Il Donbass è diventato russo. Putin firma l’annessione in Tv

“L’Ucraina è stata creata da Lenin, è stato il suo creatore e il suo architetto. Lenin aveva un interesse particolare anche per il Donbass. Il Donbass fa parte anche culturalmente della nostra storia”. La crisi collassa: non militarmente, ma diplomaticamente. Il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato ieri sera il riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche separatiste del Donbass, Luhansk e Donetsk, prima al telefono con il cancelliere tedesco Olaf Shcolz e poi con il presidente francese Emmanuel Macron. Infine, il suo discorso alla nazione durante il quale ha poi firmato l’atto ufficiale assieme ai leader delle due Repubbliche separatiste: “In Ucraina le armi occidentali sono arrivate con un flusso continuo, ci sono esercitazioni militari regolari nell’ovest dell’Ucraina, l’obiettivo è colpire la Russia”. Inoltre, per il presidente russo “le truppe della Nato stanno prendendo parte a queste esercitazioni, almeno dieci sono in corso, e i contingenti Nato in Ucraina potrebbero crescere rapidamente. I sistemi di comando delle truppe ucraine sono già integrati con la Nato e l’Alleanza ha iniziato a sfruttare il territorio ucraino”.

Sulla situazione politica di Kiev, Putin è perentorio: “Gli ucraini sono dominati solo da oligarchi interessati alle loro aziende e a dividere l’Ucraina dalla Russia e non ai bisogni dei cittadini. Il crollo dell’economia ucraina è evidente, ed è colpa del governo che ha permesso questo sistema, che ha autorizzato gli oligarchi a rubare”. Si ripete lo scenario georgiano: dopo il conflitto del 2008, la Russia riconobbe Abkhazia e Ossezia. Il gesto rappresenta una escalation della crisi e rende più aleatorio un incontro tra Putin e Joe Biden di cui si parlava da domenica e che era stato annunciato dal presidente francese Macron. La svolta arriva preparata da giorni di crescenti allarmi sulla situazione nel Donbass, da dove continuano a giungere rumori di guerra, esplosioni, violazioni del cessate-il-fuoco, evacuazioni, vittime. Mosca afferma che “cinque elementi di un gruppo di sabotatori” sono stati “eliminati”, dopo avere violato il confine russo-ucraino (sarebbero stati distrutti due veicoli da combattimento e un soldato sarebbe stato fatto prigioniero); Kiev smentisce. Putin ribadisce alla nazione che la Nato “ha dato risposte troppo generiche” alle istanza del Cremlino e che missili Tomahawk sono già in territorio ucraino, dunque potrebbero facilmente colpire la Russia. “L’adesione dell’Ucraina alla Nato porrebbe una minaccia diretta per la sicurezza della Russia. Sull’allargamento a est la Nato ci ha ingannato”. C’è anche spazio per una stoccata agli Stati Uniti: “L’ambasciata Usa a Kiev controlla direttamente alcuni giudici, l’Ucraina non ha un sistema giudiziario indipendente, è divenuta una marionetta nelle mani dell’Occidente”. A dare supporto al presidente ci hanno pensato i suoi collaboratori: il vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Dmitry Medvedev: “È impossibile che la situazione in Ucraina migliori, quindi, è necessario riconoscere Lugansk e Donetsk.” I ministeri degli Esteri e della Difesa e l’intelligence concordano: “Non c’è altra via che riconoscere le Repubbliche del Donbass”.

Che la situazione stesse evolvendo lo si è capito quando c’è stata una riunione non programmata – e trasmessa in diretta dalla tv di Stato – del Consiglio di Sicurezza. Putin ha ascoltato per un’ora e mezza interventi tutti favorevoli al riconoscimento, poi ha detto: “Vi ho inteso, ora decido”; e così ha fatto. Lunedì scorso i leader separatisti avevano lanciato un appello congiunto al presidente, chiedendo che Mosca riconoscesse le due Repubbliche autoproclamatesi indipendenti dall’Ucraina dopo la rivoluzione anti-russa del 2014.

Non c’è campo

Dopo che Calenda ha vinto a sorpresa il congresso di Azione (un capolavoro della suspense che ha tenuto tutti col fiato sospeso come non accadeva dai tempi di Profondo rosso) e, dall’alto del suo 2%, ha intimato al Pd di schifare il 15-16% dei 5Stelle (con i quali è al governo da un anno a sua insaputa), si è riaperto l’arrapante dibattito sulle alleanze per le prossime elezioni. Dibattito reso inutile e pure ridicolo dalla legge proporzionale prossima ventura, che imporrà alleanze dopo le elezioni, non prima. Secondo i giornaloni, i 5Stelle sarebbero allarmatissimi dalla prospettiva che Letta jr. li escluda dal suo “campo largo” perché Calenda e Renzi, noti frequentatori di se stessi, non li vogliono e perché Franceschini e Bettini si sono incapricciati della Lega. Noi, al posto dei 5Stelle, saremmo entusiasti dell’Union Sacrée “tutti contro Conte”: le ammucchiate portano voti a chi non ne fa parte. E il M5S, come FdI, guadagna voti quando è solo contro tutti e li perde quando si avvicina troppo agli altri. Allearsi ha un senso se serve a fare qualcosa. Il M5S l’ha fatto con la Lega e poi col Pd, perdendo metà dei consensi, ma realizzando gran parte del suo programma. Ora la domanda è: allearsi col Pd per fare cosa? Per salvare Renzi dal processo Open?

