Sanremo passa il turno. Approvato il piano anti-virus

Habemus festival. Dopo giorni convulsi, tra voci di rinvio e timori di annullamento, finalmente il Cts ha dato il via libera. Il protocollo spedito dalla Rai agli esperti (in realtà un dossier ampiamente discusso fra le parti in una serie di consultazioni interlocutorie) diventa un imprimatur sulle date: Sanremo confermato dal 2 al 6 marzo nella bolla dell’Ariston svuotato di pubblico pagante o pagato (ma accessibile ai fotografi in piccionaia e ai giornalisti durante le prove), con il teatro-studio tv inchiavardato in una “zona rossa” invalicabile e il Comitato a raccomandare la massima attenzione per evitare assembramenti e “rischi esterni” di sorta.

Nel cospicuo scartafaccio di ben 75 pagine predisposto dagli uomini della tv pubblica si scende in dettaglio sulle misure di sicurezza: dal distanziamento tra gli orchestrali, che disporranno di una bacinella per sanificare gli strumenti, al divieto di baci e abbracci fra gli artisti, fino alle navette oscurate anti-fan e al carrellino per portare i fiori o i premi.

Esultano i diretti interessati: il sindaco Biancheri esprime giubilo per la chiusura di “dieci giorni difficili” e per l’arrivo nelle casse dei 5 milioni dovuti dalla Rai, vincolata alla convenzione con il Comune, al mondo della discografia che vede rispettati i piani strategici primaverili, fino al sospiro di sollievo “ufficiale” udito ai piani alti di Viale Mazzini, con in testa Salini, Coletta e ovviamente Amadeus. Ora c’è solo da rimboccarsi le maniche: la scenografia ultra-tech di Gaetano Castelli è già ultimata, e pure il golfo mistico avanzato fino a metà del parterre. C’è da lavorare sulle idee, in vista di una maratona davanti al piccolo schermo: 26 canzoni, 300 minuti di diretta, si va a nanna alle due.

Ma il mondo della cultura “alta” difficilmente sarà ignorato: c’è quell’ipotesi, evidenziata nei giorni scorsi dal Fatto, di un’alleanza virtuosa fra Sanremo e i templi di lirica e prosa. Idea fissata da tempo sui taccuini della direzione artistica, con cinque possibili collegamenti con altrettanti teatri di rilevanza nazionale. Una simbolica riapertura in parallelo, dopo quello che era parso uno scontro frontale fra il Festival pop dei “privilegiati” e le misure da cappio al collo per la filiera teatrale italiana. “In realtà non c’è mai stata una guerra”, commenta Davide Livermore, direttore del Nazionale di Genova. “Quando ho detto che se ci fosse stato pubblico all’Ariston noi avremmo alzato il sipario con Shakespeare sono stato strumentalizzato. Lungi da me l’intenzione di creare polemiche contro Amadeus, che saprà rendere meraviglioso il suo spettacolo. Mancheremmo di rispetto ai milioni di italiani che si appassionano alle canzoni se fossimo percepiti come i soliti snob con la puzza sotto il naso. Anzi, in un periodo così complesso, i veleni devono diventare medicina”. E occasione di dialogo: l’evento scaligero del 7 dicembre scorso, curato da Livermore, è stato un tourbillon di voci, immagini, trovate tecnologiche, omaggi alla tradizione lirica, cinematografica e del costume italiano. “Per la prima volta abbiamo usato la realtà aumentata in tv. Alle cinque del pomeriggio abbiamo totalizzato tre milioni di telespettatori: più del doppio di X-Factor. La pedanteria non ci appartiene: ma è il luogo comune con cui la cultura, che è uno dei volani di questo Paese, è stata presa alla gola con tagli finanziari inaccettabili. Ogni euro investito dai teatri pubblici ne fa tornare sei nelle tasche della collettività. È un tesoro che da 25 anni viene sperperato dalla politica, un bene comune decisivo per far girare l’economia italiana. Nessuno lo dice, ma prima della pandemia gli abbonati alla lirica e alla prosa erano più di quelli della Serie A”. Come raccontarlo, nelle ipertrofiche serate sanremesi? “Puntando sulla narrazione pop. I turisti arrivavano qui da tutto il mondo non solo per ascoltare le opere, ma anche per conoscere le storie dei teatri, edifici ricchi di vicende e aneddoti: pensiamo al San Carlo di Napoli, inaugurato nel 1737. A uno storico che sa divulgare in modo appassionante come Barbero. Pensiamo anche a quanti cantanti d’opera saprebbero omaggiare le canzoni di Sanremo, o il repertorio popolare nazionale. Bastano una chitarra e un tenore che intoni Core ’ngrato, no?”.

