Legge antifascista, Roberto Benigni sarà testimonial

Un mese e mezzo per raccogliere 50mila firme e l’antifascismo avrà una nuova legge di iniziativa popolare contro la propaganda fascista e nazista. Il volano per trasformare il proposito in realtà lo ha offerto Roberto Benigni con la sua adesione. La proposta è partita da Stazzema (Lucca), dove il 12 agosto del ’44 le SS uccisero 560 civili nella frazione di Sant’Anna. Il sindaco Maurizio Verona, il 19 ottobre, ha depositato in Cassazione la proposta. Qualche giorno fa la sorpresa: “Una telefonata che non ti aspetti”, ha scritto su Facebook

annunciando la partecipazione del premio Oscar. La promessa è che Benigni diffonda l’iniziativa durante il tour sulla Divina Commedia per commemorare i 700 anni dalla morte del sommo poeta. Nelle ore successive il gruppo social “Legge antifascista Stazzema” ha raggiunto gli 80mila iscritti. La proposta di legge “è finalizzata a disciplinare pene e sanzioni verso coloro che attuano propaganda fascista e nazista con ogni mezzo, in particolare tramite social network e con la vendita di gadget”. La scadenza per presentarla in Parlamento è il 31 marzo. Per firmare basta rivolgersi al Comune di residenza. I dettagli sono sul sito Anagrafeantifascista.it. Sulle Alpi Apuane la memoria è ancora viva. Per l’eccidio di Sant’Anna nel 2005 sono stati condannati all’ergastolo 10 ex SS. Ma la sentenza non è mai stata eseguita. Stessa cosa per tutte le sentenze civili: dal 2008 la Germania gode nei tribunali della difesa dell’Avvocatura di Stato. “Quale sia l’accordo tra Roma e Berlino resta segreto”, conferma il giudice della Corte militare di appello di Roma Luca Baiada. Per i familiari delle oltre 23mila vittime, a cui spetterebbero circa 100 miliardi di euro, la strada per i risarcimenti è stata resa ulteriormente impervia dal dl del 2014 dell’ex premier Matteo Renzi, che vieta il pignoramento del denaro che le rappresentanze diplomatiche hanno presso banche o uffici postali italiani.

Nuove regole. Pornhub: riconoscimento facciale obbligatorio per chi carica i video

In una dichiarazione rilasciata martedì, Pornhub ha diffuso maggiori dettagli su come affronterà gli abusi sulla sua piattaforma, inclusa l’introduzione della tecnologia biometrica per verificare gli utenti che caricano video. L’annuncio arriva dopo che la piattaforma è stata accusata di ospitare video che raffigurano abusi sessuali su minori. I principali provider di sistemi di pagamento, tra cui Visa e Mastercard, hanno sospeso i loro servizi e i lavoratori dell’industria del sesso sostengono che questa decisione li stia danneggiando. Così, prima Pornhub ha vietato a tutti gli utenti non verificati di pubblicare sul sito e poi ha eliminato tutti i contenuti caricati da fonti non verificate, ovvero l’80% del materiale. Le nuove verifiche, ha spiegato in una nota, saranno effettuate da Yoti, una società di verifica dell’identità digitale, “fornendo una foto attuale e un documento di identificazione approvato dal governo”. E ancora: “Yoti verificherà la validità del documento e lo abbinerà alla foto dell’utente utilizzando una tecnologia biometrica sicura”. Ma, ha assicurato, aumenteranno anche i moderatori.

Oms in Cina: “Questo virus non è nato in laboratorio”

“È un eccellente soggetto per un film o una serie tv”, ma non per una ricerca scientifica: Peter Ben Embarek, capo del team di esperti che l’Oms ha spedito in Cina per rintracciare l’origine della pandemia, ha respinto l’ipotesi secondo cui il virus sarebbe nato nel laboratorio di biosicurezza di Wuhan. Senza renderli pubblici, ha detto anche che il team sta raccogliendo “dati mai registrati prima”, ma che terrà conto solo di “scienza e fatti”, perché “gli scienziati non sono politici”.

