È corsa alla fusione nucleare, ma non servirà alla transizione

Chi scrive non è un giornalista scientifico. Per questo per descrivere la fusione nucleare – la tecnologia che di qui a qualche decennio dovrebbe produrre energia pulita e a basso costo – partirà dalla cosa che più ha impressionato un cervello che considera già un mistero l’accendersi della luce dopo aver spinto un interruttore: la fusione dei due atomi che produce energia avviene a 100 milioni di gradi Kelvin, una temperatura più alta di quella che si registra al centro del Sole. È una cosa sconvolgente immaginare che siamo in grado di sviluppare temperature più alte della “nostra” stella, eppure non stupisce (né preoccupa) nessuno degli esperti della materia: il problema su cui tutti lavorano è come intrappolare quel “fluido infernale” – come lo ha descritto uno splendido pezzo di Nature firmato Philip Ball il 17 novembre scorso – in modo da estrarne energia con continuità.

Generalmente l’idea su cui si lavora è, molto all’ingrosso, l’uso di campi magnetici per confinare il plasma in un reattore a forma di ciambella (un toroide detto Tokamak, un acronimo russo) a dispetto delle forze di repulsione elettrica, ma la faccenda non è così semplice: solo da poco l’energia prodotta in esperimenti di fusione nucleare ha superato quella immessa nel sistema per farlo funzionare. La cosa bella è che la fusione – a differenza del nucleare in uso oggi, compresi i mini-reattori a fissione amati dal ministro Roberto Cingolani – non solo non presenta il rischio di incidenti nucleari tipo Fukushima, ma neanche produce emissioni climalteranti o scorie (eccezion fatta per le componenti interne al reattore, poca cosa e il cui processo di decadimento è comunque previsto durare decenni e non millenni). La cosa brutta: nessuno sa quanto siamo lontani dall’obiettivo.

Una vecchia battuta recita che “la fusione nucleare è sempre a dieci anni di distanza dalla sua realizzazione”. Anche a sentire i più ottimisti, comunque, la tecnologia che potrebbe cambiare il mondo come lo ha costruito una geopolitica basata (anche e soprattutto) sull’energia non sarà parte della transizione a cui ci affanneremo da qui al 2035. Va registrato, però, che la corsa alla fusione stavolta pare essere partita davvero. Di come produrre energia pulita come fa il Sole si parla da decenni e a lungo è stata giudicata un sogno, quando non una mezza truffa, ma oggi tutti sono convinti che ci siamo vicini, tanto che in un settore dominato finora dagli investimenti statali sono arrivati anche i privati: con l’ultimo round di finanziamenti della società Cfs – nata dal Massachussets Institute of Thecnologies (Mit) di Boston e di cui l’italiana Eni è azionista di rilievo – siamo arrivati nel 2021 oltre i tre miliardi di dollari finiti a start-up che lavorano alla fusione.

Gli esperimenti promettenti ormai si susseguono con una certa regolarità. L’ultimo è appunto quello del laboratorio Joint european torus (Jet) di Culham, un paesino vicino Oxford, in cui sono stati prodotti 11 MgW di potenza: poca cosa in termini di energia, ovviamente, ma un passo in una direzione promettente nell’ambito del progetto Iter per la costruzione di un reattore a fusione a Cadarache, in Francia, progetto a cui partecipano due terzi dei governi mondiali e in cui l’Italia ha una sua posizione di rilievo (l’obiettivo è farcela entro il 2050). Sempre nell’ambito di Iter un reattore sperimentale in Cina a gennaio ha sostenuto il processo di fusione per 17 minuti (contro i 5 secondi del vecchio Jet di Culham).

La stessa Cfs (Commonwealth Fusion Systems) partecipata da Eni ha annunciato a settembre di aver completato con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva Hts (High temperature superconductors), che dovrebbe assicurare il confinamento del plasma, e ha annunciato la costruzione del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato Sparc nel 2025 e, dopo, il primo impianto dimostrativo, Arc, il primo a immettere energia da fusione nella normale rete elettrica. Quando? Nel 2031, dice Cfs. Altre start-up private – dalle americane Helion Energy e General Atomics alla canadese General Fusion – testano i loro modelli di reattori o materiali e tutti sono convinti che gli anni Trenta saranno quelli della produzione.

Per molti scienziati che lavorano nei progetti pubblici, invece, gli obiettivi sulla fusione di queste nuove imprese (oltre trenta ormai) sono eccessivamente ottimisti: “Dicono che funzioneranno tra dieci anni e lo dicono da anni, ma è solo un modo per attirare finanziatori”, ha detto a Nature Tony Donné, responsabile del programma del consorzio pubblico Eurofusion. Eppure l’eccitazione di chiunque se ne occupi oggi è a livelli altissimi: per molti, ragionevolmente, sarà la seconda metà del secolo quella della produzione industriale di energia da fusione nucleare. Tardi, come detto, per la transizione energetica a cui ci dovremmo avviare fin d’ora – ed è il motivo per cui l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) insiste nello spingere sulle rinnovabili tradizionali – ma non così lontano da non essere tenuto da conto dai governi nel medio periodo.