Teatri-memoria, per una militanza artistica e civile in questi tempi oscuri. A Genova, due giorni fa, è stato inaugurato uno spettacolo-mostra curato da Livermore sull’Edipo Re di Sofocle: “Con attori dentro teche di cristallo che recitano brani sulla peste che colpisce Tebe. Il coro finale ci parla di noi: ‘Se i tiranni non sono puniti dal cielo, se la tracotanza non viene punita dagli dei, perché continuiamo a fare teatro?’. Una domanda che rimbalza oggi: nessun artista è portatore di verità, non pontifichiamo, ma dobbiamo andare avanti. Tornando a vivere e a recitare”.

Diocesi, tesoro di 10 miliardi: ma Washington sovvenziona

Ha chiesto e ottenuto 8 milioni di dollari del programma federale di sostegno alle piccole imprese colpite dal Covid. Ma non ne aveva bisogno: malgrado l’obbligata chiusura delle sue chiese ai fedeli, la Diocesi della Chiesa Cattolica di Charlotte, negli Stati Uniti, ha conti floridi.

Fino alla scorsa primavera, testimoniano i bilanci esaminati dall’Associated Press, aveva una riserva di circa 100 milioni di dollari, fra liquidità ed investimenti a breve termine, proventi delle attività del quartier generale, delle scuole e delle chiese che gestisce. In estate erano saliti a 110 milioni, perché l’impatto del virus e del previsto calo delle offerte, su quella diocesi, non si è visto: anzi, le donazioni solidali sono aumentate. E non è che i vertici non lo sapessero: Il vescovo Peter Jugis lo aveva comunicato con soddisfazione alla comunità nel bilancio certificato. Non è un caso isolato: le oltre 200 diocesi cattoliche Usa hanno ricevuto circa 3 miliardi di supporto economico federale, malgrado siedano su un tesoretto di oltre 10 miliardi di dollari. Equamente distribuito in tutti gli Stati Uniti, senza rilevanti distinzioni nemmeno fra diocesi urbane e rurali.

Per esempio i bilanci delle parrocchie di Louisville, nel rurale Kentucky, sono passati da 153 a 157 milioni nell’anno fiscale chiuso a giugno, e malgrado questo hanno ricevuto 17 milioni di sostegno pubblico ai lavoratori.

L’enorme Diocesi di Chicago ha ottenuto 77 milioni del programma di protezione delle buste paga, malgrado riserve da un miliardo in liquidità ed investimenti.

La Chiesa ha replicato che i requisiti per ottenere il finanziamento non specificano che le casse debbano essere vuote prima della richiesta di sostegno, e che senza quel denaro molte diocesi sarebbero state costrette a licenziare o ridurre le attività caritatevoli in un momento in cui la richiesta di mense per i poveri e assistenza sociale è aumentata enormemente.

Però, dicono i dati, sono diverse le società private che, non avendone avuto bisogno, hanno già restituito il denaro pubblico ricevuto. La Chiesa Cattolica Usa farà lo stesso?

Anche Biden ha il suo Renzi: è un dem, ma più vicino al Gop

Se sei un democratico, è dura fare politica con successo nella West Virginia, che dal 2000 vota sempre repubblicano alle presidenziali e dove nel 2016 Donald Trump ottenne quasi il 68% dei suffragi, più che in qualsiasi altro Stato dell’Unione. Il senatore Joe Manchin l’ha capito: eletto come democratico, parla e vota spesso come un repubblicano. È un troublemaker alla Renzi, nella politica statunitense. Quando si parla di impeachment – il secondo processo comincerà la prossima settimana: l’accusa per Trump è di istigazione all’insurrezione, per l’assalto al Campidoglio lanciato il 6 gennaio dai suoi sostenitori –, si fa sempre la conta dei senatori repubblicani schierati contro l’ex presidente: ne servono 17 su 50 perché sia condannato, oltre un terzo.

Ma vale la pena d’interrogarsi se ci saranno dei democratici a suo favore: l’indiziato numero uno è proprio lui, Manchin, quinta colonna trumpiana per antonomasia fra i senatori democratici: nella scorsa legislatura, ha votato più spesso con i repubblicani che con i dem. Giorni fa, però, Manchin ha fugato i dubbi: “Molti di noi pensano che se c’era mai una ragione perché i Padri Fondatori prevedessero l’impeachment è questa”, cioè l’atteggiamento di Trump dopo le elezioni. Per capire Manchin e le sue scelte, bisogna capire la West Virginia, uno Stato povero e piccolo – esteso poco più della Lombardia –, con meno di un milione 800 mila abitanti. La sua ricchezza erano le miniere di carbone, che, malgrado le sparate di Trump, appartengono al passato economico ed energetico degli Stati Uniti. Per i giovani, non c’è lavoro: non a caso, l’età media è la più elevata dell’Unione, dopo quella della Florida, lo Stato dei pensionati. I giovani di qui scappano: a fare il militare, per guadagnare un po’ di soldi e potersi poi pagare studi che aprano percorsi di vita migliori. Joseph Manchin III, 74 anni, riesce a essere in sintonia con la gente della West Virginia: segretario di Stato dal 2001 al 2005, poi governatore fino al 2010, ottenne il seggio al Senato vincendo un’elezione suppletiva nel 2010, dopo la morte del senatore democratico Robert Byrd, e venne poi confermato nel 2012 e nel 2018. Manchin si autodefinisce “un democratico moderatamente conservatore” ed è il democratico più conservatore in Senato, espressione di uno Stato dove il 52% degli abitanti sono evangelici, il 58% pensa che l’aborto vada vietato in ogni caso e oltre il 70% è contrario ai matrimoni omosessuali. Ed è oggi il solo democratico a rappresentare la West Virginia sul Campidoglio di Washington. Durante il mandato presidenziale di Trump dal 2017 al 2021, Manchin s’è allineato sulle posizioni del magnate presidente il 50,4% delle volte, più che ogni altro democratico in tutto il Congresso.

