L’Italia per il siero ha investito poco: 0,4% del totale Ue

Ottantuno milioni di euro. È quanto ha investito finora lo Stato italiano, attraverso Invitalia, per lo sviluppo del vaccino contro il SarsCoV2. Una decisione annunciata il 26 gennaio scorso dal Commissario straordinario, Domenico Arcuri, che ha spiegato come funzionerà l’operazione: il denaro andrà alla società italiana Reithera per sviluppare l’antidoto nello stabilimento di Castel Romano. Per capire se stiamo spendendo poco o tanto bisogna guardare quanto fatto finora dalle altre nazioni. Secondo Kenup, fondazione europea specializzata sui temi dell’industria sanitaria, i vari Stati del mondo hanno finora investito in tutto 88,3 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo del vaccino.

A spendere di più sono stati gli Stati Uniti: il 32 per cento del totale. Significa che Washington ha messo sul piatto circa 28 miliardi di euro, quasi 350 volte in più rispetto all’Italia. Il confronto è impari anche se si considera l’intera Unione europea. Secondo l’analisi di Kenup, basata sui dati pubblici disponibili al momento, l’Ue e i suoi 27 Stati membri hanno investito infatti per il vaccino il 24 per cento del totale speso nel mondo: 21 miliardi di euro circa.

Gli 81 milioni stanziati dal governo italiano equivalgono dunque allo 0,4 per cento del totale europeo. Pochino, per la terza economia del continente, anche se in quei 21 miliardi totali ci sono pure i soldi investiti in quota parte dall’Italia attraverso diverse istituzioni tra cui la bei (Banca europea per gli investimenti).

Nella classifica di Kenup sono citati Giappone e Corea del Sud, da cui è arrivato il 13 per cento della spesa pubblica per i vaccini, mentre non compaiono Russia e Cina, che pure sono stati tra i primi Paesi al mondo a sviluppare l’antidoto. Trovare statistiche esaurienti sul tema è praticamente impossibile, perché ogni Stato comunica ciò che vuole.

D’altronde quella del vaccino è una partita strategica. Chi arriva prima ottiene un grande vantaggio, commerciale ma anche politico. Lo dimostrano le vendite all’estero dei vaccini di Stato Sputnik e Sinovac, attraverso cui Russia e Cina puntano ad allargare le loro sfere di influenza in Medio Oriente e in Sudamerica. Per questo alcune nazioni preferiscono non fornire troppe informazioni finanziarie ai concorrenti.

Sulla base di quelle disponibili, però, l’Italia non sembra messa bene. Ha investito poco rispetto ai concorrenti e, soprattutto, è partita con grande ritardo. L’annuncio dell’operazione Reithera, il cui vaccino ha concluso la fase uno, è datato 26 gennaio 2021. Mentre noi attendevamo l’arrivo dei prodotti “europei”, salvo poi accorgerci dei ritardi, gli altri investivano direttamente sui produttori.

La Germania a giugno dell’anno scorso ha messo sul piatto 300 milioni per entrare nel capitale della tedesca Curevac. A settembre il governo di Berlino ha rilanciato: altri 627 milioni per accelerare lo sviluppo dei vaccini di Pfizer-Biontech e, ancora, di Curevac. Francia e Spagna non hanno speso molto, ma si sono date da fare prima di noi. A luglio dell’anno scorso, Parigi ha messo una fiche da 15,1 milioni sulla Osivax, azienda di Lione, e a dicembre ha aggiunto altri 5,2 milioni per la Ose Immunotherapeutics di Nantes. Non ha invece finora comunicato le cifre precise dei vari investimenti la Spagna, ma ad aprile dell’anno scorso, poco dopo lo scoppio della pandemia, Madrid aveva già stanziato 30 milioni di euro per finanziare diversi vaccini in via di sviluppo.

L’apartheid dei vaccini: ai paesi ricchi il 52% di dosi

Il risultato della guerra per l’accaparramento delle dosi è “l’apartheid dei vaccini”, avvertono scienziati e attivisti di tutto il mondo. Nazioni a medio e basso reddito, come il Ghana e l’Africa Subsahariana, non potranno vaccinarsi fino al 2024. L’Uganda pagherà il vaccino Astrazeneca tre volte il prezzo che paga l’Europa. E se non si cambia strategia, oltre alla questione etica, le conseguenze economiche e sanitarie dell’accaparramento saranno disastrose anche per gli stessi Paesi ricchi.

Il costo della mancata copertura vaccinale globale è stimata da un think tank americano, la Rand corporation, a 1,2 trilioni di dollari l’anno. Le nazioni ad alto reddito perderebbero così 119 miliardi l’anno. “I Paesi ricchi hanno legami commerciali globali – spiega Marco Hafner, tra gli autori dello studio –, il rallentamento economico nelle nazioni più povere causato dalla pandemia avrà un effetto a catena in tutto il mondo”. Nessuno è salvo finché non tutti sono salvi: è il mantra che ripetono da mesi scienziati e attivisti in tutto il mondo. “Il più grande pericolo che l’umanità sta correndo passa sotto silenzio: solo 25 persone sono state vaccinate in Africa”, ha dichiarato Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas di Milano, in un’intervista ad Avvenire. “Escludere i Paesi poveri è scandaloso: il virus non si ferma ai confini e le due varianti oggi più temute vengono dal Sud Africa e dalla selva brasiliana”. Come dire che se il virus non viene combattuto globalmente continuerà a circolare sviluppando nuove varianti, forse più letali e resistenti ai vaccini, che torneranno ai Paesi ricchi come un boomerang.

Più sei povero, più paghi

AstraZeneca venderà il suo vaccino a prezzo di costo al Sud del mondo. In India, il Serum Institute of India sta gestendo le maggiori spedizioni di vaccini sia AstraZeneca sia Novavax. Il Serum Institute esporta la propria versione del vaccino AstraZeneca – chiamata Covishield – in 92 dei Paesi più poveri del mondo, ma al prezzo che vuole: in India lo vende a 3 dollari a dose, 5 dollari per Sudafrica e Brasile, 7 dollari all’Uganda. L’Ue ha pagato il vaccino AstraZeneca 2 dollari. Includendo il trasporto, vaccinare una persona costerà invece all’Uganda 17 dollari. Né AstraZeneca né il Serum Institute hanno risposto alle nostre richieste di commento in merito. I vaccini di Pfizer e Moderna sono molto più cari. L’Ue li ha pagati oltre 14 dollari. I Paesi a basso reddito non potranno mai permetterselo. “Abbiamo assegnato delle dosi per la fornitura ai Paesi a basso e medio reddito a un prezzo senza scopo di lucro”, ci ha risposto Pfizer. Uno studio della Northwestern University (Usa) ha calcolato gli effetti sanitari di questa disuguaglianza: se i primi 2 miliardi di dosi di vaccini Covid fossero distribuiti proporzionalmente in base alla numerosità della popolazione di ogni nazione, le morti nel mondo diminuirebbero del 61%. Ma se le dosi sono monopolizzate da 47 dei Paesi più ricchi, i decessi si riducono solo del 33%.

