Sindrome di Stendhal. Quando l’arte è troppo “concettuale” (e il mondo sempre più confuso)

Sono con Manolita a una mostra d’arte contemporanea. Mi hanno sempre parlato della cosiddetta sindrome di Stendhal, per cui, di fronte a un’opera di incommensurabile bellezza, l’osservatore viene come rapito e raggiunge l’estasi.

Cerco in tutti i modi di far risuonare dentro di me questa passione, ma di fronte a “un’opera” che espone quattro pneumatici di camion sfondati, ricoperti di finto guano di uccelli migratori, francamente, non provo nulla. Di certo, non vado in estasi per una lavatrice arrugginita, da cui esce una bambola decapitata, con alle spalle un Pierrot minaccioso che sembra avere precise intenzioni sessuali. Non mi entusiasmo per l’artista che confeziona provocazioni visive, auditive e olfattive. Le cosiddette “installazioni” mi provocano un sospetto simile a quello raccontato da Alberto Sordi nel film sulle vacanze intelligenti. Quello dove sua moglie, seduta coi piedi gonfi in una sala di un museo, viene scambiata per un’opera d’arte: “Ao’ me volevano comprà pe dieciotto mioni”.

Comunque decido di dare fiducia all’autore della lavatrice arrugginita e, nella sala appresso, mi trovo davanti a un’altra opera dello stesso “artista”. Di fronte agli “oooh” d’ammirazione dei rari visitatori e di Manolita si staglia un enorme uovo di pasqua che si schiude e si richiude a tempo di musica, svelando, al suo interno, il solito Pierrot che sodomizza una povera capra inconsapevole. Se questa è l’arte “concettuale” io ai musei non ci vado più, a costo di litigare con Manolita, che invece sembra essersi innamorata del Pierrot di cui sopra. Però è anche vero che l’arte è occasione di interazione tra pubblico e artista.

Se i luoghi d’arte fossero chiusi sarebbe un grave danno per la cultura. Anche se l’unica a essere contenta, forse, sarebbe la povera capra che tirerebbe un sospiro di sollievo.

 

Infanzia e Shoah. Edith Bruck, il viaggio poetico (e senza odio) nella galleria dell’orrore nazista

Edith Bruck si aggira cauta e serena, nel mondo della Poesia in cui vive e che la protegge, quando all’improvviso le si apre accanto il pozzo della memoria. È molto profondo, un mondo lontano di cui vedi solo le tracce, o così pensa il lettore. Sul fondo sono sparsi bambini poveri e felici, madri e padri in grembiule o tuta, con una loro dolcezza rude e nascosta e un piccolo dolce in serbo, bambini più grandi che sono fratelli e sorelle, zie da lontano, alcuni uomini buoni, alcuni uomini cattivi, ma niente è ancora organizzato (o è stato detto a grandi e bambini) per portarli via tutti, per sempre.

Come una Alice nel Paese delle Meraviglie, Edith vede se stessa correre felice sulla terra sabbiosa dei contadini senza campagna, e il suo agile corpo bambino non ha peso, qui in fondo al pozzo della memoria. C’era povertà insieme alla mamma (che temeva di perdere il pane della festa), i fratelli, il padre zitto con la sua celata dolcezza, prima che gli eventi accadessero. Ora, nella memoria, la povertà è un poco che rende impossibile immaginare il niente.

All’improvviso, come al levarsi senza preannunci di un temporale malefico, il villaggio dell’infanzia, che Edith ha ritrovato sul fondo della memoria, viene sradicato, spazzato, distrutto. Il momento chiave che divide il passato – duro ma lieve, colmo d’affetto e mani che tengono mani, di bambini fiduciosi degli adulti e di promesse d’amore – è il gesto bestiale dei soldati ungheresi: durante una notte ghiacciata abbattono la porta di una casetta di ebrei, tutta una famiglia che dorme tenendosi le mani (non ti aspetti che quelle della mamma tengano la stretta anche dormendo, che quelle del papà siano gentili). Fuori dal sonno, dal sogno, dalla mano che ti protegge, dalla piccola casa che è povera ma è la casa, un vento gelido di odio frusta adulti e bambini avviati ai treni, poi chiusi nei vagoni con i loro escrementi, poi denudati sui marciapiedi, poi divisi fra uomini e donne, adulti e bambini, vivi o da uccidere subito.

L’ultimo libro di Edith Bruck (Il pane perduto, La nave di Teseo) unisce in un’unica grande opera ciò che l’autrice ha visto, vissuto, pensato e scritto: un’amorevole dolcezza prosciuga altri sentimenti (come l’odio legittimo per l’orrore e i carnefici), perché Edith è salva e tenuta in vita da un legame fortissimo, un misto di orgoglio e pietà affettuosa per chi, come lei, è stata spinta nella galleria dell’orrore. Nella visita sul fondo della memoria Edith ripercorre il miserabile inferno preparato meticolosamente dai suoi aguzzini (tornati come in un incubo), vittime di una solitudine che si nutre di morti.