Se dovesse confermare il suo atteggiamento nella legislatura appena iniziata, vanificherebbe, una volta su due, il controllo dei democratici sul Senato: i senatori sono 50 pari e l’equilibrio può essere rotto dal voto decisivo della vice-presidente Kamala Harris. Già nel processo di impeachment nel 2020, l’adesione di Manchin alla condanna era incerta, come quella dei senatori Doug Jones (Alabama) e Kyrsten Sinema (Arizona), altri due moderati spesso insofferenti degli ordini di scuderia. Manchin aveva pure suggerito ai suoi colleghi di rinunciare all’impeachment e di contentarsi di una censura a Trump nella vicenda del Kievgate. A conti fatti, però, Manchin votò per l’impeachment e poi appoggiò la candidatura di Joe Biden, nonostante la sua adesione alle linee economiche e commerciali dell’ex presidente.

Olimpiadi, Mori sessista si scusa ma non lascia: “Donne prolisse”

Forse per non attirarsi le critiche di averla tirata per le lunghe, il capo del Comitato olimpico di Tokyo, Yoshiro Mori ha deciso di chiudere la questione delle sue offese sessiste con delle secche scuse. “I miei commenti sono stati inappropriati, me ne scuso”. Punto. Tutto qui? Sì, niente dimissioni, come gli veniva chiesto da ogni parte: su Twitter l’hashtag #Moriresign era al primo posto dopo le sue esternazioni. L’83enne ex premier ha pensato bene invece di tirare dritto per la sua strada nonostante abbia gelato il proposito di aumentare la partecipazione femminile nel Comitato portandola al 40%. “Le donne parlano troppo e se incrementassimo la loro presenza le riunioni richiederebbero troppo tempo”. Anche il Cio ha fatto sapere che ritiene chiusa la questione, mentre il ministro olimpico giapponese, Seiko Hashimoto, ha assicurato che terrà una “approfondita discussione con Mori”, giacché lo “spirito fondamentale delle Olimpiadi è promuovere il progresso delle donne nello sport a tutti i livelli e le organizzazioni al fine di realizzare l’uguaglianza di genere”. Ma forse il signor Mori lo ignora, pur essendo già circondato nel consiglio d’amministrazione da 5 donne, certo, su 24 membri, va detto, le quali, tra l’altro, a detta del capo “sanno stare al loro posto. Mentre se aumentiamo il numero di membri femminili – ha argomentato Mori al quotidiano Asahi Shimbun – dobbiamo assicurarci che il loro tempo di parola sia in qualche modo limitato, hanno difficoltà a interrompersi, il che è fastidioso”. Ma non è la prima volta che l’ex premier provoca l’opinione pubblica con una gaffe, e, restando impunito al suo posto, non sarà l’ultima. La prima a esserne cosciente è la sua famiglia. “La scorsa notte, mia moglie mi ha rimproverato. Ha detto: ‘Hai detto di nuovo qualcosa di brutto, vero? Dovrò soffrire di nuovo perché mi hai messo contro le donne’”, ha confessato Mori al quotidiano Mainichi. “Questa mattina, anche mia figlia e mia nipote mi hanno rimproverato”. Eppure non pare che le lavate di testa in famiglia abbiano sortito un qualche effetto, tant’è che non solo Mori non si è dimesso, ma ha ulteriormente aggravato la situazione, se possibile, perdendo l’occasione di scusarsi sinceramente. Ieri, in conferenza stampa, gli è stato chiesto su quali basi avesse detto che le donne sono troppo prolisse. La sua risposta è stata: “Non parlo molto con le donne ultimamente, quindi non lo so”. Lui sì che ha il dono della sintesi.

Sfida Cdu-Spd per i voti – Berlino, la crisi del vaccino

L’opposizione fa il suo mestiere e soffia sul malcontento dei cittadini per la gestione dei vaccini. Ma non è sola. Anche una parte del governo tedesco cerca “di profilarsi” in vista delle prossime elezioni di settembre: il partito socialdemocratico. Dopo 12 anni e tre legislature – non consecutive – di Grande Coalizione con la Cdu, l’Spd è a terra. Se si votasse domenica prossima i socialdemocratici raccoglierebbero appena il 15% dei consensi (meno della metà dell’Unione Cdu-Csu data al 37%), secondo l’Istituto Forsa. Un dato peggiore del minimo storico raggiunto all’ultimo voto federale del 2017, quando raggiunse il 20,5%.

