1971, l’ultima volta di Jackie Kennedy alla Casa Bianca

Jackie Kennedy tornò alla Casa Bianca solo un’ultima volta, a otto anni dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas, nel 1963. A rivelarlo, una serie di lettere di ringraziamento che scrisse all’allora presidente Richard Nixon, rese note ora dai media statunitensi.

La prima e unica visita dell’ex first lady al 1600 di Pennsylvania Avenue avvenne il 3 febbraio 1971, quando lei e i figli John John e Caroline entrarono nella residenza presidenziale in silenzio, per un incontro privato. Sino ad allora Jackie si era sempre rifiutata di tornare alla Casa Bianca perché i ricordi erano troppo dolorosi. Nixon e la moglie Pat l’avevano invitata per una piccola cerimonia in occasione della presentazione del ritratto di Jfk, ma lei aveva risposto che non se la sentiva. “Come sapete, il pensiero di tornare alla Casa Bianca è difficile per me, non ho il coraggio di partecipare a una cerimonia ufficiale e riportare i bambini nell’unica casa che entrambi ricordano con il padre, con la stampa e tutto il resto”, scrisse l’ex first lady in una lettera a Pat Nixon. Tuttavia, le propose una “soluzione alternativa”: “Io e i bambini potremmo venire con discrezione a Washington, e vedere il ritratto in privato”.

Nixon l’accontentò, assicurandosi che non venissero scattate foto. E dopo la visita Jackie scrisse alla first couple per ringraziarla. “Riuscite a immaginare il regalo che mi avete fatto?”, scrisse: “Tornare alla Casa Bianca in privato con i miei bimbi, quando sono ancora abbastanza piccoli per riscoprire la loro infanzia, con voi due come guide e con le vostre figlie, giovani donne così straordinarie”.

“Ho adorato le foto degli indiani e di tutti i presidenti. Mi piacciono molto anche le vecchie pistole”, scrisse da parte sua John John. Mentre la sorella Caroline aggiunse: “I ritratti erano appesi così bene… Tutto era perfetto e tutti erano così gentili”.

Segretaria nel lager: “Fu complice”

Forse non se l’aspettava più Irmgard F., pensionata 95enne residente in una casa di cura nel distretto di Pinneberg vicino ad Amburgo. Ieri invece la Procura di Itzehoe ha reso noto l’accusa contro di lei: concorso in omicidio per la morte di oltre 10 mila persone nel campo di concentramento nazista di Stutthof, vicino Danzica, tra il 1943 e il 1945 e “tentato omicidio” per gli altri prigionieri del campo.

A quel tempo Irmgard lavorava come segretaria e dattilografa per il comandante di campo Paul Werner Hoppe e in quel ruolo avrebbe “aiutato i responsabili del campo nell’uccisione sistematica di prigionieri ebrei, partigiani polacchi e prigionieri di guerra sovietici russi”, recita il comunicato stampa della Procura. “L’inchiesta a suo carico è iniziata nel 2016, ed è stata lunga, perché in questi casi si tratta di indagini particolarmente complesse” ha spiegato il procuratore generale di Itzehoe Peter Müller Rakow all’Ansa. “Sono stati ascoltati testimoni in Usa, in Israele. Inoltre abbiamo dato incarico ad uno storico per le necessarie ricostruzioni”, ha aggiunto il procuratore.

A un giornalista dell’emittente Ndr la pensionata ha detto di aver saputo dello sterminio nel campo di concentramento solo dopo la fine della guerra. Visto che all’epoca dei fatti l’ex segretaria aveva 18-20 anni il suo caso sarà affidato al tribunale dei minori di Itzehoe e verrà giudicata secondo il diritto penale minorile. Ma il tribunale deve ancora esaminare le prove per poi decidere se procedere con le accuse e con il processo. Secondo un pezzo dell’emittente Ard dell’anno scorso, la donna ora accusata, era già stata interrogata più volte come testimone. Nel 1954, aveva dichiarato che tutta la corrispondenza con l’ufficio economico-amministrativo delle SS era passata sulla sua scrivania, peggiorando dunque la sua situazione.