Ma la vita è troppo forte e l’istinto, ancora bambino, di saltare avanti è troppo grande. E quando, nella realtà come in questo nitidissimo racconto, vita e morte, distruzione e futuro si spaccano, Edith è già saltata sul lastrone della vita. E qui il libro diventa un racconto che devi leggere fino all’ultima pagina, di storia, di vita, di amore.

 

Il pane perduto

Edith Bruck

Pagine: 128

Prezzo: 15

Editore: La nave di Teseo

Hàndo-vai se il portiere non ce l’hai? Storia dei numeri 1, da Van der Sar a Handanovic

La battuta più bella della settimana, nel pianeta pallone, è il soprannome affibbiato sui social al portiere dell’Inter Handanovic, ribattezzato “Hàndo-vai” dopo il gol subìto da Ronaldo (Inter-Juventus 1-2, semifinale di Coppa Italia) che approfittando di una inspiegabile passeggiata del n. 1 fuori dall’area era stato lesto a scippare la palla dai piedi di Bastoni per spedirla nella porta nerazzurra rimasta incustodita. Un’imprevista variante sul tema (dei gol presi in modo grottesco) visto che il 36enne portiere è nell’occhio del ciclone delle critiche da un paio di stagioni per l’abitudine di subire gol restando immobile senza mai accennare a un tentativo di tuffo e senza mai allungare non si dice un braccio, ma anche solo una mano.

Che sta succedendo al portiere sloveno che gioca nell’Inter da 9 stagioni e di cui è rispettato capitano? La prima risposta è che a volte capita, invecchiando. Come successe ad esempio a Dida, il gigantesco portiere brasiliano del Milan artefice di 2 Champions vinte (nel 2003 parando 3 rigori alla Juve di Lippi, nel 2007 contro il Liverpool), che indossò il rossonero per 8 stagioni ricoprendosi di elogi e di gloria prima, di improperi e sfottò poi. Andò così nel pallone, Dida, che in un Celtic-Milan 2-1 del 20007-’08, dopo aver commesso 2 papere sui gol degli scozzesi, si mise ad inseguire un tifoso che aveva invaso il campo e di colpo stramazzò a terra fingendo di essere stato colpito, lasciando il campo in barella. L’Uefa gli appioppò 2 giornate di squalifica, il Milan lo multò, e fu chiaro a tutti che la sua parabola in rossonero era ormai giunta al termine.

Dura la vita del portiere: specie se entri in crisi giocando in un club ad alto livello. Prendete Van der Sar, l’olandese dell’Ajax che giocò nella Juventus dal ’99 al 2001, gli anni dei secondi posti alle spalle di Lazio e Roma. Fu la croce di Ancelotti, allenatore bianconero, e di lui si arrivò a dire che avesse problemi di vista quando in un Juve-Lazio decisivo e finito 1-1 si scansò lasciando passare un pallone calciato da fuori area da Salas, e quando in un altrettanto decisivo Juve-Roma 2-2 respinse sui piedi di Montella un tiro telefonato di Nakata consentendo all’aeroplanino di firmare il pari a match ormai concluso (e addio sogni di scudetto). Oppure prendete Jens Lehmann, il portiere tedesco dello Schalke 04 cui il Milan si affidò dopo l’11° posto della stagione Tabarez/Sacchi e il 10° del Capello II, caratterizzati dalle disavventure di portieri come Pagotto, Ielpo e Taibi, ogni volta soppiantati da Sebastiano Rossi. Lehmann giocò nel Milan 5 partite 5, il tempo di commettere sfondoni indicibili contro la Fiorentina (3 gol di Batistuta) e a Cagliari, dove riuscì a farsi espellere, convincendo Zaccheroni a rispedirlo in Germania per affidarsi a Rossi e Abbiati, che infatti gli fecero vincere uno scudetto totalmente inatteso.

Ma come si dice, abbiamo tutti un blues da piangere: e allora alzi la mano il top club che non ha mai preso cantonate in fatto di portieri-sciagura. Per informazioni chiedere alla Roma notizie di Mauro Goicoechea, l’uruguaiano che si fece gol da solo in un derby dell’era Zeman II; alla Lazio di Juan Pablo Carrizo, 33 gol presi in 22 partite, portiere argentino come Nicolas Navarro, che il Napoli acquistò non si sa come dall’Argentinos Juniors e al cui ricordo tutt’oggi il Vesuvio ribolle. Concludendo: “Hàando-vai” se il portiere non ce l’hai.

