Nuovo Devoto-Draghi

Ammucchiata. Classica definizione per un governo che mettesse insieme destra, centro e sinistra, europeisti e antieuropeisti, flat tax e patrimoniale, porti chiusi e aperti, un nove volte prescritto e gli abolitori della prescrizione, un corruttore seriale e gli autori della Spazzacorrotti, un frodatore fiscale e i fautori delle manette agli evasori, propugnatori dei sussidi e avversari del Sussidistan, Confindustria e quelli del Reddito di cittadinanza-salario minimo-decreto Dignità, autori dei Dpcm e nemici dei Dpcm, partigiani anti-dittatura sanitaria e dittatori sanitari, “chiudere tutto” e “riaprire tutto”, ambientalisti e cementificatori, Greta e Attila, No Triv e trivellatori, No Tav e partito dei cantieri, antimafia e Dell’Utri-Cosentino-Giggino ’a Purpetta. Ma ora si chiama “unità nazionale” e “salute pubblica”. Draghi è come Dash: lava più bianco.

Bibitaro. Luigi Di Maio prima dell’avvento di Draghi. Ora invece è “il ministro che ha svolto un lavoro di raccordo proficuo nel preparare un governo Draghi spesso sfuggito ai media” (Gianni Riotta). Quindi non erano bibite: era Dom Pérignon Rosé Vintage 2000.

Compravendita. Se a Conte mancano quattro voti al Senato per la maggioranza assoluta dopo la fiducia di tutto il Parlamento e spera in quattro voltagabbana spaventati dalle urne, è “compravendita”. Se Draghi trova interi partiti voltagabbana spaventati dalle urne per far nascere il suo governo, è “salvare il Paese”.

Crisi. Se un governo lavora meglio del resto dell’Ue su Covid, vaccini e scuola, strappa 209 miliardi di Recovery e poi viene fatto esplodere da un kamikaze col 2%, la colpa non è del kamikaze col 2%: è del governo fatto esplodere, cioè delle vittime. E si chiama “fallimento di Conte” e “crisi di sistema” (Cacciari&Giannini).

Faccia (ci mettiamo la). Espressione salviniana che sta per “mettiamo il culo su un paio di poltrone perché abbiamo la faccia come il medesimo”.

Fascisti, antieuropei, populisti, razzisti, sovranisti. Sono la Lega e FdI secondo il Pd, LeU, Iv e Stampubblica. Ma se vanno con Draghi, scatta l’amnistia: “In 24 ore Salvini è diventato europeista!” (Orlando). Non è la sinistra che deve vergognarsi di governare con lui: è lui che è diventato buono. Ora può salire sulla nave di Carola a prendere il sole con Delrio, Orfini, Fratoianni e Faraone. Fino al prossimo sbarco.

Generali. “Non si cambiano i generali in guerra”, disse sette giorni fa Mattarella. Ora li cambia tutti: o la guerra è finita, o “i tedeschi si sono alleati con gli americani” (Sordi, La grande guerra).

Incoerenza. Pd e LeU che dicono “mai con Salvini” e poi ci vanno. Il M5S che dice “mai con B.” e poi ci va (e viceversa).
La Lega che dice “mai con Pd e M5S” e poi ci va. Tutti classici modelli di incoerenza. Ma non se c’è Draghi. “Che populisti nazionalisti di M5S e Lega maturino verso posizioni raziocinanti, progressiste, europee è un bene per il Paese. Maturare è la miglior virtù in politica, pessimo intignare negli errori per falsa ‘coerenza’. Non irrideteli, ma spronateli sulla giusta strada” (Riotta). La libera stampa è pregata di sostituire “incoerenza” con “falsa coerenza”, “bene per il Paese”, “virtù”, “giusta strada”.

Incompetenti. Tutti i ministri dei governi non-Draghi. Ma, se gli stessi emigrano nel governo Draghi, diventano premi Nobel ad honorem. Per contagio.
Migliori (governo dei). Il segnale convenuto sarà Giggino ’a Purpetta che fa la dichiarazione di voto per la fiducia a Draghi.

Mes. Prima a non volerlo erano quei puzzoni di Conte, 5S, Lega e FdI (oltre a tutta l’Ue). Ora pare non lo chieda neppure Draghi. Ma il suo modo di non chiederlo è ben diverso da quello degli altri: un no europeista, molto tecnico.

Paletti. Avete più sentito parlare di prescrizione, Servizi, Mes, Ponte, task force, 4 ministeri, Boschi, Bellanova, via Gualtieri, Bonafede, Azzolina, Arcuri, Tridico, Parisi, Benassi? Ecco, appunto.