Il 2021 sarà per la Germania “un anno elettorale”, con un’elezione federale e il voto in 6 Länder. Quest’inizio però vede l’Spd partire con le ruote già sgonfie, nonostante abbia tentato di giocare d’anticipo presentando il suo candidato alla Cancelleria – il ministro delle Finanze in carica Olaf Scholz – già in estate. Partire prima non le ha portato però nessun vantaggio e la gestione della pandemia, come in altri Paesi, ha fatto aumentare solo la popolarità delle cariche più in vista dell’esecutivo: la cancelliera Angela Merkel e il ministro della Salute Jens Spahn, entrambi della Cdu. Lo scontento sui vaccini è dunque il volano che i socialdemocratici hanno scelto per riguadagnare consenso. La tensione alla Willy-Brandt-Haus è così alta che martedì si racconta che Scholz – meglio noto come Scholzmat per la sua infrangibile flemma anseatica – abbia perso le staffe durante la riunione di governo sul coronavirus. “È andato veramente di m…” il coordinamento europeo sui vaccini a guida Von der Leyen, avrebbe detto, aggiungendo: “Non mi va proprio che questo schifo si ripeta in Germania”. Ma la scontentezza non è solo emozione, è strategia. La reazione di Scholz, infatti, è solo il punto apicale di un percorso che inizia i primi giorni del nuovo anno. Il 4 gennaio, durante la prima riunione dell’anno del Consiglio dei ministri sul coronavirus, il ministro delle Finanze si presenta con un documento di 24 domande aperte in cui chiede conto del “fallimento” della campagna vaccinale iniziata appena 9 giorni prima. Lo stesso giorno il tabloid nazionalpopolare Bild comincia una campagna a tappeto sul “caos” vaccini di cui Merkel sarebbe la prima responsabile. “La signora Merkel e il signor Spahn hanno fatto giuramento di evitare danni al popolo tedesco, ma hanno affidato l’appalto dei vaccini a dilettanti che lavorano per la presidente della Commissione Ue Von der Leyen” dice a Bild il deputato Spd Florian Post. Il tabloid berlinese non è nuovo alla pubblicazione di veline provenienti dai socialdemocratici, riferiscono fonti, ma stavolta non è una velina, è ufficiale. Secondo la stessa Bild il documento con le domande aperte arriva direttamente dalle mani di Scholz. Il tabloid sposa la linea del nazionalismo sui vaccini e accusa il governo di non aver messo al primo posto “gli interessi” della Germania. L’Spd e Scholz invece non rimproverano la scelta di dare priorità alla distribuzione europea ma la cattiva gestione di una Cdu di fama: Ursula von der Leyen. Il secondo casus belli che si offre all’Spd è il ritardo nelle consegne comunicato prima da Pfizer-Biontech e poi da Astra-Zeneca. “Con tutto il caos sugli appalti e gli errori che sono stati fatti, il presidente della Commissione non può più defilarsi” dice il 28 gennaio il segretario generale della Spd Lars Klingbeil a Spiegel.

Il settimanale di Amburgo parla di un “metodo Von der Leyen” in cui “si ripete uno schema ben noto nella sua carriera” cioè: pensare in grande e trascurare i dettagli, come era accaduto alla guida del ministero della Difesa. Secondo i socialdemocratici l’Europa avrebbe dovuto investire di più nei vaccini. “L’acquisto dei vaccini è stato negoziato dalla Commissione europea. Se questa ci avesse chiesto più fondi, avremmo trasferito altri soldi”, dice Scholz che poi aggiunge: “Si sarebbe dovuto ordinarne di più. Lo voglio dire in modo chiaro. Anche l’Europa può sbagliare”. La cancelliera risponde in un’intervista a Ard: il problema non sono le quantità dei vaccini ma le capacità produttive. I toni sono insolitamente alti ma la coalizione di governo, a 8 mesi dalle elezioni, non è a rischio. In gioco è la sopravvivenza dell’Spd. Perché non è un segreto: il San Giorgio che sconfiggerà il virus porterà a casa il miglior risultato elettorale. Per questo, per i socialdemocratici è il momento di puntare i piedi.

Grazie Mario: ecco il Salvator Mundi tra i buoi e gli asinelli

Questa volta il Salvator Mundi non è nato a Betlemme, ma a Roma, quartiere Parioli. A differenza del suo antico predecessore, Mario Draghi è sceso tra noi accompagnato dalla luce cometa della nostra ultima stella, quella del Quirinale. E a riscaldare quel suo commovente pallore atermico – forse contrastato da qualche vampata di irritazione per il disturbo che lo allontana dagli uliveti di Città della Pieve – arriveranno in gran numero i buoi e gli asinelli della nostra disgraziata classe politica, finita tutta quanta in castigo, dopo il baccano inconcludente dell’ultima ricreazione.

