Parla il principe degli sconfitti: “Mandanti in salvo, i sicari no”

Oggi scriviamo del principe degli sconfitti: Goffredo Bettini. “Stia attento all’effetto ottico. Ciò che appare non è”. Pensatore, illustratore del mondo progressista, anche ventriloquo di Zingaretti, uomo di potere anche senza potere, anche consigliori di Giuseppe Conte, anche Richelieu dell’alleanza tra Pd e Grillo, anche ombra permanente e affluente, anche però capo della corrente thailandese, cioè del nulla. L’uno e il suo opposto, l’uomo dove ciascuno può scorgere il tutto o il niente: l’illuminato oppure l’estraneo, il burocrate o l’eccentrico, il pianificatore o lo stratega del niente. Nel bouquet delle immagini a disposizione di questo appassionato comunista romano emerso negli ultimi tempi fino al punto che i giornalisti, per godere del suo punto di vista, gli offrivano quotidiane pagine zuccherose. Bettini rappresentava, nella sua parola, la sintesi di un pensiero triangolare, il trittico del potere Conte-Zingaretti-Grillo. Oggi, al tempo dell’era Draghi, l’uomo dei superpoteri, Bettini è degradato di ruolo e raccoglie nella sua persona la sintesi della sconfitta.

Chi ha perso più di Bettini? Chi più di lui è il simbolo del fallimento? “Metto in fila i fatti e misuro la distanza dell’apparenza con la realtà. E se mi è permesso, la dico tutta. Il grande distruttore vedrà presto che il Palazzo che ha bombardato anziché sbriciolarsi è ancora ben saldo. Anzi, ha il cemento armato per sostenere il peso di qualunque esito della crisi. L’alleanza tra Pd, Cinquestelle e Leu è intatta e ora ha anche una nuova prospettiva con la presenza di Conte. Si confonde il cannone con la pistolettata, la deflagrazione con la fiammata della bombola del gas. Siamo di fronte alla pistolettata. E presto chi ha impugnato quell’arma si vedrà estromesso da ogni gioco perché nessuno si fiderà più di lui”. Matteo Renzi è il pistolero, anzi “il sicario” come lo definisce con gli intimi che in queste ore continuano a riflettere sul tempo del cordoglio che il cocciuto Goffredo interpreta invece come la premessa della palingenesi. Dunque Renzi è il “sicario” non il “mandante” da inquadrare invece nel crogiolo dei poteri della società affluente, nel blocco impeditivo, nella trincea extra strong che in Conte vedeva l’ostruzione, l’interdizione, l’estraneità e dunque la pericolosità di chi – entrato in politica per caso – iniziava pericolosamente a prenderci gusto. I “mandanti” si salveranno, “il sicario no”. Resterà con la soddisfazione di aver sfregiato Conte ma con più niente in mano. Non avendo null’altro da perdere, nient’altro guadagnerà. Non dal declino di Forza Italia, “se si sfarinerà qualcuno anzi si avvicinerà al Pd”, e nemmeno con i possibili alleati centristi. “Ha una così cattiva reputazione che nessuno mai gli depositerà nelle mani un grammo di fiducia. Io lo vedo perso nella sua disperante condizione di non avere un futuro. E chi ne è privo non ha storia da narrare o progetto da scoprire, ha da pestare i piedi solo nella cronaca minuta, l’oggi è già ieri, già dimenticato”.

Il principe degli sconfitti dice che ha perso l’uomo della vendetta vittoriosa. Il pokerista che si è preso tutto il banco. Nella fenomenologia di Bettini il segno eccentrico di una vita duale: un po’ in Italia e un po’ in Thailandia, dove ha casa, amici e impegni per iniziative umanitarie. Non ha soldi in banca, “ho le tasche vuote”, non possiede salotti (“a Roma vivo nei miei 35 metri quadrati”), e non ha ruoli nel Pd di cui per mesi è stato portavoce fuori organico. Rifiutata la candidatura a europarlamentare, e non più senatore, aveva chiesto a Zingaretti di formalizzare la sua funzione di illustratore qualificato, ma non c’è stato modo, o tempo, o – chissà? – voglia. Aspettava da Conte, nel caso fosse rimasto, una qualificazione della sua condizione di stratega sovrannumerario. “Craxi aveva Giuliano Amato, Berlusconi confidava in Gianni Letta, e lui?”. Lui oggi è a piedi, Bettini di più. Ambedue sconfitti. Oppure no: “Nel gioco di specchi della politica l’inquadratura della realtà subisce quel che si chiama l’effetto ottico. Ciò che appare non è”.

Il tormento del Pd: prima del governo s’avvia a congresso

Raccontano che Mario Draghi abbia un rapporto privilegiato con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un’interlocuzione abbastanza regolare con il Commissario Ue agli Affari economici, Paolo Gentiloni e adesso un dialogo diretto con Dario Franceschini, da sempre ago della bilancia degli equilibri di potere nel Pd. Sarà anche per questo che Nicola Zingaretti ieri si è trovato a dover difendere la linea di appoggio al premier incaricato senza se e senza ma, senza richieste e senza proposte, in una posizione tanto scomoda da diventare eccessiva negli studi di In mezz’ora di Lucia Annunziata. E a dover, viceversa, accettare in diretta l’idea di un congresso dem (e quindi di una messa in discussione della sua leadership) in diretta tv e a governo da fare.