La presenza, insieme e accanto ai progetti pubblici, di imprese private riempite di soldi da ricchi finanziatori – Goldmann Sachs, Google, Bill Gates, Jeff Bezos e ovviamente molti fondi di venture capital – è, in ogni caso, una buona notizia: più strade aperte, più soluzioni e tecnologie testate, possibilità di interconnessione tra i progetti. Eni, ad esempio, oltre ad essere nel capitale di Cfs, partecipa al 20% circa alla società DTT (Divertor Tokamak Test) con Enea (al 70%) che ha l’obiettivo – nell’ambito del progetto EuroFusion – di affrontare nel laboratorio di Frascati i problemi tecnici e tecnologici della gestione dei grandi flussi di potenza prodotti dal plasma. DTT, un progetto da 600 milioni di euro, è un pezzo del mega-progetto Iter, avventura dal costo stimato di 22 miliardi di euro su cui peraltro lavorano molte imprese italiane: da Fincantieri ad Ansaldo Energia, da Vitrociset (Leonardo) alla Asg Superconductors e altri.

Una frontiera tecnologica le cui soluzioni sono ovviamente passibili di applicazione anche in altri campi, dalla medicina a diversi settori industriali: uno studio ormai datato, ma che dà un’idea di quel che c’è in ballo nella corsa alla fusione, stimava che ogni euro investito in Iter ne avrebbe generato uno in ricadute dirette e ben due in quelle indirette.

Il punto d’arrivo di questo processo è la possibile realizzazione di un sogno che l’umanità coltiva da oltre 70 anni: energia elettrica pulita e a basso costo per tutti e che – sia detto en passant – potrebbe entrare domattina nelle reti che già usiamo. Una tecnologia “game changer”, che risolverebbe in un colpo solo tutti i problemi ambientali ed economico-sociali che la transizione energetica ci sta mettendo davanti, ma che ha il difetto, non secondario in questo momento, di non essere pronta. Dal punto di vista italiano è notevole notare che la principale industria elettrica del Paese, l’Enel, non paia al momento coinvolta nella corsa alla fusione e abbia deciso di investire in “vecchio” nucleare all’estero e di posizionarsi invece convintamente, specie in Italia, sulle rinnovabili tradizionali, l’elettrificazione e la ricerca sulle batterie: la scommessa dell’ad Francesco Starace è che i prossimi tre decenni di profitti toccheranno ai pragmatici, non ai sognatori.

Piegati dai rincari. Un’emergenza che Draghi non sta affrontando

Il costo del gas vola, la benzina ha superato i due euro al litro, le bollette continuano ad aumentare. La situazione si sta facendo esplosiva e sta lasciando sul campo tante macerie. Da una crisi destinata a durare a lungo, se ne esce scaricando tutto sui contribuenti, che già sono allo stremo, oppure sulle aziende, che già sono in ginocchio. Per questo la politica dovrebbe trovare soluzioni rapide.

Gabriele Salini

 

Caro Salini, sono tre gli elementi che dovremmo considerare. Il primo riguarda il fatto che un rincaro così generalizzato e tumultuoso dell’energia, con quel che avrebbe provocato nella filiera industriale e alimentare, non è stato avvistato quando si doveva. Infatti, non si è immaginato neanche un minimo cordone di protezione con decisioni che aiutassero a ridurne l’impatto. Penso, per esempio, alla scelta di diminuire l’Irpef per i redditi di fascia medio-alta. Decisione contenuta nella legge finanziaria, approvata a fine dicembre, pochi giorni prima dell’esplosione della crisi energetica. Sono stati impegnati otto miliardi che oggi sarebbero davvero tornati utili per contrastare questo vero e proprio shock. Il secondo è legato alla catena dei costi che sarà così impetuosa da essere pericolosamente in grado di mettere in crisi la stabilità del governo. Gli effetti perversi dei rincari attraverserà quasi tutta la società colpendo con una tagliola le classi più deboli (il raddoppio delle bollette e il rincaro del carrello della spesa). Un pensionato, che abiti in tutti quei luoghi dove il clima è rigido fino a primavera inoltrata, come farà a riscaldare casa se il conto sarà di migliaia di euro? Ma non tutti saranno allo stremo. La miriade di bonus, infatti, ha fatto arricchire ceti sociali e settori economici, piccole e grande imprese legate specialmente al circuito dell’edilizia, per dire di un comparto che ha visto aiuti così elevati da apparire irragionevoli. Attenti ai furbi! Bisogna sostenere chi ha perso reddito non chi già ha goduto di un aiuto enorme.