Nel 2019, quando Zingaretti entrò nel Conte-2, accettò il programma progressista dei 5Stelle, che costrinsero il Pd a fare le prime cose di sinistra della sua storia. Ma ora il Pd, con Letta jr., è tornato quello di sempre: il partito del potere per il potere che non ha idee perché, appena gliene viene una, si spacca in otto correnti. Infatti adotta la tecnica anti-orso: fingersi morto per sopravvivere. E va d’accordo con chiunque non ha idee se non quella di restare al governo a ogni costo: FI, Lega giorgettiana, Iv, Azione e altri centrini. Ma entra in conflitto con chi ne ha (giuste o sbagliate, non importa): Conte, Salvini e Meloni. Il “campo largo” lettiano prescinde da tutte le idee, salvo quella di governare anche nella prossima legislatura, magari usando ancora Draghi come taxi, senza il fastidio di vincere le elezioni. Nella migliore tradizione della casa: da quando nacque nel 2007, il Pd non ne ha mai vinta una, eppure ha governato con Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Gli elettori Pd non ci fanno più caso. Ma gli elettori M5S sono molto esigenti e per metà si astengono dal 2019 in attesa di sapere quanto innovativo sarà il programma di Conte. Salario minimo, ambientalismo spinto, fine delle discriminazioni più odiose tipo Super green pass, altre scelte intransigenti: questo si attendono da Conte. Il loro ritorno alle urne sarà inversamente proporzionale alla vicinanza dei 5Stelle al draghismo e al “campo largo”. Che poi è un camposanto.

“Voglio lasciare a mio figlio un pianeta ancora vivibile”

“I set? Sono il regno della plastica, io ogni volta che la vedo m’infurio, nessuno a cui venga l’idea di portare una lavastoviglie. Ma a dire il vero sono ancora più arrabbiato con una classe politica che rispetto al cambiamento climatico o non ha capito niente oppure, peggio, fa finta di non capirlo”.

Alessandro Gassman, uno dei registi e attori italiani più impegnati sul fronte ambientale, ha appena scritto il libro Io e i #greenhoeros. Perché ho deciso di pensare verde (Piemme, scritto con Roberto Bragalone e con il supporto scientifico di Kyoto Club). Un manifesto che, da un lato, racconta come la sua biografia – sua madre, suo padre, la nascita di suo figlio – sia stata determinante nello “scendere in campo” per il clima; dall’altro, dà voce a tutti quei piccoli-grandi eroi verdi italiani che la transizione la stanno davvero facendo.

Il libro inizia parlando di sua madre. E di quel famoso incendio che distrusse tutto intorno alla vostra casa nell’Argentario.

Ho dedicato il libro a mia madre, Juliette Mayniel, perché, oltre a essere un’attrice, una pittrice, una regista, è rimasta fondamentalmente una contadina, radicata nella terra. E sì, quell’incendio del 1975 fu uno dei traumi più forti della mia vita: conoscevo tutto del bosco, davo i nomi agli alberi, costruivo capanne. Per la prima volta ho provato un sentimento di assoluta malinconia.

Lei si è iscritto ad Agronomia, poi ha fatto l’attore. Nella sua vita ci sono sempre state la “natura” e la “cultura”.

Sono stato un po’ costretto a fare l’attore, in realtà sono una persona silenziosa e timida, così come mio padre. Il fatto di dovermi esibire per me resta sempre una forzatura e sono sempre salito sul palco col terrore. Nella natura invece sono esattamente il contrario, è l’ambiente che conosco meglio.

La scoperta del cambiamento climatico è stata traumatica per lei. Le capita di sentirti solo rispetto a questo tema?

Diciamo che l’ansia per clima è un sentimento che provo in ogni momento, è il primo dei miei pensieri la mattina. Da quando è nato mio figlio, poi, penso a come sarà il pianeta quando lui sarà vecchio, visto che, secondo gli scienziati, la presenza della sua generazione sulla terra è in dubbio. Eppure il governo – ad esempio Cingolani, il ministro della Transizione energetica che non vuole fare la transizione energetica – ma anche la Comunità europea non agiscono come dovrebbero, il greenwashing è di moda e la forza delle multinazionali è immensa. Ma fare a meno delle energie fossili non significa vivere solo di costrizioni o restare senza gas per cucinare e riscaldarsi.

Manca un partito verde in Italia?

Sì. Come mai altrove i verdi raggiungono percentuali altissime, mentre in Italia i numeri restano risibili? Se questo fosse un Paese evoluto avremmo una destra moderata e una sinistra che ha a cuore i cambiamenti climatici. Invece il mio riferimento di sinistra da molti anni è il papa, pensi un po’.

Da noi addirittura Greta viene irrisa.

È assurdo. Greta Thunberg non è la soluzione ma è un simbolo importante e soprattutto è la testimonianza che le nuove generazioni devono avere una voce in capitolo perché noi buona parte della vita l’abbiamo vissuta, loro no.

Nel mondo dello spettacolo italiano però non sembra esserci molta sensibilità al tema climatico.

Io sono un attore e regista anomalo perché non frequento attori e registi, se non sul set. Ma effettivamente in Italia sono quello che ci mette più la faccia ed è un “peccato” perché c’è gente molto più popolare di me che potrebbe avere grandi risultati. Penso anche agli sportivi.