In effetti, la linea è cambiata precipitosamente più volte negli ultimi giorni. Era “O Conte o voto”. Poi è diventata “speriamo che Draghi ci regali un sogno: lui premier, con la maggioranza Ursula”. Per precipitare in un “Mario, liberaci di Salvini” (libera traduzione di argomentazioni molto meno dirette usate durante le consultazioni). Ma la situazione si è complicata sabato, quando Goffredo Bettini ha provato a suggerire un appoggio esterno da parte del Pd. Suggerimento che il segretario non ha seguito e che stava provocando la rivolta tra i dem. Perché nel partito due cose sono chiare. La prima: a Draghi, comunque, il Pd non può dire di no. La seconda: il progetto Zingaretti/Bettini di una coalizione organica con i Cinque Stelle a molti (in primis alla corrente Base Riformista di Luca Lotti e Lorenzi Guerini) non piace affatto. “Professor Draghi” lo chiama per quasi tutta l’intervista, Zingaretti, con una sorta di deferenza inusuale, mentre insiste che “il problema non è per noi” ma “giudicheremo la coerenza della svolta europeista”. Fatto sta che il segretario ha saltato il fosso tutto insieme e ha annunciato un appoggio incondizionato al governo futuro che gli sarebbe venuto meglio senza il precedente balletto, e ha ingoiato la Lega in maniera quasi fideistica. Senza poi esporsi neanche sulla formula: il Pd preferisce un governo di figure di area o con dentro dei politici? Deciderà Draghi.

La realtà è che il partito è già attraversato da dubbi, tormenti e – nella migliore tradizione – battaglie sotterranee.

Quindi, mentre al Nazareno da una parte si riflette che sarebbe meglio non ci fossero politici ministri, dall’altra si fanno i conti su chi dovrebbe/vorrebbe entrare. C’è chi fa sapere che al segretario non dispiacerebbe esserne parte (i suoi smentiscono). Chi è pronto a sostenere che serve una presenza politica definita e che dunque tocca al vice segretario, Andrea Orlando. Dario Franceschini e Lorenzo Guerini non hanno rinunciato a restare dove sono, anche portando in dote il controllo dei gruppi parlamentari. E poi, c’è l’opzione “Sottosegretari alla Presidenza del Consiglio”: politici, ma quasi super partes, membri di partito, ma quasi neutri. Equilibrismi. Quel che è certo è che il congresso è già iniziato. L’ha lanciato Andrea Marcucci ieri, Zingaretti ha aperto. Pure se puntando alle lunghe distanze (lo immagina come un congresso tematico, di idee, per indicare una prospettiva, mentre sulla segreteria si voterà tra due anni). E mentre i Giovani Turchi di Matteo Orfini ribadiscono le loro perplessità e rimandano il tutto a fine pandemia, Base Riformista, che non aspettava altro, festeggia. Sentire il coordinatore Andrea Romano: “L’ultimo congresso un’era fa”. A loro non piace l’idea di un Pd a sinistra, che magari riporti dentro gli ex “compagni” di Leu, si allei strutturalmente con i Cinque Stelle e sia accompagnato da uno spazio al centro. Meglio un partito plurale, più largo, come doveva essere – almeno nelle intenzioni – quello di Matteo Renzi. I sospetti indicano che c’è già un candidato per questo progetto, Stefano Bonaccini, il quale riporterebbe dentro anche il fu Rottamatore (il quale – va detto – spera di trovare altro da fare, fuori dalla politica).

Nel frattempo, al Nazareno hanno steso un programma in 23 pagine per provare a bloccare e condizionare Salvini con i contenuti. Ma l’impressione è che il presunto pilastro della maggioranza sia destinato a vacillare. Raccontano che Draghi sia un elettore del Pd. Per effetto dell’ennesimo paradosso si potrebbe trovare davanti proprio il “suo” partito che sbanda.

I 2 Matteo, FI e i dem vanno già all’assalto: torna la prescrizione

Il governo Draghi non è ancora nato e rischia già di spaccarsi proprio sul tema che ha provocato la caduta del Conte 2: la giustizia. E in particolare la prescrizione, tema che da sempre scatena gli appetiti di Silvio Berlusconi, Matteo Renzi e Matteo Salvini che faranno parte della prossima maggioranza. L’assalto alla riforma Bonafede, approvata dal governo Lega-M5S e che dal 1° gennaio 2020 ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si trova nel fascicolo di emendamenti al decreto Milleproroghe in discussione in commissione Affari Costituzionali della Camera e che dovrà essere convertito entro il 1° marzo.

Gli emendamenti per cancellare la “Spazzacorrotti” e tornare alla vecchia legge Orlando – che bloccava (inutilmente) la prescrizione per un anno e mezzo dopo il primo grado e l’appello, ma solo in caso di condanna – sono stati presentati da quasi tutti i partiti della prossima maggioranza: Enrico Costa (avvocato eletto con Forza Italia e passato ad Azione) e il radicale Riccardo Magi chiedono che la norma Bonafede sia cancellata per far rivivere la legge Orlando. Anche tre deputati di Italia Viva – Lucia Annibali, Marco Di Maio e Mauro Del Barba – chiedono l’immediata sospensione della norma almeno fino al 31 dicembre 2021 in attesa di una riforma del processo penale, mentre i forzisti Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin e nove deputati della Lega hanno firmato due emendamenti per spazzare via la legge Bonafede fino al 2023 e tornare alla normativa precedente.

Anche se il Pd non ha presentato emendamenti, i dem hanno fatto capire che vorrebbero il superamento della norma sulla prescrizione visto che, a pochi giorni dalla presentazione della relazione sulla Giustizia di Bonafede alle Camere (mai avvenuta perché nel frattempo Conte si era dimesso), lo stesso Orlando aveva iniziato a riscrivere il testo indicando nella prescrizione uno dei punti da modificare: i dem difficilmente non voteranno un emendamento per tornare a una legge voluta dal Guardasigilli del governo Renzi e oggi vicesegretario del partito. “Vedremo, non c’è ancora il governo”, glissa un deputato dem. Resta contrario solo il M5S che ha fatto dello stop alla prescrizione una delle proprie bandiere. Già prima della caduta del governo Conte, in commissione Affari Costituzionali di Montecitorio i giallorosa non erano più autosufficienti (24 a 24) ma, con la nuova maggioranza con tutti dentro, gli emendamenti contro la legge Bonafede potrebbero avere la strada spianata.

