Chi scrive non è un giornalista scientifico. Per questo per descrivere la fusione nucleare – la tecnologia che di qui a qualche decennio dovrebbe produrre energia pulita e a basso costo – partirà dalla cosa che più ha impressionato un cervello che considera già un mistero l’accendersi della luce dopo aver spinto un interruttore: la fusione dei due atomi che produce energia avviene a 100 milioni di gradi Kelvin, una temperatura più alta di quella che si registra al centro del Sole. È una cosa sconvolgente immaginare che siamo in grado di sviluppare temperature più alte della “nostra” stella, eppure non stupisce (né preoccupa) nessuno degli esperti della materia: il problema su cui tutti lavorano è come intrappolare quel “fluido infernale” – come lo ha descritto uno splendido pezzo di Nature firmato Philip Ball il 17 novembre scorso – in modo da estrarne energia con continuità.
Generalmente l’idea su cui si lavora è, molto all’ingrosso, l’uso di campi magnetici per confinare il plasma in un reattore a forma di ciambella (un toroide detto Tokamak, un acronimo russo) a dispetto delle forze di repulsione elettrica, ma la faccenda non è così semplice: solo da poco l’energia prodotta in esperimenti di fusione nucleare ha superato quella immessa nel sistema per farlo funzionare. La cosa bella è che la fusione – a differenza del nucleare in uso oggi, compresi i mini-reattori a fissione amati dal ministro Roberto Cingolani – non solo non presenta il rischio di incidenti nucleari tipo Fukushima, ma neanche produce emissioni climalteranti o scorie (eccezion fatta per le componenti interne al reattore, poca cosa e il cui processo di decadimento è comunque previsto durare decenni e non millenni). La cosa brutta: nessuno sa quanto siamo lontani dall’obiettivo.
Una vecchia battuta recita che “la fusione nucleare è sempre a dieci anni di distanza dalla sua realizzazione”. Anche a sentire i più ottimisti, comunque, la tecnologia che potrebbe cambiare il mondo come lo ha costruito una geopolitica basata (anche e soprattutto) sull’energia non sarà parte della transizione a cui ci affanneremo da qui al 2035. Va registrato, però, che la corsa alla fusione stavolta pare essere partita davvero. Di come produrre energia pulita come fa il Sole si parla da decenni e a lungo è stata giudicata un sogno, quando non una mezza truffa, ma oggi tutti sono convinti che ci siamo vicini, tanto che in un settore dominato finora dagli investimenti statali sono arrivati anche i privati: con l’ultimo round di finanziamenti della società Cfs – nata dal Massachussets Institute of Thecnologies (Mit) di Boston e di cui l’italiana Eni è azionista di rilievo – siamo arrivati nel 2021 oltre i tre miliardi di dollari finiti a start-up che lavorano alla fusione.
Gli esperimenti promettenti ormai si susseguono con una certa regolarità. L’ultimo è appunto quello del laboratorio Joint european torus (Jet) di Culham, un paesino vicino Oxford, in cui sono stati prodotti 11 MgW di potenza: poca cosa in termini di energia, ovviamente, ma un passo in una direzione promettente nell’ambito del progetto Iter per la costruzione di un reattore a fusione a Cadarache, in Francia, progetto a cui partecipano due terzi dei governi mondiali e in cui l’Italia ha una sua posizione di rilievo (l’obiettivo è farcela entro il 2050). Sempre nell’ambito di Iter un reattore sperimentale in Cina a gennaio ha sostenuto il processo di fusione per 17 minuti (contro i 5 secondi del vecchio Jet di Culham).
La stessa Cfs (Commonwealth Fusion Systems) partecipata da Eni ha annunciato a settembre di aver completato con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva Hts (High temperature superconductors), che dovrebbe assicurare il confinamento del plasma, e ha annunciato la costruzione del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia denominato Sparc nel 2025 e, dopo, il primo impianto dimostrativo, Arc, il primo a immettere energia da fusione nella normale rete elettrica. Quando? Nel 2031, dice Cfs. Altre start-up private – dalle americane Helion Energy e General Atomics alla canadese General Fusion – testano i loro modelli di reattori o materiali e tutti sono convinti che gli anni Trenta saranno quelli della produzione.
Per molti scienziati che lavorano nei progetti pubblici, invece, gli obiettivi sulla fusione di queste nuove imprese (oltre trenta ormai) sono eccessivamente ottimisti: “Dicono che funzioneranno tra dieci anni e lo dicono da anni, ma è solo un modo per attirare finanziatori”, ha detto a Nature Tony Donné, responsabile del programma del consorzio pubblico Eurofusion. Eppure l’eccitazione di chiunque se ne occupi oggi è a livelli altissimi: per molti, ragionevolmente, sarà la seconda metà del secolo quella della produzione industriale di energia da fusione nucleare. Tardi, come detto, per la transizione energetica a cui ci dovremmo avviare fin d’ora – ed è il motivo per cui l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) insiste nello spingere sulle rinnovabili tradizionali – ma non così lontano da non essere tenuto da conto dai governi nel medio periodo.
La presenza, insieme e accanto ai progetti pubblici, di imprese private riempite di soldi da ricchi finanziatori – Goldmann Sachs, Google, Bill Gates, Jeff Bezos e ovviamente molti fondi di venture capital – è, in ogni caso, una buona notizia: più strade aperte, più soluzioni e tecnologie testate, possibilità di interconnessione tra i progetti. Eni, ad esempio, oltre ad essere nel capitale di Cfs, partecipa al 20% circa alla società DTT (Divertor Tokamak Test) con Enea (al 70%) che ha l’obiettivo – nell’ambito del progetto EuroFusion – di affrontare nel laboratorio di Frascati i problemi tecnici e tecnologici della gestione dei grandi flussi di potenza prodotti dal plasma. DTT, un progetto da 600 milioni di euro, è un pezzo del mega-progetto Iter, avventura dal costo stimato di 22 miliardi di euro su cui peraltro lavorano molte imprese italiane: da Fincantieri ad Ansaldo Energia, da Vitrociset (Leonardo) alla Asg Superconductors e altri.
Una frontiera tecnologica le cui soluzioni sono ovviamente passibili di applicazione anche in altri campi, dalla medicina a diversi settori industriali: uno studio ormai datato, ma che dà un’idea di quel che c’è in ballo nella corsa alla fusione, stimava che ogni euro investito in Iter ne avrebbe generato uno in ricadute dirette e ben due in quelle indirette.
Il punto d’arrivo di questo processo è la possibile realizzazione di un sogno che l’umanità coltiva da oltre 70 anni: energia elettrica pulita e a basso costo per tutti e che – sia detto en passant – potrebbe entrare domattina nelle reti che già usiamo. Una tecnologia “game changer”, che risolverebbe in un colpo solo tutti i problemi ambientali ed economico-sociali che la transizione energetica ci sta mettendo davanti, ma che ha il difetto, non secondario in questo momento, di non essere pronta. Dal punto di vista italiano è notevole notare che la principale industria elettrica del Paese, l’Enel, non paia al momento coinvolta nella corsa alla fusione e abbia deciso di investire in “vecchio” nucleare all’estero e di posizionarsi invece convintamente, specie in Italia, sulle rinnovabili tradizionali, l’elettrificazione e la ricerca sulle batterie: la scommessa dell’ad Francesco Starace è che i prossimi tre decenni di profitti toccheranno ai pragmatici, non ai sognatori.