 

Ti conosco mascherina. Sanremo si farà: con fpp2 e “navette oscurate”

 

PROMOSSI

Sanremo/ 1. Enfin, come ampiamente prevedibile, il Festival ci sarà. Dopo un tira e molla che le trattative del governo non sono nulla, la Rai e il Cts hanno trovato un accordo. Dunque Sanremo si farà nelle date originarie, dal 2 al 6 marzo. Naturalmente sarà un’edizione superblindata, senza pubblico e con la mascherina: obbligo assoluto, fatta eccezione per conduttori, cast ed eventuali ospiti in video durante la diretta, di indossare la mascherina (e non una qualunque, una Ffp2) e di rispettare le abituali norme di distanziamento e igiene. I microfoni di cantanti e coristi e tutti gli oggetti di scena, saranno sanificati da con il personale dotato di guanti e mascherina. Il cast fisso sarà di massimo 5/6 persone per ogni serata (compreso il conduttore) e 4/5 ospiti a serata. Sanremo andrà in onda dalle 20.40 per la durata di 300 minuti circa (5 ore, fino alle 2 di notte: un sequestro di persona). Il particolare più divertente riguarda la consegna dei fiori e dei premi che “potrà essere effettuata tramite un carrello di scena opportunamente realizzato e igienizzato dopo ogni utilizzo”. Praticamente con il delivery. Per evitare gli assembramenti esterni, le navette che trasportano gli artisti saranno oscurate, così nessuno saprà se dentro c’è Fedez o Orietta Berti. O un agente dell’Fbi.

 

Sanremo/2. Sulla Stampa Luca Dondoni ha intervistato il nostro candidato (purtroppo in pectore) al seggio di senatore a vita, Renzo Arbore, a proposito del Sanremo più pazzo del mondo, con la platea vuota. “A Fiorello e Amadeus è chiesto di trovare un’altra chiave ma, come si diceva una volta, a loro toccherà fare di necessità virtù. Per chi si muoverà sul palco dell’ Ariston in quelle cinque sere sarà tutto un prenderci, forse io, devo dire la verità, preferirei una location più piccola sempre a Sanremo, come il Salone delle Feste del Casinò anche se sono sicuro che un mattatore come Fiorello troverà la quadra senza problemi. L’ anno scorso la coppia Ama/Fiore ha funzionato alla grande. Teniamo anche conto che il pubblico sarà generoso perché capirà che si tratta di un festival anomalo”. Ecco i suoi consigli: “Aumentare il numero di battute fra i due, gli consiglierei di comportarsi immaginandosi alla radio: la madre di tutti i media. Il linguaggio radiofonico che Amadeus e Fiorello conoscono bene potrebbe essere la chiave di volta e permettere uno svolgimento più sereno di tutta la manifestazioni”. Noi invece consigliamo ad Ama e Fiore di collegarsi con Renzo, il migliore di tutti da sempre.

 

Sanremo/3. Fedez ha chiesto scusa alla sua compagna di palco, dopo che il 30 gennaio aveva pubblicato su Instagram qualche secondo della canzone che sarà presentata al Festival di Sanremo, rischiando la squalifica. Dopo qualche giorno Fedez ha postato una foto sorridente, con i fiori per Francesca Michielin, in sottofondo il brano “Xdono” di Tiziano Ferro. Alla fine pace fatta con post, ma comunque per regolamento in realtà non rischiavano nulla.

 

BOCCIATI

Avati il prossimo. I tifosi della Lazio si sono offesi. Nell’ultimo romanzo di Pupi Avati – “L’archivio del Diavolo”, ambientato nei primi anni ’50 uno dei personaggi viene etichettato da un altro come “un laziale di merda”. Non si può scrivere più niente senza che qualcuno si senta offeso personalmente. Vogliamo davvero un universo artistico completamente omologato e di soli buoni sentimenti?

 

Competenza. E’ la nuova sobrietà: passa il tempo, cambiano i governi tecnici ma non il vizio assurdo dell’anedottica agiografica da parte della stampa. In pochi giorni di incarico a Mario Draghi abbiamo sentito la parola già troppe volte. Vien da domandarsi se chi la pronuncia è competente (e se i ricorda le lacrime e sangue dell’ultimo valzer tecnico). Speriamo che Draghi non porti il loden, sennò siamo fritti.

 

Ambiente e politica. Mario Draghi avrà letto la “Dichiarazione di emergenza climatica”?

Jane Fonda. Greta. Qui, invece, Giorgia. Chissà quanto il prossimo governo vorrà prendere sul serio la questione del clima. Come Joe Biden, per capirsi. Avrebbe i consensi delle nuovissime generazioni, che magari non votano ancora ma hanno anima e birra per ripensare il mondo a nostra insaputa. Credevo, ad esempio, che il mio monitor sociologico funzionasse finché ho scoperto a poca distanza da me un intero mondo giovanile “a rete” che nell’area nord al confine tra Lombardia e Piemonte va impegnandosi e fondando coordinamenti e associazioni proprio sulla questione del clima.

Ricordate le manifestazioni studentesche dello scorso anno? Clima, ambiente, il mito di Greta che arrivava quasi dal circolo polare artico a scaldare istinti e passioni e culture delle nostre scuole? Ecco, in provincia di Varese la rivolta climatica l’hanno aperta, sempre al femminile, tre ragazze: si chiamano Giorgia Giovanelli, Isabella Cusatelli e Martina Sansone. A pochi giorni dal Natale del 2019 è stata Giorgia a leggere con emozione e ad alta voce nel consiglio comunale di un paese di 1200 abitanti, Brezzo di Bedero, davanti alla sindaca Maria Grazia Camagnani, la loro “Dichiarazione di emergenza climatica”, poi approvata all’unanimità. Pareva una cosa minuscola. Invece da lì è partito un movimento che si va allargando. La Dichiarazione è stata infatti portata e letta in molti altri comuni, come un giuramento da fare approvare ovunque possibile: “Il Consiglio comunale di… delibera: 1. di dichiarare l’emergenza climatica, che minaccia il nostro territorio, la nostra Regione, l’Italia, l’umanità e il mondo naturale. 2. il Comune di… condivide l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale ad un massimo1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale”. Impegni netti, imperativi, insomma. Compreso quello di mettere permanentemente in rete i comuni della provincia e di dare informazioni puntuali ai cittadini e “in particolare ai giovani” sull’emergenza climatica e sulle attività concretamente svolte dalle singole amministrazioni.