E così, una volta nato, il governo Draghi si troverà subito una gatta da pelare: il suo primo atto sarà quello di dare il parere sugli emendamenti del Milleproroghe e la maggioranza rischia di spaccarsi. Conterà molto chi sarà il ministro della Giustizia che però, come hanno chiesto IV-FI-Lega, dovrà mostrare discontinuità rispetto a Bonafede. Il voto dovrebbe essere all’inizio della prossima settimana.

Ma a creare un altro grattacapo nella nuova maggioranza potrebbe essere anche una proposta di legge presentata sabato dal M5S a prima firma Francesco Berti e sostenuta da una trentina di deputati grillini che, se approvata, vietererebbe a chi ha incarichi politici di fare conferenze all’estero pagato da stati stranieri. Una norma che andrebbe a colpire Renzi che durante la crisi di governo è volato a Riad per intervistare Mohammed Bin Salman pagato da una fondazione saudita. Il ddl vieta “a premier, ministri, sottosegretari, deputati e senatori” di ricevere “contributi e prestazioni” da governi o enti pubblici di Stati esteri “superiori a 5.000 euro annui”. Chi lo fa decade dalle proprie funzioni dopo un voto della Camera di appartenenza . Una bomba che rischia di esplodere nella prossima maggioranza.

Ma mi faccia il piacere

Slurp. “Nella sala dei busti, attigua a quella dove Draghi tiene le sue udienze, persino Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi si guardano e sembrano sorridere” (Francesco Bei, Repubblica, 4.2). Poi leggono Repubblica e si scompisciano proprio.

Slurp al quadrato. “Draghi è un patrimonio del Paese, ora superare reddito e quota 100. Io lo ammiravo già in tempi non sospetti: al meeting di Rimini ad agosto c’ero solo io ad ascoltarlo” (Carlo Bonomi, presidente Confindustria, La Stampa, 4.2). Praticamente l’ha scoperto lui e si dice bravo da solo. È il Pippo Baudo dei padroni.

Slurp al cubo. “Il tifo di Giorgetti, il Richelieu padano: ‘Supermario come Cristiano Ronaldo” (La Stampa, 5.2). Giorgetti lecca Draghi e La Stampa lecca Giorgetti. Ora, per favore, qualcuno lecchi La Stampa.

Fuori uno. “I toni ecumenici di Renzi: adesso tornando a casa ognuno si sente meglio” (Maria Teresa Meli, Corriere della sera, 6.2). Perché sa di non rivederlo in tutte le tv.

Fuori una. “Conte ministro del governo Draghi? Non abbiamo messo nessun veto su nessun nome. L’importante è che si tratti di persone competenti” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Tg2, 6.1). Però, carina a tirarsi subito fuori.

Otelmaspia. “Flash! Mario Draghi sta avendo incontri con tutti perché tutti i leader politici de’ noantri glielo chiedono. E tutti fanno mezz’ora di discorsi politici sui massimi sistemi per poi tirargli la giacchetta con domanda finale: ‘Ma un governo di unità nazionale?’. A tutti l’ex presidente della BCE dà la stessa risposta: ‘Grazie, non sono interessato’, con il solito sorriso che somiglia a un ghigno” (Dagospia, 10.7. 2020). “Draghi qua, Draghi là, Draghi su, Draghi giù. Pronto prontissimo? Manco per niente!… In questi giorni si sprecano i colloqui tra i vertici delle istituzioni italiane e persone che potrebbero rivestire ruoli di alto rango. Non può mancare Draghi. Che però è riluttante a ricoprire una posizione, per quanto di prestigio, in un paese rissoso come il nostro. Il problema è che le liti non sono neanche più tra schieramenti, o tra partiti. Ma direttamente nei partiti” (Dagospia, 28.10.2020). “Flash! Alessandro Baro, assistente di Marta Cartabia, posta una storia su Facebook mentre è in viaggio in treno (verso Roma?) con una scritta eloquente: ‘Comin’ back home’. Ormai pare che per l’ex presidente della Corte Costituzionale sia fatta…” (Dagospia, 29.1.2021). Per la serie: quelli che azzeccano tutte le previsioni.

Il Signor Bonaventura. “Spread, l’effetto Draghi vale già 1 miliardo” (Sole 24 ore, 6.2). E dove si può ritirarlo?

Zinga 4 stagioni. “Noi e la Lega siamo alternativi” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, Corriere della sera, 5.2). “La Lega nel governo? Vedremo” (Zingaretti, La Stampa, 5.2). “Oggi si apre una stagione nuova. Salvini sull’Europa dà ragione a noi” (Zingaretti, 7.2). Un leader per tutte le stagioni.

Ideona. “Il referendum del 2016? Io credo che il mio errore più grande non sia stata la personalizzazione, ma l’arroganza, la ubris di pensare che non dovessi solo vincere, ma anche vincere con una certa percentuale di affluenza. Questo è stato l’errore più clamoroso, perché ho lavorato perché crescesse la partecipazione e ho costruito io stesso la mia sconfitta” (Matteo Renzi, presentando l’ultimo libro di Luciano Violante, 7.1). Giusto: se faceva votare solo se stesso e Violante, magari vinceva.

Fraccaro da Velletri. “Ringrazio il Presidente Mattarella per il suo impegno nel voler dare un Governo al Paese, ma noi siamo sempre stati chiari con gli italiani dicendo apertamente che il M5S avrebbe sostenuto solo un esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Su questo, con coerenza, andremo fino in fondo” (Riccardo Fraccaro, M5S, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Twitter, 2.2). Per un paio d’ore.

