Mario santo subito: mangia addirittura con sua moglie

Ricorderete forse l’agiografia del leader delle sardine Mattia Santori, quella che “La sua presenza in televisione, il suo tenere testa ai lupi della politica”, “i suoi occhi stanchi”, “un senso di appartenenza a una dimensione sardinica”. Beh, se eravate convinti che nulla potesse superarla per retorica e ridondanza, ho una buona notizia da darvi: i titoli e gli editoriali su Mario Draghi, in questi giorni, non solo battono il santino di Santori, ma sono roba da sbiadire l’aureola pure a San Francesco D’Assisi. Si legge di tutto. Mi soffermerei, per iniziare, dalle parole commoventi sulle sue origini, lette su un noto quotidiano: “Mario Draghi un forte legame con il Veneto, in particolare con Padova: proprio all’ombra del Santo, infatti, è nato il padre Carlo”. Cioè, il padre non è nato semplicemente a Padova, ma proprio con Sant’Antonio che gli faceva ombra, magari con un ombrellino cinese. E poi pensate, Mario non era un ragazzo qualunque che giocava a basket, no, “la scintilla tra il Premier Mario Draghi e il basket è scoccata sui banchi di scuola”. Un colpo di fulmine proprio. A un certo punto ha dovuto scegliere tra Goldman Sachs e NBA. Giancarlo Magalli, suo ex compagno di scuola al liceo, perseguitato da tutti i cronisti da giorni perché fornisca prove della precoce santità di Mario, perché dica qualcosa tipo: “A scuola moltiplicava banchi e matite”, farfuglia imbarazzato “era simpatico e intelligente”. Poi, comprensibilmente, ieri sbotta: “Cosa vogliono che dica? Sono passati 60 anni. Ora mi inventerò qualcosa, dirò che si presentava in classe con un furetto sulle spalle che sapeva fare le moltiplicazioni”. Ma la narrazione modesta, realistica dei cronisti si arricchisce di altri imperdibili passaggi. La moglie, manco a dirlo, è “defilata”, un passo indietro. Scrivono: “Nonostante gli importanti ruoli ricoperti da Draghi nel corso della sua carriera, la coppia vive di semplicità: virale, infatti, era diventato lo scatto — era il 2015 — dove i due si scambiavano tenerezze tra gli scaffali di un negozio d’animali sull’Anagnina, Roma sud, mentre compravano dei croccantini per il loro bracco ungherese.”. Ma tu pensa. Nonostante Mario Draghi sia Mario Draghi, esce con la moglie, che invece è chiaramente una perdigiorno. Si ricorda anche di nutrire il cane. Magari pure due carezze ogni tanto. Che uomo semplice, Mario. La semplicità dei grandi. E ancora, sempre sulla moglie: “Una volta allentò la rigidissima regola del low profile, irrinunciabile per suo marito SuperMario” e “Lei è compagna fiduciosa e discreta, mentre lui punta su studio e formazione”. Insomma, lui laborioso, lei fancazzista.

Ma attenzione, perché la signora Draghi, secondo i giornali, si riprende prepotentemente la scena nel 2018. Secondo un quotidiano, che riporta fedelmente l’irresistibile aneddoto, in quell’anno rispose a un cronista : “Mio marito non farà un governo, non è un politico”. E fin qui. A quel punto, racconta il cronista, arrivò il marito e la interruppe: “Dai, sta’ zitta”. Che uomo, che maschio alfa. Che aneddoto indispensabile. Poi c’è il giudizio di Matteo Renzi, che ieri alla Cnbc diceva con il suo impareggiabile inglese: “Draghi premier? He’s the bAst, the bAst, the bAst”, sottintendendo “after me”, ovviamente. E poi i titoli, da “Mario Draghi avrà un bravo portavoce: sé stesso” a “Le bimbe di Mario Draghi”, con tanto di commento sulle sue fan adoranti così descritte: “per il momento con circa un migliaio di follower, già ‘innamorate’ delle ‘rughette’ dell’ex presidente della Bce!”. Delle deficienti, insomma. Ma SuperMario è schivo, non ama i social, e allora ecco lì il titolo: “Il mondo del web lo reclama: ‘Whatever it takes’”. Infine, una testimonianza di quelle che cambiano la storia: Alvise Cappello, cugino di Maria Serenella e dentista “di fiducia” di Mario Draghi, viene interpellato in quanto parente della moglie, appunto. E lui: “Com’è nella vita privata? Scherzando mi viene da dire che è il prototipo del banchiere centrale in quanto persona pacata e riservata, ma posso assicurarvi che è piacevolissimo passare anche solo una serata insieme a lui”. La dichiarazione viene mandata subito in stampa, roba da far accapponare la pelle. SuperMario, a tavola, è piacevole. Non rutta, non tira su il brodo col fischio, non si passa il coltello tra i denti, consente perfino alla moglie di mangiare in sua presenza. Come direbbe Renzi: shock.

Il disprezzo delle solite élite ora prende di mira Casalino

Come da italica tradizione, dismesso il potere ti tirano le pietre che prima trattenevano nelle tasche. Succede a Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, da sempre criticato sottotraccia e invece, ora, preso di petto come fosse lui il responsabile del marasma. “Peracottaro”, “parvenu”, “isterico”, si divertono i leoni da tastiera “liberali e competenti” che per esserne davvero immuni il populismo se lo sono fatto iniettare in vena.

Così, Casalino non viene criticato, legittimamente, per come organizza le conferenze stampa (anche per quello), per una eccessiva pressione sui Tg (anche per quello), per presunte gaffe o scatti d’ira (anche per quello). Su di lui non si esercita la sana critica al potere, ovunque sia collocato, anche nella stanza di fianco a quella del primo ministro.