Dietro questo slancio civico c’è anche il Centro Internazionale Insubrico, che rappresenta in tema di etica e di legalità quel territorio “un po’ così” (l’Insubria, appunto) tra le province di Varese, Como, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino. E, a sua volta, dietro questo centro c’è da anni una professoressa, Stefania Barile, filosofa e con una passione autentica per il suo progetto: un’idea viva di legalità, 20mila leghe oltre quella linda e geometrica che impera al confine svizzero. Riferimento, il pur magro articolo 9 della Costituzione, volto alla tutela del patrimonio storico-artistico culturale e ambientale (del “paesaggio” in realtà). Dal clima alla Costituzione, insomma, il passo è stato breve.

Antonella Sonnessa, un’altra professoressa, dell’Istituto Città di Luino-Carlo Volontè (e da settembre anche vice-sindaca del comune di Luino), ha presentato la proposta di collaborazione con la “Rete per il clima e la Comunità operosadell’Alto Verbano”. Obiettivo finale, coinvolgere sul tema per eccellenza dei giovani il capoluogo di provincia e i comuni di Induno Olona e Cassano Magnago. E poi l’intera provincia da nord a sud, entrando nelle amministrazioni comunali e monitorandone il lavoro di tutela ambientale, come prevede il testo della “Dichiarazione”, ormai firmato da dodici Comuni: oltre Brezzo di Bedero, nell’ordine, Laveno Mombello, Germignaga, Castello Cabiaglio, Travedona Monate, Ranco, Porto Valtravaglia, Besozzo, Cocquio Trevisago, Comabbio, Maccagno con Pino e Veddasca, Brenta e Luino.

Non so di che cosa discuteranno concretamente a Roma le cosiddette delegazioni dei partiti, visto che “prima ci sono i programmi poi gli uomini”. Ma se, per parlar di programmi, avessero la priorità le idee dei ragazzi “insubrici” non sarebbe male. O no?

Pandemia lunga. “Feste clandestine e notti folli, ai giovani dei morti già non frega nulla”

 

“Il mio compagno mi disprezza: perché allora dipendo da lui?”

Ciao Selvaggia, non so se leggerai mai queste mie parole. Ti scrivo in camera da letto, al buio, approfittando del fatto che il mio compagno sonnecchia sul divano in soggiorno. Funziona così in casa “mia”, la libertà è qualcosa che ci si guadagna, al massimo, mentre lui è distratto. Mi sento un po’ come la rana bollita della storia, e non so ancora se riuscirò in qualche modo a saltare giù da questo pentolone di acqua rovente. Qualcosa però dovevo scriverti, ne avevo bisogno, perché so che puoi immedesimarti. Potrei raccontarti centinaia di episodi, di battaglie (quasi) quotidiane come una logorante guerra senza quartiere. Una guerra tra una donna che dipende da un uomo per ragioni insondabili e quell’uomo arido e cattivo che non la ama. Niente di nuovo: insulti, denigrazione, scoppi d’ira con pugni sbattuti contro il muro e oggetti lanciati in giro per la casa, io che fatturo la metà rispetto a lui, io che metto il lavoro davanti alla nostra coppia, io che sono viziata e penso che tutto mi sia dovuto, io che non ne faccio mai una giusta, io che me ne frego di lui, io che sono egoista, io che non voglio condividere niente con lui, io che fraintendo tutto, io che sono ipersensibile e non accetto critiche, io che non so stare allo scherzo, io che sono una malata, una pazza in preda agli ormoni e all’esaurimento nervoso. Io che non allargo le gambe. La mia vita deve ruotare intorno alla sua. Lui deve essere il mio faro e io devo giustificarmi per tutto, incluso il look. Nelle ultime settimane il dolore è stato lancinante, insopportabile. Me ne sono andata di casa, per poi crollare sotto il fuoco di fila delle sue minacce di rottura definitiva, e tornare… sopportando l’ennesima colpa e fardello. La mia assicurazione sulla vita, nonostante tutto, è la sua ipocrisia: è tanto bastardo, capace di umiliare e offendere tra le mura di casa, quanto è ossessionato dalla difesa della sua immagine pubblica di uomo esemplare.