Carelli della spesa. “Io uscire dai 5Stelle per fondare un gruppo centrista che guarda a destra? Smentisco categoricamente, falsità” (Emilio Carelli, deputato M5S, Repubblica, 1.2). “Non senza sofferenza interiore annuncio la mia uscita dai 5 Stelle, un Movimento che ha perso la sua anima. Voglio propormi come aggregatore di una nuova casa accogliente: Centro-Popolari Italiani. Troppe volte ho assistito a scelte sbagliate e persone sbagliate” (Carelli, 2.2). Tipo lui.

Lei non sa chi sono io. “Sono curioso di vedere Travaglio fare un mazzo tanto al governo 5Stelle-Berlusconi” (Alessandro Sallusti, Giornale, 5.2). Io ho cominciato subito. E tu?

Il titolo della settimana/1. “Il sogno di un Paese ‘normale’” (Massimo Giannini, Stampa, 7.2). Quello dove la gente vota, chi vince prova a governare, ma i padroni del vapore buttano giù 2 governi tramite i loro burattini e giornaloni, poi il presidente chiama un banchiere.

Il titolo della settimana/2. “Sbaragliati i dilettanti. Torna la politica? Forse!” (Claudia Fusani, Riformista, 4.2). Uahahahahaah.

Il titolo della settimana/3.“Il momento dell’interesse nazionale” (Maurizio Molinari, Repubblica, 7.2). Sì, ma di quale nazione?

Tom “il terribile”: stanotte morde un altro Super Bowl

Ecco una storia americana fin nel midollo. Quella di Tom Brady, un nome che sembra il titolo di una ballata country. Tom è un colosso di un metro e 93, pesante oltre un quintale. Ha vinto il primo Super Bowl, il trofeo più popolare e “americano” che ci sia, nel 2001. Vent’anni dopo ci riprova. Per la decima volta, dopo averne conquistati già sei ed essere stato nominato miglior giocatore in quattro edizioni, come il mitico Joe Montana. Oggi scende in campo, il Raymond James Stadium di Tampa, a 43 anni e 188 giorni: nato a San Mateo, California, il 3 agosto 1977.

Tom di questo sport è bandiera, simbolo, icona. Il John Wayne della palla ovale. Rappresenta l’America, nei suoi valori più tradizionali. La rivista People lo ha consacrato fra le 50 persone più belle del mondo. Lo stereotipo che tanto piace a Trump, che disse che Tom era “un amico” e “il miglior quarterback”. Ma quando il mondo dello sport Usa fu spaccato dalle polemiche per ilkneeling, l’inginocchiarsi durante l’inno nazionale, Brady prese le distanze dal presidente, e disse a una radio di Boston, nel 2017: “Non sono d’accordo con le parole di Trump. Penso che dividano”.

Lo accomuna a Trump un’incredibile autostima. Benché fosse stato pescato al sesto giro tra gli scarti della Nfl dai New England Patriots, come quarto quarterback, al presidente Robert Kraft disse: “Sono la miglior scelta che abbiate mai fatto!”. All’inizio penò. L’infortunio del titolare lo sblocca. E si scatena. Trascina i Patriots a vincere 11 partite su 14 e conquistare il Super Bowl, diventando il più giovane quarterback della storia a riuscirci. Gloria e qualche controversia sportiva. Come il Deflategate: voleva i palloni più sgonfi, in una finale di conference del 2014 contro i Colts di Indianapolis. Beccò 4 giornate di stop e i Patriots un milione di dollari di multa. Non per nulla si meritò il soprannome di Tom Terrific.

Il suo motto è Family and Football . Moglie bellissima, l’indossatrice brasiliana Gisele Bundchen, sposata nel 2009. Due figli, Benjamin e Vivien Lake. Un terzo, Jake, nato da una relazione precedente con l’attrice Bridget Moynahan. Un quadretto da Mulino Bianco. Quanto al football, invece, tutt’altra musica. Un talebano. Asceta della preparazione, come Ronaldo. Dieta draconiana battezzata TB12 come il suo numero. Niente caffè, zucchero, cereali, glutine. Frutta al minimo. Tre litri e mezzo d’acqua al giorno. Sedute di meditazione yoga e ginnastica cerebrale. La formula della sua longevità agonistica, in uno sport feroce che falcia i suoi campioni. Tanti leggono l’acronimo Nfl come Not For Long, non a lungo. Tom ha scardinato questo codice. Le sue partite sono Tom vs Time: Tom contro il tempo.

Le sfide impossibili sono il suo hamburger. Tom punta al settimo Vincent Lombardi Trophy, la palla di cristallo in posizione kickoff creata da Tiffany. Con una nuova maglia, quella del Tampa Bay Buccaneers. Un trasferimento clamoroso, lo scorso marzo. Dopo l’epopea coi New England Patriots: in vent’anni, nove finali, sei Super Bowl e una sfilza di record fantastici. L’addio chiudeva, scrissero, la più lunga e spietata tirannia del football americano. Aveva giocato l’ultima stagione sotto i suoi standard, Tampa era una destinazione di secondo piano. Il cimitero sportivo dove le carriere andavano a morire. Con la peggiore sequenza di stagioni perdenti consecutive, ben 14. Una sola stagione in cielo, la conquista del Super Bowl nel 2002. Poi basta. Ma Brady non era intenzionato ad abdicare. Al nuovo presidente Bryan Glazer, anche proprietario del Manchester United, promise: “Vi porterò in finale”. Non era la sbruffonata del campione in declino. Il Tampa ci è riuscito, ribaltando pronostici e battendo nella partita decisiva i Green Bay 31 a 26. Affronterà i campioni in carica del Kansas City Chiefs per contendere il Super Bowl LV (i numeri romani a nobilitare). Un Super Bowl al tempo del Covid, coi proventi pubblicitari falcidiati (435 milioni di $ nel 2020). Sugli spalti, distanziati, 15 mila spettatori e 7500 medici e operatori sanitari vaccinati.