Ciò che si sa è che il suo caso non è isolato e che nel 2019 erano ancora 25 i processi aperti nei confronti di criminali nazisti. Ma negli ultimi anni, la Germania sta estendendo processi e conseguenti condanne anche alle guardie del campo e ai collaboratori con l’accusa di complicità nell’omicidio, come nel caso di Irmgard. Lo scorso luglio la corte di Amburgo ha condannato il 93enne Bruno Dey, guardia delle SS che aveva il compito di vigilanza nello stesso campo di Stutthof. Anche Dey, all’epoca dei fatti 17enne, era stato giudicato con il rito che si applica ai minori. L’uomo era stato condannato a una pena, poi sospesa, di due anni per concorso in omicidio per la morte di 5.232 persone nel campo di concentramento nazista nei pressi di Danzica.

Caso Navalny: il Cremlino gioca duro, via tre diplomatici

Al Cremlino c’è una nuova lista nera di personae non gratae: per aver compiuto “azioni inaccettabili per il loro status” e aver preso parte alle manifestazioni non autorizzate del 23 gennaio – in solidarietà con l’oppositore Aleksey Navalny – i diplomatici di Svezia, Polonia e Germania verranno espulsi dalla Federazione russa. Immediate le dure repliche di Parigi e Berlino. Critiche verso Mosca sono arrivate dal presidente Macron e dalla cancelliera Merkel, il cui ministro degli Esteri Heiko Maas ha promesso: “I russi non rimarranno senza risposta”. Lo scontro diplomatico si è acuito mentre Josep Borrell, Alto rappresentate della politica estera Ue, veniva accolto ieri a Mosca al dicastero del ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Il rapporto tra Mosca e Bruxelles “era più facile 20 anni fa”, oggi “le relazioni russe ed europee hanno raggiunto un nuovo livello di bassezza” per l’avvelenamento e l’arresto di Navalny, siamo ad “un punto critico”, “rispettiamo la sovranità russa, ma i diritti umani sono centrali per un futuro comune” ha detto Borrell, a cui Lavrov ha reeplicato: “La Russia procede per la sua strada, l’Europa è un partner inaffidabile, almeno in questa fase”, la posizione che l’Ue mantiene sul caso Navalny “è ridicola”.

Mentre a Mosca si dibatteva di stato di diritto e numero di dosi di vaccino Sputnik che risolleverebbero l’Europa in affanno, nella lontana Siberia è morto improvvisamente d’infarto Sergey Maksimishin, il medico russo che salvò la vita a Navalny nell’ospedale di Omsk. Nel resto del Paese invece un nuovo record di arresti: nelle celle russe ci sono adesso 11mila fedelissimi dell’oppositore, nonostante il Fondo Anti-corruzione fondato dal blogger abbia detto ufficialmente stop alle proteste per mancanza di fondi da destinare alla difesa dei fermati. L’odissea legale di Navalny non è finita: l’oppositore è tornato ieri in tribunale: l’accusa è di aver diffamato alcuni veterani della Seconda guerra mondiale che parteciparono a un corteo pro Putin. L’udienza è stata aggiornata al 12 febbraio.

Vince il clan di Misurata: Dbeibah nuovo premier

Un potente imprenditore di Misurata e l’ex ambasciatore in Grecia. Abdul Hamid Dbeibah e Mohammad Menfi sono stati eletti rispettivamente premier della Libia e capo del Consiglio presidenziale fino alle elezioni del 24 dicembre. A votare “la lista numero tre” sono stati i grandi elettori riuniti a Ginevra al Forum di dialogo libico sotto gli auspici della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), con 39 preferenze, sconfiggendo al secondo turno la lista di Aquila Saleh e Fatih Bashagha, data per vincente.