In questi giorni la morsa di dolore sembra si sia allentata, sia pure in maniera appena percettibile. Ho ritrovato una briciola di voglia di alzarmi dal letto la mattina; non piango più ogni 5 minuti né di fronte ai suoi attacchi o alla prospettiva della solitudine; riesco a concentrarmi di nuovo sul lavoro con un minimo di continuità. Soprattutto, sabato scorso, dopo mesi di notti semi insonni, dopo cena mi sono nuovamente addormentata sul divano senza accorgermene. Per me sono piccoli traguardi, piccoli passi che mi porteranno non so ancora dove. Se e quando riuscirò a saltare fuori dal pentolone farò di tutto per convincere una mia amica, bravissima attrice, a scrivere qualcosa su questo tema. Tu intanto, Selvaggia, fai qualcosa, ti prego, affinché non cali il silenzio. Fai sentire le nostre voci. Non siamo fatte per avere padroni. Non lo meritiamo.

Giorgia

 

Reagisci, Giorgia. “Il piccolo passo” non può essere un sonnellino sul divano. Il piccolo passo, per cominciare, può essere l’aiuto di un bravo terapeuta. Perché quello che non va in lui lo sai, ora bisogna che qualcuno ti aiuti a capire cosa non va in te. Auguri.

 

“L’inferno fino all’immunità di gregge: è già liberi tutti”

Cara Selvaggia, dopo quasi un anno di pandemia stiamo tutti cercando di superare il buio più cupo, quando temevamo persino di toccare la maniglia della porta condominiale. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, tutti, ma chissà quando succederà. Certo, sono arrivati i vaccini. Ma per vaccinare tutti servono mesi (e forse più) e non possiamo far finta che l’emergenza sia agli sgoccioli. Dobbiamo avere pazienza, perché il virus c’è, i malati anche e pure i morti, tanti. Tuttavia, posso testimoniarlo, a Milano molti giovani non smettono (e non hanno mai smesso) di fare la vita di sempre. Sono riusciti in questi mesi a trovare soluzioni per vedersi, alla faccia dei divieti. Negli alberghi a cena e a far festa in compagnia (facendosi fare finte fatture dagli albergatori per una camera d’albergo) sia il sabato che la domenica. Ora ho scoperto per la città i secret parties, dove si accede solo su invito per passare la serata in compagnia (ovviamente senza la minima precauzione, distanziamento mascherina o altro). lo so perché lavoro con molte ragazze che ci vanno e il giorno dopo ne parlano compiaciute, come se avessero vinto la gara del più furbo, e lo fanno sapendo che noi altri (quelli che stanno a casa) ascoltiamo e giudichiamo. Semplicemente, se ne fregano. Se provo a discuterci o insultarle (sono colleghe di lavoro “giovani” dai 25 ai 30 anni) non serve a nulla, mi prendono in giro e quasi mi mandano al diavolo. Così faccio pure la parte della strega cattiva, che dà buoni consigli perché non può più dare il cattivo esempio. Chi mi invita, a me, a 53 anni, ai secret parties? Dunque temo che il lasso di tempo fino all’immunità di gregge sarà il peggiore, perché qualcuno avrà apertamente il coraggio di dire che dei morti non gliene frega più un cazzo. Tra parentesi, chissà se queste simpatiche colleghe contageranno anche me, prima o poi. Ma che posso fare? Che fine faremo? Non capiscono che tutti vogliamo la stessa cosa, ma la disciplina è tutto in questo momento?

Loredana

 

Tutto vero, tranne una cosa: non sono solo i giovani, ma anche molti individui che hanno festeggiato da tempo i 40 anni, gli indisciplinati. E se l’arroganza della giovinezza in qualche modo si può comprendere, quella degli agè fa solo una gran pena.

 

Draghi e Mattarella tessono la tela, mentre Briatore avvelena i pozzi

 

Dirige l’orchestra Francesco Bergoglio.

La polemica sulla presenza del pubblico al Festival di Sanremo è riuscita ad essere tanto contorta quanto lunare allo stesso tempo. Mentre Rai e direzione artistica premevano per trovare un escamotage che permettesse di far passare il Festival per un programma televisivo, ovviando così al Dpcm che permette lo svolgimento degli spettacoli solo in assenza di pubblico, senza rassegnarsi però a spostare la cerimonia dal teatro Ariston ad un vero studio televisivo, gli artisti s’interrogavano su come qualcuno potesse pensare d’ignorare così platealmente gli enormi sacrifici a cui è stata sottoposta l’intera categoria, pretendendo un trattamento privilegiato. L’idea che il Festival di Sanremo meriti un qualche trattamento di favore, come se fosse un po’ più necessario del resto delle performance artistiche, sembra trapelare anche dall’ultimo paragone venuto in mente ad Al Bano: “Immedesimandomi nei cantanti che si esibiranno sul palco dell’Ariston, dico che un cantante senza pubblico a Sanremo è come se il Papa fosse costretto a dire messa senza fedeli in Vaticano”. E dire che Papa Francesco che prega in solitaria, nel corso di questa pandemia, ce lo ricordiamo quella sera di Marzo, quando in Piazza San Pietro, sotto la pioggia, ha dato la benedizione Urbi et Orbi e ha concesso l’indulgenza plenaria, imprimendosi per sempre nell’immaginario collettivo. Dunque, per rimanere in metafora, siamo sicuri, caro Al, che se Francesco ha potuto pregare e benedire in assenza di fedeli, Fedez o la Bertè non possano esibirsi senza pubblico? Per fortuna il buonsenso e le autorità hanno deliberato che sì, magari con un po’ di sforzo, ma sopravviveranno. Meno male.