I camici bianchi dell’Oms hanno visitato l’Istituto di virologia di Wuhan, il primo ospedale che ha trattato pazienti contagiati, e il wet market della città culla del Covid-19. Infine sono stati accompagnati a Jiangxinyuan, nel distretto Hanyang, dove le statistiche ufficiali riferiscono però che, su una popolazione di 10 mila persone, solo 16 erano infette all’inizio dell’epidemia. Sempre affiancati dagli omologhi cinesi, senza poter liberamente intervistare o contattare membri della comunità – ufficialmente a causa delle restrizioni sanitarie –, proseguono nel loro tour organizzato dallo staff di Pechino.

Più volte le autorità cinesi sono tornate a raccomandare “cautela” a chi si attende risultati definitivi dalla missione. C’è “un alto livello di cooperazione con la Cina”, ma nessuna ipotesi di risposta sulla scoperta dell’origine della malattia che ha già contagiato cento milioni di persone nel mondo: è stato lo zoologo britannico Peter Daszak, già in Cina per studiare l’epidemia di Sars nel 2003 e molto criticato per i suoi stretti legami con Pechino, ad elogiare disponibilità e capacità del personale cinese, grazie al quale il suo team adesso “sta raccogliendo dati che nessuno aveva mai ottenuto finora, le tesi sono sul tavolo, si procede nella giusta direzione”.

Monoclonali, pronti 500 mln ma ora l’Italia deve rincorrere

“È una vittoria, non per me, ma per l’Italia intera, a partire dai pazienti con Covid. Ma è anche una sconfitta”. Così il virologo e docente ad Atlanta Guido Silvestri commenta il via libera ai farmaci monoclonali in Italia. Lo scorso ottobre si era speso perché il nostro Paese fosse il primo in Europa a sperimentarli e curare i malati, a costo zero. L’Aifa lasciò cadere la proposta, arrivò persino a negarla, mortificando ulteriormente il virologo che ora può togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Bisogna spiegare per quali motivi si approva a inizio febbraio una cosa che fu fatta fallire ad ottobre. È una sconfitta per la credibilità di molte persone”. Punta il dito contro il dg Aifa Nicola Magrini che sostenne pubblicamente l’impossibilità di autorizzare senza l’Ema, cosa poi accaduta, ma quattro mesi e tanti morti dopo. Silvestri ce l’ha poi con Giuseppe Ippolito, il direttore dello Spallanzani e membro del Cts che “nella riunione del 29 ottobre si era adoperato perché Aifa negasse l’autorizzazione, adombrando addirittura che Lilly volesse vendere in Italia un farmaco che aveva fallito negli Usa. Ci spieghi ora il collega Ippolito: sbagliò lui a opporsi nell’ottobre 2020 o sbaglia adesso Aifa ad autorizzare l’uso degli anticorpi?”.

Anche i giornali non ne escono bene. “Per quanto mi riguarda questa è anche una pagina nera per i media mainstream italiani, a partire da Corriere della Sera, Repubblica e Rai, che per settimane hanno bellamente ignorato l’inchiesta del Fatto Quotidiano dando invece risalto, senza contraddittorio, ai comunicati di Aifa”.

Adesso è tutto cambiato, da lumaca l’Aifa si fa lepre. “Nel tempo più rapido possibile”, è la formula usata dal presidente Giorgio Palù, vincitore non solo morale della battaglia, nel parere inviato a Speranza per il via libera finale. Superate le resistenze regolatorie, trovati 500 milioni di fondi che saranno gestiti da Arcuri, tocca anche acquistare le fiale e organizzarne l’uso. Il ritardo dei vaccini aumenta la richiesta globale di anticorpi. Gran parte della produzione di Regeneron e del Bamlanivimab di Eli Lilly – i due ora autorizzati – è opzionata dai paesi che si sono mossi prima e meglio. Ordinandoli adesso arriveranno non prima di marzo-aprile. La “rincorsa” però va anche gestita. C’è il rischio di fughe in avanti delle regioni come il Veneto: Luca Zaia ha fatto sapere che “gli anticorpi sono stati utilizzati in via emergenziale, ma la sanità del Veneto li utilizzerà nelle Rsa, nei pronti soccorso”. Rischia di ripetersi la sfida all’Ok Corral di tamponi, mascherine e vaccini. Tocca ad Arcuri attrezzare un piano. Il target-paziente è definito: ultrasessantenni e soggetti a rischio. Il timing corretto: 72 ore dai primi sintomi. “Agli ospedalizzati e intubati non serve a niente”, chiarisce Palù che ha redatto la valutazione scientifica per il ministro: “Sono un’arma potente quando la carica virale è massima perché la abbattono, riducendo dell’80% il rischio di ricovero e del 70% quello di morte”. Palù ha suggerito gli ambiti d’uso: “L’infusione dura un’ora e ne richiede un’altra di sorveglianza. Ho indicato la cura a domicilio o in ambiente ambulatoriale di pronto soccorso, in realtà territoriali dove funzionano le Usca. Le Rsa sono un’opzione, ma mi auguro che gli ospiti siano presto tutti vaccinati”.