Il Kansas è favorito: schiera l’astro nascente Pat Pattycakes Mahomes, 25 anni, texano, figlio di due giocatori professionisti di baseball, madre bianca padre nero. Lanciatore fuoriclasse. Un tornado. Il calciatore più pagato degli States: 53 milioni a stagione per dieci anni. L’erede di Tom. Due volte miglior giocatore dell’anno (solo 3 afroamericani prima). Dicono sia l’erede di Tom, di cui potrebbe essere figlio. Prima di giocare, prega. Non beve, mentre Brady incitava i suoi a bere un cicchetto per caricarsi. Il Vecchio e il Giovane sono i due volti dell’America che non rinuncia a credersi First.

Un maestro come Muti si rispetta

L a notizia era nota da mesi. Riccardo Muti, tra i più illustri direttori d’orchestra viventi (e prossimo a entrare nella categoria dei decani), avrebbe dovuto dirigere al San Carlo di Napoli un Don Giovanni con la regia della figlia Chiara (tema sul quale stavolta ci asteniamo) e toccare il più bel teatro del mondo con un concerto di una tournée dei Wiener Philarmoniker, da lui diretti, insieme con Firenze e Milano; più un secondo concerto. Ma ciò è stato revocato. Ne parlo oggi perché giovedì il Maestro, in un’intervista al Corriere, si è detto “offeso” dell’accaduto.

Sembra che il soprintendente del San Carlo Lissner non avrebbe revocato il Don Giovanni, bensì la tappa napoletana della tournée dei Filarmonici di Vienna. La cui importanza è inutile da sottolineare. (Ne giova il Teatro Regio di Torino, che potrà godersi una recita di Così fan tutte, sempre di Mozart, già prodotto dal San Carlo). Ma la ragione dell’annullamento addotta dal Sovrintendente è inaccettabile: una “mancanza di fondi”. Il San Carlo è ampiamente locupletato dalla Regione Campania; è notorio che i fondi vi sono; e si dice pure che verranno impiegati per altri concerti di un direttore d’orchestra, vicino a Lissner, di statura artistica nemmeno paragonabile a quella di Muti. Prendere Muti in giro è poi proporgli un cambio di date, dal momento che tutti sanno che le tournée sono a scadenze ferree. E se non si “offende” così non un uomo, ma un artista ch’è uno dei vanti dell’Italia nel mondo, che cosa significa “offendere”? Che il maestro Muti, si dice, abbia, di conseguenza revocato il Don Giovanni, è ovvio. O lo si rispetta, o non lo si rispetta.

Di Lissner è inutile aggiungere alcunché: è soggetto notorio. Questa deplorevole vicenda è un simbolo dell’inseguimento verso il basso nel quale versa la cultura, e quella musicale in specie, oggi.

“L’overdose di craxiani, io in ginocchio per Sting. Rai1 non mi dà una serata”

Che poi unica non è solo come canta, il suo stile, la sua voce, talmente unica da poterla riconoscere anche camuffata in mezzo a una manifestazione di metalmeccanici o con la mascherina al supermercato (“le cassiere mi individuano subito”); unica è pure nel suo approccio alla vita, da donna “finalmente libera, posso dire tutto ciò che voglio, ed è uno dei vantaggi della mia età”; unica nel raccontare con naturalezza ogni lato dell’esistenza, ogni vezzo e rivendicare abitudini che altri potrebbero derubricare a vizi (“La canna prima di andare a dormire è fondamentale. E amo fare la pipì sul prato”).

Unica nel capire il valore del sorriso. “E basta con questi musoni, bisogna saper ridere. È d’accordo, vero?”. Difficile dirle il contrario, soprattutto se si presenta su Zoom comoda nel letto, affondata in una lunga sequenza di cuscini, perfetta nei capelli, perfetta nelle mani, perfetta nel trucco.

Altro che Yoko Ono.

E poi Unica è il titolo del suo ultimo album d’inediti, un lavoro pop, non buttato lì, non affidato solo al facile stupore dell’età, ma vero, serio, sostenuto anche dalla presenza di un gotha autoriale composto da Renato Zero, Giuliano Sangiorgi, Carmen Consoli, Pacifico, Francesco Gabbani, Fabio Ilacqua e prodotto da sua maestà Mauro Pagani.

Se fosse stata uomo si sarebbe meritata l’appellativo “maestro”. Da donna?

(E apre un’attenta riflessione sulle varie possibilità) Avvocatessa è brutto, dottoressa no, sindaca pessimo… mi chiami maestro, va bene.

Maestro complimenti per l’album…

Sono ai primi posti in classifica e resto stupefatta; proprio non me lo aspettavo, anche se il disco è molto bello, e la casa discografica sta lavorando molto bene; (sorride) mi sono impegnata per trovare gli autori giusti, e Fabio Ilacqua è stata una bella sorpresa.

Non lo conosceva.

No, quando me lo hanno proposto sono andata da lui per conoscerlo, e ho scoperto una persona con i miei stessi gusti letterari, poi zappa la terra, è un contadino e non possiede un telefonino. Eppure lavora lo stesso.

Un segno…

Di intelligenza e di indipendenza; quando lo chiamo risponde la mamma.

Tra gli autori c’è Zero. Come vi siete conosciuti?

Più di quarant’anni fa, quando non era ancora noto e una mia amica mi prese da parte: “Ti voglio presentare un ragazzo bravissimo, adesso ha successo soltanto a Firenze”. Va bene. Così decido di invitarli a casa, a quel tempo abitavo a Roma, sull’Appia, solo che Renato sbagliò cancello e suonò alla villa accanto; (pausa) non era ubriaco, assolutamente sobrio, e poi magro, bellissimo, pasoliniano nel volto, vestito di nero con sopra un voile e in testa una bandana.