Dbeibah, ingegnere, 62 anni, che ha ricevuto il sostegno delle tribù della Tripolitania, contrarie all’elezioni di Saleh, è amministratore delegato di Libyan investment and development company. Presidente e fondatore della corrente “Libia del futuro”, il neo premier ha ottenuto un master in ingegneria all’Università di Toronto, pur negando di avere il passaporto canadese. Secondo i media della Cirenaica, Dbeibah godrebbe dell’appoggio della Turchia e di lui si sa che ha lavorato con uno dei figli di Gheddafi, Saif al Islam, nel 2007, proprio dopo il master in Canada. “È solo questo il mio legame con l’ex regime”, ha fatto sapere Dbeibah in un’intervista del 2018 in cui si presentava come “alternativa” al premier Fayez al Sarraj e al generale Khalifa Haftar. Controverso e al centro di polemiche dopo che su Twitter l’esperto di Libia Mohamed Eljar aveva denunciato che Ali Ibrahim Dbeibeh avesse offerto 200 mila dollari a due delegati del Foro del dialogo di Tunisi a novembre scorso in cambio di voti in suo favore, lui stesso si era definito contrario a questa procedura di elezione, “gestita da persone che non conoscono la realtà libica”. “Vogliamo la democrazia e non un ritorno all’era della dittatura”, era lo slogan del delfino del clan di Misurata nel 2018. Ora spetterà proprio a lui traghettare il Paese alle elezioni. Al suo fianco, alla guida del Consiglio presidenziale ci sarà Mohammad Younes Menfi, ex ambasciatore in Grecia, originario di Tobruk e già membro del Congresso nazionale libico. Menfi ha interrotto l’incarico diplomatico ad Atene su suggerimento del presidente del Parlamento di Tobruk, Aquilla Saleh, dopo l’accordo del governo di Tripoli con quello di Ankara sulla delimitazione dei confini marittimi. L’obiettivo sarebbe stato mettere in difficoltà il premier Serraj. “L’importanza delle decisioni che avrete preso oggi crescerà col passare del tempo nella memoria collettiva del popolo libico. Questo processo è il vostro processo”, ha dichiarato soddisfatta Stephanie Williams, Segretario generale per dell’Onu per la Libia. “Un risultato deludente con molte incognite che lasciano intravedere una strada tutta in salita per il governo provvisorio”, è invece l’analisi che Arturo Varvelli, direttore dell’European council on foreign relations (Ecfr) di Roma ed esperto di Libia. “I veti incrociati hanno avuto la meglio sui due uomini forti come Saleh e Basghaha, quest’ultimo in buone relazioni con l’Italia” secondo Varvelli. Le perplessità di Williams invece nei giorni scorsi hanno riguardato la presenza di 20 mila combattenti stranieri in Libia. Mercenari distribuiti in dieci basi militari, contrariamente a quanto stabilito dall’accordo tra le parti. E altri in arrivo. Secondo il Libya Observer, infatti, due aerei dell’aviazione russa sono stati individuati nel cielo libico martedì, due Tupolev provenienti da Mosca con scalo in Siria con destinazione Libia orientale. E sarebbero 22 i voli della compagnia privata siriana Cham Wings, individuati da ottobre sulla rotta Siria-Bengasi o Marj, in Libia orientale. A bordo, mercenari per Haftar. Questo mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto di far arrivare in Libia un team per monitorare il rispetto del cessate il fuoco concordato.

L’accusa a Erdogan: gli uiguri alla Cina in cambio del vaccino

Durante i suoi 18 anni al vertice della Turchia, l’ex premier e attuale presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, ha progressivamente cambiato tono e attenzione nei confronti della comunità turcofona uigura che vive nella regione, ufficialmente autonoma, dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. Si tratta della più ingente – circa 25 milioni di persone – minoranza inglobata dalla Cina alla fine della Seconda guerra mondiale. È ormai noto che gli uiguri, di religione musulmana, sono perseguitati da decenni per ordine di Pechino non solo a causa della religione (tutte le religioni sono bandite nel regno del Dragone) ma per le ricchezze naturali conservate dalla terra su cui vivono da secoli. Sfruttare i suoi minerali rari e i suoi fiumi è imperativo per le necessità energetiche e tecnologiche della Cina contemporanea. Chi scrive, nel 2001 documentò la repressione brutale fino alla schiavitù in campi di concentramento contro questa popolazione di origine turca e fedele alla corrente più moderata e pacifica dell’islam.