Programmi. Un tempo si diceva: prima i programmi, poi le formule e i nomi. Errore, prendere nota: prima i nomi e le formule, poi i programmi, se resta tempo.

Ritardi. Se Iv dal 5 dicembre a oggi blocca il Recovery Plan da presentare il 30 aprile, “Conte è in ritardo col Recovery”. Se le consultazioni di Draghi vanno a rilento per due o tre giri e il Recovery Plan non se lo fila nessuno, niente fretta. Anzi, siamo in anticipo.

Spread. Conte lo ereditò a 237 punti (1.6.2018) e lo lascia a 105 (3.2.2021), ma nessuno se ne accorse. Con Draghi è sceso da 105 a 98 e tutti gridano al miracolo (“Spread verso quota 50”, arrotondando un po’). Il famoso spread intermittente.

Trasformismo. Se Conte e i 5Stelle governano prima con la Lega e poi con Pd e LeU, è “trasformismo”. Se Draghi governa contemporaneamente con 5Stelle, Lega, Pd e LeU, è “coesione”.

Vulnus democratico. Sinonimo di Conte, reo di essersi confrontato col Parlamento 37 volte in 16 mesi e di aver fatto il Recovery Plan in 19 riunioni fra i ministri. Ma ora, con un governo nato sul Colle all’insaputa del Parlamento e un premier mai indicato da alcun partito, da appoggiare al buio, “prendere o lasciare”, il vulnus è sanato.

Zingaretti. Segretario del Pd inviso ai Saviano e alle Concite in quanto troppo destrorso, sbiadito, “ologramma” perché stava con i putribondi Conte&5Stelle anziché con Enrico Berlinguer. Invece, ora che governa pure con Salvini, è Che Guevara.

Da Bergoglio a Draghi, la storia dei Gesuiti aiuta a decifrare il presente

E se per capire meglio Mario Draghi fosse utile studiare i Gesuiti? La foto del prestigioso liceo in cui il presidente del Consiglio incaricato ha compiuto gli studi, l’Istituto Massimo di Roma è su tutti i giornali. “Il Massimo” è una scuola “in linea con la tradizione della Compagnia di Gesù” e la sua formazione è “articolata secondo il Paradigma Pedagogico Ignaziano, che prende il nome dal suo Fondatore, Ignazio di Loyola”.

Può essere utile, quindi, la lettura di questa storia dei Gesuiti a opera di Sabina Pavone (la prima edizione è del 2004, oggi riedita da Laterza con una nuova biografia), studiosa appassionata della materia, che ripercorre le vicende che dagli inizi di metà 500 fino alla soppressione di fine 700 (la Compagnia verrà poi ricostruita dopo il 1814 e poi, nel 900 si può parlare di “terza Compagnia” caratterizzata dalle novità più recenti).

Parliamo della compagnia più globale di tutte – “la nostra casa è il mondo” diceva a Ignacio di Loyola il compagno Jerònimo Nadal – con i gesuiti dotati di una tradizione da passeurs culturels (trafficanti di cultura), favorendo l’incontro tra le quarti parti del mondo. Questa visione globale, dice Pavone, aiuta a superare la tradizionale dicotomia tra una compagnia conservatrice, “apertamente reazionaria” dell’800, e l’opzione per la “Chiesa dei poveri” intrapresa negli anni 60 del 900 fino al sostegno alla Teologia della Liberazione in America Latina o alla teologia dalit (gli oppressi) in India. Per non parlare di papa Bergoglio che dai gesuiti proviene. La missione di Ignazio è stata così applicata preservando l’identità gesuitica come “capacità di adattarsi al mondo circostante, rinegoziando di volta in volta il proprio ruolo all’interno della società”. Insomma, se una volta la Compagnia era intesa come propriamente conservatrice con le voci dissonanti interpretate come eterodosse, oggi si è capito che invece “è una e tante”. Al profilo di Mario Draghi la definizione un po’ corrisponde.

 

I Gesuiti: dalle origini alla soppressione

Sabina Pavone

Pagine: 168

Prezzo: 16

Editore: Laterza

 

I Robinson sono già classici, anche grazie a Obama

Definita unica degna erede di Flannery O’Connor, miglior scrittrice americana vivente con Joyce Carol Oates, venerata da Obama, che nel 2015 la invitò alla Casa Bianca per intervistarla per la New York Review of Book (lei pensò prima a uno scherzo, poi riuscì pure ad arrivare in ritardo), Marylinne Robinson, nata nel ’43 a Sandpoint, Idaho, e lì cresciuta leggendo la Bibbia e classici come Melville e Dickens, a contatto con una natura sconfinata che la fece sempre sentire “ben accetta in un luogo tanto sacro”, ha ammesso di percepirsi affine a Emily Dickinson, per lei “perfetta fusione tra un poeta e un metafisico”.