E insomma, quelli della villa accanto?

La mattina dopo, mio figlio mi domanda: “Ma ieri sera avete dato una festa?” No, perché? “I ragazzi dei vicini hanno visto un tipo mascherato”; (ride) effettivamente quella sera Renato ci cantò Triangolo e da quelle ora di allegria è nata un’amicizia. Non un rapporto superficiale, ma vero, uscivamo insieme, andavamo al cinema, magari a vedere i film con Modugno (silenzio, breve).

Che succede su Modugno?

Penso a Suona il telefono, e lì non lo perdono.

Chi?

Modugno, quello è un pezzo brutto; comunque andiamo a vedere Piange… il telefono e mentre tutta la sala si commuoveva, noi ridevamo come folli tanto da costringere il direttore del cinema ad accendere le luci: ‘Perché ridete?’ ‘Perché è comico’; da quel giorno abbiamo replicato con diverse pellicole, tipo Sepolta viva. E giù altre risate; (ritorna a prima) sono proprio contenta dell’album e del riscontro.

Da quanto non capitava?

Sono otto anni che non esco con un disco.

Nel frattempo l’hanno accusata di stonare in televisione.

Può darsi, non lo escludo, ma in realtà non mi interessa; quando passano gli anni ci si stacca un po’ da sé, non si ha più quell’ansia del devo arrivare, del devo fare: ora mi conosco bene, e sono pure stufa di me; ora mi interessano più gli altri, mi piace ascoltare, restare zitta.

Chi, in particolare?

Chiamo tutti i giorni i miei nipoti, mio figlio, gli amici, mentre un tempo ero l’opposto; in uno dei pezzi dell’album c’è una frase perfetta: l’imbarazzo dietro al vanto.

Lei è così?

Questa paura mi impediva di rilassarmi.

Mario Lavezzi e Patty Pravo la trovano più simpatica adesso, e più libera.

Anche da giovane ero libera, ma non riuscivo a manifestarlo, ero bloccata dalla timidezza, e il mio corpo e il mio volto non mi aiutavano.

In che senso?

Non erano il volto e il corpo di una timida, e allora mi davano della snob, della stronza, della radical chic, quando non ero niente di tutto quello. Soprattutto i radical chic non mi sono mai piaciuti.

Radical chic è peggio di stronza?

Non esageriamo, i radical chic hanno comunque fondato questa Repubblica, ma ora sono morti in tanti. Vanno ancora all’Ultima spiaggia? (stabilimento di Capalbio) Lì, ricordo Berlinguer con l’ombrellino. Era molto carino.

Lo ha conosciuto?

No.

Craxi sì.

Eccome, ma allora Milano era Craxi o Craxi: con lui ho avuto degli scontri.

Cosa è successo?

Mi proposero una candidatura, chiesi 24 ore per pensarci, ma avrei rifiutato, mentre il giorno dopo apro il giornale e leggo il mio “sì”. Allora scrivo una lettera aperta nella quale parlo di “overdose di socialisti” e definisco “il garofano un brutto fiore”. A quel punto Pillitteri (sindaco socialista di Milano) mi risponde che se ero sotto overdose lui poteva consigliarmi dei posti per disintossicarmi. Non li ho più sentiti.

Torniamo all’album: c’è un brano intitolato Nuda sull’erba.

L’ho chiesto io, e ho specificato: ‘Lì faccio la pipì’.

Non è leggenda.

No, è vero: se sono in una casa, e trovo il bagno occupato, allora uso il prato; una volta ero ospite di una villa importante, esco e mi accovaccio, poi rientro e il padrone di casa mi domanda: ‘Dove è stata?’ ‘A fare la pipì’. ‘Dove?’ ‘Là’ e indico il punto. Lui atterrito: ‘No! L’azalea di mia nonna’; (serissima) con tutte le vitamine che prendo, sai che meraviglia è venuta su?

Ne I viaggiatori della sera è nuda per Tognazzi.

(Ride) Con Ugo litigavamo sempre, lui mi accusava di avergli rovinato il film perché non dimostravo cinquant’anni, come il personaggio prevedeva, io rispondevo: “Tu ne dimostri di più, questo è il casino”; (pausa) è stato un grande attore, ma doveva evitare la regia: sul set era nervosissimo, poi viaggiava sempre con queste valigie piene di coltelli.

Da chef.

Tutti scappavano dalle sue creazioni culinarie e si offendeva; però da lui ho ricevuto un grande complimento: mi ha definito la donna più intelligente della sua vita. E non è stato l’unico uomo…

Si sente mai presa in giro per l’età?

In generale no, poi qualche hater mi scrive ‘brutta vecchia’, uno su mille, ma non ha capito che anche lui invecchierà e sarà più brutto di me.

Del tempo che passa, cosa le scoccia di più?

Adesso cosa accade al governo, questo Paese è rovinato.

Che libro ha sul comodino?

Un biografia di Joyce e un altro su Colette, La libertà delle donne; (ci pensa) a quell’epoca ne combinavano di tutti colori.

La Belle époque.

Mezze lesbiche, oppure no; si sposavano, divorziavano, amavano: noi siamo tornati indietro, oggi non si spogliano neanche più al mare, e l’uomo preferisce non vedere per immaginare.

E l’uomo nudo al mare?

(Ride) Con quel coso che pende è bruttino, poi sono preoccupati gli diventi durino, e così preferiscono indossare le mutande.

La Zanicchi sostiene che l’ha boicottata a Sanremo.

Non ha capito niente.

L’ha mandata in crisi.