Più volte nel passato Erdogan aveva tuonato contro le autorità cinesi per il trattamento riservato agli uiguri, ma, con il costante affermarsi sullo scacchiere geopolitico di quella che sarà a breve la super potenza mondiale, il Sultano ha decisamente, per usare un eufemismo, invertito la rotta. Abdullah Metseydi, un uiguro fuggito in Turchia con la moglie e tante altre corregionali terrorizzate per gli stupri etnici e le sterilizzazioni forzate, qualche sera fa ha visto una squadra della polizia antisommossa fare irruzione nella propria abitazione. Senza nemmeno lasciarlo uscire dal letto, quello che sembrava il capo ha iniziato a interrogarlo tenendo il fucile d’assalto puntato. Tutte le domande riguardavano il suo rapporto con l’ex “madre patria”: “Hai fatto parte di movimenti contro la Cina? Devi dire la verità altrimenti deporteremo te e tua moglie”. Subito dopo Metseydi è stato portato in una struttura di espulsione, dove ancora si trova essendo finito al centro di una controversia politica che sta montando di ora in ora. I deputati dell’opposizione accusano Erdogan di vendere segretamente gli uiguri alla Cina in cambio di vaccini contro il coronavirus. La campagna vaccinale nella Turchia sofferente per la grave crisi economica e finanziaria, è iniziata un mese fa proprio grazie ai vaccini cinesi, non potendosi Ankara permettersi quelli americani dal costo troppo elevato. Ora però la campagna vaccinale ha subìto di fatto uno stop: le decine di milioni di fiale promesse dalla Cina, già pagate da Ankara, non sono state consegnate e non si sa quando potrebbero arrivare. A sentire gli avvocati turchi, negli ultimi mesi la polizia ha fatto irruzione e detenuto circa 50 uiguri nei centri di espulsione. Un forte aumento rispetto allo scorso anno. Sebbene non siano ancora emerse prove concrete di questo scambio, impari, i legislatori e gli uiguri temono che Pechino stia usando i vaccini come leva per ottenere l’approvazione del trattato di estradizione tra Turchia e Cina. Il trattato è stato firmato anni fa, ma è stato ratificato improvvisamente dalla Cina lo scorso dicembre e potrebbe essere presentato ai legislatori turchi già questo mese. Gli uiguri dicono che il disegno di legge, una volta entrato in vigore, potrebbe far diventare reale il loro incubo: la deportazione in un paese da cui sono fuggiti per evitare la detenzione di massa in seguito all’accusa di terrorismo. Pechino ha più volte accusato gli uiguri di essersi uniti ai jihadisti del confinante Afghanistan. I sospetti di un accordo tra Erdogan e il leader Xi sono emersi quando la prima spedizione di vaccini cinesi è stata sospesa per settimane a dicembre. I funzionari hanno bofonchiato di problemi intervenuti in fase di autorizzazione.

Ma anche adesso, Yildirim Kaya, un legislatore del principale partito di opposizione turco, il repubblicano Chp, ha affermato che la Cina ha consegnato solo un terzo delle 30 milioni di dosi calendarizzate per la fine di gennaio. “Un tale ritardo non è normale. Abbiamo pagato per questi vaccini… La Cina sta forse ricattando la Turchia?”, iflette il deputato del Chp. Le recenti parole dell’ambasciatore turco a Pechino che elogiano i vaccini cinesi e la cooperazione giudiziaria con la Cina, hanno messo del tutto fine alla serenità degli uiguri fuggiti in Turchia nel corso dell’era Erdogan, quel Sultano che ha fatto dell’Islam la propria arma di ricatto, ma solo nei confronti della debole Europa.

Contratti, altro schiaffo a Bonomi: alle tute blu un aumento di 112 euro

È crollata poco dopo le 19 di ieri l’ultima difesa della linea di Carlo Bonomi, presidente della Confindustria, sui contratti di lavoro. Perché in quel momento, proprio nella sede di Viale dell’Astronomia, è stato firmato il rinnovo per i metalmeccanici: 100 euro di aumento per chi è al terzo livello, 112 euro per chi è al quinto. La cifra piena arriverà nel 2024, al termine di una graduale crescita che sarà scaglionata anno dopo anno e va ben al di là dei 40 euro che la Federmeccanica offriva quattro mesi fa, a ottobre, seguendo la volontà confindustriale, ossia quella di non concedere incrementi in busta paga se non quelli legati all’inflazione prevista (molto poco).