Il terzo, infine, tocca proprio il governo Draghi, (“il migliore possibile” ricordate?), quello che avrebbe dovuto ridare fiato all’economia, il settore in cui tecnici di gran nome pesano di più nell’esecutivo. Oggi pare nave già inghiottita dalle onde di questa speculazione.

Antonello Caporale

Mail box

 

La centralità dei docenti è essenziale per la scuola

In questo allegro clima di smantellamento della scuola pubblica e di felice mescolanza tra interessi pubblici e privati, con l’arrivo delle risorse del Pnrr a scatenare tutti gli appetiti, notiamo corsi tenuti da dirigenti scolastici per i loro futuri successori, nei quali si dovrebbe parlare del ruolo del dirigente “change maker”, di come “promuovere una didattica innovativa”, e di una non meglio precisata “neuroleadership”. Facciamo sommessamente notare che nella scuola pubblica le scelte sulla didattica sono ancora responsabilità dei docenti, che la scuola non è un’azienda ma un “organo costituzionale della democrazia”, l’unico capace di trasformare i sudditi in cittadini (Calamandrei). Finché non verrà abolita la Costituzione, nel nostro Paese vige ancora la libertà di insegnamento, il che non significa che gli insegnanti in classe possono fare quello che vogliono, ma che è compito specifico del docente trovare gli strumenti didattici più adatti agli studenti che ha di fronte, alla situazione della classe e alle finalità educative che si vogliono perseguire, nell’esclusivo interesse degli studenti e della loro formazione umana e culturale; strumenti che non sono quasi mai quelli che fanno più comodo a formatori, aziende e imprese.

Gruppo “La nostra scuola”

 

Il caro bollette è colpa della poca trasparenza

Il sistema di prezzo del gas in vigore oggi in Italia protegge fortemente gli operatori e scarica interamente sui consumatori ogni disfunzione del sistema. L’ha scritto Salvatore Carollo, osservando che in un Paese come l’Italia sarebbe logico se il prezzo del gas dipendesse da quello medio di importazione, rimasto più stabile grazie ai contratti di lungo periodo nonostante le turbolenze dei mercati, anziché da un indicatore poco affidabile come il Ttf olandese. Per questo, scrive Carollo, bisognerebbe sistemare il sistema, esigendo trasparenza dalle imprese sulle loro condizioni di approvvigionamento. E invece la discussione sul “caro bolletta” sta mostrando assenza di trasparenza e informazione a quasi tutti i livelli.

Mario Fiorini

 

È giunta l’ora di abolire l’inutile Green pass

L’obbligo di Green pass comporta: 1) un costo economico e soprattutto ambientale altissimo, dovuto ai milioni di persone costrette a fare 2-3 tamponi alla settimana (da smaltire come rifiuti speciali) solo per poter esercitare il loro diritto a lavorare; 2) un aumento esponenziale del traffico privato, dato che i mezzi pubblici sono interdetti a chi non ha il Green pass, con conseguente congestione e inquinamento; 3) una inaccettabile discriminazione e penalizzazione. Tutto questo quando è assodato che il Green pass NON ferma i contagi, ma induce anzi una falsa sicurezza (o menefreghismo della serie “tanto, io sono vaccinato”) che porta a non rispettare le uniche regole che universalmente funzionano: distanza e mascherine. Ma cosa aspettiamo ad abolirlo?

Cristina Guercilena

 

Il rapporto sadomaso fra Draghi e cittadini

Il premier Mario Draghi ha instaurato un curioso rapporto sadomaso fra cittadini e governo, che si basa sull’applicazione di restrizioni e obblighi, spesso decisi arbitrariamente, che non hanno uno scopo sanitario ma esprimono piuttosto un’imposizione, un desiderio di dominio. Da un punto di vista psichiatrico, questa tendenza è chiaramente un indizio di un tratto caratteriale specifico, tuttavia c’è anche un aspetto sociologico che non va sottovalutato. Il rapporto sadomaso molto spesso implica il rovesciamento dei ruoli, e così il dominatore diventa schiavo e viceversa. Quindi ciò potrebbe avvenire anche nella situazione che si è creata, con un incredibile rovesciamento in cui il popolo italiano perseguiterebbe il premier, accusandolo per la condizione di crisi economica e sociale in cui ci troviamo.

Cristiano Marorella

 

TvLoft, l’eccezione della televisione italiana

Desidero complimentarmi con i responsabili di TvLoft per i programmi di attualità come Accordi e disaccordi o La confessione. Si tratta di trasmissioni non rissose e tranquille, dove gli ospiti trovano il modo di esporre con calma e in modo chiaro le proprie idee, senza essere continuamente interrotti o prevaricati dagli altri ospiti o dal conduttore di turno (come accade, purtroppo, in molti programmi televisivi). In questo modo si riescono a capire e seguire le idee e i concetti argomentati.

Roberto Raciti

Da piccola volevo diventare un astronauta: ma come dormono, mangiano e fanno pipì?