Cristiana calvinista, si è servita della letteratura per riportare Dio tra le pagine dei libri, anche se ha dichiarato “per me non si tratta di portare Dio al centro, quanto di abbracciare il fatto che Lui è già lì”, e per restituire valore alla fede intesa come condizione dello spirito servita dalla verità e non dalla paura, del cristianesimo come stile di vita e non dottrina, di Dio come osservatore attento delle nostre esistenze… Quando Obama le chiese se poteva definirla una teologa lei rispose: “Non do importanza alle etichette. Nella vita ci sono da sempre cose che mi affascinano, la narrativa è una, religione e teologia altre. Non le vivo separate, sono parti della mia esistenza”.

In un’America in cui il fondamentalismo religioso dilaga e “la fede non è più comunità che accoglie, ma strumento per scacciare”, Robinson spera che si riprenda almeno a credere “che il prossimo abbia diritto di essere amato come noi”. In Italia osannata dai lettori forti, ha esordito nell’80 col romanzo Le cure domestiche, storia di due orfane cresciute da un turnover di parenti e infine prese in custodia dalla più giovane delle zie materne, per Doris Lessing un’opera “da leggere lentamente perché ogni sua frase è una delizia”. Temi come il senso di appartenenza (spesso smarrito), il peso della solitudine e dell’abbandono, il capire quale sia la propria idea di casa sono destinati a tornare anche nella trilogia, scritta 24 anni dopo, composta da Gilead, Casa, Lila. In quel lungo arco temporale Robinson ha messo la prosa in pausa, senza ansia alcuna, per dedicarsi alla saggistica, di cui Quando ero piccola leggevo libri e il recentissimo Quel che ci è dato sono un luminoso esempio di come sia possibile parlare delle contraddizioni del mondo odierno attraverso la lente dell’etica cristiana, svestita di ogni sfumatura ideologica: consumismo, capitalismo, dipendenza materialistica dalla tecnologia (che ritiene strumento potenzialmente straordinario), l’ascesa di una classe dirigente a stelle e strisce che allontanana dalla vera democrazia, che per lei si fonda idealmente sulla fiducia che ognuno di noi può riporre nell’altro, fino a incoraggiare il recupero di un umanesimo che torni a riconoscere il nostro essere creature divine, per quanto fragili, fallibili.

I protagonisti della trilogia di Gilead, connessi tra loro, devono fare i conti con la propria interiorità, tra luci e ombre, e operare scelte, bivi che se da una parte implicano il rischio di toppare perché sopraffatti da sentimenti che mal consigliano – avidità, invidia, gelosia, frustrazione – dall’altra rivelano la speranza di nuovi, inaspettati, scenari. A vibrare sono i tòpoi della sofferenza, del perdono, del soccorso, della salvezza, del ritorno a casa o del sentirsene parte per la prima volta, della vecchiaia che chiede rielaborazione, della grazia intesa come effetto dell’amore, scevro dalla logica della penitenza, ma anche del fallimento, dell’ipocrisia religiosa, della viltà morale, della doppiezza.

Non c’è personaggio che non conquisti: dal reverendo John Ames di Gilead al presbiteriano Boughton di Casa, dal di lui figlio Jack, la pecora nera della famiglia in cerca di un perdono, fino a Lila, eroina del terzo volume che prima di riaprirsi alla vita, provando empatia e ricevendo in cambio compassione, perché “vale la pena di vivere abbastanza a lungo da superare qualunque risentimento che si sia maturato”, fu bambina spezzata, abbandonata, vagabonda, prostituta. Dotata di una scrittura poetica, elegiaca, lenta e profonda, capace di dialogare col cuore dei lettori, credenti o no non conta, Robinson è già un classico.

Bambini scomparsi tra i profughi ex jugoslavi: indaga Teresa Battaglia

Sovente, in questa rubrica, indichiamo il Male con la maiuscola, ché feroce, disumano, truculento. Però, in fondo, togliere l’enfasi ortografica restituisce al male alcune sue banali tonalità. Le descrive benissimo il commissario Teresa Battaglia, che al male mette la minuscola: “Il male è molto empirico, lo puoi descrivere con termini specifici, persino banali. In questo caso? Avidità. Chissà quanto ha fruttato quel bambino. Indifferenza. Con una diagnosi facile facile e qualche pillola si mette a tacere una donnetta isterica, sporca e malandata che non parla nemmeno la nostra lingua (la mamma del bimbo, ndr). Problema risolto, avanti il prossimo. Disattenzione. Nessuno ha controllato che quel maledetto rapporto dicesse la verità”.

