quello di raggiungere un accordo sulla direttiva”. Il passaggio in Consiglio diventa di colpo quasi una formalità, ma dal peso politico rilevante. I tedeschi, che hanno tenuto la presidenza fino a dicembre, avevano fatto scomparire dai radar la direttiva sulla trasparenza fiscale, visto che la componente Cdu del governo Merkel – con il suo rappresentante Altmaier – è da sempre contraria. Insieme ai tedeschi c’erano i soliti noti: Irlanda, Lussemburgo, Cipro e Malta, che attirano società straniere a suon di abbattimento delle aliquote. Ma anche altri Paesi, nell’oscurità dei lavori del Consiglio, si erano schierati con i paradisi fiscali, per non mettersi contro i giganti del web come Amazon, Apple, Google, Microsoft che creano anche molti posti di lavoro.

In totale 12 Paesi, il numero sufficiente per formare una minoranza di blocco e arenare il progetto, erano contrari alla direttiva. Tra questi anche i governi socialdemocratici di Svezia e Portogallo, nonostante nei loro paesi promettessero una “dura lotta all’evasione fiscale”. Ma a Lisbona, dopo gli articoli pubblicati da Investigate-Europe nel novembre 2019, il vento è cambiato. La famiglia socialdemocratica europea, che aveva approvato a grande maggioranza la direttiva sulla trasparenza delle multinazionali, ha fatto pressioni enormi sul governo portoghese affinché si allineasse al Consiglio Ue. E così è stato. Dopo il Portogallo anche l’Austria ha cambiato idea. Al prossimo Consiglio del 25 febbraio, “solo” nove Paesi dovrebbero votare contro il nuovo strumento di trasparenza fiscale: Irlanda, Malta, Cipro, Lussemburgo, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Croazia, Svezia. La Germania si asterrà, perché la coalizione al governo è divisa: l’Spd dentro il governo appoggia la nuova legge. L’Olanda voterà addirittura a favore, perché inchiodata da un voto del suo Parlamento, che pretende “trasparenza fiscale”. La nuova direttiva dovrebbe passare con un voto a maggioranza.

Il nuovo strumento prevede l’obbligo per ogni società con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro l’anno di pubblicare un rapporto annuale sul reddito prodotto e le tasse pagate in tutti gli stati dove ha filiali. Non siamo ancora arrivati alle aliquote comuni per le società, come dovrebbe essere in un mercato unico, quindi l’elusione fiscale delle grandi società sarà ancora possibile, ma l’obbligo di una segnalazione trasparente Paese per Paese, è destinato a generare una pressione pubblica, perché rivelerà come i profitti vengono trasferiti a società di comodo con poca o nessuna produzione, le famose “letter box”, sedi usate solo come buca delle lettere, in Stati a bassa tassazione. Inoltre la nuova legge europea aiuterà a “investigare il comportamento fiscale delle imprese multinazionali” e “incoraggiarle a pagare le tasse dove fanno profitti”: così la Commissione ha giustificato la sua proposta nel 2016.

Il commissario ai Mercati finanziari Pierre Moscovici che ha scritto la proposta, esultava in sala stampa nel 2016: “Oggi stiamo compiendo un passo importante verso la creazione di condizioni di parità per tutte le nostre imprese. Miliardi di euro di tasse persi ogni anno a causa dell’evasione fiscale, potranno essere utilizzati per servizi pubblici come scuole e ospedali”. Era anche il segno politico mandato da Jean-Claude Juncker, allora presidente della Commissione europea, per tanti anni premier di un paradiso fiscale come il Lussemburgo, che dopo gli scandali dei Panama papers, il Luxleaks, era favorevole a una svolta.

La Commissione stessa stima le perdite per le casse statali degli altri paesi dell’Ue fino a 70 miliardi di euro l’anno, la metà del bilancio europeo per un anno. Secondo il team dell’economista Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley, in California, circa il 40% di tutti i profitti delle imprese nel mondo sono trasferiti in quei paesi dove si pratica il dumping fiscale. Il solo gruppo Google ha recentemente evitato la tassazione dei profitti nell’Ue per un ammontare di quasi 20 miliardi di euro all’anno in questo modo.