Sopravvive chi è più veloce

Finora sono state acquistate 12,7 miliardi di dosi di vaccini, abbastanza per 6,6 miliardi di persone. Di queste, 4,2 miliardi se le sono assicurate i Paesi più ricchi – che hanno, in totale, una popolazione di soli 1,2 miliardi di cittadini – con l’opzione di acquistarne altre 2,5 miliardi: quindi più della metà del totale delle dosi disponibili. Il Canada ha comprato dosi per vaccinare ogni canadese 5 volte. Usa, Regno Unito, Europa, Australia, Nuova Zelanda e Cile ne hanno per vaccinare i loro cittadini almeno 2 volte (contando anche i vaccini non ancora approvati).

In Israele, più di un terzo della popolazione ha avuto la prima dose e più di un quinto entrambe. I territori palestinesi, invece, stanno ancora aspettando l’arrivo dei vaccini di Covax, l’iniziativa di Gavi Vaccine Alliance (organizzazione per l’accesso ai vaccini delle nazioni povere) per garantire il vaccino a chi è a maggior rischio Covid in tutto il mondo. Israele ha recentemente annunciato che trasferirà 5.000 dosi per immunizzare gli operatori sanitari palestinesi in prima linea.

L’iniziativa Covax

Covax punta a distribuire 2 miliardi di dosi, di cui 1,3 miliardi per 92 Paesi a basso e medio reddito entro la fine del 2021, sufficiente per inoculare il 20% della popolazione di ogni Stato: operatori sanitari e anziani. L’obiettivo è stato giudicato inadeguato dagli esperti, ma non si sa neanche se si riuscirà a rispettare. Dati i ritardi sulle forniture, anche Paesi come Canada e Nuova Zelanda hanno chiesto di ricevere i vaccini Covax.

Molte nazioni a basso e medio reddito hanno comunque cercato accordi con Big Pharma, finora ottenendo solo il 32% della fornitura globale per coprire quella che invece è un’area del mondo dove vive l’84% della popolazione.

Le aziende farmaceutiche devono ora modificare il proprio vaccino perché possa essere prodotto su scala industriale. AstraZeneca ha concesso la produzione a dieci aziende in UK, India, Brasile, Giappone, Corea del Sud, Cina, Australia, Spagna, Messico e Argentina, oltre alle proprie fabbriche in Europa. Quasi tutte sono autorizzate a produrne solo per una specifica area geografica, ma è comunque un tentativo di produrre su scala globale. Altri, invece, producono solo per il mercato occidentale.

Public Citizen, un think tank statunitense, ha scoperto che solo il 2% della fornitura globale di Pfizer/Biontech è stata concessa a Covax e si ritiene che Moderna darà priorità alle nazioni ad alto reddito. Così, America Latina, Asia e Medioriente, si sono rivolte ai vaccini russi e cinesi. Più di 50 Paesi hanno richiesto il vaccino russo Sputnik V. La Cina ha già 30 milioni di dosi dei suoi vaccini per i suoi cittadini, ma anche per Indonesia e Turchia. Ha promesso ai Paesi africani che sarebbero stati tra i primi a beneficiarne, ma non è chiaro se ne siano arrivati.

La battaglia sui brevetti

Con una fornitura inadeguata alla base sia dei ritardi che dell’iniquità, si sta chiedendo alle aziende di rinunciare ai brevetti. Ma Stati Uniti, Canada, Australia, Europa e Regno Unito sono schierati contro il rilascio dei brevetti. Esponenti dell’industria farmaceutica hanno detto al Bureau of Investigative Journalism che non c’è capacità produttiva di riserva, né abbastanza tecnici addestrati, quindi la sospensione non aumenterebbe la produzione. Due mesi dopo l’inizio della pandemia, l’Oms aveva istituito un meccanismo per la condivisione della proprietà intellettuale e dei dati, su base volontaria. Nessuna azienda dei vaccini ha partecipato. L’Oms ci ha poi riprovato, chiedendo ai produttori di dare la priorità a Covax ed esortando quei Paesi che ordinano dosi oltre il loro fabbisogno a donarle invece al Covax. Ma più si verificano i ritardi, più questa soluzione evapora. Solo la Norvegia, che ha registrato meno di 600 morti per Covid, ha per ora donato dosi al Covax.

In molte aree del Sud del mondo, “la situazione è molto tesa”, ha detto Ireen Mutombwa, coordinatrice della gestione dei disastri nazionali presso la Croce Rossa sudafricana. “La vita di tutti è a rischio, specialmente se sei qualcuno che è coinvolto nel lavoro con la comunità”, come gli operatori sanitari. Inoltre, “più circolazione c’è, più opportunità ci sono per il virus di mutare”, ha detto al Bureau Marie-Paule Kieny, direttrice della ricerca all’Inserm, l’istituto di salute pubblica francese. I ceppi mutati potrebbero causare più morti dirette nei Paesi sotto-vaccinati. E otrebbero rendere i vaccini meno efficaci nel tempo. Un effetto boomerang potenzialmente disastroso che nessun portafogli, per quanto opulento, potrebbe facilmente scongiurare.

* The Bureau of Investigative Journalism

La sinistra deve sostenere l’esecutivo?

 

Erri de Luca Una trappola dal carroccio: ma è draghi che dovrebbe liberarsene

La Lega è tutt’altro che un partito europeista, al di là di quel che dica Salvini. Ha cercato per anni di isolare se stessa e l’Italia per realizzare il sovranismo nazionalista. Mario Draghi rappresenta invece l’esatto contrario di tutto ciò e quindi è lui per primo che non può incamerare la Lega in questo suo governo di larghe intese.