Teresa Battaglia è il commissario nato dal talento puro e scintillante di Ilaria Tutti, tra le migliori narratrici “gialle” dell’ultimo lustro. Non a caso, il suo nuovo Luce della notte appena uscito è balzato in testa alle classifiche di vendita. Teresa Battaglia, un corpo pesante segnato dall’età, è una poliziotta che sa vedere e “leggere” ogni minimo dettaglio. Di recente, nella sua vita, si sono manifestati inquietanti vuoti di memoria. Sul terreno si muove in coppia con l’ispettore Massimo Marini. Stavolta il mistero origina dai sogni di una bambina speciale, Chiara, che per una malattia genetica deve sfuggire alla luce, al sole. Vive al buio. Chiara sogna (?) un albero che cela un tremendo segreto: un bambino sepolto. Il commissario “sente” che c’è qualcosa di vero e comincia a indagare. Siamo al confine tra il Friuli-Venezia Giulia e la Slovenia. Qui durante il conflitto dell’ex Jugoslavia, a metà degli anni Novanta, c’era una rotta per i profughi che scappavano. E in un gruppo di bosniaci musulmani c’era una donna, di cui però non rimane traccia. Che fine ha fatto?

 

Luce della notte

Ilaria Tuti

Pagine: 254

Prezzo: 16,80

Editore: Longanesi

In America l’amicizia parla Russo (Richard)

R ichard Russo – che si è conquistato uno spicchio di immortalità con il Pulitzer 2002 per il suo Il declino dell’impero Whiting – appartiene alla leva dei narratori statunitensi che rincorrono il più ambizioso dei traguardi: raccontare la biografia della nazione. Basta afferrare uno o più destini singoli, agitarli come alberi per farne ruzzolare giù i frutti più segreti e poi guardarli in controluce per scorgere le curve di ascesa e di rovina della Storia. Le conseguenze, ultima fatica di Russo edita da Neri Pozza, aggiunge altre fascine di carta nel mai estinto rogo letterario sulla perdita dell’innocenza dell’America.

L’autore per quasi 400 pagine cerca di rispondere a una domanda che mette in bocca a uno dei suoi personaggi: “Se esistesse la possibilità di tornare indietro, se tutti avessimo avuto più scelte nella vita, sarebbe stato tutto diverso?”. La risposta la rincorre su una prateria retorica invero usurata: la guerra del Vietnam e il sogno collettivo di rivoluzione dei tardi anni 60. Vale riconoscere un’attenuante. La Spoon River dei tanti giovani americani caduti nelle giungle del paese asiatico brucia come una ferita: “La guerra era finita da decenni, ma in realtà non era mai finita, non per gli uomini della loro età. Era stata la loro guerra, che avessero combattuto o no.” Russo spinge sul palcoscenico tre amici che si ritrovano a distanza di quarant’anni per rievocare una giovinezza comune che ha segnato le loro esistenze.

Lincoln, agente immobiliare, Teddy, piccolo editore, e Mickey, musicista, si rimescolano nel tentativo di soffocare i rimpianti perché “è questo che vogliamo dai vecchi amici, sentirci rassicurati sul fatto che il mondo che ricordiamo con tanto affetto esiste ancora, che non è stato sostituito da una realtà che ci emoziona molto meno.” La memoria restituisce un frangente tragico: Jacy, una compagna di studi di cui tutti e tre erano innamorati, svanita nel nulla in un fine settimana del 1971, è allo stesso tempo la luce più intensa del loro passato e l’ombra che grava sul presente. I tre, figli della classe media e iscritti al college grazie a borse di studio, si impiegano in quegli anni “psichedelici” come camerieri in una confraternita femminile nel campus del Minerva, sulla costa del Connecticut.