Parliamo, invece, degli “eroi verdi”…

È gente fantastica, persone che hanno cambiato la loro vita spostandola in una economia sostenibile: chi produce energia pulita, chi trasforma scarpe, chi fa materassi compostabili o diserbanti che migliorano i terreni, ognuno di loro dà lavoro a persone, produce ricchezza e migliora la qualità della vita di tutti. Il mio è un libro che vuole creare reazioni, coinvolgere i cittadini e spingerli a prendere consapevolezza che basta un piccolo sforzo, ciascuno nel proprio ambito.

Ma è un libro anche rivolto alle vecchie generazioni.

Sì, devono capire che se continuano così si mangiano il futuro dei propri figli e nipoti. Allora sarebbe meglio dir loro onestamente: “Non me ne frega niente del fatto che quando sarai grande non potrai uscire d’estate perché farà troppo caldo; io voglio girare con la macchina diesel e i sedili in pelle”. Quando io morirò, mio figlio potrà dire che sono stato severo, rompipalle, tutto. Ma non che, almeno, non abbia fatto una battaglia per permettergli di sopravvivere su questo pianeta.

La Firenze tradita e umiliata dal tappeto rosso per Minniti

Il 27 febbraio papa Francesco tornerà a Firenze, accolto da un convegno della Conferenza episcopale italiana intitolato al “Mediterraneo frontiera di pace”, pensato in esplicita continuità con i Convegni del Mediterraneo che Giorgio La Pira – sindaco santo e padre costituente – organizzò a Firenze dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Quei convegni, irrisi dai protagonisti della Realpolitik, erano un segno profetico: la fede nel Dio di Abramo diventava protagonista nella tessitura di una pace che univa ebrei, cristiani, musulmani in un dialogo fondato sulla dignità della persona umana, segno potente contro la volontà di potenza e la corsa agli armamenti.

E oggi? Oggi c’è Marco Minniti, che chiuderà la sezione IV del convegno, quella intitolata alle “migrazioni tra le sponde del Mar Mediterraneo. Come le città possono contribuire nella definizione di nuove politiche migratorie e collaborare per un effettivo rispetto dei diritti umani fondamentali”. Sembra un’invenzione di Crozza (il cui meraviglioso Minniti gridava: “non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti!”), ma è tutto vero.

Minniti oggi presiede la Fondazione MedOr, che “condivide e fa propri i valori del Socio Fondatore Leonardo”: Leonardo, l’industria che è tra i primi quindici produttori di armi al mondo. Basterebbe questo a chiedersi cosa c’entri Minniti con un profeta del disarmo come La Pira. Ma chi non ricorda le scelte e le responsabilità del Minniti ministro?

Costruttore di poderosi “muri” contro i migranti, distruttore dei loro diritti, artefice del Memorandum d’intesa con la Libia grazie al quale rinchiudiamo in mostruose carceri e condanniamo a torture indicibili chi prova a varcare quel “Mediterraneo frontiera di pace” celebrato dal convegno fiorentino. I muri costruiti da Minniti erano immateriali, ma non per questo meno efficaci: quando, nel 2017, fu varato il decreto Minniti-Orlando, a dirlo fu il presidente dell’Associazione studi giuridici sull’Immigrazione Lorenzo Trucco: «ci sono tanti modi per fare i muri: con il calcestruzzo o con le norme. Rendo tutto molto difficile, con pochi controlli giurisdizionali, tolgo un secondo grado di giudizio, eccetera. Non c’è nulla che va a rafforzare la tutela dei diritti su persone assolutamente deboli. Qui è in atto una separazione tra persone: i migranti non avranno gli stessi diritti degli altri, e tutto ciò è codificato”. Davvero una legge secondo il pensiero di Giorgio La Pira!

Minniti aprì una strada terribile: “Ha iniziato a ostacolare le attività di salvataggio condotte dalle Ong, imponendo loro la firma di un codice di condotta assai restrittivo. Oltre a indurre alcune organizzazioni a ritirare le proprie imbarcazioni, ha dato avvio a una polemica rapidamente degenerata nella criminalizzazione delle stesse iniziative umanitarie” (così il costituzionalista Francesco Pallante). Su quella strada si sarebbe presto incamminata la destra estrema: “C’è una continuità in termini di progetto politico, nel senso che i decreti Minniti-Orlando hanno aperto la strada alla recrudescenza di Salvini. Perché nel momento in cui si è iniziato a derogare alle garanzie fondamentali delle persone, in questo caso i richiedenti asilo, automaticamente, colui che è venuto dopo, cioè Salvini, non poteva che proseguire su quella strada” (così Antonello Ciervo, avvocato dell’Asgi).

Per non ritenere opportuno che proprio la Firenze città di pace si affidi a Minniti, sarebbe bastato anche un altro passaggio terribile di quel decreto del 2017 che – scrisse Roberto Saviano – “ha toni razzisti e classisti. Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato ‘indecoroso’, non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato”. Un decreto contro i poveri, in nome del decoro e della bellezza: e qua davvero La Pira si rivolta nella tomba.