Da piccola volevo fare o l’astronauta o il fantino, e ancora oggi mi capita di pensarci. Mi piace l’idea di navigare nello spazio, vedere la terra in lontananza, osservare le stelle, la luna, ed esplorare l’universo. Ho anche sognato di unire i due mestieri, ma portare un cavallo su un’astronave si è rivelato da subito un problema insormontabile. Ho letto molto sulla vita degli astronauti, sulla loro preparazione, e durante la loro permanenza a bordo della stazione spaziale devono vivere e lavorare in un ambiente molto diverso da quello a cui sono abituati sulla terra. Cosa mangiano? Come dormono? Come si lavano? L’alimentazione è un problema. Non possono certo andare al ristorante perché nello spazio a una certa ora chiude tutto. Anche il sabato sera! I cibi solidi sono serviti su un vassoio magnetico, mentre le bevande e le zuppe si sorseggiano con le cannucce per evitare la dispersione. E se uno ha voglia di una birretta? Aspetta la fine della missione. Come si dorme a bordo? Non troppo comodamente. I membri dell’equipaggio hanno diritto a un sacco a pelo ancorato al muro, e vivono ogni giorno 16 albe e 16 tramonti, perché la stazione orbita intorno alla terra ogni 90 minuti. L’igiene personale e i bisogni corporali? L’equipaggio ha a disposizione un tubo con un imbuto giallo per la pipì, e una sorta di scatola con buco per tutto il resto. Gli scarti, a parte la pipì che viene riciclata e diventa acqua, vengono accatastati in una stiva e vengono fatti tuffare nell’atmosfera a velocità ipersonica, dove si disintegrano in circa 700 pezzi, che naturalmente cascano tutti in testa a noi che siamo rimasti sulla terra! Per quanto riguarda l’eventuale sesso… lasciamo perdere, la gravità pare non aiuti affatto! Anzi. Ti puoi trovare attaccata al soffitto come se niente fosse. Concludendo: meglio fare il fantino!

 

In vacanza con Eco. Le buone risate rinfrescanti di un giocatore di scacchi libero da tutte le regole

Credo che molti. fra coloro che si sono già assicurati una copia di Filosofi in libertà di Umberto Eco (Nave di Teseo) abbiano una piacevole sensazione di vacanza, di tempo disponibile fra impegni di lavoro o di studio dell’autore. L’idea guida, e dunque la ragione delle pagine allegre di questo libro, è che una buona risata fa sempre bene ed è apprezzabile che un uomo saggio e colto, sempre al lavoro d’insegnamento, studio e scrittura sappia imporsi la pausa del tempo libero e della risata magari inutile alla scienza ma rinfrescante, ispirandosi all’antico detto “prima il dovere e poi il piacere” (frenato dalla persuasione austera e cattolica, da cui Eco stava distaccandosi che un sacrificio o “fioretto” è sempre un bene). Poiché l’alternanza fra il rigore e la festa si trova nel lavoro di Eco, non solo fra un’opera e l’altra, ma anche fra le pagine della stessa opera . E poiché un minimo di frequentazione del suo lavoro ci dice che in Eco non c’è quel bisogno irrefrenabile di essere spiritoso che tormenta molti autori, bisogna trovare un altro modo di spiegare l’oscillazione fra battuta e narrazione, tra rivelazione e confidenza, tra ciò che è grave, e che è lieve, e in che modo si fronteggiano. Condividevamo due stanze a Milano negli ani 50 (lavoravamo entrambi alla Rai appena diventata televisione) ed era facile rendersi conto che quando Eco “lavorava” ( sempre, quando era in casa, doveva osservare due scadenze per i testi di cui era puntuale contributor: la Rivista di Estetica diretta da suo ex docente Luigi Pareyson all’università di Torino; e la rivista letteraria Il Verri dove lo volevano Giansiro Ferrata e Luciano Anceschi. Ricordo Eco occupato nella recensione di un libro di Estetica che aveva molto a che fare con la reputazione del notissimo autore. Passava ore a verificare i dettagli, le date, le citazioni. Ma sempre ascoltando la radio Pop e Jazz delle truppe americane in Germania. Intanto, per Il Verri aveva cominciato le sue infinite puntate di quel “Diario Minimo” che divenne in pochi mesi una lettura abituale (di solito immensamente divertita) della vita intellettuale milanese e poi romana, e ha agganciato l’attenzione di giornalisti e rotocalchi, di Benedetti e di Scalfari. Direte che per spiegare Umberto Eco uno e diverso, come risulta in questo Filosofi in libertà mi sto servendo di una esperienza fortunata e unica. Ma oso dire che il libretto appena pubblicato dalla Nave di Teseo spiega tutto. Eco, come i grandi giocatori di scacchi, aveva capito che, per prima cosa, impari bene le regole del gioco. Ma, imparate le regole, il gioco resta libero e, come per tutti i grandi giocatori, la grande qualità è di vedere, sapendo le mosse che ci sono, le mosse che arrivano, quelle che verranno. Le vede già disposte nelle alternative possibili, e il suo strumento, benché sia stato un buon matematico, non è l’anticipo del calcolo ma l’anticipo della vasta collezione di cultura e di conoscenza. Quando ha comprato il primo mini scaffale svedese per i libri che aveva con sé sul momento o che aveva appena ricevuto, ricordo che il primo contro la parete era Il Futuro è già cominciato di Robert Jungk.