Stringono un sodalizio speciale con Jacy, studentessa brillante e avvenente che sul filo di una tenera ambiguità sembra flirtare con tutti. La ragazza, nel ricordo, è sublimata al pari della giovinezza, anzi è la loro giovinezza. La sua misteriosa scomparsa coincide con la scomparsa della più folle anarchica età della vita. Jacy fa perdere le sue tracce dopo il tentativo di persuadere Mickey alla diserzione, reclutato come soldato per il Vietnam . Mickey si riserva un destino da disertore anche sul fronte dell’amicizia, perché si scopre che lui, a dispetto dei suoi due amici, non solo conosce ma è testimone diretto della sorte di Jacy. Tornare sulla “scena del delitto” decenni dopo svela una verità ineludibile: “Le cose che teniamo segrete tendono a rappresentare proprio il cuore di ciò che siamo”. Le conseguenze è un romanzo che, sublimando la nostalgia per il tempo perduto, incide nella coscienza del lettore l’amara consapevolezza che “quello che non puoi permetterti di perdere è esattamente quello di cui il mondo ti priverà.”

 

Le conseguenze

Richard Russo

Pagine: 384

Prezzo: 19

Editore: Neri Pozza

“The Snoopy Show”: torna l’allegra brigata di Charlie, Linus e Mr. Schulz

L’arrivo a casa di Charlie Brown, l’amicizia con Woodstock, il primo compleanno, i duelli con il Barone Rosso. Apple Tv+ torna alle origini del cane più famoso del mondo dei fumetti con la serie animata The Snoopy Show.

È il terzo titolo di Apple dedicato ai Peanuts, dopo Peanuts in Space: Secrets of Apollo 10 e Snoopy in the Space, e arriva a pochi giorni dal ventesimo anniversario dalla scomparsa del loro creatore, Charles M. Schulz, morto il 12 febbraio del 2000.

Pensata per i bambini ma molto godibile anche per gli adulti, The Snoopy Show si compone di 18 storie da sette minuti l’una raccolte in sei episodi. “Ogni storia nasce da una striscia”, ha spiegato lo showrunner e produttore esecutivo Mark Evestaff: “Che si tratti di uno spunto o di una battuta, l’idea era quella di rimanere fedeli ai fumetti”. Fumetti che a più di 70 anni dalla nascita (la prima striscia fu pubblicata il 2 ottobre del 1950) rimangono estremamente attuali.

Il protagonista delle strisce di Charles M. Schulz, inizialmente, era Charlie Brown. Snoopy era un normale bracco: solo a partire dai Settanta l’autore decise di antropomorfizzarlo e dargli più spazio. Se nella serie animata anni Ottanta Charlie Brown & Snoopy Show il cane era il co-protagonista, qui, come suggerisce il titolo, si prende tutta la scena. C’è il bracchetto e ci sono gli alter ego partoriti dalla sua fantasia, da Joe Falchetto al supereroe Marvel Masked, dal surfista all’aviatore della Seconda guerra mondiale.

Attorno a Snoopy ruotano, oltre al fedelissimo Woodstock, Charlie Brown, Lucy, Linus, Franklin, Schroeder, Piperita Patty e tutti gli altri personaggi dei Peanuts. Si nota in maniera particolare l’assenza dei genitori e più in generale degli adulti. Era, questa, una peculiarità dei fumetti di Schulz che gli autori di The Snoopy Show hanno mantenuto. Ma vivendo oggi in una società in cui i bambini sono spesso iperprotetti, vederli in balia di loro stessi e nello stesso tempo capaci di sbrigarsela da soli fa ancora più specie.

 

Quel Campion di Scott e la “Nuova umanità”

“Il futuro è invisibile anche agli androidi”. Sentenza plausibile e ragionevole se a decretarla è una creatura diretta dal sovrano dell’universo androide cinematografico, Sir Ridley Scott, ritrovato in quanto gli è più congeniale ma in formato seriale. Raised by Wolves – Una nuova umanità ne è la prova: 10 episodi di scenari post-apocalittici più o meno integrati che dall’8 febbraio inquieteranno gli schermi di Sky Atlantic e Now Tv. Il vate dei cine-umanoidi non è lo showrunner della serie – che invece porta il nome dell’americano Aaron Guzikowski, già ideatore della serie Prisoners – ma ne è il produttore esecutivo nonché regista delle prime due puntate. Con il suo secondogenito Luke a dirigere ulteriori tre segmenti, si può comunque affermare che il prodotto sia a tutti gli effetti un franchise Scott, di fatto, di anima e d’ispirazione.

Perché è impossibile concepire cuori elettrici in corpi artificiali che soffrono come se pulsassero sangue umano senza tornare al padre di tutti gli androidi, quel Blade Runner unico e geneticamente ripetibile. Il testo cult del 1968 di Philip K. Dick diventato altrettanto cult sul grande schermo nel 1982 ha infatti creato un sotto-genere fantascientifico: quello che forse intriga maggiormente i nostri pensieri così come angoscia le nostre coscienze, immaginando un’intelligenza artificiale antropomorfa così umanizzata da confondersi e mescolarsi a noi. E se è vero che il futuro condiziona già il presente, dicono i personaggi del palindromo Tenet, è prima inevitabile fare i conti col passato.