A fare gli onori del padrone di casa sarà Dario Nardella. Se il suo predecessore La Pira nel 1953 requisì le case sfitte per garantire “il diritto fondamentale del cittadino all’assistenza ed alla sicurezza individuale e familiare”, Nardella nel 2018 dichiarò invece di voler agire contro le “occupazioni abusive, soprattutto se molto impattanti, che colpiscono la proprietà privata o l’interesse pubblico… Uno degli errori della sinistra è stato quello di essere troppo ambigua sui temi della legalità e della sicurezza… completiamo con la polizia municipale lo smantellamento dell’accampamento abusivo in area privata”. Il vocabolario è impressionante. Per La Pira il fine è la persona umana: e la proprietà privata è un mezzo per costruire un’utilità sociale che ne promuovesse e sviluppasse la dignità. Per il sindaco di oggi tutto è ribaltato, tutto è al contrario: la tutela della proprietà privata è il fine ultimo, la sicurezza è garantita dalla polizia, l’ordine pubblico dalla sicurezza.

Da fiorentino vorrei dire a papa Francesco: la Firenze di La Pira non è mai stata così tradita e umiliata.

Malagò si fa bello con Pechino. Ma sotto agli ori non c’è nulla

Ammonivano gli antichi, non è tutto oro quel che luccica. Nel caso dell’Italia ai Giochi di Pechino 2022 si tratta più che altro di argento e bronzo, visto che di ori ne abbiamo visti pochini, ma i podi alla fine sono stati ben 17: una quantità di medaglie straordinaria, sufficiente ad accecare. Forse, illudere.

Quando suona l’inno, lo sport italiano si stringe subito a coorte, per celebrare le 100 medaglie dell’era Malagò. Pechino 2022 è stata l’Olimpiade invernale più medagliata di sempre, seconda solo alla storica Lillehammer ’94. Certo, bisognerebbe dire che oggi le gare sono molte più che in passato, e che nel medagliere siamo scivolati indietro di una posizione rispetto a Pyeonchang 2018 (dal 12° al 13° posto).

Nessuno è più multidisciplinare di noi. Però poi alla fine gli ori sono stati soltanto due, e sono mancati dove li aspettavamo. Il simbolo è il successo del curling, che ha fatto scoprire al Paese questa strana disciplina che assomiglia alle bocce e si gioca con un paio di scope sul ghiaccio. Ma con tutto il rispetto per la coppia Constantini-Mosaner, non è e non sarà mai questa la storia dei Giochi invernali, e neppure la nostra. La nostra tradizione era il fondo, il bob, lo sci. Oggi la valanga azzurra è un lontano ricordo, l’intero settore maschile è a zero: negli ultimi anni abbiamo prodotto un solo talento, Alex Vinatzer, che è giovane e fortissimo ma non finisce una gara. All’orizzonte c’è il 2001 Giovanni Franzoni, poi il nulla. Ci salviamo solo grazie alle velociste capitanate da Sofia Goggia, finché durano.

Se lo sci alpino agonizza, lo sci di fondo è morto: quando Federico Pellegrino, argento a Pechino e Pyeongchang, si ritirerà, l’Italia sparirà dal panorama internazionale che in passato dominava. Una disciplina storica oggi si pratica sempre meno fra i ragazzini sul territorio. Il biathlon, che almeno viene coltivato nell’eccellenza di Anterselva, è ripiegato sulla sua stella Dorothea Wierer. Quanto al bob, gli equipaggi azzurri ormai se la giocano con la folkloristica Giamaica. E qualcuno pensa sia una buona idea costruire una faraonica pista da 60 milioni a Cortina, senza chiedersi se in Italia non esiste più il bob perché non abbiamo un impianto, o non abbiamo un impianto perché non sapremmo cosa farcene.

Le buone notizie sono arrivate quasi solo dal ghiaccio: pattinaggio e short track, la straordinaria Arianna Fontana, l’altro oro di questa edizione, l’azzurra più medagliata di sempre. Solo che Fontana oggi ha 31 anni, come Wierer, Paris, Pellegrino, Brignone, Lollobrigida, ne ha 29 anche la Goggia: l’Italia a Pechino si è presentata con le stesse punte di 4 anni fa a Pyeongchang, che potrebbero non esserci fra 4 anni a Milano-Cortina. Le speranze si chiamano Grassl (pattinaggio artistico), Deromedis (skicross), Vinatzer, slittino e snowboard, ma il saldo futuro sembra negativo.

Se i ricambi scarseggiano, interi settori sono allo sbando, diversi atleti di vertice preferiscono allenarsi fuori dai circuiti federali, vuol dire che qualcosa non funziona. Problemi ad ogni livello, tecnico e dirigenziale, che sono esplosi a Pechino. Il caso Fontana, in rotta con la Federazione per il ruolo del marito-allenatore. I veleni tra Goggia e Brignone. Lo scandalo raccontato da Repubblica delle gare di sci sospette per regalare pass ai Paesi minori, gestito malissimo dalla nostra Federazione, che ha calcolato male i posti a disposizione dell’Italia, e poi ha messo una toppa peggiore del buco, chiedendo a Marsaglia di farsi da parte per dare un contentino all’escluso Casse. Forse c’è qualcosa da cambiare in vista di Milano-Cortina. Di sicuro non cambieranno i vertici. Fra un mese gli Sport del ghiaccio rieleggeranno il presidente Gios, da candidato unico. Gli Sport invernali voteranno a ottobre, e pure qui il n.1 Roda pare intenzionato a ripresentarsi, pur avendo superato il limite di tre mandati fissati dalla legge (già in vigore quando fu rieletto l’ultima volta). Intanto, il Coni ha già iniziato a batter cassa, chiedendo più finanziamenti. Almeno in questo siamo davvero campioni olimpici.