Tocca potenziare il sistema di tracciamento, allerta e diagnosi. “Prima avviene il trattamento più funziona, meglio test antigenico rapido del tampone. È essenziale il raccordo di allerta col sistema sanitario regionale. L’autorizzazione è il primo passo di un sistema da mettere in moto”. Che si poteva rodare mesi fa. Se l’Italia si fosse mossa diversamente, quante vite avrebbe potuto salvare? “Non tocca a me attribuire responsabilità, non fatico a dire che è stato fatto un grosso errore di valutazione. Rimediare mi è costato fatica ma sono soddisfatto, credo d’aver fatto un servizio al Paese che è poi il compito che sono chiamato a svolgere. Ringrazio il ministro che ha capito, Silvestri che è un vanto per l’Italia. Anche voi del Fatto: le vostre inchieste hanno contribuito a riportare il tema sul tavolo dei decisori pubblici. E le terapie al servizio dei malati”.

Il super Bertolaso è ancora accusato di danno erariale

La Regione Lombardia lo ha scelto, dopo l’operazione Astronave in Fiera, a guida della campagna vaccinale anti-Covid. Ma “il Guido dei miracoli” – finora assolto in tutte le inchieste penali relative al periodo in cui era capo della Protezione civile nazionale – ha ancora qualche grana da risolvere, a Roma. Precisamente alla Corte dei conti che ne ha chiesto la condanna per un presunto danno erariale di 22 milioni di euro per le modalità di assegnazione del G8 del 2009 alla Maddalena, in Sardegna.

Bertolaso, infatti, è ancora “imputato” nella Capitale insieme al suo ex vice e attuale numero uno del Dipartimento Angelo Borrelli (cui invece viene contestato un danno di 5 milioni). Anche se una transazione bonaria di 21 milioni, accordata dall’Avvocatura dello Stato alla società che gestiva i terreni che avrebbero dovuto ospitare l’evento, potrebbe salvare la posizione di entrambi. In attesa della sentenza, Bertolasodal Pirellone promette di “vaccinare 10 milioni di lombardi entro giugno”, con la collaborazione di alpini, onlus e medici in pensione.

I fatti. Il 13 febbraio 2009 la Protezione civile pubblica un bando per l’individuazione di un’area idonea a ospitare il G8, con “servizi di ricettività alberghiera, del porto turistico e delle connesse strutture ed aree situate nell’ex arsenale” con concessione trentennale. Alla gara, che prevede “una somma non inferiore a 40 milioni di euro”, si presenta solo la Mita Resort srl – riconducibile all’allora presidente di Confindustria Emma Marcegaglia – che offre 41 milioni. In sede di stipula del contratto, però, gli anni di concessione diventano 40 e l’importo pagato dalla Mita si riduce a 31 milioni. Di qui, i primi 10 milioni di danno erariale (5 a testa) contestati a Bertolaso e Borrelli. La versione dei difensori è che i 10 milioni sarebbero stati già pre-investiti dalla Mita. I pm contabili contestano a Bertolaso “l’aggiudicazione del compendio immobiliare dell’ex arsenale della Maddalena a condizioni tali da non garantire la necessaria redditività degli investimenti effettuati”. “La presidenza del Consiglio dei Ministri aveva già investito più di 400 milioni”, scrive la procura, che ritiene che il contratto abbia portato un ulteriore danno erariale, imputabile a Bertolaso, di 16.658.175 euro, oltre 354.429 euro di interessi.