Filosofi in libertà – Umberto Eco

Pagine: 224 – Prezzo: 12 – Editore: La Nave di Teseo

Verdone sempre verde, l’EuroLauro di S. Marino e il gesto di Eminem

 

BOCCIATI

Il diritto e il rovescio. Djokovic ha da poco ribadito di non essersi vaccinato e di essere disposto a sacrificare molti tornei pur di non vaccinarsi. Tra questi ci sarà anche il Master 1000 di Roma, previsti dal 2 al 15 maggio? Secondo la sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali, Djokovic potrà partecipare al torneo: è uno sport all’aperto e non di contatto e non è previsto il Green pass rafforzato. Andrea Costa, sottosegretario alla salute, dice il contrario: “Ci sono delle regole che vanno rispettate finché ci sono. Credo che dobbiamo essere tutti uguali di fronte alle regole, alle norme, e chi ha un grande seguito, chi può darci una mano in questa opera a maggior ragione deve dare il buon esempio. Quindi sono contrario alla presenza di Djokovic a Roma”. Ora, a parte che non sappiamo se le attuali regole saranno in vigore in maggio, ci permettiamo di ricordare ai politici che è il caso di occuparsi dei diritti dei lavoratori italiani non vaccinati che forse continueranno a restare senza stipendio anche in primavera, quando – se tutto va come sembra – l’emergenza sanitaria sarà cessata.

 

PROMOSSI

EuroLauro. Voleva a tutti i costi l’Eurovision (dal dieci 10 al 14 maggio a Torino) e ci è riuscito. Achille Lauro parteciperà con i colori della Repubblica di San Marino. Sabato sera ha avuto la meglio su colleghi come Spagna, Valerio Scanu, Alberto Fortis, il rapper Blind e perfino l’ex tronista di Uomini e donne Francesco Monte. Il brano è Stripper e dopo il battesimo sul palco dell’Ariston è facile immaginare che sarà una performance nuda.

Benedetto il giorno che l’ha girato. Il più bel film sulla depressione spegne 30 candeline: “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, di e con Carlo Verdone, è stato proiettato lunedì scorso (giorno di San Valentino) alla Nuvola dell’Eur a Roma. Sold out i 1800 posti e tremila persone che non sono potute andare, a testimonianza del grande amore che lega Verdone al suo pubblico. Il film fa trent’anni, ma li porta splendidamente perché la storia di Bernardo, giornalista depresso e ipocondriaco che cerca di pubblicare un’esplosiva biografia di Jimi Hendrix e Camilla, attrice teatrale, piena di complessi e tranquillanti, continua a essere un’analisi irresistibile, intelligente e ironica (indimenticabile la figura dello strizza, Ludwig Altieri). “Oggi gli studi di psicoanalisi sono molto frequentati, all’epoca una coppia di nevrotici che si incontrano dall’analista e finiscono per innamorarsi era una novità”, ha detto il regista al Corriere. Ricordando anche il celebre episodio della polverina bianca all’aeroporto di Heathrow: “Mi chiedono di aprire la valigia. Dentro c’era una pochette con medicine varie, tra cui una busta contenente una polvere bianca. Il poliziotto mi fissa insospettito, la annusa e io mi affretto a precisare che non si trattava di cocaina, bensì di un lassativo. Lui sembra non crederci, io gli faccio persino il gesto di uno che sta seduto sul water e finalmente capisce e mi lascia andare”. E subito ti torna in mente una memorabile scena del film, quando i due svuotano un sacco pieno di farmaci che “coprono tutto dall’ansia al delirio schizoide”.

Not Afraid. All’halftime show della finale del campionato di football americano, il Super Bowl, si è esibito anche Eminem: tutto vestito di nero, il berretta, la felpa col cappuccio, e ai piedi le Air Jordan 3 a un certo punto, davanti a 100 milioni di spettatori, si è inginocchiato in solidarietà con il quarterback Colin Kaepernick. Il giocatore che prima delle partite si inginocchiava durante l’inno invece di alzarsi in piedi, per protesta contro il razzismo e la cui carriera è stata stroncata: Kaepernick è stato costretto al ritiro perché nessuno l’ha più ingaggiato a stagione finita. Il valore dell’esempio.