Affari di Stato: Saipem, Tim, Open Fiber, Fsi etc. le scorie di una stagione di disastri sempre elogiati

Il disastro di Saipem ha almeno un pregio: illumina una stagione euforica di intervento pubblico senza alcun criterio industriale se non la fortuna dei manager che l’hanno applicato per catturare la benevolenza dei loro sponsor politici. Il tutto osannato dalla grande stampa, che ce li ha presentati come grandi strateghi alle prese con operazioni sempre “strategiche”.

Prendiamo Claudio Costamagna, l’ex banchiere (prodiano) di Goldman Sachs e di tante altre cose che nel 2015 fu trasformato da Matteo Renzi in servitore dello Stato come presidente di Cassa depositi e prestiti: l’ha lasciata nel luglio 2018, con un bilancio notevole, e oggi torna spesso sui luoghi dei delitti come consulente.

Partiamo da Saipem, la prima grande operazione. Il colosso delle infrastrutture energetiche ha annunciato perdite impreviste per oltre un miliardo. Si prospetta una ricapitalizzazione da 1,5-1,8 miliardi che sarà l’ennesimo bagno di sangue per Eni e Cdp. La Cassa è entrata in Sapiem nel 2016 rilevando il 12,5% dal cane a sei zampe col solo scopo di aiutare il colosso petrolifero a deconsolidare a bilancio il maxi-debito della controllata; il tutto poco prima prima che scoppiasse lo scandalo delle mancate svalutazioni a bilancio e il titolo crollasse in Borsa costringendo all’ennesimo aumento di capitale. Risultato: Cdp ha speso 900 milioni, quasi tutti bruciati, e ora ne spenderà qualche altro centinaio per nulla.

Lo stesso anno la “Cassa” di Costamagna fu spinta, insieme all’Enel, a creare Open Fiber, il progetto suicida con cui Renzi decise di sfidare Tim sulla fibra ottica. A marzo 2017 Costamagna ne trasse un bilancio a suo dire positivo: “La nascita di Open Fiber ha spinto Telecom a investire molto di più nella fibra di quanto non avrebbe fatto senza la nostra presenza. Loro ovviamente non lo diranno mai, ma lo dico io e questo ha portato un beneficio al Paese”. Oggi OF non sembra stare in piedi da sola, ha chiuso i primi tre anni in perdita e a fine 2022, secondo le stime, potrebbe avere 5 miliardi di debiti e un margine lordo di 350 milioni: andrà salvata fondendola con la rete di Tim, anch’essa da salvare. Enel è uscita vendendo il 40% al fondo Macquarie – di cui Costamagna è ora consulente – e facendosi strapagare il restante 10% da Cdp per consegnarle la maggioranza.

Ad aprile 2018, sperando nella ricompensa, Costamagna ha poi guidato l’ingresso della Cassa depositi proprio in Tim, spendendo circa 800 milioni per prendersi il 5% (poi salito al 9,8%) e consentire al fondo Elliott di scalzare dal controllo la francese Vivendi. Soldi anche questi per buona parte evaporati visto l’andamento del titolo Tim in Borsa.

Ma il capolavoro è arrivato con la Kedrion, la società dei plasma-derivati della famiglia Marcucci, la stessa del senatore Pd Andrea, ex renziano di ferro, in cui Cdp è entrata nel 2012. Nel 2017 la Cdp cedette per pochi spicci il controllo della società di gestione del nuovo Fondo strategico italiano, di cui Costamagna era presidente, ai suoi manager. Nel 2019 Fsi (coi soldi di Cdp) ha investito decine di milioni per evitare ai Marcucci di perdere il controllo della società a favore delle banche comprando azioni della holding di controllo dalla famiglia. Grandi operazioni per grandi strateghi illuminati.

 

I partiti adesso litigano sul fisco, ma la riforma è già lettera morta

La legge di bilancio ha archiviato il “primo tempo” della riforma fiscale con la revisione dell’Irpef, la riduzione per il 2022 dei contributi a carico dei lavoratori dipendenti fino a 35.000 euro di reddito e l’esenzione dall’Irap per un’ampia platea di lavoratori autonomi, professionisti e ditte individuali. Il “secondo tempo” si svolge in Commissione Finanze alla Camera, dove si discute il Ddl delega in materia fiscale licenziato dal governo a ottobre e sottoposto a oltre 450 proposte emendative. Da metà gennaio le discussioni languono, confermando uno stallo riconducibile a posizioni divergenti nella maggioranza.

Le divergenze tra i partiti si erano in realtà palesate già in fase di stesura delle linee guida parlamentari che hanno perimetrato l’impianto della delega. La “sintesi” trovata ha favorito un progetto di riforma che ha ridimensionato profondamente la funzione redistributiva della leva fiscale, orientando il fisco a supporto della crescita economica con una marcata sottovalutazione della dimensione sociale dello sviluppo. Il calo della quota salari sul Pil impone da tempo una ricomposizione complessiva del prelievo spostando il carico fiscale dai redditi da lavoro ad altri cespiti: un tema eluso nei lavori parlamentari. Stessa sorte toccata al principio di equità orizzontale che assicura a individui in condizioni uguali o simili il versamento dello stesso ammontare di imposte.