La partita più dura di questa stagione di rinnovi è stata quindi portata a casa, dopo quattro giorni di trattative e mesi di scontri. Il negoziato di questo contratto, scaduto a dicembre 2019, è iniziato più di un anno fa. I lavoratori coinvolti sono circa 1,4 milioni, molti dei quali definiti “essenziali” durante il lockdown di marzo e aprile e costretti quindi al sacrificio di restare sulla linea di montaggio mentre buona parte del Paese era chiuso in casa. La piattaforma di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm – redatta prima della pandemia – si basava su una richiesta di aumenti dell’8% sui minimi, circa 156 euro mensili. L’arrivo del Covid ha rallentato le trattative e, soprattutto, le ha rese più complicate. Anche perché, nel frattempo, è stato eletto alla guida della Confindustria Carlo Bonomi, che ha subito mandato un diktat a tutte le federazioni: i rinnovi non devono toccare i salari minimi, le retribuzioni possono crescere solo attraverso i premi nelle aziende che producono buoni risultati. Questa politica è stata, in una prima fase, condivisa del tutto dalla Federmeccanica, che infatti si è presentata al tavolo partito i primi di ottobre con pochi spiccioli nel sacco. La proposta prevedeva una quarantina di euro che gli operai e gli impiegati dell’industria avrebbero visto alla fine del triennio, sempre al termine di aumenti graduali. Tanto è bastato per far saltare tutto e spingere i sindacati allo sciopero. Lo stallo è poi durato un mese, fino a quando a novembre la Federmeccanica ha provato a ricucire con una nuova offerta: 65 euro. Ancora insufficiente per le sigle, ma pur sempre una base per tornare a discuterne e soprattutto il primo chiaro scricchiolio della linea Bonomi. Già dalla riapertura di questo martedì 2 febbraio si respirava molto ottimismo. Il tema del salario è stato tenuto per ultimo, prima sono stati affrontati gli altri tra i quali l’inquadramento, rinnovato dopo essere stato fermo per decenni.

Quello di ieri è il secondo contratto unitario firmato, dopo quello del 2016 che per la prima volta ha incassato la firma della Fiom di Maurizio Landini. Secondo l’attuale leader delle tute blu Cgil, Francesca Re David, il testo “non solo dà ai lavoratori il doppio dell’inflazione, ma introduce anche importanti novità sul piano normativo”. Secondo Rocco Palombella, segretario Uilm, “i metalmeccanici fanno la storia rinnovando il miglior contratto degli ultimi anni, in un periodo di emergenza sanitaria, economica e sociale senza precedenti”.

Colosseo, affare da 600 mln. Ma i privati battono lo Stato

Si chiuderà l’11 marzo la gara per assegnare la concessione dei servizi museali del Colosseo, area che comprende Anfiteatro, Foro Romano-Palatino e Domus Aurea: un evento raro, visto che tra un problema e un altro, non se ne vedeva una dal 1996, 25 anni fa. Bandita da Consip, quella di oggi ha un valore di 593 milioni ed è suddivisa in due lotti: da una parte biglietteria, informazioni, accoglienza e assistenza alla visita (564 milioni), dall’altra servizi di editoria, merchandising e oggettistica (29 milioni). Era stata bandita nel 2016 ma dopo ricorsi al Tar, otto rettifiche e due sospensioni, si è arrivati alla conclusione, si spera, il mese prossimo. A beneficiare di questi decenni senza gare e anche della quinquennale durata della gara attuale, sono i concessionari: Coopculture per accoglienza, biglietteria e visite e Mondadori Electa per l’editoria, mostre e merchandising. Il motivo è presto detto.

Nel 1998 il Colosseo contava meno di 3 milioni di visitatori, con introiti per la biglietteria pari a circa 11 milioni di euro, mentre nel 2018 aveva superato i 7,5 milioni di visitatori con 75 milioni di euro di introiti: se però in base agli accordi del secolo scorso, la quota che spetta allo Stato sui biglietti è di circa l’80%, è invece molto più bassa per tutti gli altri servizi esternalizzati, arrivando a zero per audioguide, prevendite e visite guidate (più di 14 milioni di euro, nel 2019). Percentuali simili, nel sistema culturale italiano, caratterizzano tutti i grandi musei. Nella nuova concessione del Colosseo, di durata quinquennale, queste quote saranno riviste al rialzo: si parte da una base di royalties del 22% per chi si candida, ma a vincere sarà l’offerta che garantisce più entrate allo Stato. Si può però immaginare che il concessionario sarà ben tutelato: l’oligopolio di aziende che gestisce le biglietterie per i maggiori musei italiani, le uniche che possono candidarsi per i servizi del Colosseo (700 mila biglietti annui venduti per un solo committente sono requisito per partecipare alla gara) ha un vantaggio comune nel tenere basse le royalties statali.