Le accuse sono contenute nella riassunzione dell’atto di citazione dell’8 ottobre 2015, arrivata dopo che nel 2014 l’iter era dovuto ricominciare per un errore procedurale. Il tribunale lo sospende di nuovo il 9 giugno 2016, alla presa d’atto di un lodo arbitrale del 2014 con la Protezione civile condannata a risarcire 39 milioni alla Mita Resort, che nel frattempo aveva fatto causa allo Stato per lo spostamento del G8 dalla Maddalena all’Aquila. L’arbitrato si risolverà il 27 dicembre 2017 con un accordo che porta lo Stato a risarcire 21 milioni alla Mita.

Il 17 gennaio 2020 la Procura regionale della Corte dei Conti, “avuta conoscenza” della transazione, chiede e ottiene la ripresa del procedimento. Ma l’accordo bonario potrebbe spingere i giudici ad assolvere Bertolaso e Borrelli. L’ultima udienza si è svolta il 19 gennaio 2021 e ora si attende la sentenza. A quanto risulta a Il Fatto, la transazione del 2017 ha generato a sua volta l’apertura di nuovo “fascicolo” contabile per un presunto danno erariale di 21 milioni (l’importo pagato a Mita Resort), che però non riguarda né Bertolaso né Borrelli, ma funzionari di Mef e Avvocatura.

Cts: sì allo sci in zona gialla Merkel: no alla Champions

L’infinita seconda ondata della pandemia in Italia continua, e un nuovo rialzo dei contagi preoccupa, ieri il saldo delle terapie intensive registrava +6, mentre il giorno prima -69; con 421 morti è stata superata la soglia delle 90 mila vittime per Covid e gli effetti delle chiusure di Natale sembrano esaurirsi: il calo dei casi si è fermato e nell’ultima settimana, dal 27 gennaio al 2 febbraio, in nove regioni – per il monitoraggio della fondazione Gimbe – si è verificata un’inversione di tendenza, con il numero di contagi in netta risalita. Secondo le nuove mappe dell’Unione europea il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione italiana, assieme alla provincia di Bolzano, colorata di “rosso scuro”, pur essendo ancora “gialla” secondo le disposizioni nazionali. Alla pari di una settimana fa, anche ieri il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie ha tinto la regione del colore che contraddistingue le zone a più alto rischio, in quanto sopra la soglia dei 500 casi ogni 100 mila abitanti, in base ai dati arrivati dai singoli Paesi europei. Stessa colorazione anche per la confinante Slovenia.

Intanto mentre in Campania è di nuovo in discussione la chiusura delle scuole è al vaglio una zona rossa tra Pescara e Chieti per il dilagare della variante inglese. Ma rispetto alle limitazioni previste per arginare i contagi, dal Comitato tecnico scientifico è arrivato il tanto atteso via libera allo sci dal 15 febbraio nelle regioni gialle. Una buona notizia per la Coldiretti, secondo cui la riapertura degli impianti nell’ultima parte della stagione è destinata ad avere effetti non solo sulle piste da sci ma anche sull’intero indotto delle vacanze in montagna, per un valore stimabile in circa un miliardo, dall’alloggio alla ristorazione, dai rifugi fino alle malghe con la produzione dei pregiati formaggi. Al presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari (Anef) Valeria Ghezzi, però, non basta: “Ora va tolto il divieto di circolazione tra le Regioni. Non voglio pensare che le imprese interrompano la cassa integrazione per i dipendenti e poi ci dicano che non tolgono il divieto di spostamento. Abbiamo subito danni e decine di aziende sono in crisi di liquidità”.

Soddisfatto il governatore del Veneto Luigi Zaia: “È un bel segnale quello del Cts, un segnale doppio che, da un lato ci regala una grande tranquillità perché il via libera arriva direttamente dal mondo scientifico e, dall’altra parte, fornisce l’occasione per un rilancio della montagna in concomitanza coi mondiali sci di domenica prossima, 7 febbraio, a Cortina. È ovvio – ha aggiunto – che ora l’appello va a tutti quei cittadini che si recheranno agli impianti di risalita, perché lo dovranno fare con la massima prudenza e attenzione, indossando mascherine, quantomeno nei luoghi di aggregazione e durante la risalita”. Nel resto d’Europa, intanto, la pandemia continua ad avere risvolti drammatici e dilaga la paura per le varianti del coronavirus, su tutte quella “inglese”, tanto da metter a rischio anche la Champions League di calcio: la polizia tedesca non permetterà al Liverpool di entrare in Germania per giocare la partita contro il Lipsia il 16 febbraio, come annunciato dal ministero dell’Interno tedesco. La decisione arriva dopo che il Lipsia ha ufficialmente chiesto alle autorità tedesche di concedere alla squadra inglese l’ingresso nel Paese all’inizio di questa settimana. La Germania sabato ha chiuso i confini per i passeggeri delle compagnie aeree in arrivo da regioni in cui si stanno diffondendo varianti del virus, inclusa la Gran Bretagna, a meno che non siano cittadini tedeschi o stranieri che risiedono in patria. La misura tedesca si applica almeno fino al 17 febbraio, e la cancelliera Merkel avverte: “Non voglio creare false illusioni, presto per dire basta al lockdown”.