Il mancato consenso tra i partiti per ricomporre la base imponibile Irpef, svuotata negli anni a favore di regimi cedolari, ha spinto il governo a completare un sistema di tipo duale con i redditi da lavoro sottoposti a una tassazione progressiva e i redditi da capitale assoggettati a un’imposizione proporzionale, ad aliquota unica, possibilmente coincidente con l’aliquota Irpef più bassa (oggi al 23%). In questo modo contribuenti con redditi simili ma di natura diversa restano sottoposti a trattamenti fiscali differenziati. Non solo, La scelta di armonizzare il prelievo sui redditi da capitale (a eccezione dell’Ires, su cui però Forza Italia propone di allineare l’aliquota nazionale, oggi al 24%, alla media europea, di poco inferiore al 21%) potrebbe comportare una riduzione del prelievo sulle rendite finanziarie (dal 26% al 23%), mentre un eventuale aumento dell’aliquota legale su rendimenti dei titoli di Stato o redditi da locazione o dividendi da piani di risparmio a lungo termine verrebbe neutralizzato da una “clausola di salvaguardia” (perorata da Lega, FI, FdI ed ex M5S) a garanzia dell’invarianza dell’imposta netta rispetto al sistema vigente.

Una questione divisiva riguarda la sorte del regime forfetario, la generosa flat tax al 15% per le partite Iva con ricavi e compensi annui inferiori a 65.000 euro. Mantenere questo regime nell’impostazione compiutamente duale non sarebbe giustificabile. I redditi misti da lavoro autonomo andrebbero infatti scorporati tra quelli riconducibili al lavoro, da assoggettare a tassazione progressiva, e quelli derivanti dall’impiego di capitale, tassati in modo flat. In Parlamento siamo letteralmente alla guerra degli avverbi. Il termine “compiutamente” va sostituito con “tendenzialmente”, il forfetario deve sopravvivere e anzi essere esteso, secondo Lega e FdI, con il rischio di vedere l’80% di professionisti e imprenditori individuali pagare meno imposte rispetto a lavoratori dipendenti e pensionati in condizioni reddituali affini.

Lo scoglio più duro è rappresentato dalla riforma del catasto che rischia di non passare indenne, persino nella versione licenziata dal governo (una mappatura con effetti fiscali sterilizzati, per ora): Pd, LeU e M5S sono favorevoli ma il centrodestra è compatto per lo stralcio. Se prevale quest’ultimo, resteranno intatte le forti differenze nelle rendite tra immobili accatastati in epoche diverse con valori catastali nelle periferie spesso superiori a quelli nei centri storici. Sperequazioni che si traducono in un prelievo immobiliare iniquo e pesano sul calcolo degli importi dei trasferimenti, come l’assegno unico, parametrati sull’Isee.

La memoria politica è corta come non mai: la ritrosia del centrodestra a riformare il catasto contraddice l’unanime assenso a un simile intervento (di portata più ampia e con chiare implicazioni fiscali) manifestato dai partiti appena due anni fa nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva propedeutica a una riforma, mai instradata, della fiscalità immobiliare. Le divergenze tra i partiti potranno anche essere livellate, ma restano forti dubbi sullo spazio politico per i futuri decreti delegati e alcune certezze: un compromesso disorganico non è un buon viatico per riforme robuste e l’equità resterà una perfetta sconosciuta.

Caro-energia. Nessun effetto sulle bollette col piano del governo

Si intravede la luce in fondo al tunnel con un calo del prezzo del gas. Questo si aspetta per la prossima primavera una delle voci più autorevoli del settore, il presidente di Nomisma Energia Davide Tabarelli. Complici le temperature più alte e lo spegnimento dei riscaldamenti – ha spiegato l’esperto – la situazione dovrebbe migliorare visto che ci sarà comunque meno bisogno di gas. Ma è veramente così? Le famiglie che in questi giorni stanno ricevendo bollette con costi stratosferici, possono dirsi salve da ulteriori stangate? La risposta è no.
Anche se le stime fornite da Tabarelli parlano di una diminuzione del 3% per l’elettricità e del 5% del gas, i prezzi sul mercato si manterranno comunque distantissimi da quelli di un anno fa. Per capire meglio, basta dire che in questi giorni la quotazione per il gas naturale è di 70 euro per megawattora (Mwh) contro i 20/30 euro pre-crisi energetica. Ora, detto che non si potrà più raggiungere una tale quotazione, considerata troppo bassa anche prima, il punto è capire cosa si possa fare di concreto per evitare che il prezzo domestico della luce e del gas – come ha riferito l’Arera (l’autorità del settore energia) – cresca in un anno, rispettivamente, del 131% e del 94% come è accaduto in questo trimestre pur con gli interventi straordinari da parte del governo che dalla scorsa estate ha messo in campo 15,7 miliardi. Un importo sì straordinario che, tuttavia, non è bastato ad evitare i danni pesanti per imprese e famiglie. Con l’incertezza di una possibile guerra tra la Russia e l’Ucraina, e la conseguente stretta delle forniture di gas da parte di Putin, il governo venerdì scorso ha varato un piano che non tasserà gli enormi extra profitti che l’aumento del prezzo del gas ha generato a favore delle aziende che importano e distribuiscono gas nel nostro Paese, ma consentirà a quelle stesse società che hanno concessioni per estrarre gas in Italia (al 90% Eni) di aumentare la produzione da qui al 2031 per stipulare poi contratti pluriennali con le aziende a prezzi concordati col governo.
“Con queste regole – spiega Tabarelli – per raddoppiare la produzione nazionale di gas ci vorranno anni e i benefici immediati non si vedranno”. Soprattutto per le bollette delle famiglie.