Per questo la serie di Guzikowski, già vista negli States su WarnerMedia HBO Max lo scorso settembre e con una seconda stagione in fieri, è permeata di rimandi mitologico-biblico tra il sacro e il profano, imbastiti sui consueti archetipi ancestrali come pure sulla tradizione cinematografica della conquista/colonizzazione territoriale e delle guerre di sopravvivenza: temi eternamente validi al pubblico di più generazioni e pertanto appetibili al marketing. Questo non significa che Raised by Wolves – Una nuova umanità sia un prodotto di immediata comprensione, tutt’altro.

Ambientato in un futuro che oscilla nelle decadi per necessità narrative (siamo attorno al 2150), mette al centro una coppia di androidi – Madre e Padre – che fugge dalla Terra (ovviamente) devastata dalle guerre, e si rifugia sul pianeta extra-solare Kepler-22 b, di reale esistenza, Nasa dixit. La coppia ha portato con sé alcuni embrioni umani allo scopo di creare, come da sottotitolo, una nuova umanità. La gestazione extra-uterina di Madre comporta la nascita di alcuni bambini dei quali, tuttavia, sopravvive solo l’ultimo nato, apparentemente il più fragile, a cui viene dato il nome di Campion. Passano 12 anni e ritroviamo il meticciato famigliare alle prese con una sconvolgente scoperta: su Kepler-22 b sono approdati altri individui. Si tratta di sopravvissuti terrestri giunti a bordo di un’Arca dal nome Paradise, che si fanno chiamare Mitraici perché adepti di una setta religiosa. Le vicende si complicano, le alleanze si alternano, e le mutazioni accrescono a imbrogliare ancor di più le carte, tra figli veri, genitori finti e parenti serpenti, tenendo a mente una citazione più legata allo stracult seriale Visitors (1984) che non a quello di Ridley Scott.

Visivamente imponente, e non poteva che tale essere, la serie gioca sull’effetto sorpresa del racconto perché non potrebbe fare altrettanto sull’immaginario fortemente ancorato al collettivo. E non tanto rispetto al metropolitano e piovoso Blade Runner, quanto al paesaggio di una polverosa e desertica wilderness tutta da edificare, residuo di una preistoria nel futuro che richiama quella galassia lontana lontana ideata da George Lucas. Privo di star di prima grandezza (l’unico è il “Viking” australiano Travis Fimmel), contempla il politicamente corretto di bimbi di ogni etnia e colore, con Madre bianca e Padre nero, entrambi giovani e bellissimi, dai corpi scolpiti in tutine di latex grigio da sfilata postmoderna.

 

Raised by wolves

Una nuova umanità

Ridley Scott

Sky e Now Tv

Larrain lavora su lady D, Lanthimos su Frankenstein

Sono iniziate in Inghilterra le riprese di Spencer, un nuovo biopic del cileno Pablo Larrain (dopo il notevole Jackie, uscito nel 2016) dedicato questa volta alla principessa Diana. Sarà Kristen Stewart, la star trentenne di Twilight a dar vita nel film sceneggiato da Steven Knight a Lady D nei tre giorni dell’ultimo Natale trascorso con il Principe Carlo nella tenuta di Sandrigham nel Norfolk in cui si convinse che il suo matrimonio era fallito e decise di abbandonare la famiglia reale britannica, rinunciando per sempre al futuro ruolo di Regina.

A due annidal grande successo de La Favorita Emma Stone, il regista greco Yorgos Lanthimos e lo sceneggiatore Tony McNamara torneranno a lavorare insieme per Poor Things, un adattamento al femminile della storia di Frankenstein. Inquietante come tutti i film di Lanthimos è tratto da un romanzo del 1992 di Alasdair Gray di ambientazione vittoriana e vedrà protagonista Bella Baxter, una giovane donna affascinante, sensuale ed emancipata che dopo essersi annegata per sfuggire al marito violento viene riportata in vita con il cervello di un bambino non ancora nato.