Sono problemi ben noti agli operatori del settore, aggravatisi con il lockdown e il crollo del turismo, quando i concessionari e il Ministero dei Beni culturali, al Colosseo come altrove, invece di restituire i fondi per i biglietti acquistati e non più utilizzabili ripagarono in voucher. Salvatore Donghi, presidente della Federazione Italiana Tour Operator Promotori Arte e Cultura (Fitopac) e del comitato tour operators di Roma, parla di 15 milioni di euro di biglietti comprati e inutilizzati che le sole agenzie di Roma attendono da Coopculture. Il comitato ha scavato a fondo: “Abbiamo riscontrato che Coopculture è a tutti gli effetti accreditata come Tour Operator-Agenzia di Viaggio. La titolare della licenza è la presidente di Coopculture, Giovanna Barni, che da concessionario di un servizio pubblico è anche a capo di una impresa privata operante nello stesso settore. Coopculture così acquista in autonomia (da sé stessa) biglietti di accesso al Colosseo con una riduzione equivalente alla sua commissione, oltre a 2 euro per diritti di prenotazione”. Non solo, secondo Donghi “Coopculture prenota per se stessa direttamente, senza rischio di impresa in caso di invenduto, il numero di biglietti giornalieri che vuole, per qualunque slot di orario di ingresso al Colosseo. Su alcuni servizi specifici, come Sotterranei e Belvedere, quasi tutti i biglietti sono riservati alle visite a cura di CoopCulture, che può non mettere in vendita dei biglietti per averne essa la disponibilità, o per riservarla a altri suoi clienti. Ed è questo che le consente, in assenza di trasparenza sulla disponibilità di biglietteria, predominio assoluto”. Coopculture replica che l’80% dei biglietti è venduto online e di aver sempre agito “per una piattaforma di vendita che in modo trasparente mette tutti i biglietti a disposizione nel rispetto della gradualità dei rilasci onde evitare accaparramenti. Oggi, dati i numeri, non si rendono pertanto necessarie azioni di contenimento dell’ingente volume del pre-acquisto dei biglietti”.

CoopCulture, società cooperativa, ha sede a Mestre (Venezia) e un fatturato di 76 milioni (2019). Quasi vent’anni in regime di proroga al Colosseo hanno ben contribuito alla crescita. L’ultimo documento che parla di proroga risale peraltro al 2010, la concessione del 1996 non permetteva a CoopCulture di vendere visite guidate, in realtà tenutesi abitualmente negli ultimi anni. Malfunzionamenti di un sistema in cui il Colosseo non è caso isolato (Opera Laboratori Fiorentini, ad esempio, a Pompei gestisce la biglietteria in proroga dal 2004) e che la pandemia, e il collasso del turismo, suggerisce di cambiare: “Impoverisce il territorio, esternalizza a concessionari che, beneficiando di servizi pubblici, allo stesso tempo impediscono alle aziende e al territorio di crescere” conclude Donghi. Ma il nuovo bando non sembra inficiarlo: “Includendo le visite guidate e prevedendo l’acquisto solo di biglietti nominali” necessario per combattere il bagarinaggio “finirà per avvantaggiare ulteriormente il concessionario che può, unico sul mercato, prenotare senza acquistare”.

I partiti dei “singoli” finiscono per essere causa del disastro

Le disavventure della vita pubblica italiana, la mancanza di sincerità e di chiarezza (concretazione massima ed esponente: il giolittismo) sono frutto di una tragica contraddizione e di una disastrosa eterogeneità di metodi e di uomini, di principî e di conseguenze. Per risolvere la contraddizione bisognerà liquidare i sistemi non più rispondenti a realtà, in modo che i due termini ora contrastanti si armonizzino in uno sviluppo logicamente completo e coerente.