 

Fine vita (in Italia) mai. E Vezzali su Djokovic soprende tutto il mondo

 

BOCCIATI

Inammissibile. Cringe, come si usa molto dire adesso. O ‘me metto scuorno’, come si è sempre detto a Napoli. Questo è il sentimento che ha provato e prova buona parte del Paese di fronte all’incapacità di approvare una legge sul fine vita che consenta, a chi lo desidera, di morire con dignità. Dopo le innumerevoli alzate di mani del Parlamento, i cittadini avevano sperato di potersi pronunciare personalmente su una questione che i loro confusi e pavidi rappresentanti hanno più volte eluso. La Consulta ha bocciato il quesito referendario che lo avrebbe reso possibile e siamo tornati al punto di partenza: la parola alle Camere. Il desiderio di mettersi le mani nei capelli, nasce di fronte alla spiegazione di Marco Cappato, uno dei pochissimi esponenti politici che si è speso personalmente per questa causa, di cosa potrebbe accadere ora: “Oggi sul fine vita inizia una discussione su un testo di legge base peggiorativo che restringerà le possibilità di accesso all’uso del suicidio”. Dunque si rischia di cominciare un percorso travagliato e dagli esiti incerti, per ottenere un risultato magari peggiore. Se il quesito proposto dal Comitato referendario può essere giudicato inammissibile, questo rimpiattino grottesco delle istituzioni, invece, merita di essere ammesso?

Voto 0

Novax Djokovic. Dopo le infinite polemiche che hanno accompagnato le vicende sportive del campione No vax Novak Djokovic, la sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali si è espressa così riguardo la partecipazione del tennista serbo agli Internazionali di Roma: “È uno sport all’aperto e non è previsto il green pass rafforzato: quindi se Novak Djokovic vorrà venire a giocare in Italia, potrà farlo. Magari non utilizzando alberghi e ristoranti”. Con questa affermazione, l’ex schermitrice ha dato una stoccata alla credibilità italiana sul fronte della gestione pandemica. E neanche in punta di fioretto. Capiamoci, gli sport all’aperto non richiedono il super green pass è vero, ma ha senso che un governo che ancora vieta gli sport di gruppo all’aperto ai ragazzi, che ha fondato la propria intera strategia sul restringimento delle attività accessibili a chi ha scelto di non vaccinarsi, scelga di rivelarsi indulgente con uno dei casi che più ha destato polemiche e verso il quale altri Paesi si sono mostrati intransigenti? Questa volta non è proprio il caso di abbassare la guardia. Se non lo sa la Vezzali…

Voto 4

 

PROMOSSI

Mala tempora. Come il dibattito sia progressivamente degenerato e come i medici da santi siano diventati diavoli, lo raccontano bene le insinuazioni che hanno travolto il prof. Crisanti, reo di aver acquistato una dimora storica insieme alla moglie. Il microbiologo è stato ricoperto d’illazioni social circa i suoi presunti guadagni ottenuti grazie alla pandemia. “Io non faccio nessuna attività privata: tutti i soldi che guadagno con le consulenze, li devolvo al Dipartimento. Per evitare situazioni equivoche, mi sono imposto di non guadagnare neanche un quattrino con la pandemia. Mai fatto comparsate a pagamento, mai preso soldi per il Covid”, ha replicato il prof. Solidarietà.

Voto 7

 

Il suicidio Juve dei diritti tv. Le macerie rimaste con il passaggio da Sky a Dazn

Ricordate quando, la primavera scorsa, i presidenti di Serie A meditavano di fare causa ad Andrea Agnelli (22 aprile 2021, titolo del Corriere della sera: “Superlega, club di Serie A: causa ad Agnelli per aver fatto fuggire i fondi. Il presidente bianconero rappresentava tutti nelle trattative con Cvc-Fsi-Advent: sfumati 1,7 miliardi”) che fece colare a picco l’accordo concluso dal presidente di Lega Dal Pino con i fondi di private equity, fondi su cui si fiondò Tebas, presidente della Liga, che a stretto giro di posta portò a casa un accordo da 2,6 miliardi che fece subito rifiatare l’intero calcio spagnolo? Ebbene: si parla della stessa Juventus che spalleggiata dall’Inter di Marotta e da Napoli, Atalanta, Lazio, Fiorentina e Verona aveva sfiduciato Dal Pino e stava premendo affinchè i diritti tv, priorità assoluta, venissero ceduti a Dazn dopo una vita trascorsa dai club di A in compagnia di Sky. Cosa che avvenne: al ribasso rispetto al triennio precedente (-43,3 milioni) con Dazn che assicurava 840 milioni a stagione per le 10 partite settimanali e Sky che contribuiva con 90 milioni per la co-esclusiva di 3 partite.