Rinnovabili e “green”, il muro digitale di chi dovrebbe garantirli

Irraggiungibile, monocratico, bacchettato dalla Corte dei conti negli ultimi report, il Gse (gestore dei servizi energetici) è una chiave di volta per la transizione ecologica. Passato sotto il controllo del ministero della Transizione ecologica, gestisce i miliardi – 15 l’ultima stima – degli incentivi pubblici per l’energia verde. Ma per molti è il nemico. Pessime le recensioni su Google e Facebook (il quarto post sul profilo ufficiale è di un utente: “Li mort… vostra” (mai cancellato). Innumerevoli i problemi. “Da due anni aspetto l’ok per la variazione di un paio di impianti fotovoltaici installati ai clienti. Tutto concordato e autorizzato dal gestore, manca il suggello finale. Finché non arriva non mi pagano”, racconta Massimo Venturello, tecnico specializzato in rinnovabili e fondatore dell’Ater, associazione no profit. “Se poi – spiega ancora – si fa manutenzione e l’impianto si ferma, dopo il riavvio ci vogliono mesi prima che il Gse riprenda i pagamenti. Ma c’è chi ha fatto un leasing con la banca e non può aspettare”. Anche Gioia Granito ha atteso due anni per i bonifici sull’energia prodotta dai suoi pannelli, anni di battaglie con un “sito inutile, un labirinto informatico che a loop portava allo stesso punto”.

Matteo Ciucci, ingegnere, progetta e costruisce impianti green. “Fino a qualche anno fa c’era un contact center fantastico, persone preparatissime che risolvevano tutto con rapidità. Poi il tracollo, li hanno smantellati?”, si chiede. Il numero sul sito non si trova più ed è un fiorire di consulenti e studi legali che offrono aiuto, remunerato s’intende, per le frequenti impasse del sistema. Ma i 72 addetti storici al contact center ci sono ancora, messi all’angolo dal sito del gestore (“farraginoso”, “inutile”, altre recensioni) dove devono indirizzarti in prima battuta quando cerchi risposte. Se non usi Chrome o Explorer (ormai obsoleto) però non puoi registrarti e accedere a incentivi o altro, il sito dà sempre errore.

Mai internalizzati seppure “infungibili”, cioè insostituibili perché parte del suo “core business”, come scriveva lo stesso Gse, da un decennio rimbalzano da una società all’altra. Nel 2015 hanno fatto ricorso in blocco per appalto illecito. Divisi dal tribunale in due tranche da 15 e 70 persone (nel frattempo qualcuno si è arreso), la prima ha vinto anche in appello. Stesso il ricorso, stesso il giuslavorista, Pierluigi Panici che ricorrerà in Cassazione. Tra dicembre e gennaio hanno scioperato per 20 giorni, perché nonostante il mezzo milione di contatti ricevuto l’anno scorso, a periodi alterni vanno anche in cassa integrazione (ma la richiesta di straordinari arriva). Durante la pandemia Almaviva, la società che li ha in gestione, li ha messi in smart working. Chi non aveva pc o connessioni casalinghe per sostenere un servizio pubblico – va ricordato – se l’è dovuti pagare da solo, nessun rimborso. Molte le interrogazioni parlamentari, l’ultima di gennaio, a chiedere perché l’unico sportello col mondo del Gse, che aiuta privati, imprese, Comuni, nella transizione verso un’energia ecologica debba essere oscurato, forse dismesso.

Eppure i soldi per il personale ci sono: nell’ultimo bilancio societario analizzato dalla Corte dei Conti si sottolinea la “consistente voce” delle prestazioni professionali esterne, 11 milioni (molte quelle legali, i contenziosi sono migliaia). Che si aggiunge ai 50 milioni per quelle interne, in aumento ogni anno. E per cui, sempre la Corte, ha richiamato l’ente ad adottare nella selezione criteri di “trasparenza” e “meritocrazia”. Sette anni fa M5s presentò un’interrogazione sulla parentopoli interna al Gse, ma è storia vecchia.

Nel 2020 il gestore doveva essere commissariato su richiesta del governo Conte, c’erano stati forti dissidi interni alla dirigenza. Non è successo. Oggi lo guida Andrea Ripa di Meana, solo al comando senza consiglio d’amministrazione (è previsto dallo statuto). Manager di lungo corso dell’energia, e aiuto di Draghi all’epoca della direzione del Tesoro, nel curriculum ha 5 anni al vertice della Csea, la cassa pubblica che conguaglia al Gse parte degli incentivi. Come i certificati bianchi, strumento essenziale per promuovere la sostenibilità, pagati a chi risparmia energia. Si possono anche rivendere e sono stati oggetto negli ultimi anni di truffe da “svariate centinaia di milioni” ai danni della società, specifica ancora la Corte. Che sottolinea come i controlli effettuati dal Gse sugli impianti siano stati “contenuti”, “esigui” cosa che fa dubitare “dell’adeguatezza degli stessi”. Le procure, diverse, indagano sulle frodi. Questi soldi, prima dei tagli (temporanei) arrivavano dagli oneri di sistema delle bollette, in media il 20% del costo totale. Schizzate comunque alle stelle, mettendo in affanno gli italiani. Che se vogliono passare alle rinnovabili, si scontrano con un muro digitale.