In compenso il nostro Draghi, appena evocato nel nome e nel sembiante, qualche miracolo l’ha già fatto, ha abbassato di molto lo Spread, verso la quota minima dei cento punti, ha alzato il totalizzatore della Borsa, pompando un po’ di ossigeno nei calamitosi conti economici e sociali della bella Italia assediata dal virus che non passa, dai vaccini che non arrivano e da Matteo Renzi che non riparte per Riyad.

Le banche e i mercati gli credono, come sempre, visto che li governa da una trentina d’anni. Gli umani del vasto fondovalle sociale un po’ meno, considerandolo un “apostolo delle élite” (Di Battista dixit) uno che nella fatidica estate del 1992, salì a bordo del Royal Yacht Britannia, in compagnia di Carlo Azeglio Ciampi e di Beniamino Andreatta, non da marinaio, ma da cartografo delle imminenti privatizzazioni italiane, Iri, Eni, Enel, Telecom, Alitalia, Comit , eccetera, che avrebbero dovuto ridurre nei dieci anni successivi il debito pubblico nazionale (che invece triplicò) generando ricchezza nell’alta finanza sovranazionale, mentre la globalizzazione moltiplicava le disuguaglianze tra i ceti già impoveriti. Evento che ha messo Draghi nel mirino dei molti mondi dell’arcipelago anti establishment che va dai no global della sinistra alternativa, ambientalista, libertaria, fino alla destra ultranazionalista di Steve Bannon, Marine Le Pen, Orban, Giorgia Meloni. Oltre ai complottisti d’ogni colore che immaginano il mondo governato dai piani segreti della finanza pluto-giudaico-massonica.

Al netto di molte scempiaggini terrapiattiste, Mario Draghi, serio, ma non serioso, professore di economia e banchiere, si è sempre dichiarato “un liberal socialista”, un “Civil servant” e annovera nella sua lunga carriera il prestigio di molti successi, a cominciare dal suo famoso “whatever it takes” pronunciato il 26 luglio 2012 con cui annunciava che la Banca centrale avrebbe comprato il debito pubblico dei paesi dell’eurozona per salvare l’euro “a qualunque costo”. Imbracciando da allora il bazooka del “quantitative easing” con cui finanzia i bilanci degli Stati, compreso il nostro, e che fu una autentica rivoluzione per gli standard d’austerità germanica, ostili a Draghi fin quasi all’ultimo. Ma uscendone sconfitti. Al punto che anche la cancelliera Angela Merkel finì per inchinarsi “al suo coraggio”.

Lo stesso coraggio che gli aveva insegnato suo padre (“se perdi il coraggio perdi tutto”), che raccomanda da sempre ai suoi studenti (“agite con conoscenza, umiltà, coraggio”) e che massimamente gli servirà in questa avventura del tutto inedita per lui, tra gli gnomi della nuova politica che conosce poco e male, ampiamente ricambiato.

Mario Draghi nasce nel 1947. Famiglia benestante. A 15 anni perde il padre e la madre, cresce con i fratelli e la zia. Studia dai gesuiti. Si laurea in Economia alla Sapienza con Federico Caffè, si specializza all’Mit di Boston con il Nobel Franco Modigliani. Sembra destinato alla carriera universitaria. Se interpellato dice “La politica non fa per me”.

Invece sarà proprio la politica ad allevarlo come principe tra i tecnici. Lo pesca Guido Carli, nominandolo direttore generale del Tesoro, durante un remoto governo Andreotti VII, anno 1991, apoteosi finale del Caf, debito pubblico alle stelle, Tangentopoli alle porte, il tuono di Capaci imminente, la lira fuori dal serpente monetario, la prima Repubblica che scivola nell’abisso. Lui tiene la rotta per 11 anni, mentre la tempesta si porta via 7 ministri del Tesoro e 9 governi – da Amato a Berlusconi, da Prodi a D’Alema – fino a quando scende sulla terra ferma di Goldman Sachs, la banca d’affari a stelle e strisce, anni 2002-05, per poi risalire al timone della Banca d’Italia, appena sgomberata da Antonio Fazio, travolto anche lui da uno scandalo, quello di Bancopoli. Da governatore guida la stagione delle fusioni bancarie – le principali tra Banca Intesa e San Paolo, tra Unicredit e Capitalia – compresa quella rovinosa di Monte dei Paschi che compra Antonveneta al doppio del suo valore, mandando in malora i suoi bilanci. Il disastro lo sfiora appena surclassato da quello del fallimento di Lehman Brothers, che terremota tutte le economie d’Occidente.

È da quello sprofondo che Draghi salta più in alto di tutti, in cima alla torre della Banca centrale europea di Francoforte, il suo vero trampolino di lancio internazionale: parla con i governi, partecipa ai summit, diventa il referente di ogni emergenza (compresa quella finale dell’ultimo governo Berlusconi) incoronato tra gli uomini più influenti del pianeta. Chiamato da papa Francesco alla Pontificia Accademia.