Si intitola Bones & All, la storia d’amore con tinte horror sceneggiata da Dave Kajganich in cui Luca Guadagnino dopo Chiamami col tuo nome tornerà a dirigere il contesissimo Timothée Chalamet, questa volta insieme all’attrice canadese Taylor Russell, vista nella serie Lost in Space e nel film Escape room. Il nuovo impegno si aggiunge alla fitta lista di progetti internazionali del regista palermitano che comprendono una nuova versione di Scarface per la Universal sceneggiata dai fratelli Coen, un adattamento de Il Signore delle mosche per Warner Bros. e un film su Scotty Bowers, ambiguo gestore clandestino di un giro di escort per le star di Hollywood.

Avati fa vibrare le memorie di casa Sgarbi

“L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Adattando il memoir di Giuseppe Sgarbi, Pupi Avati si ricorda di Cesare Pavese, ma spariglia tra thanatos ed eros: lo scrittore si diede la morte, egli si dà all’amore, quello di Nino (Giuseppe) per Rina (Caterina). Invero, la morte non è elusa, bensì travalicata: Lei mi parla ancora, vuole il titolo, e quella lei, Rina, è defunta. Chi conosce il cinema di Avati sa quanto vi sia ricorrente, qui l’ossessione fantasmatica trova nuova manifestazione o – se preferite – mise en abyme, perché ghost non è solo l’amata compianta, ma il writer chiamato, da Elisabetta Sgarbi, a fissare i ricordi del padre: Giuseppe Cesaro, noto ai lettori del Fatto, nella realtà e nella finzione Amicangelo, che accetta l’incarico per soldi e per vedersi pubblicato il proprio romanzo. Traduzione: così lontani, Nino ancora avvinghiato a Rina, Amicangelo separato con figlia e riaccasato senza entusiasmi, memoria e Ram, autore e trascrittore si scoprono così vicini, si consustanziano, fino a spartire, forse, quel lei mi parla ancora.

Nemmeno Avati scrive, immagini e suoni, per mera committenza: il libro è di Sgarbi quanto il film è suo. Valenza metacinematografica compresa: come può il cinema elaborare il lutto, trasgredire la morte? Il ricordo, ossia l’assenza presente e la presenza assente, è la risposta: non sono flashback quelli che dedica ai giovani Nino e Rina, bensì ritorno al futuro, di più, il primato della sincronia sentimentale sulla diacronia biologica, dei frammenti di un dialogo amoroso sulla consecutio temporum. Sì, è un film pro vita, nell’accezione più sfacciata e elegante: demenza senile e immortalità giovanile si abbeverano allo stesso ricordo, la petite mort trasfigura il quadro.

Un guadagno poetico, persino ideologico, cui concorrono in misura determinante gli interpreti: bene dopo qualche impaccio iniziale Fabrizio Gifuni nelle vesti di Amicangelo, Stefania Sandrelli che è Rina, Nicola Nocella e Alessandro Haber, benissimo Chiara Caselli, che è Elisabetta Sgarbi, Isabella Ragonese, Rina giovane, e Lino Musella, Nino giovane. Se non tutto è all’altezza – troppi treni, qualche sciatteria, un tot di cinéma de papa, Serena Grandi e Gioele Dix inconsulti – tutto si fa perdonare, al cospetto di un attore cui sin d’ora assegniamo tutti i premi che verranno: Renato Pozzetto è un probo, irriducibile, generosissimo Nino. Ci fa credere in quel “lei mi parla ancora” con una prova misurata, intima, per sottrazione eppure totalizzante: gradito ritorno, limpida bravura. Sicché, tra statue, busti, Guercini, gli Sgarbi per tramite degli Avati – Pupi, il figlio sceneggiatore Tommaso e il fratello produttore Antonio – fanno di album di famiglia commedia umana. Umanissima.

L’8 febbraio in prima assoluta su Sky Cinema e in streaming su Now Tv: vedrete, parla a tutti.