In regola da marzo Just Eat assumerà i rider

La svolta di Just Eat inizierà a prendere forma tra un mese, quando la piattaforma del cibo a domicilio inizierà ad assumere i suoi rider e a pagarli con un compenso minimo da 7,50 euro all’ora, a prescindere dal numero di consegne effettuate. In attesa di trovare un accordo con i sindacati, la piattaforma danese – oggi parte di TakeAway.com – ha rivelato ieri i primi dettagli sul progetto, annunciato a novembre, che prevede anche in Italia l’abolizione del modello finora adottato, fatto di cottimo e lavoro autonomo. I fattorini avranno veri contratti da dipendenti e saranno retribuiti con stipendi orari che terranno in conto il tempo di disponibilità. Non più tariffe ancorate solo al numero di consegne portate a termine, insomma. La mossa di Just Eat è in linea con la politica adottata in altri Paesi europei e ha comportato, due mesi fa, l’uscita dell’azienda dall’Assodelivery, associazione di imprese che riunisce ora Deliveroo, Glovo e Uber Eats; queste piattaforme continuano ad applicare il modello super-precario sul quale, a settembre, hanno ottenuto la sponda del sindacato di destra Ugl. A marzo, Just Eat assumerà i primi rider a Monza, per poi allargare fino a Milano dove nascerà un hub per la conservazione dei mezzi da lavoro. La paga oraria media, spiegano dalla società, sarà di 9 euro l’ora (la base più le maggiorazioni normative) e crescerà attraverso i bonus legati agli ordini effettuati.

Spesa a casa, c’è il contratto. È tutto a favore del padrone

Il sindacato Unione shopper Italia è nato il 27 gennaio e meno di 24 ore dopo ha già firmato il “contratto nazionale” degli addetti alla spesa a domicilio con Everli (ex Supermercato 24) e le altre aziende del settore. Non si tratta però del record assoluto di velocità delle relazioni industriali: era una manovra organizzata appositamente per dare una sponda alle società che così hanno ottenuto un accordo esattamente come lo desideravano. Il testo, infatti, era già scritto e non fa altro che mettere nero su bianco il modello da sempre adottato da queste società: niente tutele da dipendenti, quindi niente salari orari né ferie pagate, ma lavoro autonomo e paghe “a cottimo”. Qualche concessione – solo a determinate condizioni – per malattia e maternità. Dopo il contratto dei rider, quindi, ecco il secondo accordo collettivo che la gig economy porta a casa grazie a sigle allineate.

Gli shopper sono quei lavoratori che ricevono sullo smartphone l’ordine di spesa effettuato online, si recano al supermercato, riempiono il carrello e trasportano le buste fino a casa del cliente. La principale piattaforma in Italia è appunto Everli, il cui amministratore delegato Federico Sargenti è anche presidente dell’associazione datoriale Assogrocery. Questa categoria di lavoratori ha acquisito grande popolarità durante il lockdown di marzo e aprile, quando le catene di supermercati hanno registrato boom di prenotazioni web. Essendo impiegati, come detto, da piattaforme digitali, potrebbero essere coinvolti anche loro dal decreto Rider, il quale prevede – da novembre 2020 – l’obbligo di regolamentare il settore con un contratto collettivo e, in assenza, di applicare il contratto nazionale di materia affine (in questo caso potrebbe essere quello della logistica o del commercio). Per evitare il rischio l’Assogrocery ha fatto di tutto per arrivare a un accordo sindacale. Il 30 dicembre ci erano riusciti con la Fisascat Cisl, ma questa ha poi subordinato la firma all’approvazione del 50% più uno degli shopper.