Quell’anno cantava La nave partirà (1970): al ritornello alzava le braccia al cielo e dal vestito si liberavano degli enormi pendagli, così sono entrata e le ho spiegato: ‘Non hai bisogno di abiti del genere, perché sei brava’. Da lì è andata in crisi; forse è colpa mia, sono troppo breve nelle spiegazioni.

Cosa non le piace di sé?

Prima nulla, adesso sono contenta, mi reputo coraggiosa per via della timidezza, però questo sforzo mi è costato il sistema nervoso e sono stata costretta a curarmi.

Eppure.

Sono andata avanti e, come dice Paolo Crepet, ci riesce solo chi ha coraggio.

Temeva il palco.

Ogni volta che dovevo cantare mi veniva un accidente, speravo ci fosse almeno uno sciopero o un’invasione di cavallette tanto da giustificare l’annullamento; poi iniziavo e tutto si risolveva.

Spesso nomina Dalla: cosa le manca di lui?

Dalla… (ci pensa) Sento la sua voce quando mi chiamava “Tesora”.

Le ha rifilato molte balle?

Mi ha raccontato delle storie divertenti, vere o meno non ha importanza, quello che conta è essere credibili.

In tv passa “Ma che bella sorpresa”, lei moglie di Pozzetto. È divertente.

(Inizia a recitare la sua parte con la voce di Tina Pica) Solo che Renato era un po’ depresso e non sorrideva mai, mentre io mi sono piegata in due, soprattutto grazie a Frank Matano; (silenzio).

A cosa pensa?

Secondo lei sono popolare?

È la Vanoni.

Eppure il direttore di Rai1 non mi vuole per una prima serata dedicata a me, per lui non sono popolare, ma troppo sofisticata, troppo qui o troppo là.

Peccato.

Anche secondo me.

La temono perché è poco gestibile.

Ci ho pensato. Può essere, ma la trovo comunque una follia.

Il rimprovero più costante che le hanno rivolto?

Un certo nervosismo; in realtà avevo bisogno di protezione, invece mi sono trovata capo famiglia.

Un rimpianto?

Boh, forse mi sarebbe piaciuto cantare con Sting, sarei pronta a mettermi in ginocchio per ottenere una nota con lui; tanti anni fa l’ho conosciuto da Versace, mio grande amico, per un appuntamento musicale pazzesco: nel camerino ero con Sting ed Elton John, solo che scoppia un temporale, e vedo Almodovar correre sotto la pioggia e urlare: ‘È la giustizia divina! È la giustizia divinaaaa’. Alla fine è saltato tutto.

Magari prossimamente.

C’è sempre ’sto Zucchero con lui.

La canna prima di dormire?

Certo, la marijuana mi fa molto bene.

Il bicchiere di vino?

Se me lo tolgono mi incavolo.

Una tournée?

Intera no, sennò muoio, qualche data sì.

Chi è lei?

Una persona nata felice, poi ho scoperto gli uomini e lì si è complicata la mia vita, poi ho conosciuto Strehler e ho smesso di dormire.

Wto, per la prima volta al vertice una donna africana

Ngozi Okonjo-Iweala, ex ministra delle Finanze della Nigeria, si prepara a diventare la nuova direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). A quel punto sarà la prima donna, nonché la prima africana, a prendere le redini dell’istituzione fondata nel 1995, con sede a Ginevra, che regolamenta gli accordi commerciali tra i 164 Stati membri. Sulla candidatura di Ngozi Okonjo-Iweala pesava il veto dell’Amministrazione Trump. Ma il cambio alla Casa Bianca ha fatto cadere gli ultimi blocchi: il nuovo presidente Biden, ha infatti espresso ieri il suo “forte sostegno” alla candidatura dell’ex ministra, spianandole la strada. Che però non è automatica, poiché la candidatura di Ngozi Okonjo-Iweala avrà comunque bisogno del consenso unanime degli Stati membri del Wto; finora si sono espressi in generale in suo favore. Biden ha permesso anche di mettere fine a una situazione di stallo che andava avanti da mesi. La Wto è senza direttore dal 31 agosto, cioè dalle dimissioni del brasiliano Roberto Azevedo, un anno prima dalla fine del mandato. Al termine di un processo di selezione, erano rimasti due candidati, due donne. L’altra era la sudcoreana Yoo Myung-hee, 53 anni, attuale ministra del Commercio della Corea del sud, sostenuta da Donald Trump. Ma, venerdì, Yoo Myung-hee si è ritirata dalla corsa. Ngozi Okonjo-Iweala, economista, 66 anni, nata a Ogwashi Ukwu, diplomata ad Harvard, ha lavorato per venticinque anni alla Banca Mondiale. È stata la prima donna in Nigeria a ricoprire il posto di ministra delle Finanze, a due riprese (2003-2006 e 2011-2015). Ha la doppia nazionalità nigeriana e statunitense, ma mette avanti la sua identità africana, portando colorati abiti tradizionali. Da tempo lavora al Wto, che dice di voler riformare in profondità. Dovrà subito occuparsi di alcuni dossier “caldi”, a cominciare dai rapporti commerciali tra Usa e Cina

Impeachment “a salve”: così Trump sarà martire

Un boomerang, come il primo. Il processo d’impeachment bis a Donald Trump, che inizierà martedì 9 febbraio, darà una parvenza di legittimità alle azioni del magnate ex presidente e ne farà, almeno agli occhi dei suoi sostenitori, un martire dell’accanimento democratico. Non c’è, infatti, indizio che un numero sufficiente di senatori repubblicani possa condannare Trump per aver sobillato i suoi fan il 6 gennaio a dare l’assalto al Campidoglio – fino a oggi sono 256 gli arresti – per bloccare la certificazione della vittoria di Joe Biden.