5

 

Demolitori.

Se c’è una cosa che il presidente Mattarella ha cercato in particolar modo di evitare nel momento in cui ha assegnato l’incarico a Mario Draghi, è stata quella di mettere in contrapposizione il nuovo venuto con i partiti che compongono il Parlamento e che sono chiamati a sostenerlo. Ed è proprio per evitare un clima di conflittualità che l’ex banchiere ha esordito così: “Con grande rispetto mi rivolgerò innanzi tutto al Parlamento, espressione della volontà popolare”. A remare contro il clima pacificatorio e lo spirito costruttivo che ne deriva, dunque alla stessa missione di Mario Draghi, ci ha pensato Flavio Briatore, con un post nel quale ne tesse le lodi: “C’è un signore con Master al Massachussetts Institute of Technology, ex governatore della Banca d’Italia, consulente delle più importanti società del mondo, presidente del Financial Stability Board, professore ordinario in politica monetaria, membro del Board of Trustees di Princeton, che deve fare le consultazioni con il bibitaro, la Signora Pina, quello con la terza media, l’ex velina, la lavandaia, l’ex tronista, il dj, il diplomato alle scuole serali, l’odontotecnico. È come se Michelangelo si mettesse a fare le consultazioni sulla pittura con quello che fa le strisce pedonali… Auguri a Mario Draghi”. Questa spocchia, questa arroganza, questo presunto piedistallo dal quale giudicare i percorsi professionali altrui è quanto c’è di più lontano dai famosi “costruttori” di cui tutti si dicono in cerca. E Draghi, a differenza di Briatore, lo sa benissimo.

2

 

Mariomania. Draghi e le trame di gesuiti e massoni. C’è da sperare che il governo non giuri il giorno 13

La mattina di mercoledì scorso le suore Clarisse di Città della Pieve – sacro buen retiro di Mario Draghi in Umbria – hanno elevato al Cielo ferventi preghiere per il premier incaricato. Ad assicurarlo monsignor Augusto Panzanelli, parroco di Moiano nel borgo umbro, a Un giorno da pecora. Aggiungendo: “Draghi non si fa mai notare, si mette sempre in disparte in chiesa, e viene spesso alle funzioni delle 18 oppure, qualche volta, va la mattina dalle suore, abbastanza presto, alle 7.30. È un buon cattolico. E poi è molto riservato, umile: si mette in fila quando va a fare la spesa, al supermercato, è molto rispettoso”.

Ora, non è chiaro il collegamento tra fede e spesa – a meno che il monsignore non abbia notizia di economisti atei e irrispettosi che al supermercato di Città della Pieve picchiano le persone per superare la fila – ma le parole del prelato introducono un aspetto decisivo della Mariomania esplosa in questi giorni.

Ossia: il Draghi che ha studiato a Roma dai gesuiti (ormai lo sanno anche in Amazzonia); che è stato nominato da Francesco nella Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (2020) ma che piaceva anche a papa Ratzinger e al cardinale Bertone (un tempo riferimento per la destra berlusconiana) al punto da avere da lui il via libera nel 2009 all’enciclica Caritas in veritate, come rivelò lo stesso Bertone nel 2015. Così i quotidiano di destra si sono affrettati a gridare che la Chiesa ha scaricato Giuseppe Conte, umanista neomoroteo incline alla religiosità popolare da buon devoto di Padre Pio, per genuflettersi all’ecumenico Draghi.

In realtà, dai gesuiti della Civiltà Cattolica al quotidiano dei vescovi, Avvenire, i cattolici moderati riconoscono un filo di continuità tra Conte e Draghi. Da un lato il rammarico e l’amarezza per la crisi aperta dal demolitore Renzi, dall’altro la fiducia per il tentativo di Draghi. Qualche perplessità è arrivata solo dai cattolici adulti già ulivisti di Famiglia Cristiana: “La formazione in un collegio dei gesuiti non è certo garanzia di fedeltà al Vangelo” (Pino Lorizio, teologo della Lateranense).

Ma l’entusiasmo gesuitico ha insospettito il fronte clericale anti-bergogliano che ha subito assimilato il sì della Compagnia di Gesù a quello di varie massonerie. Un classico della narrazione complottista. Ecco Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico e autore dell’esplosivo Massoni sulle superlogge mondiali (tra un po’ arriverà il secondo): “Affrancandosi (Draghi, ndr) dalla contro-iniziazione oligarchica, si è riposizionato sulla autentica Libera Muratoria, tradizionalmente progressista. Dal neoliberismo apolide e predatorio, si è ri-convertito alla giovanile impostazione postkeynesiana, social-liberale e democraticamente cosmopolita”. Draghi è il benvenuto pure per il piduismo cattomassone di Luigi Bisignani (ieri sul Tempo), “cuoco” e “postino” del metodo andreottiano di Gianni Letta, garante delle eterne cricche ministeriali.