Gli schemi in cui si svolge la vita politica nostra (i partiti) non consentono agli uomini sufficiente vitalità. Gli uomini cercano nella vita pratica realtà ideali concrete che comprendano (pur senza fermarvisi) i loro bisogni e le loro esigenze. Oggi i partiti si sono limitati a formule vaste e imprecise, da cui nulla si può logicamente e chiaramente dedurre. Rappresentano, si dice, gli interessi dei singoli, ma badiamo che a procedere nettamente questo rappresentare interessi di singoli porta non solo all’egoismo (che di per sé non sarebbe un male tanto terribile), ma addirittura fuori della politica, che è organizzazione. Si riduce – e va annullandosi – la possibilità di azione comune, la quale può nascere solo dal coesistere, accanto agli interessi, delle ragioni ideali, teoriche, ed esse poi concretate, cioè diventate questioni politiche. Nella vita attuale dei partiti, invece, di concreto c’è solo un circolo pernicioso per cui gli uomini rovinano i partiti, e i partiti non aiutano il progresso degli uomini. Perché i partiti rappresentano un passato, sono storia che si tenta di ripensare non concreta attualità. (…) La risultante sola è il disastro. Perché la vita dello Stato è vita solo in quanto è concretazione dell’attività di tutti i cittadini coscienti e operosi. Fuori si perde la direzione del progresso e c’è solo deviazione. E sulla deviazione si incontrano i viottoli da tutte le parti. L’anarchico, che nega l’organizzazione, il borghese vecchio stile, che vede lo Stato nell’impiegato delle imposte, il socialista, che negata la nazione per una realtà più ampia ritiene di concreto solo più la sua realtà individuale, tutti costoro li vedete fissi ed intenti alla minuscola personalità. A preoccupazioni che non sono politiche. Il rimedio verrà da un sano ripensamento di idee, da un processo ansioso e accurato di chiarificazione di principî, da una perfetta coscienza delle relazioni che vi sono tra le necessità della vita e i principî ideali che le trascendono.

Gobetti e la battaglia liberale contro tutti gli “indifferenti”

“Ognuno bada agli affari propri e tira avanti. La risultante sola è il disastro. Perché la vita dello Stato è vita solo in quanto è concretazione dell’attività di tutti i cittadini coscienti ed operosi”.

Così scriveva Piero Gobetti (Torino, 1901 – Parigi, 1926) in un passo del saggio La nostra fede. E, qualche riga dopo, aggiungeva: “Con questa passione profonda – che non diventa abitudine, e neppure azione inconsulta, ma resta normalità intensa, conquista progressiva e non intermittente o frammentaria – non si concilia la freddezza e la indifferenza che pervade ed irrigidisce la vita d’oggi. (…) Tutta la vita moderna è estenuata da questa spaventosa anemia. Ma noi ci ribelliamo. Riportiamo a questo punto la distinzione tra moralità e immoralità. Non può essere morale chi è indifferente”.

Di evidente attualità nonostante abbia più di un secolo, il testo fu pubblicato il 5 maggio 1919 in Energie Nove, la prima rivista fondata dal futuro autore di La rivoluzione liberale. Gobetti non aveva ancora compiuto diciotto anni. La sua “prodigiosa giovinezza”, come dirà Norberto Bobbio, sarebbe stata presto stroncata nell’esilio di Parigi, anche in seguito alle botte ricevute dagli squadristi fascisti. Era stato Mussolini, in un dispaccio al prefetto di Torino, a ordinare di rendere “difficile la vita di questo insulso oppositore di governo e fascismo”.

L’articolo di Energie Nove, finora mai pubblicato in una edizione libraria autonoma, esce in un volumetto di Aras Edizioni (La nostra fede, pagg. 64, euro 10), curato da Giorgio Fontana e per iniziativa del Centro Studi Piero Gobetti di Torino. Si vuole in tal modo ricordare il sessantesimo anniversario della fondazione del Centro studi, ospitato nelle casa che fu di Piero e della moglie Ada Prospero (di cui scrive Pietro Polito nel libro), avvenuta il 16 marzo del 1961. La ricorrenza coincide poi con i 120 anni della nascita di Gobetti.

Perché ancora Gobetti, a quasi cento anni dalla morte? E, soprattutto, perché oggi? Una risposta l’aveva data Bobbio nel 1986, asserendo che “l’interesse per il giovane ideatore e propugnatore di una immaginaria rivoluzione italiana, che non è stata in nessun luogo e non sarà in nessun tempo, non si è affievolito”. Non è caduto perché restano ancora, irrisolti o dimenticati nello squallore della politica dei nostri giorni, i problemi posti dal giovane intellettuale torinese. E rimangono la sua lezione etica, il richiamo a una lotta politica fatta da ideali e concretezza, la denuncia della immoralità dell’indifferenza. Una denuncia, peraltro, che Antonio Gramsci (1891-1937), anche lui dalla prodigiosa giovinezza, che con Gobetti intrecciò un rapporto fecondo, nel febbraio del 1917, su La città futura, aveva espresso nell’ormai famoso Odio gli indifferenti.