Il rifiuto della Lega non è una questione che riguarda il Pd, ma il presidente incaricato, che altrimenti si ritroverebbe a bordo un partito clandestino, una palla al piede che farebbe partire decisamente male il lavoro del nuovo esecutivo. E Draghi dovrebbe anche sapere bene che l’adesione della Lega è in realtà una trappola di Salvini: qualora se lo imbarcasse, non farebbe altro che il suo gioco.

Per quanto riguarda il Pd, credo che non possa sottrarsi dal sostenere Draghi ed è giusto che lo faccia, vista la situazione e considerato che l’ex presidente della Bce è una persona che in Europa viene vista come un Salvatore. La scelta sull’indirizzo della propria maggioranza dovrebbe però farla Draghi, che mi pare finora non si sia ancora pronunciato a riguardo. Non vorrei allora che la trappola di Salvini alla fine funzionasse.

 

Nadia Urbinati Se ci sono ministri leghisti, allora mi aspetto che resti fuori

La mia impressione è che l’unica maniera per far decollare questo governo è che sia un governo tecnico, con ministri tecnici sostenuti dalle forze parlamentari. Ma se diventa un esecutivo politico, finisce per sua natura per includere ed escludere, dividendo i partiti. Se Draghi dovesse chiamare alcuni ministri leghisti, è chiaro che Pd e LeU non ci potrebbero stare. Se Draghi riuscirà invece a far passare una strategia diversa, è probabile che di volta in volta in Parlamento trovi maggioranze magari anche un po’ diverse a seconda dei provvedimenti, ma coinvolgendo più partiti.
Ma ripeto: se al governo c’è la Lega non capirei l’adesione del Partito democratico. Per quanto ci sia un’anima della Lega più liberale ed europeista, incarnata da Giorgetti, mi pare difficile alla fine mediare con il populismo di Salvini.
Anche perché l’altro giorno Giuseppe Conte ha indicato una direzione chiara, che va oltre il governo Draghi e che vede una continuità nell’alleanza tra 5 Stelle, Pd e LeU. E oltre al Pd, pure il Movimento farebbe bene a tenere a mente questo orizzonte prima di entrare al governo, se per una volta fosse meno “liquido” e più “partito”.

 

Massimo Villone Bisogna esserci: solo così si può avere peso in politica

Io credo sia difficile per il Pd non sostenere l’esecutivo, la vedo una strada piuttosto impervia. Il presidente Mattarella ha detto con molta chiarezza che o si fa questo governo o si va alle elezioni, probabilmente non con Conte, ma con un esecutivo ponte.
In queste situazioni è sempre meglio esserci che non esserci: se uno c’è, può proporre questioni, fermare decisioni non gradite, battere i pugni sul tavolo, sfoderare la scimitarra se serve. In politica, se uno non c’è ha quasi sempre torto, perché di sicuro non riesce a incidere.
Anche in questo caso, il rischio è di lasciare campo libero alla Lega, senza poi avere alcun peso al governo. Il problema della sinistra è quindi esserci, chiedere, pretendere, orientare. Altrimenti si tira indietro e favorisce una destra che già si trova in una posizione di forza. Oltretutto, se davvero si andasse al voto lo faremmo ancora con questa legge elettorale e la Lega e i suoi alleati avrebbero probabilmente una maggioranza tale da modificare persino la Costituzione, e magari promuovere l’autonomia differenziata e il presidenzialismo. Non mi pare la soluzione migliore per il Paese.

 

Jasmine Cristallo Meglio il no ad alleati irricevibili: si preservi la coalizione

La partecipazione alla maggioranza o al governo Draghi non può prescindere da alcuni tratti distintivi delle forze che lo andranno a sostenere: forze che abbiano avuto il mandato dagli elettori e non frutto di scissioni post voto; che abbiano testimoniato avversione a programmi secessionistici; che abbiano nella Ue il proprio riferimento; che abbiano sempre operato per l’inclusione e la solidarietà. Perciò sarebbe davvero irricevibile una maggioranza con la Lega (e io insisto nell’aggiungere Nord, perché quella di oggi è solo camuffata da Salvini). La riflessione su un’alleanza strategica M5S-Pd-LeU ha trovato forza con la positiva “iniziativa del banchetto” di Conte, che deve diventare sempre più un lunghissimo e ampio “fratino” di legno massiccio. L’obiettivo di Renzi non era solo far cadere il governo, ma frantumare quest’alleanza. Ora non si possono commettere errori gravissimi che comprometterebbero la ricostituzione del centrosinistra. O la politica si riprende la sua autonomia da banche e finanza e riprende a scrivere l’agenda delle priorità o verrà sempre più spinta verso una “darsena in secca”. Questa è una partita fondamentale che si gioca nel predisporre la maggioranza Draghi.

A cura di L. Giar.

Il Pd ora scende dalla Sea Watch e trangugia Salvini: “È cambiato”

Sul profilo Twitter dell’onorevole Alessia Morani il post in evidenza, in alto nella pagina, è del 3 agosto 2019. C’è un video di Matteo Salvini a petto nudo tra le cubiste del Papeete, accompagnato dal commento della deputata dem: “Da Milano Marittima è tutto”. Subito dopo, scorrendo verso il basso la pagina, ecco invece il tweet di ieri della Morani, ancora riferito al fu Capitano: “La svolta europeista per me è una buona notizia”.

Sta tutto nel giro di questi pochi pixel la terapia di gruppo del Partito democratico, che si è convinto a trangugiare la Lega in maggioranza pur di non tradire l’appello del presidente Sergio Mattarella, che ha auspicato una larga convergenza su Mario Draghi. Il tutto dopo anni di accuse, insulti, “mai coi sovranisti” e pure qualche protesta più appariscente delle altre, come quando alcuni esponenti dem salirono a bordo della nave Sea Watch insieme a Carola Rackete in polemica con la politica dei porti chiusi di Matteo Salvini. Una vicenda per cui il Pd ha votato pure per mandare a processo Salvini.

Ma la linea del partito, adesso, è proprio quella esplicitata dalla Morani: non siamo noi ad allearci coi leghisti, è la Lega che ha cambiato idea e si unisce a noi democratici nel sostegno a Draghi. Comunque la si veda, significa la caduta di un veto ideologico e politico – almeno a dispetto delle dichiarazioni del passato – che oggi resiste solo in LeU, tanto che l’altro giorno la senatrice Loredana De Petris, al termine del colloquio con Draghi, ha definito “incompatibili” il suo gruppo e il Carroccio.