Everli allora ha inoltrato il comunicato del sindacato a tutti i fattorini della spesa, ottenendo il mandato da meno del 30% di essi. Quindi la Fisascat ha rifiutato di sottoscrivere l’intesa – pur accettata durante le trattative – che manteneva il lavoro autonomo, permetteva gli algoritmi reputazionali e riconosceva indennità per maternità solo alle donne che avessero completato almeno 500 incarichi prima di rimanere incinte.

Qui è spuntata dal nulla l’Unione shopper Italia che si è detta disponibile a firmare quel testo così com’era. Costituita con un’assemblea di 55 iscritti con il solo obiettivo di prestare soccorso a Everli. L’azienda ha subito sponsorizzato le adesioni a questa sigla con una raffica di videomessaggi inviati dall’ad Sargenti a tutti gli shopper, preconizzando anche tagli di posti di lavoro in caso di mancata firma. Alla fine, il contratto è stato firmato la scorsa settimana. La Cgil e la Uil sono pronte a una nuova guerra giudiziaria per far dichiarare “antisindacale” la condotta dell’azienda, visto che tendeva a sostenere un sindacato amico.

“Abbiamo incontrato le aziende il primo febbraio – spiega Silvia Simoncini della Nidil Cgil – ma non siamo nemmeno entrati nel merito: qui il problema è già nel metodo”. In questi giorni è stato depositato un ricorso al Tribunale di Milano redatto dai legali Bidetti e De Marchis e firmato da Nidil e Filcams della Cgil, UilTucs e UilTemp della Uil. Il Fatto ha chiesto da giorni a Everli di fornire la propria versione dei fatti, senza ottenere risposta.

Ma che Italia trova? “Male il Pil del 2021”

Imercati festeggiano, pare. D’altronde lo fanno sempre, così ci raccontano, quando succede qualcosa che gli piace e la nomina di Mario Draghi a capo del governo di certo piace a piccole e grandi istituzioni finanziarie: in attesa di sapere se c’è lo zampino degli acquisti della Bce, va comunque registrato che lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi omologhi si aggira sui 100 punti, come non succedeva da oltre cinque anni. Il rendimento dei titoli italiani a 10 anni è sui suoi minimi (a 0,55%): se Draghi formerà un governo, dicono gli analisti, è probabile che sia lo spread che i rendimenti scendano ancora.

Le buone notizie per il premier incaricato, ahinoi, finiscono qui. I problemi che l’Italia si trova a fronteggiare non spariranno per l’evidente gradimento che Borse, cancellerie internazionali e stampa mondiale riversano sul suo nome. Il primo, e più grosso, è visibile nella “Nota sulla congiuntura” pubblicata ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), che è una sorta di Autorità sui conti pubblici: non solo abbiamo visto nel 2020 una recessione mai vista in tempo di pace, ma il rimbalzo previsto quest’anno rischia di essere inferiore rispetto alle stime e per tornare ai livelli di Pil pre-crisi dovremo aspettare il 2023, sempre se le cose non peggiorano…

I numeri, per quanto non affascinanti, sono ora necessari. L’anno appena concluso dovrebbe aver visto il Pil contrarsi di poco meno del 9 per cento (i dati definitivi tra un mese), nel 2021 – dice invece l’Upb – “l’attività economica tornerebbe ad espandersi, del 4,3 per cento in media d’anno”, vale a dire l’1,7% in meno di quanto stimato dal governo nella Nota di aggiornamento del Def su cui sono basati i conti pubblici del triennio. La dinamica del Prodotto, probabilmente negativa a gennaio, dovrebbe tornare in zona positiva “a partire dai mesi primaverili, avvantaggiandosi di un allentamento graduale dei provvedimenti restrittivi alla mobilità individuale” e “beneficerebbe inoltre delle misure finanziate col bilancio pubblico e coi fondi del Recovery Plan”. Nel 2022, anno finale della previsione dell’Upb, il Pil è stimato ancora in crescita (+3,7 per cento), il che “non sarebbe sufficiente a riportare il Prodotto sui valori registrati prima della pandemia”: resterebbe “inferiore rispetto al livello del 2019 per circa 1,4 punti percentuali”.