Libere di essere donne. Nonne, zie, madri: ricordi

Donne fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse: nel paesaggio della mia infanzia, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne molte di donne così. E non ne trovo nemmeno del modello inferiore, meno raffinato, tutto stracci e olio di gomito, quelle che strofinano il lavello finché ci si può specchiare, capaci di preparare pranzi e cene con gli avanzi, e quelle che arrivano all’uscita di scuola un quarto d’ora prima della campanella, dopo aver già sbrigato tutte le faccende domestiche, perfettamente organizzate sempre e comunque, fino alla morte. Le donne della mia vita parlavano tutte a voce alta, avevano corpi trascurati, troppo grassi o troppo scialbi, dita ruvide, volti senza un filo di belletto o altrimenti truccati in modo esagerato, vistoso, con grandi chiazze rosse sulle guance e sulle labbra. Le loro competenze culinarie non si spingevano oltre il coniglio in umido e un colloso budino di riso, non sospettavano nemmeno che la polvere andasse tolta tutti i giorni, avevano lavorato o lavoravano nei campi, in fabbrica, nei negozietti aperti da mattina a sera. C’erano le vecchie, che andavamo a trovare la domenica pomeriggio, con i loro savoiardi e la fiaschetta di acquavite per correggere il caffè, il goccetto. Donne in nero, avvizzite, dalle gonne che sanno di burro dimenticato a irrancidire in dispensa, nulla a che vedere con le dolci nonnine del libro di lettura, i capelli candidi raccolti in una crocchia sulla nuca, che coccolavano i nipotini e raccontavano fiabe, quelle che si chiamano ave o antenate. Le mie, le prozie, mia nonna, non erano accomodanti, non amavano che gli si saltasse in braccio, non ci erano più abituate, un bacetto di saluto all’inizio e alla fine della visita era più che sufficiente, e dopo l’immancabile “quanto ti sei fatta grande” e “vedi di non andarmi male a scuola” non avevano più molto da dirmi, parlavano in patois con i miei genitori di quanto tutto costava tanto, dell’affitto e della superficie catastale, dei vicini, e ogni tanto mi guardavano e ridevano. (…)

Eppure mia nonna era arrivata prima nel suo distretto, all’esame delle elementari, e sarebbe potuta diventare maestra di scuola se la bisnonna non avesse detto mai e poi mai, è la maggiore, mi serve a casa per fare il suo nel tirar su gli altri cinque. Storia sentita mille volte, la spiegazione di un destino andato così. (…) Ciò che proprio non capivo era perché a sua volta ne avesse fatti sei, e senza l’ombra di un sussidio signora mia. Non bisognava essere una cima per capire da subito che i figli, le creature, come dicevano tutti, erano la vera scalogna, la catastrofe assoluta. Al tempo stesso atto irresponsabile, mancanza di gnegnero, e anche una roba da poveri. (…) La nonna si era fatta incastrare ma non gliene si poteva fare una colpa, un tempo era normale, sei, dieci figli, da allora ci si era evoluti. E le mie zie, i miei zii erano tutti talmente stufi di quelle famiglie numerose che non ho un cugino che non sia figlio unico. Come me, d’altronde, figlia unica, e per di più ravveduta, come si diceva di quella particolare specie di bambini frutto del ripensamento di genitori che non ne volevano, o non ne volevano altri. Prima e ultima, questo era certo. (…)

Non riesco a ricordare nemmeno una zia con i ferri da maglia in mano o pazientemente affaccendata ai fornelli. (…) Se ne fregavano della polvere, della confusione, anche se si profondevano in scuse di rito, “non badate al disordine” dicevano. Non erano fatte per stare in casa, erano donne da esterni, abituate da quando avevano dodici anni a stare nel mondo e a sgobbare come gli uomini, e non nel tessile, come ci si aspetterebbe, ma nella corderia, o nella fabbrica di scatolame. Mi piaceva restare ad ascoltarle, facevo domande, mi raccontavano della sirena, dell’obbligo di indossare la divisa, della caporeparto, e delle risate tutte insieme nella stessa grande sala, e a me pareva che andassero anche loro a scuola, ma senza compiti né punizioni. All’inizio, prima di cominciare ad ammirare le insegnanti, esseri superiori e terribili, prima di scoprire che stare a sorvegliare dei cetriolini mentre finivano nei loro vasetti di vetro non era un bel mestiere, pensavo sarebbe stato bello fare come loro.

Al di sopra delle immagini comunque episodiche di mia nonna e delle mie zie, si staglia quella della donna bianca la cui voce risuona in me, mi avvolge: mia madre. Come avrei potuto, vivendo accanto a lei, non essere persuasa della magnificenza della condizione femminile, o persino della superiorità delle donne sugli uomini? Mia madre è la forza e la tempesta, ma anche la bellezza, la curiosità per il mondo, l’apripista sulla strada verso il futuro, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno. Combatte contro tutti, i fornitori e i cattivi clienti del suo negozio, i canali di scolo ostruiti della nostra via e lorsignori che tenteranno sempre di schiacciarci. (…) La mattina, in classe, papà-va-al-lavoro, mamma-resta-a-casa, sbriga-le-faccende, prepara-un-pranzetto-coi-fiocchi, io farfuglio, ripeto insieme alle altre senza stare lì a questionare. Ancora non mi vergogno di non avere dei genitori normali.

© Éditions Gallimard, 1981
© L’orma editore, 2021