Posizione che al Fatto ribadisce Nicola Fratoianni, uno di quelli a bordo della Sea Watch: “Continuo a pensare quello che ho detto nei giorni scorsi e cioè che siamo incompatibili con la presenza di Salvini al governo”. Con lui, nelle notti all’addiaccio, c’era tra gli altri il dem Matteo Orfini, tra i più spietati anti-leghisti ai tempi del governo gialloverde (e non solo). Oggi però Orfini preferisce glissare con una battuta: “Sto dicendo di no a tutte le richieste di intervista, parla solo la delegazione trattante. Noi comunisti siamo abituati così!”. La Ditta è la Ditta e allora anche l’eventuale dissenso, per il momento, resta latente. Graziano Delrio, un altro degli attivisti della Sea Watch, ha già detto e ridetto che per lui la Lega non è un problema: “Noi non siamo nelle condizioni di porre veti a nessuno, ma solo di imporre dei problemi di principio”. E pensare che ieri, a metà giornata, il dubbio a qualcuno viene. Le agenzie fanno filtrare malumori in casa dem, tanto che – riferiscono – il Pd potrebbe valutare l’appoggio esterno a Draghi per non ritrovarsi gomito a gomito con la Lega. Nel giro di cinque minuti, però, arriva la sdegnata smentita del partito: “Sono totalmente infondate le notizie su orientamenti assunti su un eventuale appoggio esterno al governo. La posizione del Pd è stata voltata alla direzione all’unanimità e illustrata al professore Draghi”.

Si torna a Delrio, allora: ben venga Salvini, tanto poi si farà come dice il Pd. Una linea simile a quella sostenuta da Riccardo Magi, radicale che ha partecipato alle consultazioni insieme ad Azione confermando il Sì a Draghi “senza condizioni“: “Come mi pongo rispetto alle politiche di Salvini è noto. Ma sono certo che non sarà questo il governo che le restaurerà, anche se lui può dire quello che vuole per la sua propaganda”. Imbarazzi? “Di motivi di imbarazzo ce ne è per tutti, perché questo è un governo che nasce sull’appello del presidente della Repubblica ed è normale ritrovarsi con partiti diversi”.

E allora ecco il Sì anche dell’onorevole Stefano Ceccanti: “Non è che faccio buon viso a cattivo gioco, qui il gioco è buono. C’è Draghi e a noi va benissimo, se qualcuno si converte all’europeismo noi lo accogliamo come fosse il figliol prodigo”. Lia Quartapelle, altra anti-sovranista orgogliosa, segue a ruota: “A me non sembra un problema se la Lega è in maggioranza, ma semmai è una vittoria nostra e del Paese se Salvini torna indietro rispetto alle sue posizioni sovraniste. Sarà un problema loro giustificare ai loro elettori perché, dopo aver fatto una campagna terroristica contro l’Ue, hanno cambiato idea”.

Alle fanfare si uniscono nomi di peso come Andrea Orlando (“Un primo effetto l’incarico a Draghi l’ha avuto: Salvini è diventato europeista”) e il capogruppo in Senato Andrea Marcucci: “Se la Lega cambia idea, diventa europeista e capisce che ha sbagliato per anni, meglio per tutti”. Su SkyTg24 è il turno del deputato Matteo Mauri: “La questione della Lega al governo non è un problema del Pd, ma è un problema di coerenza della Lega, che era contro l’Europa, voleva uscire dall’euro, è alleata con gli antieuropeisti di Orban e con la Le Pen”.

Un modo per fingere che davvero adesso Salvini e i suoi porteranno il santino di Alcide De Gasperi a ogni Consiglio dei ministri, disinnescando così i parecchi malumori che invece dentro al Pd ci sono eccome. Non tutti infatti sono convinti che basti far finta che Salvini sia cambiato per digerirlo in maggioranza senza neanche un ruttino, come peraltro testimoniano centinaia di commenti sui profili social del Pd.Monica Cirinnà, una delle esponenti dem più attive sui diritti civili, taglia corto: “Si figuri cosa posso pensare di un governo con Salvini”. Gianni Cuperlo ne ha parlato al Riformista nei giorni scorsi: “Non possiamo dar vita a una maggioranza che dovesse dipendere dalle forze sovraniste”; anche se poi, forse per lo stesso principio richiamato da Orfini, scuola comunista come lui, si accoda alla linea dei vertici senza polemiche: “Mi attengo alla indicazione della direzione Pd”. Pierfrancesco Majorino, eurodeputato dem, confida invece i propri malumori a Radio Popolare: “Penso che si debba dire di no a Salvini ed evitare questo abbraccio mortale”. Enrico Rossi, già governatore della Toscana, è netto: “A mio avviso, la Lega non è adatta a partecipare ad un governo che ha come scopo fondamentale di mantenere il rapporto con l’Europa e di utilizzare bene le risorse del Recovery Fund. Dobbiamo fare un governo europeista e serio che non può avere al suo interno i sovranisti antieuropeisti”.

Alla vicepresidente dem Debora Serracchiani, pur fedele alla direzione decisa dal partito, viene almeno un apprezzabile dubbio: “Prima viene la salvezza degli italiani e questa dev’essere la nostra stella polare, senza riserve. Ma il contributo sincero e disinteressato del Pd non fa velo alla memoria e al bisogno di chiarezza. Oggi Salvini ha deciso di dare fiducia al salvatore dell’Europa Mario Draghi, dopo aver propugnato per anni il sovranismo contro l’Europa. Vedremo se la sua conversione sarà sincera e duratura, o tattica e condizionata”.

Ma la narrazione dominante – una volta al Nazareno si dicevo “lo storytelling” – è un treno già in corsa e nessuno riesce più a fermarlo: avanti leghisti, c’è posto, basta che facciate piano.

Visco detta la linea: ora le riforme volute dall’Ue

La ricreazione è quasi finita e Ignazio Visco ci tiene a spiegare che la scuola riprenderà coi soliti “compiti a casa” pre-pandemia, dal consolidamento fiscale in giù. Il governatore di Bankitalia si è presentato al convegno Assiom Forex degli operatori finanziari per tracciare l’ideale percorso per il governo del suo predecessore a Palazzo Koch: le consonanze tra i discorsi dei due, d’altronde, sono quasi esibite.