Non si conoscono ancora gli effetti delle nuove regole sui bilanci delle multinazionali. Ma la trasparenza fiscale imposta dal 2015 al settore bancario, come conseguenza della crisi finanziaria mondiale del 2008, ha portato in Europa a un “aumento significativo dei livelli effettivi di tassazione delle istituzioni finanziarie in tre anni”, secondo gli economisti Michael Overesch e Hubertus Wolff dell’Università di Colonia.

L’industria bancaria dimostra che l’obbligo legale di trasparenza fiscale è fattibile, senza danneggiare la concorrenza, ma con benefici per le autorità fiscali. D’altronde Vodafone ha deciso di anticipare Bruxelles: dal 2013 pubblica i dati fiscali Paese per Paese. E da poco anche le olandesi Shell e Philips.

*Investigate Europe

I telai li fanno in Cina e in Italia mancano le bici

Il 2020 è stato l’anno dell’esplosione della domanda di biciclette, ma anche della produzione estera di componenti che non è riuscita a tenere il passo all’offerta, indebolita dalla pandemia e dall’aumento dei costi di trasporto. I dati precisi arriveranno in primavera, ma secondo le prime stime nel 2020 si è registrato un aumento di almeno il 20% di richieste sul 2019, con oltre 2 milioni di bici vendute. Contestualmente è aumentato il tempo per la fornitura: le aziende ferme in tutto il mondo, e soprattutto in Cina, l’aumento dei costi del trasporto via mare e problemi nella logistica hanno generato notevoli ritardi. Per avere una bicicletta, specie se con particolari caratteristiche, si è arrivati ad aspettare fino a dieci mesi. Il Covid ha fermato le fabbriche anche nel cosiddetto Far East e senza pezzi quelle italiane ed europee non hanno potuto assemblare. È così iniziato il ripensamento della filiera: c’è chi in Europa sta prevedendo di riportare il ramo la componentistica in patria, ci sono le aziende asiatiche che hanno deciso di aprire impianti in Europa e chi chiede agevolazioni per invogliare le aziende a tornare alle produzioni verticali di quarant’anni fa quando da un tubo si dava vita all’eccellenza a pedali.

Storicamente, l’Italia è per l’Europa sia produttore di biciclette che di componenti, nonché esportatore: selle (soprattutto), telai di alta gamma, pure cerchi e ruote. Specializzata in bici da corsa, ne detiene tecnologia ed esperienza. Le aziende più importanti come Bianchi o Campagnolo, ma anche la Mario Schiano e la Donizelli, sono centenarie o quasi. Una tradizione antica se si tiene conto che il primo brevetto c’è stato in Germania nel 1817. Fino a 35 anni fa le aziende italiane costruivano tutto, dai tubi alle ruote. Poi qualcosa è cambiato. “Negli anni 90 la Cina decide di competere con il suo mercato, facendo dumping sui prezzi – spiega Piero Nigrelli, responsabile settore ciclo dell’Associazione nazionale ciclo motociclo e accessori (Ancma) – In poco tempo anche la produzione interna degli Usa si è dimezzata, nonostante il tentativo di spostare la manodopera in Messico. La Cina ha risposto abbassando ancora di più i prezzi”. L’Europa invece ha resistito grazie ai dazi anti-dumping, ma questo non ha impedito alle aziende di ricorrere ai telai cinesi, indiani e taiwanesi, più convenienti per la manodopera a bassissimo costo. La saldatura del telaio, infatti, può avvenire solo a mano.

In Italia il tessuto produttivo delle bici è formato da circa 250 imprese, in prevalenza Pmi, che impiegano più di 12mila addetti con l’indotto. La distribuzione conta su 2.600 negozi e un fatturato di 1,35miliardi. La verticalità però non esiste più. Le fabbriche assemblano componenti in parte prese dal mercato globale. Su 21 milioni di bici prodotte nel mondo, 14-16 milioni sono assemblate in Europa, 2,6 milioni in Italia. A differenza della Germania, che produce e vende a se stessa, l’Italia esporta gran parte della produzione nei paesi Ue, complice l’essere agli ultimi posti per la ciclabilità: 2,8 bici ogni 100 abitanti contro le 11 di Germania e Olanda.