Due dati danno la misura del clima nel Congresso: solo cinque senatori repubblicani su 50 avallano la legittimità del processo d’impeachment, mentre gli altri 45 stanno con i giuristi che la contestano; e solo 11 deputati repubblicani su oltre 200 si sono uniti ai democratici per decretare l’espulsione dalle commissioni di cui faceva parte l’ultra-trumpiana e complottista Marjorie Taylor Greene: erano stati dieci a votare per mettere sotto accusa Trump. Per la condanna dell’ex presidente ci vuole in Senato una maggioranza dei due terzi: 67 voti su 100, almeno 17 Repubblicani, ammesso che i Democratici siano compatti. È pure fallito il tentativo dei Democratici di mettere alle strette il magnate chiamandolo alla sbarra per essere interrogato: Trump ha risposto picche, com’è suo diritto. I suoi attuali avvocati, Bruce Castor e David Schoen, hanno respinto la richiesta, definendola una “trovata mediatica” in un processo “incostituzionale”, essendo scaduto il mandato presidenziale: una questione che potrebbe finire alla Corte Suprema. Altre tesi difensive sono che il magnate non intendeva spingere i suoi fan all’assalto del Campidoglio e che le sue frasi sono protette dal primo emendamento della Costituzione sulla ‘libertà di parola’. Tra dinieghi e dimissioni, Trump ha difficoltà nel comporre il collegio difensivo. Siti conservatori denunciano i casi di avvocati che lo hanno rappresentato nei contenziosi elettorali e che sono ora sottoposti a provvedimenti disciplinari dai loro ordini.

Da tutto questo, si tiene fuori Biden. Il presidente fa però sapere di desiderare che Trump non riceva più i briefing dell’intelligence, com’è d’uso per gli ex presidenti. In un’intervista alla Cbs, che andrà in onda oggi nell’intervallo del Super Bowl, l’evento sportivo Usa più seguito, Biden ha giustificato la decisione con il “comportamento inaffidabile” del suo predecessore, che “potrebbe sbagliarsi e dire qualcosa” che dovrebbe restare confidenziale. In campagna elettorale, Biden aveva definito Trump “una minaccia e un pericolo… incosciente e irresponsabile“; e ora conferma il giudizio: “È quello che penso”. Sul processo, invece, Biden non si sbilancia: “Le decisioni spettano al Senato”.

Il neo presidente ha avuto il battesimo dell’aria sull’AirForceOne, da Washington a Wilmington: siccome il volo è breve, è stato usato l’aereo più piccolo della flotta presidenziale. Biden sta sperimentando le prime difficoltà nell’attuazione del suo programma: se il maxi-stimolo da 1.900 miliardi è in dirittura d’arrivo al Congresso, l’aumento del salario minino a 15 dollari l’ora pare, invece, difficile da inserire nel pacchetto: probabilmente ci sarà un supplemento di negoziato, il che irrita la sinistra del partito, che tiene molto al provvedimento. Continua la revisione delle politiche trumpiane, anche sul fronte mediorientale: nella guerra civile nello Yemen, il Segretario di Stato, Antony Blinken, vuole togliere gli houthi dalla lista dei gruppi considerati terroristi, dopo avere levato l’appoggio all’Arabia Saudita che proprio nello Yemen combatte la milizia appoggiata dall’Iran.

Caso Navalny, Borrell a Mosca: la sua missione è un boomerang

Se ieri nel mirino delle critiche europee c’era Mosca per il caso Navalny, ora una parte dell’Unione accusa l’uomo che la rappresenta oltreconfine: l’Alto rappresentante per gli affari esteri e politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha dimostrato “incapacità di difendere gli interessi e valori europei” e “mancanza di giudizio” nell’ultimo incontro con Serghej Lavrov, ministro degli Esteri russo che lo ha accolto due giorni fa al Cremlino. Ad accusare pubblicamente l’Alto rappresentante in una lettera che veloce viene trasmessa da una cancelleria all’altra a Bruxelles è l’ex comandante generale delle forze armate estoni Riho Terras, oggi europarlamentare del Ppe, che ne ha chiesto le immediate dimissioni per la “lezione magistrale da mezzano” che ha dato piegandosi indulgente al volere russo. Non si richiede l’allontanamento solo per “l’indifferenza dimostrata per i crimini commessi dal regime di Putin contro gli oppositori politici” e la vicenda di Aleksej Navalny: “Borrell ha detto che nessuno richiede che la Russia sia sanzionata: non è vero, quello che sta facendo è ridurre l’unità e integrità dell’Europa agli occhi della Russia”. Indirizzata a Ursula von der Leyen, la missiva richiede “l’azione” della presidente della Commissione europea se l’Alto commissario “deciderà di non dimettersi di sua volontà”. Le critiche al diplomatico erano iniziate prima che il suo aereo decollasse verso Mosca per la visita nata da una sua iniziativa: gli ambasciatori di Romania, Lituania, Estonia e Polonia presenti per un summit a Bruxelles avevano chiesto il congelamento della sua partenza per non fornire “strumenti di propaganda” ai russi. Sono stati però diplomatici tedeschi e francesi a dare il placet finale alla visita che, nei piani, doveva riportare l’attenzione su diritti umani e giustizia all’ombra delle guglie del Cremlino. Lavrov che ha accusato l’Europa di essere “inaffidabile nelle relazioni” e “ridicola” nella reazione al caso Navalny, durante l’incontro ha parlato di “situazione malsana” creatasi nell’asse russo-europeo dove, ad oggi, sono le regioni baltiche, (Estonia, Lituania e Lettonia), a premere di più affinché l’Unione mantenga una potente linea anti-Mosca. Borrell, di ritorno dalla Federazione a mani vuote, adesso torna in patria per subire un’imboscata e registrare una duplice sconfitta: ha perso la partita con Mosca e adesso anche quella con la sua stessa Unione.