In sostanza, dice Visco, siamo ancora in emergenza e “i provvedimenti di sollievo economico e finanziario in favore delle famiglie e delle imprese restano indispensabili”, ma bisogna iniziare a riflettere “sulle modalità che potrà assumere in futuro l’inevitabile, progressiva riduzione delle misure di supporto”. In pratica, “la necessità di garantire protezione ai lavoratori e di scongiurare l’uscita dal mercato di imprese sane dovrà essere conciliata con l’esigenza di non impedire il fisiologico processo di riallocazione delle risorse verso le imprese e i settori con migliori opportunità di crescita”. Questo, venendo al settore del credito, vale anche per le garanzie pubbliche, che non possono essere “un mezzo per occultare situazioni di crisi chiare e irreversibili”. Posizione che ricorda assai il Report del Gruppo dei 30 di dicembre, di cui Mario Draghi fu uno degli estensori, sulle imprese decotte da lasciar morire per puntare su quelle sane.

Quanto al medio periodo, l’Italia deve tornare a crescere, anche per stabilizzare i conti pubblici, e ovviamente questo passerà anche per l’attuazione di un buon Recovery Plan. Ed è proprio qui che il governatore ha voluto riesumare, con una veloce citazione, tutta la paccottiglia ideologica che ha dominato il discorso pubblico negli ultimi anni. La frase è questa: “L’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, per quanto essenziale per la modernizzazione della struttura produttiva, rischia di non essere sufficiente a garantire un innalzamento duraturo del ritmo di crescita se non sarà accompagnata da riforme che sciolgano i nodi che frenano lo sviluppo e l’investimento privato. Non si tratta di prestare un ossequio formale alle puntuali raccomandazioni della Commissione Ue, ma di affrontare in maniera concreta problemi di cui da anni si dibatte”.

E quel che rileva qui sono proprio le “puntuali raccomandazioni” della Ue, il cui rispetto per quelle datate 2019 e 2020 è non a caso un requisito esplicito per ottenere i fondi di Next Generation Eu. Cosa dicono? Se quelle dello scorso anno sono dedicate alla pandemia, quelle del 2019 sono invece esattamente la paccottiglia di cui parlavamo, i famosi “compiti a casa”, le riforme senza aggettivi.

Basta leggerle per capire. In mezzo a cose utili o innocue (lotta all’evasione, tempi della giustizia, occupazione femminile, istruzione, eccetera), lì dentro c’è tutta la vecchia Europa sospesa causa Covid ma che non vede l’ora di tornare: vincoli di bilancio e avanzi primari incompatibili con la crescita; riduzione della spesa pubblica, in particolare di quella per le pensioni; taglio delle agevolazioni fiscali e aumento della tassazione su patrimonio e consumi (l’Iva); messa a gara dei servizi pubblici locali attraverso una legge che superi quella bocciata dalla Consulta; più forza alla contrattazione aziendale rispetto ai contratti nazionali; divieto esplicito a proteggere tutti i risparmiatori tosati nei bail-in bancari. Un classico programma deflattivo, che è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno e – insieme – l’unica ricetta conosciuta nel mondo di prima, che a quanto pare è anche quello di adesso.

Ora la Lega gongola: “Con lui stesse idee sul futuro delI’Italia”

Alle 11:30 di un sabato mattina soleggiato, Matteo Salvini esce dalla Sala della Biblioteca della Camera con un sorriso a 32 denti. “È andata bene” esulta rivolgendosi ai due capigruppo della Lega, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, che lo hanno affiancato nella mezzora di colloquio col presidente incaricato Mario Draghi. Poi, davanti ai giornalisti, parla di “sintonia”, “totale condivisione”, “sensibilità comune” con il banchiere, prima di tirare fuori dal cilindro la frase che apre le porte del governo alla Lega: “La nostra idea di Italia coincide con quella del professor Draghi”. Salvini vuole entrare nel governo e farlo da protagonista: “Preferisco gestire i 209 miliardi che stare fuori a guardare”. E ancora: “Noi siamo a disposizione, la Lega è la prima forza politica del paese con 131 deputati, 63 senatori e governatori in tutta Italia”.

Di nomi finora non si è parlato però, in caso di ingresso in maggioranza, l’ex ministro dell’Interno fa capire che chiederà anche propri ministri: “Se saremo convinti, la Lega darà un sì che ci vedrà partecipi e non alla finestra”. Si parla di Giancarlo Giorgetti come sottosegretario a Palazzo Chigi affiancato da un 5 Stelle come nel Conte I.

La disponibilità del Carroccio a sostenere il governo Draghi era appena emersa in maniera lampante nell’incontro durato mezz’ora, il penultimo del primo giro di consultazioni. Draghi fa un’introduzione sulla “grave emergenza del Paese” che deve “ripartire dal lavoro”. Poi prende la parola il leader della Lega che si è portato dietro un libro di storia (“Nei governi del Dopoguerra, da Parri a Togliatti, c’erano tutti”) e una serie di dossier su tasse, burocrazia e infrastrutture che elenca sommariamente. Si sofferma anche sull’immigrazione – punto dolente del governo gialloverde – che deve essere ispirato “alle politiche europee”: “La difesa dei confini deve essere una politica dell’Ue – dice Salvini – io vorrei che in Italia si rispettassero le stesse norme di Germania, Spagna e Francia”.

Il banchiere prende appunti e replica soffermandosi sullo sviluppo economico – dai cantieri al turismo – passando per la ripresa delle attività bloccate causa Covid. Alla fine dell’incontro, i capigruppo Molinari (piemontese) e Romeo (lombardo) portano al tavolo la voce degli imprenditori del nord che spingono la Lega ad entrare al governo.