Il 2020 sembra aver imposto una inversione. Già nel 2019 c’era stato un timido incremento della richiesta di bici da città, ma col Covid registra un’esplosione. Code fuori dai negozi, commercianti felici di aver visto “finalmente dopo tanti anni il colore delle mattonelle”. C’è la necessità di stare all’aria, la paura di usare i mezzi pubblici e i bonus del governo. “Venivano chieste riparazioni su bici rispolverate dopo anni – spiega Nigrelli – e le richieste sono arrivate anche da città non interessate dai bonus”. L’occupazione nel comparto sale dal 6 all’8%.

Rapidamente si svuotano però i depositi in Italia e in tutta Europa e il ricambio si rallenta. Il 60%delle componenti arriva infatti dall’est, specie i telai. Ad oggi, il valore della produzione di componenti in Europa si attesta a 3 miliardi euro, ma si stima di arrivare a 6 in 5 anni. Nel 2020 la quota di importazione di componenti è stata pari a 4,2 miliardi di euro, di cui 1,8 dalla Cina. “Il problema – spiega Manuel Marsilio della Conebi – sta nell’approvvigionamento di alcuni componenti dall’Asia: se prima della pandemia i tempi di consegna erano di circa 60 giorni, ora siamo in alcuni casi a 300. Ecco perché molte aziende Europee hanno deciso di tornare a produrre in Europa e altre non europee di rafforzare la capacità produttiva aprendo impianti in Europa”. In Germania, la storica azienda Büchel ha annunciato un piano di investimenti da 20 milioni e parallelamente investirà la Merida, di Taiwan. In Ungheria sta investendo la Giant mentre la Shimano ha aperto fabbriche in Repubblica Ceca. Anche la Campagnolo sta investendo, in Romania. Ma si potrebbe tornare in Italia. “Serve ridurre la pressione fiscale sul lavoro – conclude Nigrelli – Solo così si potrà invogliare le aziende a rivalutare la nostra cultura e la nostra tradizione artigiana”.

La “catena globale del valore”? È troppo lunga, si torna a casa

Calzature, abbigliamento, montascale, accessori per smartphone. Poi mobili, componenti di yacht, accessori e poi ancora prodotti elettrici, pelletteria, occhiali, cosmetici, bevande, veicoli elettrici. C’è di tutto nell’elenco delle 39 operazioni di rimpatrio della produzione decise da imprese italiane tra il 2014 e il 2018. Il fenomeno si chiama reshoring ed è l’opposto dell’offshoring, la delocalizzazione che negli ultimi vent’anni ha trasferito intere aziende dalla Penisola soprattutto nell’Europa orientale e in Asia in cerca di vantaggi di prezzo. Dietro i rimpatri ci sono ragioni diverse: aumento della qualità, vicinanza ai clienti, rivalutazione dei marchi, riduzione della dipendenza da Paesi instabili. Dall’anno scorso tra le cause c’è il blocco di molte catene globali di fornitura scatenato dalla pandemia.

La delocalizzazione è un megatrend che ha accelerato dal 2000: negli ultimi due decenni gli scambi globali di beni intermedi sono triplicati a oltre 10mila miliardi di dollari l’anno. Le reti di produzione complesse che dipendono da catene di fornitura globali riducono i costi, aumentano l’efficienza e ottimizzano la vicinanza ai mercati ma non garantiscono la resilienza. Il Covid-19 ha prodotto il peggior choc da decenni ma i blocchi, un tempo straordinari, sono e saranno sempre più frequenti anche a causa di catastrofi naturali e del cambiamento climatico.

Nel 2011 il terremoto e lo tsunami in Giappone fermarono alcune fabbriche di componenti elettronici per auto e il principale produttore mondiale di wafer di silicio avanzati per semiconduttori. Pochi mesi dopo le inondazioni in Thailandia sommersero le fabbriche da cui usciva un quarto dei dischi rigidi per pc del pianeta. Nel 2017 l’uragano Harvey che colpì Texas e Louisiana bloccò alcune delle maggiori raffinerie di petrolio e impianti petrolchimici degli Usa. Nell’economia globale sempre più interconnessa l’instabilità è scatenata anche da guerre commerciali come quella tra Usa e Cina o tensioni geopolitiche come l’embargo internazionale contro la Russia per il conflitto in Ucraina, ma anche da crisi interne a singoli Stati, dagli attacchi criminali o militari via web, dalla concentrazione geografica: 180 prodotti i cui scambi nel 2018 valevano 134 miliardi di dollari hanno un solo Paese come esportatore semi-monopolista. Secondo il McKinsey Global Institute gli stop agli approvigionamenti che durano un mese o più si verificano in media ormai ogni tre anni e mezzo e causano danni pesantissimi.