A distanza di nemmeno un anno dalle rovinose decisioni prese in quei giorni dal calcio italiano, sapete cos’è successo? È successo che l’ormai conclamato flop di Dazn oltre a comportare un calo di visibilità della Serie A calcolato nell’ordine del 20-30%, con conseguente drammatico deprezzamento del prodotto, ha fatto sparire dai radar indovinate chi? Proprio la Juventus, che essendo stata concessa alla co-esclusiva con Sky una sola volta nel girone d’andata contro le 7 dell’Inter e le 8 del Milan, ha avuto uno spaventoso crollo di audience passando dai 29 milioni di spettatori del campionato scorso ai 14,5 milioni di oggi, sempre sommando i dati omogenei Auditel delle due piattaforme. E se un anno fa la classifica degli ascolti a metà campionato vedeva la Juventus in testa, come sempre, con 29 milioni di spettatori seguita da Milan con 21,1 e dall’Inter con 19,3, oggi il quadro è andato a gambe all’aria col Milan leader con 15,8 milioni di spettatori davanti a Inter con 15,3 e Juventus con 14,5. E poiché, come i club sanno bene, l’8% dei diritti-tv vengono ripartiti secondo la legge Melandri in base agli ascolti-tv di ogni club, ciò significa che la Juve, risucchiata nel buco nero di Dazn e sparita dai radar Sky, vede ridurre alla metà la fetta di soldi normalmente di suo appannaggio per la dabbenaggine e l’insensatezza delle scelte operate da Dazn e Lega Calcio in termini di numero di abbonati (in vertiginoso calo), scelta delle tecnologie trasmissive, distribuzione delle partite tra piattaforme, distribuzione delle squadre tra slot orari con platee diverse.

Ricapitolando: la Juventus, che tanto aveva premuto per il passaggio da Sky a Dazn, avrà quest’anno esattamente il 50% della visibilità in meno; addirittura il 65% se alle partite aggiungiamo la mancata visibilità dei programmi pre e post match cui Dazn, in ritardo, sta tentando adesso di porre rimedio. Inutile dire che alla luce di tutto quanto sta succedendo il valore dei diritti della Serie A – da sempre la prima se non unica fonte di sostentamento dei club – sta andando a picco non foss’altro per le ricadute pubblicitarie che il nuovo e disastroso quadro comporta. Insomma, un harakiri in piena regola. Ma come diceva quello, per il resto tutto bene.

 

Memoria corta. Gli anni di Tangentopoli nell’oblio di un Paese che non ricorda più

Ci stanno portando via la memoria. E una copertina dell’Internazionale ha rilanciato l’allarme analogo della scienza: ci stanno portando via l’attenzione. Viviamo in un mondo che ci sommerge di impulsi a sapere, a controllare, a decidere, oltre le possibilità di governo del cervello umano. Perciò non ci concentriamo, perciò non sappiamo. Ma è sempre così? È sempre colpa della società che cambia o c’entra, al contrario, qualcosa che riguarda la nostra pigrizia intellettuale?

Me lo sono domandato partecipando a una delle recenti rievocazioni/celebrazioni del 17 febbraio, la data simbolo di Mani Pulite. Due giornate promosse presso il master anti-corruzione e criminalità organizzata dell’università di Pisa dal professor Alberto Vannucci. Dove ho cercato di ricostruire i fatti, i fermenti, le culture, i sentimenti, che portarono a quella data fatidica. A partire dall’indimenticabile apologo sull’onestà di Italo Calvino, marzo 1980. Ho provato a ripercorrere, dotandolo di senso, ciò che portò alla fine a sgretolare le mura di un edificio che i suoi padroni ritenevano eterno, ricavandone per sé una sensazione di onnipotenza. Tanto da non capire, in quel 1992, da dove gli arrivassero addosso le ondate che li stavano sommergendo. I referendum elettorali o il movimento per l’elezione diretta dei sindaci, la Lega nata nelle valli del Nord, e la Rete nata per reagire alla mattanza mafiosa in Sicilia. Il circolo milanese di “Società Civile” o la rivista I Siciliani di Giuseppe Fava a Catania. La critica di Norberto Bobbio, annoverato da Craxi tra gli “intellettuali dei miei stivali”, e quella dei gesuiti, il cardinal Martini a Milano e padre Sorge o padre Pintacuda a Palermo. Fino al film d’epoca, Il portaborse di Nanni Moretti e Silvio Orlando, o al successo strepitoso di Cuore, il settimanale satirico che inventò il titolo anch’esso d’epoca: “Torna l’ora legale, panico tra i socialisti”. E tante altre cose che la memoria nazionale ha messo in un armadio tutte insieme, salvo ripescarne isolatamente qualcuna ogni tanto.

Ecco, questo mi colpisce nelle rievocazioni. La estrema brevità di quella stagione, il suo incistamento in una parentesi di nemmeno due anni, in cui – sembra di capire – tutto accadde, svuotando di senso il pensiero, l’azione e le fatiche di centinaia di migliaia di persone, alle quali una informazione controllata dai partiti e priva della rete quasi non diede voce per un decennio. Perciò la tesi del “golpe giudiziario” così cara ai socialisti è semplicemente antistorica, anche se dà conto del dispetto degli stessi socialisti davanti alla storia, allo scoprirsi vulnerabili proprio quando la caduta del Muro avrebbe dovuto regalare loro, con la fine del comunismo, la supremazia sul partito che in Italia era stato comunista fino a un anno prima. Ma è antistorica anche la rappresentazione di un pugno di magistrati onesti che manda a picco una Repubblica, pur se in superficie apparve effettivamente così.