Quando esce dall’incontro Salvini è raggiante. Non parla più di flat tax, Quota 100 e porti chiusi. In pochi minuti, viene fuori tutto il suo equilibrismo in pieno stile Dc (“Oggi è Santa Dorotea” sorride): cita De Gaulle e De Gasperi che “non avrebbero voluto l’Europa della direttiva bolkestein”, si toglie la felpa sovranista e indossa la maglia dell’europeismo (“Io da ministro ho difeso l’Europa”) e fa una virata sulla collocazione internazionale dell’Italia che deve essere “atlantica” con una forte amicizia con “Stati Uniti, Israele e tutti i paesi democratici” (la Russia nemmeno la cita). E ancora, taglio delle tasse (“niente patrimoniale”), pace fiscale, sblocco dei cantieri (Tav e Ponte sullo Stretto) e, a costo di andare al governo, si dice pronto a rinunciare anche ai decreti sicurezza aboliti dal Conte-2: “Ciascuno deve rinunciare a un pezzo delle sue priorità” spiega. Poi fa capire che il suo obiettivo è un governo di un anno per issare Draghi al Quirinale e andare al voto: “Il tratto di strada non sarà lungo – conclude – prima o poi andremo a votare”.

Salvini sa bene che il suo ingresso nel governo sta creando grattacapi a Pd e M5S. E lui gongola: “Potrei governare con quelli che mi hanno mandato a processo. Dire no sarebbe semplice, ma l’interesse personale viene prima di quello di partito”. Una frecciata anche a Giorgia Meloni, l’unica che starà all’opposizione. Così dal centrodestra arrivano applausi e Matteo Renzi parla di “svolta interessantissima”. Nelle chat, i parlamentari leghisti festeggiano: “Avanti così, gestiremo i 200 miliardi”. Il prossimo round sarà martedì pomeriggio quando Salvini e Draghi si incontreranno di nuovo: a quel punto l’ingresso in maggioranza sarà cosa fatta.

Reddito, Stato&imprese e green. Draghi prova a convincere i 5S

Finora con i partiti si è sbottonato ben poco. Mario Draghi ha soprattutto ascoltato e preso appunti. Per questo, al termine del primo giro di consultazioni, restano tutti i nodi e ne servirà un secondo per scioglierli. Si riparte lunedì alle 15 con le formazioni minori e si chiuderà martedì coi 5Stelle. È con loro che l’incontro è durato più a lungo e non è un caso: senza il loro appoggio, Draghi non farà nascere un governo. Con Beppe Grillo e Vito Crimi, l’ex Bce si sbilancia. Lo fa sui temi a loro cari: dal Reddito di cittadinanza (“una misura importante, che va conservata e ampliata, anche se migliorata”, spiega), al ruolo dello Stato nelle imprese (“una soluzione giusta”), all’Ambiente.

Finora del programma e della strategia del premier incaricato si è capito ben poco. “Più che dirci cosa vuole fare, ci ha chiesto cosa faremmo noi”, spiegano tutti quelli che hanno partecipato agli incontri alla Camera. Ed è per questo che i partiti muoiono nel tatticismo e si aspettano che al secondo giro sia lui a illustrare un programma, facendo sintesi anche delle indicazioni ricevute. In tre giorni di faccia a faccia ha incassato il sì di quasi l’intero arco parlamentare, escluso Fratelli d’Italia della Meloni. Perfino la Lega di Matteo Salvini preferisce “stare nella stanza dove si decide come spendere i 209 miliardi del Recovery Fund che fuori”, come dice all’uscita. Nessuno pone veti. Quasi più un problema che una soluzione per Draghi.

Il nodo della composizione del governo rimane quello più spinoso: politico o composto solo da tecnici? I partiti premono per la prima ipotesi, specie 5Stelle e Pd. In ballo ci sono poco più di 60 posti, 20 ministri, il resto sottosegretari. Lo schema ipotizzato è che ai partiti spettino alcuni ministri politici (3 ai 5S, 2 al Pd, uno a FI e Lega) e il resto siano figure tecniche, a partire dal ministero dell’Economia (dove Roberto Gualtieri sembra ormai in uscita). Ipotesi che non fanno i conti con l’ex Bce, che potrebbe discuterne con il Quirinale già oggi.

L’altro nodo è, in sostanza, la Lega. I 5 Stelle si sono piegati e ingoieranno anche l’ingresso nella nuova maggioranza di Forza Italia (con tanto di ministro politico), ma provano almeno a resistere a quello del Carroccio. Stessa cosa i dem. L’ultimo baluardo è il tentativo, a tratti goffo, di impostare una strategia che parta dalla vecchia maggioranza giallorosa: discutere da lunedì un accordo di programma condiviso da illustrare a Draghi e su quello premere per escludere Salvini. Difficile che regga, visto che il Pd ha ormai detto sì a qualsiasi condizione e smentisce pure l’ipotesi di “appoggio esterno”.

Le certezze, a oggi, sono poche. L’ex Bce fa capire di muoversi nella prospettiva di un governo che arrivi a fine legislatura, nel 2023, senza tatticismi sul possibile approdo al Quirinale (precluso in quest’ottica) e, va detto, senza accontentare la Lega che lo vorrebbe a tempo, magari con voto in autunno. Draghi ha avocato a sé la sintesi di quanto emerso dagli incontri coi partiti, ricordando a tutti il mandato ricevuto dal capo dello Stato, che ha fatto appello a “tutte le forze politiche”.

L’altra certezza è che senza l’appoggio dei 5Stelle non scioglierà la riserva. Per questo, come detto, all’incontro ha fatto molte aperture. Ha promosso il Reddito di cittadinanza, assicurando che sarà “potenziato” e non ha mai mostrato mai preoccupazione per il debito pubblico. C’è stato perfino un siparietto sul ruolo dello Stato nell’economia. Draghi è pur sempre il padre ideologico delle privatizzazioni – quasi sempre infelici – dei primi anni 90, i cui risultati disastrosi (da Tim ad Autostrade) sarà chiamato a risolvere una volta al governo. Ai 5Stelle che gli parlavano del Fondo per le crisi d’impresa, l’ex Bce ha spiegato di non essere contrario a che “lo Stato aiuti e accompagni le imprese in difficoltà”. Una “soluzione giusta”, ha spiegato: “Negli anni 90 abbiamo interrotto questa corsa non per motivi ideologici, ma perché la crisi dello Stato avrebbe compromesso anche le aziende. Ma le cose oggi sono cambiate”. Nell’ora e un quarto di colloquio il premier incaricato ha anche rassicurato sul blocco dei licenziamenti, spiegando che sul tema le scelte saranno ponderate. Si vedrà.