Va ricordato che questo scenario – che ci vede tornare al punto di partenza solo nel 2023, anno in cui il precedente governo prevedeva di tornare a fare avanzi primari di bilancio, cioè austerità – è basato su un’uscita rapida dalla pandemia: andamenti avversi dei contagi e blocchi al commercio internazionale possono peggiorare sensibilmente lo scenario di base (rischi, peraltro, sottolineati ieri dalla stessa Banca centrale europea). Questo a non dire della sottovalutata complessità del risiko noto come Next Generation Eu: “Un’attuazione parziale, ritardata o inefficiente dei progetti di investimento predisposti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza determinerebbe il venir meno di un fattore di sostegno non marginale all’attività economica”. L’Italia, in particolare, ha bisogno di uscire dalla crisi nel gruppo di testa: “Sfasamenti tra le fasi cicliche dei diversi paesi potrebbero incidere sui premi per il rischio sovrano richiesti dai mercati alle economie in cui il recupero è più lento. Se tale eventualità riguardasse l’Italia, caratterizzata da uno stock di debito pubblico già alto, le tensioni finanziarie potrebbero riflettersi in un repentino peggioramento”.

Il Paese che s’affaccia a questo futuro così incerto è peraltro provato dall’anno appena trascorso e assai diviso sulle sue prospettive. Se l’attività manifatturiera, diciamo l’industria, ha sofferto relativamente la seconda ondata, il settore dei servizi è devastato: i consumi sono calati più del Pil (oltre il 10%) e i primi dati Istat e Confcommercio dicono che il 2020 è finito male. E il 2021 non è iniziato meglio: a gennaio, per dire, l’indice PMI del terziario resta abbondantemente sotto i 50 punti (cioè in recessione) e lo fa per il sesto mese consecutivo.

Il lavoro è un altro tasto dolente. Com’è noto a fine dicembre c’erano 425mila occupati in meno rispetto a febbraio 2020, cioè a prima del Covid, e questo nonostante il (parziale) blocco dei licenziamenti in vigore: nella stima Upb, “il numero di occupati continuerebbe a ridursi anche quest’anno” per recuperare “parzialmente nel 2022”, ma restando “un punto percentuale inferiore ai livelli pre-crisi”. Il tasso di disoccupazione “salirebbe al 10,7% quest’anno per ridursi di oltre mezzo punto nel prossimo”.

La “Draghinomics”: eIcco cosa potrebbe fare

La Draghi-mania ha coinvolto un po’ tutti, da Confindustria ai sindacati, dal centro-sinistra alla destra. L’esaltazione bipartisan per l’ex presidente della Bce nasce dalla sua fama di salvatore dell’euro e baluardo contro il rigore nordico in Europa. Come negare che il “whatever it takes” abbia avuto un ruolo decisivo per l’eurozona? Ma Draghi potrà fare “tutto il necessario” per salvare l’Italia? E, soprattutto, quale Italia? Quella delle imprese dell’export cresciute negli anni pre-Covid o quella dei milioni di disoccupati? Per rispondere a questa domanda bisogna partire dall’articolo scritto proprio da Draghi sul Financial Times il 25 marzo 2020 che segna la nuova fase del discorso pubblico dell’economista.

A marzo Draghi sottolineò come in una crisi non ci sia da preoccuparsi del debito dello Stato, perché la priorità è salvare l’economia: “La perdita di reddito in cui incorre il settore privato – e ogni debito assunto per rimarginarla – deve alla fine essere assorbito, in tutto o in parte, dal bilancio del governo”. Parole non equivocabili. Non siamo più nell’epoca dei tagli, anche se alcuni sembrano non essersene accorti: molti sono i tifosi di Draghi che forse non sanno che il loro idolo, in un discorso del 23 settembre 2019, aprì persino alla Mmt.

Una volta seppelliti i dogmi (“un cambiamento della mentalità è tanto necessario in questa crisi quanto lo sarebbe in tempi di guerra”), bisogna capire come spendere. Draghi sul FT scrisse che bisognava evitare “una permanente distruzione della capacità produttiva”. Non si può non essere d’accordo. E proprio per questo sorge qualche dubbio. Draghi non dice cose straordinarie. Afferma semplicemente la nuova vulgata. Ma da questa vulgata i temi chiave sono lasciati fuori. Si vuole un ritorno della politica industriale? Si propongono massicci investimenti pubblici? O una semplice socializzazione delle perdite?