C’è infine l’allusione di Alessandro Di Battista, ribelle 5S, su Draghi come “tredicesimo apostolo” delle élite. Il valore esoterico e iniziatico del tredicesimo apostolo richiama di tutto, tra grembiulini, satanisti e Cabala. C’è solo da sperare che Draghi non giuri sabato 13.

 

Caro Beppe, se il Movimento va con B. si copre di ridicolo

Scriveva Marco Travaglio sul Fatto di venerdì (5/02) che ci sono vari modi di suicidarsi, tutti tragici ma rispettabili, ma ce n’è uno invece che non solo non è rispettabile ma è disonorevole: “consegnarsi volontariamente al carnefice”. È quello che han fatto, stando almeno alle dichiarazioni di Vito Crimi di sabato (6/02), i 5 Stelle.

A quanto pare costoro accettano di entrare in un governo in cui c’è, tronfio come sempre, chi li ha pugnalati alle spalle, Matteo Renzi, con la complicità di Tatarella (chiedo scusa ai figli dell’onorevole di An per l’accostamento linguistico) e del tecnico di “altissimo profilo” Mario Draghi, una trama che, secondo me, era stata preparata da tempo, cioè almeno da quando Italia Viva tolse il suo sostegno al governo di Giuseppe Conte.

Ma c’è anche di peggio. I 5 Stelle vanno a confluire in un governo dov’è presente Silvio Berlusconi, il noto pregiudicato pluriprescritto plurimputato. Il Movimento di Grillo era nato al grido di “onestà, onestà” (che io avrei preferito tradurre, come dissi loro, inascoltato, in “legalità, legalità”, perché l’onestà è un valore più profondo che può appartenere anche a un bandito), non vedo come possa stare ora, senza coprirsi di vergogna e di ridicolo, con un Tale che è stato condannato in via definitiva per una colossale frode fiscale, che ha violato nella sostanza tutti gli articoli del Codice Penale e anche qualcuno di quello di Procedura penale.

Caro Beppe, io ho partecipato, intervenendo, al tuo primo “Vaffa Day” a Bologna dell’8 settembre 2007. E allora la mia parola contava un po’ di più di quella di Marco Travaglio o di Sabina Guzzanti. Da allora ho sempre seguito con interesse il Movimento creato da Gianroberto Casaleggio e da te, naturalmente mantenendo il necessario distacco che un giornalista deve sempre avere nei confronti di ciò di cui si occupa, criticando, quando è il caso, coloro che gli sono più simpatici o ideologicamente più vicini, elogiando, quando è il caso, gli altri. Per me, adesso, non siete più un oggetto di interesse, né positivo né negativo.

Faceva ridere, perché per un soggetto del genere sarebbe troppo provar pena o disprezzo, Matteo Salvini che l’altro giorno dichiarava la sua entusiastica adesione al premier incaricato, il tecnico di “altissimo profilo”, Grand Uff, Gran Cav, Mario Draghi (a proposito, chi sono ora i ministri in carica, boh?). Faceva ridere quando sottolineava l’importanza del Recovery Fund. Ma chi l’ha ottenuto questo Recovery? L’ha ottenuto il governo di Giuseppe Conte, certamente con l’aiuto fondamentale di quell’Angela Merkel che fino a ieri Matteo Salvini indicava come la fonte di tutti i mali perché perseguiva gli interessi della Germania, il suo Paese (cosa che non dovrebbe far storcere troppo il naso a un nazionalista come Salvini). Il fatto è che Angela Merkel avrà anche perseguito gli interessi della Germania, ma nello stesso tempo ha perseguito gli interessi di quell’Europa unita senza la quale nessuno Stato del Vecchio Continente potrebbe salvare la pelle e far fronte ai grandi conglomerati come Stati Uniti, Russia, Cina e a quel soggetto indefinibile (in realtà definibilissimo ma non lo si può chiamare col suo nome, pena la garrota sociale e anche penale) che è la grande finanza internazionale, di cui Mario Draghi è un alfiere, che ci sta strangolando tutti.

Di passata faccio notare che ogni volta che in Italia si affaccia qualcosa che mette a rischio lo status quo su cui sono assisi i poteri di sempre, si trova sempre il modo di innocuizzarla. Così è stato per la cosiddetta “rivoluzione italiana” del 1992-‘94, che rivoluzione non era affatto, ma era il tentativo di richiamare anche la classe dirigente, politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi cui tutti noi cittadini siamo tenuti. Chi erano i protagonisti di quella cosiddetta rivoluzione? Innanzitutto la magistratura milanese nei nomi di Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e poi Ilda Boccassini. In concomitanza c’erano la prima Lega Nord di Umberto Bossi e Gianfranco Miglio, l’Indipendente di Vittorio Feltri, Gianfranco Funari con Aboccaperta su Raidue e Mezzogiorno Italiano su Italia 1. Nel giro di pochissimi anni i magistrati milanesi divennero i veri colpevoli (“sporcano l’immagine dell’Italia all’estero”, secondo il Berlusconi entrato in politica e diventato presidente del Consiglio), i ladri, i corruttori, i corrotti le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Di Pietro fu infamato con sette processi da cui uscì assolto. Umberto Bossi inglobato. Vittorio Feltri comprato. Funari emarginato e rinchiuso nella ridotta di Odeon.