Una visibilità che sparisce dentro una vita privata perfettamente anonima. Una moglie, due figli, un casale in Umbria, una utilitaria bianca. Viaggia in economy. La foto di lui con la moglie in fila al supermercato ha fatto il giro del mondo. Parla poco e quando lo fa dice l’essenziale: “L’Euro è irrevocabile”. “Esiste il debito cattivo” che vola via dalla finestra, e “il debito buono” che serve agli investimenti. In piena pandemia, marzo 2020, lancia il più grande investimento di tutti i tempi con un articolo sul Financial Times, il Next Generation Eu, 1100 miliardi da distribuire in Europa nei prossimi sei anni, 209 all’Italia. Se nasce il governo toccherà a lui gestirli. Mattarella ci crede, il Parlamento vedremo.

Viaggio alle origini del vaccino: il vaiolo e Lady Montagu

Era una donna bellissima, colta, intelligente, poi il vaiolo entrò nella sua famiglia, si prese il fratello e lasciò lei sfigurata a venticinque anni. Lady Mary Pierpont diventò Lady Wortley Montagu dopo un matrimonio contrastato con Edward Montagu, diplomatico inglese che nel 1716 venne inviato a Costantinopoli come ambasciatore. La moglie lo seguì e documentò con le lettere il viaggio che avrebbe cambiato la sua vita, e più tardi la storia della medicina. Lei non sapeva che quell’avventura esotica l’avrebbe portata a sferrare un duro colpo al suo peggior nemico, il vaiolo. Nessuno poteva immaginare che Pfizer e AstraZeneca allora avessero sede in Turchia.

La storia di Lady Montagu, del suo straordinario viaggio e dell’intuizione che portò all’idea del vaccino, è ricostruita nel libro di Maria Teresa Giaveri, Lady Montagu e il dragomanno. Viaggio avventuroso alle origini dei vaccini. Il fascino del racconto è sostenuto dall’abilità narrativa dell’autrice che con molta scioltezza intreccia avvenimenti storici, documenti, vicende quotidiane e suggestive sfumature esotiche.

Il compito di Edward Montagu era quello di riuscire a favorire un trattato di pace fra l’Impero Asburgico e quello Ottomano con vantaggi per l’Inghilterra. L’impegno di Lady Montagu era quello di capire una società così distante e così piena di sorprese. “Credo che in tutto ci fossero duecento donne, ma nessuno di quei sorrisi sdegnosi, o ironici bisbigli, che non mancano mai nelle nostre riunioni quando compare qualcuno che non è vestito proprio alla moda. Mi hanno ripetuto più volte Uzelle, pék uzelle, che vuol dire ‘incantevole, davvero incantevole’. I primi sofà erano coperti di cuscini e di ricchi tappeti, su cui sedevano le signore: sui secondi, dietro a loro, le schiave, ma senza distinzione di rango nel vestire, essendo tutte allo stato di natura (…). In breve, è il caffè delle donne, dove si diffondono tutte le notizie della città, si inventano scandali ecc…”. Jean-Auguste-Dominique Ingres leggendo queste pagine dipinse uno dei suoi quadri più famosi, Il Bagno Turco. E le lettere di Lady Montagu, The Turkish Embassy Letters, avrebbero fatto scuola a varie generazioni di scrittori viaggiatori inglesi in Medio Oriente, fino a Freya Stark.

Lady Mary, nelle sue esplorazioni di luoghi segreti, era aiutata da un dragomanno: nel Settecento, era una figura di grande rilievo, anche politico. Emanuele Timoni, il dragomanno di Lady Montagu, di origini italiane, aveva studiato medicina a Padova ed era membro della Royal Society. Aveva approfondito i metodi di cura del vaiolo usati in Turchia, come anche l’insigne Jacopo Pilarino, entrambi ne avevano scritto ma non erano stati presi in considerazione. Fu Timoni a guidare Lady Mary alla grande scoperta scientifica.

Il primo aprile 1717 lei scrisse all’amica Sarah Chisvell: “A proposito di malattie, vi racconterò qualcosa che vi darà, ne sono sicura, il desiderio di stare quaggiù. Il vaiolo, così fatale e così frequente da noi, è qui reso completamente inoffensivo dall’invenzione dell’inoculazione, come viene chiamata. C’è un gruppo di vecchie che ne fanno la loro attività ogni autunno. La gente fa circolare la voce chiedendo se qualcuno nelle famiglie sia disposto ad avere il vaiolo… e quando sono in gruppo (di solito di quindici o sedici), arriva la vecchia con un guscio di noce riempito della miglior materia vaiolosa e chiede quali vene abbiate scelto. Allora punge con un grosso ago quella che le viene presentata (non fa più male di un graffio), introduce in vena tanto veleno quanto ce ne sta sulla punta di un ago, e medica la piccola ferita con un pezzetto di guscio vuoto; e in questo modo punge quattro o cinque vene”.