La risposta non emerge neanche se si studiano le altre recenti uscite del nostro. Il premier in pectore avallerà il ritorno al Patto di Stabilità o lancerà una lotta senza quartiere per tenersi le mani libere? La caratura internazionale per cambiare le regole europee c’è tutta. Ma la volontà politica? Certo, nel suo ultimo discorso all’Europarlamento come presidente della Bce, Draghi aveva detto che le regole europee andavano “riviste”. L’uomo che mandò alla massima potenza la stampante di Francoforte non potrà accettare un ritorno puro e semplice ai vecchi vincoli.

Anche per questo è improbabile che chieda l’accesso al Mes. Sarebbe una beffa chiedere l’attivazione di uno strumento di cui è stato implicitamente un avversario. Il whatever it takes prima e il Quantitative easing poi hanno reso un relitto lo strumento che doveva garantire in teoria la stabilità finanziaria dell’Eurozona: dall’intervento straordinario della Bce nessuno è più stato costretto a ricorrere all’ex fondo salva-Stati (gli ultimi Spagna e Cipro nel 2012). Ma c’è anche una questione politica: a meno di non essere in serie difficoltà, Draghi non si abbasserebbe mai a domandare il sostegno di un organismo tanto criticato e problematico, che Monti si rifiutò di utilizzare quand’era in carica e con mercati assai più agitati di quelli attuali.

La questione che resta, però, è sempre quella degli obiettivi. Di fronte a un crollo verticale di consumi, occupazione e produzione, a quali settori darà la priorità il nuovo premier? A stare ai suoi interventi passati non tutti possono stare tranquilli. “Ogni decisione economica ha conseguenze di carattere morale”. Questo scriveva il 9 luglio 2009 sull’Osservatore Romano l’allora governatore di Bankitalia. Questa tendenza a enfatizzare le questioni etiche si è notata anche al meeting di Rimini di agosto 2020. Ma, leggendo fra le righe di quel discorso, si intravede il vero messaggio, che è economico. Draghi è sicuramente in linea con la sensibilità della Commissione sul Recovery Fund: ambiente e digitalizzazione, insieme all’istruzione, furono temi centrali in quel discorso.

Quanto a sussidi e ristori, a Rimini Draghi non li attaccò frontalmente – come sarebbe piaciuto a Confindustria, che ora gli chiede di abolire Reddito di cittadinanza e Quota 100 sulle pensioni – ma lanciò un avvertimento: “I sussidi finiranno”. E poi fece anche una distinzione fra “debito buono” (a fini “produttivi”, come investimenti nel capitale umano, infrastrutture cruciali per la produzione, ricerca) e “debito cattivo” (a fini “improduttivi”, non specificati). Una distinzione in cui è chiara la traccia di quel moralismo mainstream che ancora oggi confonde debito e colpa.

C’è un altro dettaglio da non sottovalutare. Draghi disse che per alcuni settori “un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia è improbabile”. Le conseguenze di questa considerazione sono state chiaramente esposte in un report di dicembre del “Gruppo dei 30”, nel cui comitato di direzione siede proprio Draghi. Un documento che incoraggia i governi a passare da un sostegno ampio all’economia a uno più mirato, “permettendo la riallocazione delle risorse”. Vanno sostenute solo le imprese che potranno essere in salute nell’economia post-Covid: bisogna “permettere alle forze di mercato di guidare, almeno parzialmente, il sostegno economico futuro”.

Ecco che riemerge la razionalità del vecchio mondo: il mercato è in grado di garantire la piena occupazione delle risorse nel lungo periodo. Con qualche imperfezione, certo, ma correggibile dalla mano pubblica. Che però, si legge nella presentazione, deve “ridurre la portata e il volume del sostegno che ha caratterizzato la politica economica nelle prime fasi della pandemia”. Che significa? In un convegno in Italia proprio per presentare il report del G30 si accennò a quel 20% di aziende che sono ormai ai margini del mercato, destinate a uscirne. Ammesso che sia giusta, la scelta tra “sommersi e salvati” della crisi è però eminentemente politica: per capire chi avrà cosa, forse lui stesso aspetta di capire chi lo sosterrà. Finora si è tenuto sul vago.