I nuovi (mini) reattori non aiuteranno l’Ue: incertezze e costi alti

Il dibattito sul rilancio del nucleare per combattere la crisi climatica e il caro energia contiene un grosso equivoco: il nucleare di quarta generazione (Gen IV) e gli SMR (Small Modular Reactors). La tecnologia è largamente enfatizzata dai sostenitori italiani dell’atomo, ma è un’opportunità?

Si parla di reattori che utilizzano la fissione nucleare, lo stesso principio alla base del nucleare civile come lo conosciamo, e che si è sviluppato tra gli anni 50 e 60 (Gen I), 70-90 (Gen II, la più diffusa) e Gen III: questi ultimi sono i più recenti, ma ne sono stati realizzati pochi e caratterizzati da problemi tecnici che ne hanno prolungato la costruzione e aumentato i costi. I casi più noti sono quelli dei reattori EPR di Flamanville 3 (Francia), non ancora completati dopo avere accumulato un ritardo di 10 anni e aver sestuplicato il budget (da 3,3 a 19 miliardi) e di Olkiluoto (Finlandia), entrato in funzione a fine 2021 dopo traversie simili. L’EPR è la stessa tecnologia del Piano nucleare italiano del 2011, bocciato dal referendum.

I “reattori di quarta generazione” sono un gruppo di sei diverse tecnologie individuate 20 anni fa dal Generation IV International Forum, un consorzio promosso dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti e di cui fanno parte 13 Paesi. Nelle intenzioni dei proponenti caratteristiche di questo tipo di reattori dovranno essere sostenibilità ambientale ed economica, sicurezza e affidabilità. L’obiettivo del Forum era che intorno al 2030 i reattori di Gen IV fossero pronti all’uso commerciale: al momento l’obiettivo appare lontano, con eccezione di Russia e Cina, che hanno un paio di prototipi attivi. Lo stesso ministro Cingolani l’ha definita una “tecnologia non matura” che richiederà ancora una decina d’anni per valutarne la fattibilità.

Si sta sviluppando quindi un’alternativa ai reattori di grandi dimensioni tramite i cosiddetti SMR, piccoli reattori modulari a fissione di circa 300 MW, che puntano su una maggiore semplicità costruttiva che dovrebbe ridurre i tempi e garantire costi competitivi. Gli SMR – elogiati spesso da Cingolani e dal fronte pro nucleare – dovrebbero avere poi una maggiore sicurezza e una ridotta necessità di utilizzo di combustibile nucleare. I primi SMR al mondo sono un piccolo impianto galleggiante nell’estremo oriente russo e il più recente impianto cinese di Shidao Bay, inaugurato a fine 2021, che con i suoi 200 MW è il primo SMR su scala commerciale.

Se da un lato gli SMR appaiono ad uno stadio più avanzato rispetto ai reattori Gen IV, dall’altro lato non è ancora chiaro se le promesse su costi e competitività potranno essere mantenute: le grandi dimensioni dei reattori tradizionali erano determinate anche dalla necessità di raggiungere economie di scala, difficilmente sfruttabili dagli SMR. I costi degli impianti russi e cinesi in funzione sono un’incognita, e NuScale –la prima società occidentale che dovrebbe sviluppare SMR su scala commerciale – ha più volte rivisto i suoi piani in termini progettuali, di tempistica e di costi, con alcune delle utility possibili clienti del primo progetto, in fase di sviluppo e previsto per il 2030, ritiratesi lungo la strada. Inoltre, non si sa se riusciranno a garantire la flessibilità di utilizzo necessaria in un mix elettrico che con ogni probabilità sarà dominato dalle fonti rinnovabili. Delle decine di SMR in sviluppo al mondo solo una manciata è europea e nessuna a uno stadio avanzato.

Anche la Francia sembra lontana dal poter considerare gli SMR un’alternativa realistica: l’11 febbraio scorso, mentre illustrava il piano energetico francese, Macron ha detto che uno degli “obiettivi ambiziosi” è la costruzione del primo prototipo di SMR francese entro il 2030; l’impiego commerciale arriverà quindi solo dopo. Macron ha anche annunciato la costruzione di 9 GW di nuovo nucleare entro il 2035 tramite reattori EPR2, evoluzione degli sfortunati EPR, e di 25 GW entro il 2050: ma – considerando l’invecchiamento del parco installato e la chiusura di molti impianti – si stima che entro metà secolo la potenza nucleare francese calerà nettamente dagli attuali 63 GW a 39 GW.

È interessante notare che nello stesso discorso Macron ha annunciato ambiziosi obiettivi al 2050 per le rinnovabili, con il solare previsto in crescita a 100 GW (dai 13 GW attuali) e l’eolico a 77 GW (dai 19 GW attuali). Insomma, anche chi ha storicamente puntato sul nucleare, come la Francia, in realtà scommette sulle rinnovabili.

In questo contesto – fattibilità da dimostrare, tempi lunghi e costi incerti – ritenere che reattori di quarta generazione e SMR siano una soluzione a medio termine è velleitario: in Europa e in Italia.