Lady Montagu rimase sconvolta. Approfondì l’argomento e fece “inoculare” la materia vaiolosa anche a suo figlio. Il dragomanno Timoni morì in circostanze misteriose classificate frettolosamente come suicidio, i Montagu tornarono in Inghilterra per complicazioni diplomatiche, e Lady Mary continuò la sua lotta per diffondere il metodo di cura che aveva appreso a Costantinopoli. La sua condizione di donna non facilitò l’impresa. “Un esperimento praticato da donne ignoranti”: così, nella Londra del 1721, venne accolta la sua idea.

Come ricorda Maria Teresa Giaveri, a renderle giustizia furono in pochi, tra cui Voltaire e, in Italia, l’insospettabile Giuseppe Parini, che nella sua Ode L’innesto del Vaiuolo, le sciolse un inno appassionato: O Montegù, qual peregrina nave,

Barbare terre misurando e mari,

E di popoli varj

Diseppellendo antiqui regni e vasti,

E a noi tornando grave

Di strana gemma e d’auro,

Portò sì gran tesauro,

Che a pareggiare non che a vincer basti

Quel, che tu dall’Eussino a noi recasti?

Lady Montagu non perse mai di vista la sua battaglia, anche se poi perse la testa per il conte Algarotti e venne a stabilirsi in Italia, ma questa è un’altra storia. Le sue intuizioni furono raccolte solo dopo la sua morte dal medico Edward Jenner che ebbe l’idea di prelevare il materiale infetto per l’inoculazione dalle vacche, e così nacque il vaccino, ovvero il San Gennaro Universale da cui oggi tutti noi attendiamo il miracolo.

L’insegnante Fenech con la Dad

Come si risarciscono gli studenti condannati alla didattica a distanza? Un significativo ristoro lo ha fornito Cine34, il canale Mediaset che celebra a modo suo il cinema italiano, nel riproporre la trilogia dell’Insegnante con Edwige Fenech con il commento di Tatti Sanguineti. Uno potrebbe dire: guarda come sono ridotti i critici. Tuttavia, lo sdilinquirsi di Sanguineti sulle interpretazioni della Fenech ci ha aperto gli occhi: chi mai vorrebbe la scuola in presenza, avendo le lezioni private di una docente così? Tuttavia, nell’ultimo contributo della Fenech alla Pubblica istruzione, L’insegnante viene a casa (1978), Sanguineti vede un certo declino: il passaggio da una didattica decisamente aperta a una visione più tradizionale, nella aspirazione a sposare l’assessore Renzo Montagnani. Effettivamente, l’evolversi dei costumi l’avrebbe portata a interpretare signore sempre più melense dal finto accento francese, fino alla colata di melassa della fiction tv che non ha risparmiato nessuno, perfino Trinità è diventato Don Matteo.

Ma riguardando la Fenech delle insegnanti, delle pretore e delle soldatesse con il senno di poi – e il seno di prima –, bisogna convenire che c’era molta arte anche nelle situazioni più difficili. A dire “Essere o non essere?” con un teschio in mano, siamo capaci tutti. Ma voglio vedervi sotto la doccia. Invece lei trasforma in esercizio di stile proprio le abluzioni. Fin dalle prime inquadrature, ancora seminascosta dai vapori, uno dice subito “Quella è la Fenech”. Il suo rapporto con il bagnoschiuma è di tale espressività che i registi non sanno resistere: ogni cinque minuti, in spregio alle esigenze della trama, la fanno tornare nel box. Nell’Insegnante viene a casa c’è un piano sequenza degno di Antonioni, uno struggente “addio alla doccia” che fa pronunciare ad Alvaro Vitali, schiacciato contro il buco della serratura, forse la più immortale delle sue battute: “Perché non sono nato spugna?”.