L’ultima trincea al Senato: “Sindrome di Stoccolma”

C’è chi dice che i pasdaran pentastellati al Senato restano la maggioranza: addirittura 50 e forse più. E chi, sebbene con più prudenza, racconta che l’area del dissenso è comunque importante: 35 intransigenti sordi ai richiami del Colle e al governo di salute pubblica del premier incaricato Mario Draghi. Ma a Palazzo Madama, tra i 5Stelle in subbuglio, dopo 72 ore vissute pericolosamente si scommette su ben altre cifre. Se fino a tre giorni fa erano sei i pentastellati che avevano aperto all’ex banchiere centrale e per questo erano stati spernacchiati dalla maggioranza, ora l’amico delle élite, come lo definisce Alessandro Di Battista, ha fatto il pieno: i senatori che ancora gli resistono dopo che Beppe Grillo ha parlato, si contano sulle dita di una mano o poco più. “La partita non è ancora chiusa” dice chi, nonostante le posizioni dell’Elevato, è intenzionato a opporsi all’unità nazionale. A cui – va detto – comunque non mancherebbero i numeri: se verranno confermati gli impegni presi dai partiti durante le consultazioni con Draghi, a Palazzo Madama tutto filerà liscissimo, dissidenti pentastellati o meno. Piuttosto, nel Movimento, ci si interroga sul futuro. Ma più che di scissione, dati i numeri, si mettono in conto semmai poche uscite. Quante chissà. Perché molti, tipo Bianca Laura Granato, Danilo Toninelli o Elio Lannutti, hanno ribadito le loro perplessità. Nel caso di Lannutti si tratta proprio di un tormento: non sa cosa farà se il Movimento dovesse cedere alle sirene di Draghi. Ma intanto, citando un proverbio turco, lascia intendere che il M5S è vittima della sindrome di Stoccolma: “E gli alberi votarono ancora per l’ascia. Perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro perché aveva il manico di legno”. Criptico Nicola Morra, che mentre tutti lo danno tra i dissidenti, rilancia le parole di Grillo ispirate da Platone, quelle sull’insuccesso a cui è condannato chi vuole accontentar tutti. Pure Barbara Lezzi pare ammorbidita. “Al Presidente incaricato io direi che il M5S, può donare i suoi organi e il suo cuore solo per un governo a tempo. Si potrebbe votare a giugno”. Che esistano ampi margini per sopire gli animi fino a ridurre quasi al nulla l’area degli intransigenti, lo confermano in molti. In effetti il quadro si è modificato rapidamente in poche ore e c’è ancora qualche giorno di tempo, come conferma Gianluca Castaldi. “Stiamo facendo un percorso. Molto dipenderà da cosa dirà Draghi e quale sarà alla fine il perimetro politico della maggioranza che lo sosterrà. La consultazione su Rousseau? Non so se ci sarà: da una parte sarebbe la scelta più giusta. Comunque, in ogni caso, credo che la votazione se ci sarà debba essere accompagnata da una narrazione puntuale di quello che sta succedendo in modo che ciascuno si esprima in maniera consapevole”. Ma Castaldi è pure convinto che molto dipenderà dai segnali che saprà dare Mario Draghi. A partire dalla squadra di governo. Lo dice esplicitamente Emanuele Dessì che è un po’ nell’oblio ché mancano tutte le figurine per completare l’album: “Per me se al ministero dell’Ambiente ci va Sergio Costa o Maurizio Gasparri fa una certa differenza”. Non è il solo a pensarla così, c’è chi si aspetta che nel nuovo esecutivo non venga riservato un posto di rilievo a Renzi “il che sarebbe un segnale di ostilità nei confronti del M5S”. Altri però sono disponibili a dire sì pure a Matteo: basta che a Draghi non venga in mente di fare ministro Giggin ’a purpetta, il che pare davvero improbabile.

Il pressing: Conte ministro. Lui: “Non decidete per me”

L’Elevato è tornato di corsa sulla terra perché questa volta si rischia grosso, si rischia tutto. “Possiamo dire di sì o di no a un governo Draghi, ma l’importante è restare uniti” scandisce di mattina il Garante e fondatore del M5S Beppe Grillo. Davanti a sé, per il vertice prima delle consultazioni con Draghi, nella sala Tatarella della Camera c’è tutta la cosmogonia a 5Stelle: ministri uscenti, i direttivi delle Camere, la vicepresidente del Senato Paola Taverna. Soprattutto, c’è l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte: leader molto possibile del Movimento, che Grillo vorrebbe ministro dell’esecutivo Draghi. Anche se lui, che ha già detto “no, grazie” all’ex Bce, precisa: “Un mio eventuale ruolo nel governo non deve condizionare la vostra decisione sul votarlo o meno”.

Parla per ultimo, l’avvocato, parla da capo. E parla molto, collegato da fuori, anche il presidente della Camera Roberto Fico. Sono Grillo, Conte e Fico la triade che sonda il M5S, lacerato. Luigi Di Maio, l’ex capo politico, tace. E se ne sta in silenzio anche Davide Casaleggio, il patron della piattaforma web Rousseau, voluto nella riunione da Grillo per il malumore più o meno generale. Ma i nodi ora sono altri, le decine di senatori contrari al governo Draghi, iscritti e attivisti che ribollono. Una scissione la mettono tutti in conto, anche Grillo, che per dirlo nel pomeriggio citerà Platone tramite post: “Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”. Allegata, la foto dell’incontro con Draghi. Alcune ore prima, il fondatore arringa i suoi. Alza i toni per caricarli, tanto che le urla si sentono dalla finestra aperta. Cita Radio Londra, la voce della Resistenza anti-nazista. Non può imporre di accettare Draghi, “non può permetterselo neppure lui ora”, spiegheranno poi. Ma è lì che vuole arrivare: “È un momento troppo importante, il lavoro fatto non va buttato, e i nostri temi vanno difesi”. Quindi, “bisogna mettere al centro l’ambiente”. Cita il reddito di cittadinanza, ripropone la Banca pubblica d’investimenti. Perché “l’importante è il cosa, non con chi”. I confini del prossimo esecutivo non sono il punto. Piuttosto “dobbiamo capitalizzare i voti che abbiamo preso”. Poi si gira verso Conte, e azzarda: “Giuseppe sarebbe un ottimo ministro al Recovery, per lui sarebbe come un premierato di risulta”. E poi così Di Maio potrebbe restare alla Farnesina, fondamentale per gli equilibri del M5S che chiede tra i tre e i quattro ministeri. “Ma Conte per ora resta sul no”, sussurrano. Nell’attesa interviene Fico: “Dobbiamo gestire le risorse del Recovery Plan, fare in modo che vengano spese bene”. E se ci riusciamo, teorizza, poi la gente ne darà atto al M5S. Ma c’è un punto politico: “Dobbiamo difendere la coalizione giallorosa”. Ed è il cuore del discorso di Conte. “Il perimetro della maggioranza non è un dettaglio” afferma l’avvocato. Deciso: “Il Movimento deve essere protagonista, dobbiamo essere decisivi con i nostri temi”. Pare un’apertura a Draghi.