Ecco, a Pisa mi ha colpito che non solo i giovani che non erano ancora nati, ma anche molti adulti nulla o poco ricordassero o sapessero della lunga strada che portò a Tangentopoli, con i suoi protagonisti e le sue vittime, le sue nobiltà e i suoi plebeismi morali. Mi colpisce la memoria senza memoria. Alla quale a ogni occasione si torna, per parlare di due anni che alla fine ci risultano incomprensibili nelle loro premesse e nei loro esiti. E a proposito di memoria offro a voi il mio “confiteor”. Nulla sapevo della immonda storia proposta a Pisa da Gian Antonio Stella. Quella di Cristiano Lobbia, deputato moralista, morto di crepacuore a 50 anni nel 1869, vittima di un agguato per impedirgli la denuncia di uno scandalo fra testimoni uccisi, codardie politiche e ripulsa di sistema per gli onesti. Cercate in rete. Vale la pena di conoscerla. Per capire di più.

 

Pedofilia, perché i vescovi italiani non vogliono indagare: l’incubo tedesco e il tabù del celibato

Ancora una volta il cardinale Gualtiero Bassetti smorza le speranze di quanti, a partire dalle vittime e dai loro familiari, chiedono giustizia e verità sullo scandalo degli abusi sessuali e della pedofilia nella Chiesa italiana, sulla scia degli altri Paesi europei.

In un’intervista di ieri ad Avvenire, il quotidiano della Cei, il presidente dei vescovi ha infatti ribadito la linea attendista e generica annunciata agli inizi di febbraio al Corriere della Sera. E lo fa nel momento in cui irrompe l’inchiesta giornalistica della Bbc inglese, come documentato sabato dal Fatto. Queste le parole di Bassetti: “Sul tema di un’indagine italiana dovrà essere l’assemblea dei vescovi a decidere circa i contenuti e le modalità”. Stavolta si risparmia la differenza tra “giustizia” e “giustizialismo” fatta al Corsera ma la sostanza non cambia: niente commissione indipendente sul modello tedesco e decisione probabilmente rinviata al suo successore a metà maggio.

Certo, il prossimo presidente affronterà più concretamente la questione – i favoriti sono per la linea dura chiesta più volte da Bergoglio: Zuppi (Bologna), Lojudice (Siena), Castellucci (Modena) – ma tra le righe dell’intera risposta di Bassetti alla domanda di Avvenire si coglie uno dei nodi principali del muro della Cei a un’indagine vera e senza sconti. Il capo dei vescovi completa così il suo pensiero: “In Italia abbiamo realizzato una rete capillare per la tutela dei minori diffusa in ogni diocesi che coinvolge non solo vescovi e sacerdoti ma anche esperti laici. Particolare attenzione va riservata agli anni di formazione in Seminario anche attraverso il supporto delle scienze umane”. Bassetti da più spazio al presente e al futuro che allo scomodo passato e lo fa per un motivo ben preciso. E che si ricollega al recentissimo simposio internazionale in Vaticano sulla “teologia fondamentale del sacerdozio nell’attuale contesto storico, dominato dal dramma degli abusi sessuali perpetrati dai chierici”.

Il nodo è la formazione del sacerdote, che rimanda al tabù del celibato. Questo spiega l’ostilità avuta sinora dai vescovi italiani per un’indagine su abusi e pedofilia. In pratica essi temono gli effetti innescati in Germania dall’inchiesta della commissione indipendente nella diocesi di Monaco e Frisinga, che ha messo sotto accusa Ratzinger (vescovo in quella diocesi dal 1977 al 1982) e rilanciato le spinte filo-Lgbt e contro il celibato dei “progressisti” capeggiati dal cardinale Reinhard Marx. Le resistenze della Cei sono quindi poggiate su un tavolo “politico” – che cozza con le richieste di giustizia delle vittime – e devono infine fare i conti con due posizioni inconciliabili.

Per Francesco, abusi e pedofilia sono favorite dal clericalismo sessuofobo e fariseo, più volte condannato e paragonato a una “perversione”. In modo più esplicito, il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle conferenze episcopali dell’Ue, ha poi detto che “la formazione del clero deve cambiare e bisogna mutare il nostro modo di vedere la sessualità”. Al contrario, conservatori e clericali di destra si rifanno a quanto scritto da Benedetto XVI nel 2019: cioè che “il collasso della teologia morale” è colpa del Sessantotto e bisogna quindi ritornare all’antico.