Cambio di casacca? Per un figlio si fa

E anchequesta settimana a Criminopoli tira un’ottima aria. La leggerissima flessione non intacca il trend positivo: 32 i nuovi indagati per corruzione dal 23 gennaio al 4 febbraio. La scorsa erano stati 40, è vero, ma il totale dall’inizio dell’anno si avvicina alle tre cifre: siamo a quota 92. Media giornaliera: 2,6 nuovi indagati ogni 24 ore. Uno ogni 9 ore! Grandi soddisfazioni anche sul fronte mafie: i 36 nuovi avvisi di garanzia (9 in meno della scorsa settimana) portano il totale del 2021 a 308 indagati per associazione mafiosa. Media giornaliera: 8,8 (in leggera diminuzione, rispetto ai 9,7 della scorsa settimana, ma pur sempre un gran risultato: un nuovo indagato ogni 2 ore e mezza). Restiamo in tema di minuti, ore, giorni, mesi e anni. Oggi 5 febbraio Matteo Messina Denaro può festeggiare ancora: è libero da ben 10.110 giorni. Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Laura Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro sono invece morti da 10.484 giorni. Abbiamo invece perso Paolo Borsellino e i cinque agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina da ben 10.427 giorni. Il Premio mazzetta di questa settimana va al neo indagato Luigi Sergi, ex consigliere comunale di Brindisi, accusato di aver compiuto atti contrari ai suoi doveri in cambio di una promessa per suo figlio: all’amato rampollo avevano prima proposto un assessorato, poi aveva ottenuto l’incarico di componente dell’ufficio di supporto del sindaco. E Sergi cosa offriva in cambio? Semplice. Siccome era passato dalla maggioranza all’opposizione, “tornava a votare – in modo determinante – con la maggioranza”. Lo accusano di aver violato il “dovere di votare in piena libertà e secondo scienza e coscienza”. Ma, in coscienza, Sergi tiene famiglia. E un voto in democrazia che sarà mai? Piuttosto, come tutti i nostri premi, siamo pronti a revocarglielo se sarà assolto o archiviato. È simbolico ma deve restare in buone mani.

 

Ma con la pandemia Mario e l’Europa non sono più liberisti

“La politica non è l’arte del possibile. Consiste nello scegliere tra il disastroso e lo sgradevole” diceva l’economista John Kenneth Galbraith. Quando nei prossimi giorni il Movimento Cinque Stelle dovrà decidere se appoggiare o meno Mario Draghi farà bene a tenere in mente questa frase. Partendo da una constatazione. Draghi è arrivato all’incarico in seguito a una sporca manovra di Matteo Renzi, sponsorizzata, spesso apertamente, da tutto quell’establishment che i pentastellati hanno combattuto (in futuro sarà perciò interessante scoprire se Renzi farà ancora il politico o se troverà invece spazio nel mondo della finanza internazionale). Lo stesso Draghi è poi un esponente di spicco delle élite responsabili dell’austerità e dell’aumento delle diseguaglianze. Tutto questo lo rende in apparenza indigeribile da parte loro. Anche se un’analisi scevra da pregiudizi deve pure tenere conto di altri fattori.

Draghi è un uomo di grande valore, in grado di alzare il telefono per parlare subito con qualsiasi leader mondiale, e al pari del resto dell’establishment si è accorto di quali siano state le conseguenze di quelle politiche: la nascita di movimenti sovranisti e populisti, un ulteriore indebolimento dell’Europa nei confronti di Cina e Stati Uniti. Come banchiere europeo ha poi difeso non solo l’euro, ma pure il nostro Paese (contro la Germania) con un programma di acquisto di titoli che ha tenuto i tassi d’interesse bassi per anni. Di fronte alla pandemia, già nella scorsa primavera, ha poi spiegato sul Financial Times che servivano sussidi per cittadini e imprese e che addirittura bisogna pensare di azzerare i debiti contratti dalle aziende per far fronte alla crisi.

Insomma il premier incaricato, come l’Europa, nel tempo ha cambiato posizione. Del resto, prima di essere stato un campione del liberismo e delle privatizzazioni, Draghi era stato l’allievo prediletto di due grandi economisti keynesiani: Caffè e Modigliani. E Keynes era solito ripetere: “Quando cambiano i fatti io cambio le mie opinioni. Perché voi che fate?”. Altra frase che i 5 Stelle dovrebbero ricordare quando si tratterà di scegliere.

Prima della scelta i pentastellati dovrebbero anche farsi una domanda: noi facciamo politica per vincere o per influire in meglio sulla vita dei cittadini? Perché sostenere Draghi certamente farebbe loro rischiare un ulteriore e immediato calo di consensi. Ma essere la formazione con più parlamentari della nuova eventuale maggioranza consentirebbe, solo per fare degli esempi, di difendere e migliorare il reddito di cittadinanza (di cui proprio l’Europa ha chiesto recentemente l’estensione), ottenere il salario minimo garantito (chiesto sempre dalla Ue), vigilare sull’assalto alla diligenza dei fondi del Recovery, ricordare a tutti che la riforma della giustizia (compreso lo stop alla prescrizione dopo la condanna) è un’altra pretesa Ue. E che anzi senza processi più veloci i 209 miliardi attesi da Bruxelles non arriveranno. Certo, lo ripetiamo, il prezzo per i 5S potrebbe essere salato. La prospettiva di trovarsi al governo di nuovo con Renzi e per giunta con il pregiudicato Berlusconi suscita in loro e nei loro elettori un condivisibile ribrezzo. Ma solo chi è al governo e si muove con Pd e Leu può respingere le istanze peggiori di Iv e Forza Italia. Non chi fa opposizione. Anche perché se i 5S non ci saranno al loro posto ci sarà la Lega. Per questo dopo aver discusso il programma con Draghi e aver messo dei paletti, i 5S, prima di decidere, dovranno pensare ciò che conviene ai cittadini. E a quella frase di Galbraith. Poi potranno scegliere.