Scrive opportunamente Fontana nell’introduzione del libro: “Più di cento anni ci separano da La nostra fede, eppure molti dei problemi che affronta non sono invecchiati: segno di un ‘giolittismo’ perenne, di un’incapacità tutta italiana di divenire realmente moderni? Inutile cercare una risposta, meglio concentrarsi sul fatto compiuto: perché se c’è un’ovvietà – ma ahimé quanto vera – riguardo la politica odierna è la sua assenza di lungimiranza, il suo spregio per il lavoro lento e paziente”. E prosegue: “La crisi aperta dalla pandemia (e ancor prima dal riscaldamento globale) l’ha certificato: soluzioni miopi, incapacità di gestire fino in fondo scelte impegnative, più in generale un deficit di coraggio e concretezza insieme. E dall’altro lato una parte di cittadinanza per cui il contratto politico si esaurisce nel gesto della lamentela, o quando capita del voto”.

A chi volesse adesso dare un senso nobile alla politica, poi, è sempre Gobetti a consegnare un programma di azione liberale. Quando scrive: “Ma mentre distruggiamo un mondo di pregiudizi e di deficienze costruiamo con ardore e pazienza il mondo della concretezza. Sostituiamo agli ultimi resti della verità rivelata la verità che si conquista giorno per giorno col lavoro di ciascuno. Alle astrazioni generiche l’esame accurato, senza preconcetti del piccolo e del grande problema che sorge. Soltanto con questo trovare le soluzioni e sistemarle si fa della politica”.

L’esposto del “Controsservatorio” sul Tav: “Atti viziati alla base delle autorizzazioni”

Un esposto alla Procura di Roma, perché valuti eventuali reati (truffa e truffa ai danni dello Stato) compiuti dai promotori del Tav Torino-Lione. A depositarlo presso il palazzo di giustizia della capitale sono presidente (Ezio Bertok), vicepresidente (Alessandra Algostino) e sei componenti del consiglio direttivo del Controsservatorio Valsusa, tra cui l’ex magistrato Livio Pepino.

Chiedono che siano valutati gli “artifici e raggiri” posti in essere dai promotori della linea ferroviaria per ottenerne l’approvazione e il finanziamento. Ritengono infatti che gli atti amministrativi alla base del progetto “siano stati influenzati e viziati da forzature, attestazioni imprecise e giudizi tecnici inattendibili realizzati e prodotti dai proponenti dell’opera” e cioè i responsabili delle società Ltf – Lyon Turin Ferroviaire e Telt – Tunnel Euralpin Lyon Turin e dai vertici dell’Osservatorio Torino-Lione e dai loro consulenti. Con “artifici, particolarmente insidiosi per la natura pubblica degli organismi da cui provenivano, si è rappresentata una situazione di fatto diversa da quella reale, idonea a indurre in errore sui vantaggi dell’opera le istituzioni competenti” che l’hanno poi finanziata.

Ad affermarlo non sono fonti No Tav, ma la relazione Crozet della Corte dei conti europea: “La galleria Lione-Torino è un tipico esempio di manipolazione del calcolo economico in cui, oltre alla sopravvalutazione del traffico, vi sono valutazioni fantasiose dei guadagni in termini di emissioni di Co2”: così scrive, per la Corte dei conti europea, il professor Yves Crozet dell’Università Lione 2. “I promotori di grandi progetti infrastrutturali devono produrre dati per convincere i responsabili delle decisioni e i finanziatori. (…) Essi tendono a gonfiare le previsioni di traffico da un lato e a sottovalutare i costi di attuazione dall’altro”, perché “il finanziatore pubblico deve essere convinto che è nell’interesse della comunità finanziare l’operazione”.

Secondo le previsioni dei promotori del progetto, nel 2035 il traffico merci su rotaia supererà i 41 milioni di tonnellate all’anno: quasi 14 volte il traffico attuale. “Come si possono prendere sul serio tali dati”, si chiede il professor Crozet, “se si basano su uno scenario di riferimento non realistico?”. E “come potremo fare tre volte meglio del trend degli ultimi 30 anni?”. E ancora: “Quale bacchetta magica potrebbe essere usata per raggiungere” l’obiettivo di un aumento del traffico ferroviario fino ai 28 milioni di tonnellate, quasi 10 volte il traffico attuale, “quando, tra il 2000 e il 2016, il traffico merci ferroviario in Francia è diminuito del 40 per cento?”.

Ora la parola passa ai pm della Procura di Roma.