Lo stesso è avvenuto col Movimento 5 Stelle, sia pur con una tecnica di logoramento che ha avuto bisogno di un tempo più lungo. Ed ora eccoci qui. Come ha affermato uno scrittore tedesco, parafrasando quel che si diceva del Cremlino ai tempi dell’Urss, “la politica italiana è un enigma avvolto in un mistero”.

Via alle mini-zone rosse. Folla e multe nel weekend

Da oggi zona rossa in tutta la Provincia di Perugia e in sei Comuni del Ternano (Amelia, Attigliano, Calvi dell’Umbria, Lugnano in Teverina, Montegabbione, San Venanzo), così come a Chiusi (Siena) dove metà della popolazione (4.200 persone) ha prenotato il tampone. Durerà due settimane, fino al 21 febbraio. È il tentativo di arginare le varianti, quella brasiliana che si è diffusa in particolare all’ospedale di Perugia e nel Comune toscano e quella inglese, meno allarmante perché secondo studi accreditati non crea problemi ai vaccini ma comunque è capace di riprodursi più rapidamente e quindi di moltiplicare i contagi. Il modello matematico presentato al Comitato tecnico scientifico dall’epidemiologo Stefano Merler, in assenza di misure restrittive, prevede fino a sei volte in tre mesi. Ci sono già piccole zone rosse, nelle aree più colpite dalla variante inglese in Abruzzo a San Giovanni Teatino, Atessa (Chieti) e Tocco da Casauria (Pescara). Lì le regole sono più stringenti rispetto alle zone rosse previste dal Dpcm in vigore: vietato entrare e uscire dai confini comunali anche per motivi di lavoro, serve un’apposita autorizzazione del sindaco. Un’altra zona rossa è a Tortorici (Messina) per eccesso di contagi.

L’allarme è meno grave al Policlinico Sant’Orsola di Bologna, dove lo screening periodico ha permesso di rintracciare dieci positivi a una delle varianti, non si sa ancora quale. L’impressione è che basti cercare per trovare le varianti, l’Italia purtroppo deve recuperare il ritardo accumulato nel sequenziamento del virus e il timore è che focolai anomali possano sfuggire: l’Istituto superiore di sanità e le Regioni moltiplicano gli sforzi. Ma per quanto riguarda la popolazione le regole sono sempre le stesse: mascherine, distanziamento, disinfezione delle mani. Non ci sono conferme attendibili sull’efficacia del vaccino nei confronti della variante sudafricana e di quella brasiliana. E questo fa dire all’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, assessore in Puglia: “Scordiamoci la possibilità di stabilire l’immunità di gregge”.

A parte le mini-zone rosse, le Regioni mantengono i loro colori: giallo Abruzzo e Toscana, arancione quel che rimane dell’Umbria. Da oggi è gialla anche la Sardegna e sono arancioni Puglia, Sicilia e appunto l’Umbria, dove le terapie intensive sono occupate al 56% da malati Covid (la soglia d’allerta è al 30%) e i ricoveri ordinari hanno raggiunto un nuovo picco a quota 484. L’Alto Adige, pur restando arancione, fa un lockdown locale.

Gli assembramenti del weekend, specie sabato, preoccupano molto: a Roma c’era il sole e i ristoranti, massacrati da mesi di chiusure totali e parziali, hanno fatto il record d’incassi. Da Roma a Milano, a Napoli e a Venezia si contano centinaia di contravvenzioni per feste, violazioni sugli orari d’apertura, assembramenti più o meno legati all’asporto. Il ministro della Salute Roberto Speranza ripete l’invito alla “massima prudenza. Zona gialla – dice – non significa scampato pericolo”. C’è attesa sulle aperture serali di bar e ristoranti nelle zone gialle (e fino alle 18 nelle arancioni), come per il 15 febbraio, quando verrà meno il divieto di spostamento tra le Regioni e dovrebbe ripartire lo sci: deciderà il prossimo governo.

I dati giornalieri, che nel weekend sono meno significativi, confermano la relativa stabilizzazione dell’epidemia: 11.641 nuovi casi notificati (a seconda delle stime, tra metà e un quarto di quelli reali) con 206 mila tamponi tra molecolari e antigenici, con un leggero aumento al 5,6% del tasso di positività. Su base settimanale, i contagi rilevati sono scesi di circa il 3%. I morti registrati ieri sono 270, in lento calo: nell’ultima settimana meno 9,7% rispetto alla precedente, con la media scesa da 436,4 a 393,8. Scendono anche i ricoveri, ma non ovunque: secondo Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, i malati nelle terapie intensive aumentano in Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Molise, Bolzano e Umbria. Proseguono le vaccinazioni: 1,1 milioni di persone hanno ricevuto anche la seconda dose, 2,5 milioni le dosi complessivamente somministrate (oltre l’85% di quelle disponibili). Tutto dipende dai produttori. Questa settimana si parte con AstraZeneca per gli under 55: si parte da personale scolastico e forze dell’ordine.