Anche la Penisola è terra di delocalizzazioni, ma in oltre tre casi su quattro la produzione realizzata all’estero rientra in Italia per usi finali o intermedi o perché destinata a una successiva riesportazione. A guidare il reshoring è invece l’effetto “made in”, specie nella moda. Tra le altre cause ci sono l’innovazione di prodotto/processo, la disponibilità locale di know-how e l’avvio di produzione automatizzata. Tra gli esempi di successo c’è Fitwell, produttrice di scarponi da montagna di alta qualità, che a maggio 2017 è tornata a Montebelluna (Treviso) dalla Romania e ha lanciato un nuovo brand dello scarpone “due in uno” per la salita a piedi e la discesa sugli snowboard: aveva esternalizzato in Romania nel 1999 per le pressioni di un cliente che chiedeva prezzi competitivi. Nel 2017 anche Diadora ha riportato in Italia il 10% della produzione di fascia alta per supportare l’innovazione di prodotto e sfruttare l’etichetta “made in Italy”. Sempre nel 2017 è tornata in Italia dalla Cina la produzione di montascale della Vimec di Luzzara (Reggio Emilia). A dicembre, invece, la Vitec Imaging Solutions di Feltre (Belluno) ha annunciato un piano da 4 milioni per riportare in Italia dal Far East la produzione di mezzo milione di accessori per smartphone. Motivo: diminuire l’impatto ambientale.

Con la pandemia, il reshoring è entrato tra gli obiettivi del settore della bicicletta (vedi accanto). A gennaio anche Alisei – cluster tecnologico nazionale delle scienze della vita che riunisce Farmindustria, Egualia e Federchimica – ha annunciato un piano da 1,5 miliardi per riportare le filiere farmaceutiche in Italia da Cina e India. L’operazione dovrebbe coinvolgere 300 imprese, una quarantina di miliardi di fatturato e fino a 11mila posti di lavoro.

Riportare(o portare) alcune produzioni a casa, col Covid, è entrato anche nelle agende di molti governi. Il Commissario Ue al mercato interno, Thierry Breton, a maggio ha affermato che l’Europa potrebbe essere andata “troppo in là” nella globalizzazione. La Francia a settembre ha inserito nel suo Piano di ripresa “France Relance” un miliardo per il reshoring di attività strategiche nei settori salute e IT. Il presidente Macron ha poi ricevuto una preoccupata telefonata di Angela Merkel sul tema “semiconduttori” che al momento agita soprattutto i produttori di auto (il mega-impianto Volkswagen di Wolsfburg funziona a mezzo servizio): la guerra commerciale Usa-Cina ha reso i “chip” un bene decisamente scarso e la Cancelliera ora vuole che la Ue aumenti significativamente la sua quota di mercato (oggi al 10%). Negli Usa la presidenza Biden ha inserito il rimpatrio di attività nei settori delle apparecchiature e prodotti medicali tra i punti salienti del piano di stimolo da 1.900 miliardi di dollari e come focus per la scelta dei contratti sui quali ogni anno l’amministrazione federale spende 600 miliardi.

L’Italia sembra ancora poco interessata a queste opportunità. Una ricerca condotta da Euler Hermes tra metà ottobre e inizio novembre su un campione di 1.181 aziende di cinque Paesi (206 italiane) ha analizzato gli effetti della pandemia sulle decisioni di trasferimento della produzione. Meno del 15% delle aziende intervistate considera il reshoring e in Italia il dato cala al 6%. Un terzo però preferisce il nearshoring, lo spostamento della produzione in un Paese appartenente alla stessa unione doganale o accordo di libero scambio, come la Ue. Ma il reshoring, che dal 2014 al 2018 ha creato nella Penisola 410 nuovi posti di lavoro, non va solo a vantaggio dell’Italia: negli stessi anni sei aziende del Nord Europa hanno riportato in patria produzioni realizzate nel nostro Paese.