Però insiste sulla maggioranza: “L’esperienza della coalizione giallorosa va portata avanti, va difesa”. Parla da federatore del centrosinistra. E una fonte di governo traduce: “La sensazione è che lui non voglia dentro la Lega”. Il vero nodo per Conte è Matteo Salvini. Mentre il Movimento potrebbe anche deglutire Forza Italia pur di riproporre la coalizione giallorosa” a patto che Iv non metta ministri” spiegano. Ma prima c’è da decidere se abbracciare o meno Draghi. Stasera i parlamentari si vedranno in assemblea. La decisione finale, salvo piroette, passerà per il voto su Rousseau. Si parla di un quesito articolato sui temi: “Volete realizzare questi punti?”. Fuori, Alessandro Di Battista, ancora contro. “Non mi inchino al 13° apostolo Draghi” scrive su Facebook. Al Fatto aggiunge: “Questo non sarà un governo politico o tecnico, sarà un governo di Draghi che dopo un anno se ne andrà al Colle. Il problema non è neanche lui, su cui pure ho opinioni non positive, ma questo assembramento parlamentare”.

Grillo dice sì a Draghi e lo avverte: “Attento a Renzi che frega tutti”

Ha dovuto cedere alla sobrietà della mascherina bianca, unica concessione stilistica – lui che se n’è fatta confezionare perfino una a sua immagine e somiglianza – al solenne incontro con Mario Draghi. Per il resto, Beppe Grillo, seduto al tavolo delle consultazioni con il presidente del Consiglio incaricato, che qualche anno fa voleva mandare a processo per Mps, non rinuncia a fare Beppe Grillo. E va lungo, come al solito, senza lesinare consigli all’ex capo della Bce, che gli sta chiedendo aiuto: “Attento, quello della politica è un ambientaccio”. Poi scende nei dettagli e fa nomi e cognomi: “Di Matteo Renzi non c’è da fidarsi, sia cauto”. Infine parte in quarta, con i punti che ha anticipato sul suo blog annunciando che “le fragole sono mature”. Cinque priorità, salite a dieci dopo l’incontro a Montecitorio, che spaziano dagli aiuti ai diciottenni che non studiano e non lavorano alla nascita di nuovi ministeri, come quello della Transizione ecologica.

“In alto i profili”, lo intitola Grillo, parafrasando lo slogan “in alto i cuori” con cui per anni lui e i Cinque Stelle hanno chiuso i loro post (attirandosi pure le critiche di quelli a cui, più che la liturgia cattolica, quel motto ricordava una marcia dell’estrema destra). Ecco, adesso più che alle mozioni dei sentimenti, il Movimento dell’uno vale uno pensa ai “profili”. E in testa Grillo ne ha in particolare uno, quel Giuseppe Conte di cui ha stima e fiducia e che “ci ha fatto portare a casa le nostre riforme”. Non vuole perderlo, Beppe. E per lui si inventa il ministero del Recovery, ritenendo che tocchi a lui – che “quei soldi ce li a fatti prendere” – seguire la trattativa con i ministeri e con l’Europa.

Lo propone anche a Draghi, nel colloquio di quasi un’ora e mezza, ieri mattina. Dove, al contrario, non fa cenno all’annosa questione del “perimetro” che il sostegno parlamentare a Draghi dovrà avere. Per Grillo – esclusa la manifesta ostilità contro Renzi, riassunta nell’avvertimento a Draghi – la presenza di pezzi del centrodestra non è un ostacolo alla nascita del nuovo governo. Diverso invece il ragionamento dei 5Stelle, che di certo hanno una visione del campo un po’ meno naïf: “Se al governo si va da LeU a Salvini, che decisioni vuoi mai riuscire a prendere?”. Per questo – quando Grillo ha già lasciato Montecitorio e Vito Crimi deve presentarsi con i capigruppo davanti ai giornalisti – l’espressione “maggioranza politica” sostituisce il mantra del “governo politico” a cui si erano affidati nei giorni scorsi: non basta insomma che i partiti esprimano ministri dentro l’esecutivo, ma serve pure che ci sia una certa omogeneità d’intenti al loro interno. Il nodo non è ancora sciolto: o meglio, sarà nel secondo giro di consultazioni che inizia domani che si comincerà a discutere di “cosa fare” e soprattutto “con chi”. Quello del Movimento, dunque, sarebbe un “sì condizionato”, una “apertura con riserva”, anche se al momento nessuno si assume la responsabilità di dire che, se ci sono Renzi e Salvini, loro non entreranno. Anzi, ragionano, la presenza della Lega potrebbe paradossalmente “diluire” il peso dei renziani, vero nemico del M5S. Però è tutto maledettamente difficile. Anche il rapporto con il Pd. Perché le indiscrezioni di giornata sui dem indecisi se virare sull’appoggio esterno a diversi maggiorenti del Movimento sono parse una mossa tattica. “Volevano stanarci, vedere come avremmo reagito”. E comunque c’è il malessere di chi resterà fuori anche se il governo dovesse partire, cioè quasi tutti. Evidente ieri a Montecitorio. Grillo sa tutto.

Ieri ha ideato il pre-vertice prima delle consultazioni proprio per vedere le richieste di incontro. Si era messo in fila anche Davide Casaleggio, che doveva ripartire da Roma venerdì sera. Grillo lo ha fatto venire alla Camera assieme a Enrica Sabatini, dell’associazione Rousseau, e sono stati altri mal di pancia. Proprio per schivare gli sfogatoi, il Garante ha lasciato la Camera subito dopo l’incontro con Draghi, dentro un’auto. Ma l’onda di proteste e paure lo seguirà. Ovunque.