Qualche anno fa il Fatto dedicò un approfondimento al ruolo del portavoce di Matteo Renzi a palazzo Chigi, Filippo Sensi e al suo modo di gestire l’informazione, di palleggiarla, metterla a fuoco in funzione dell esigenze del leader. Allora sembrò scandaloso, per molta stampa intorno a noi, permettersi quella critica.

Ma non fu nulla a confronto del risentimento che si scarica su Casalino, dipinto come un vanesio assetato di potere, sgraziato e manipolatore. A cui si estorcono finte interviste che l’interessato deve poi smentire il giorno dopo.

Con lui si è andati oltre. Gli è stato rimproverato di essere il Rasputin di Conte, una sorta di anima nera pronto a dare buoni consigli “sentendosi come Gesù nel tempio”. Si è arrivati al punto di tirarlo in ballo nello scontro inscenato da Renzi il quale lo ha additato addirittura come una figura da rimuovere per risolvere la crisi di governo e che, ancora ieri nell’intervista a Le Monde, diceva che la politica non si fa con “i like”. E qui c’è forse la mistificazione più grande di questa storia. Perché colui che ha importato a palazzo Chigi una capacità inedita di costruire l’immagine del capo è stato proprio Sensi, Nomfup per chi frequenta Twitter

, abile costruttore di storie quotidiane con il suo #cosedilavoro.

Sensi è quello che davvero ha innovato, che ha dato alla comunicazione una marcia in più, spregiudicata o semplicemente professionale che sia, aprendo una strada nuova: le foto con i leader internazionali, quelle dei momenti “riservati”, l’input “Renzi ai suoi”. Casalino quella strada l’ha imboccata senza esitazioni e provenendo dal M5S, nato nel web e con una predisposizione naturale ai social, ha adottato uno stile diverso, abilità diverse, ma ha portato Conte a una popolarità che pochi possono vantare. Invece di insultarlo sarebbe forse più utile chiedergli come ha fatto.

Però dileggiare viene meglio, specialmente se si devono regolare conti antichi, come quelli che si stanno regolando in questi giorni. Basta seguire la comunità dei giornalisti su Twitter

, le tante frasi sguaiate, l’arroganza e il disprezzo diffuso a piene mani.

E qui c’è il punto della questione. L’assalto a Casalino è di una diversa qualità, non è semplicemente scontro politico tra parti avverse. Non è la tradizionale dialettica “amico-nemico” per utilizzare un canone del pensiero politico. Esprime un disprezzo culturale, intellettuale e antropologico. L’altro giorno un giornalista autorevole come Pierluigi Battista ha scritto dieci volte (10) in un messaggio su Twitter

: “Casalino ha scritto un libro, Casalino ha scritto un libro, Casalino ha scritto un libro…” e così via. In un Paese in cui i libri li scrivono calciatori e soubrette, alcuni “giganti del pensiero” assurgono ad arbitri della produzione libraria nazionale, veicolando in realtà il riflesso delle élite, culturali e intellettuali (se ci si perdona il termine) verso i nuovi arrivati, verso gli avventurieri o, come sono stati chiamati a lungo i 5Stelle, sempre con disprezzo, “gli scappati di casa”. E così confermando la critica che i vari populisti (ammesso che il M5S si possa considerare tale, cosa che la più recente evoluzione smentisce) muovono proprio alle élite. Che, invece, urlano e si disperano non appena notano l’invasione di un campo che considerano sacro e intoccabile.

Chi scrive non conosce Casalino, riceve solo i suoi vari messaggi e le sue comunicazioni. Il personaggio ha certamente gestito in modo criticabile il suo ruolo. Ma criticare Casalino solo per ribadire la superiorità e segnalare una distanza con chi dovrebbe stare in basso è esattamente quello che ha permesso l’esplosione di una forza come il M5S. Storia che nessuno ancora vuole iniziare a capire. Il vero limite delle classi dirigenti in Italia.

Un governo fino all’estate senza “Ursula”: poi si torni a votare

Il governo Draghi deve essere un “governo di scopo” affinché possa poggiare sull’ampia base parlamentare auspicata dal presidente Mattarella e affrontare le scadenze immediate e ineludibili da lui richiamate. Gli impegni previsti sono incompatibili con elezioni a giugno. Si possono, anzi data l’urgenza, si devono realizzare, però, entro l’estate. Poi, per garantire il funzionamento di una democrazia minimale e salvaguardare la residua dignità della politica si deve tornare al voto. Il mandato del presidente Mattarella scade il 2 febbraio 2022. Le Camere possono essere sciolte fino al 2 Agosto per elezioni generali tra i 60 e i 75 giorni successivi, in tempo utile per la sessione di Bilancio istruita nelle sue linee di fondo dall’esecutivo “terzo”. Il governo di scopo presieduto da Mario Draghi consentirebbe un voto favorevole dell’intera alleanza M5S-Pd-LeU e avrebbe il sostegno della Lega, oltre che di Forza Italia.

Mi permetto un consiglio non richiesto al Pd: attenzione a spingere il M5S verso una “maggioranza Ursula” per un governo di legislatura. Attenzione alla reductio ad unum (il Pd) del pluralismo M5S-Pd-LeU. Così, decolla il governo Draghi. Così, però, si dissangua il M5S, nato anti-establishment e votato anti-euro, diventato europeista, ma obbligato ad esprimere un europeismo critico per sopravvivere e avere senso politico, ossia continuare a dare voce alla rabbia delle periferie sociali colpite dal mercato unico europeo. Così, l’alleanza M5S-Pd-LeU sopravvive all’arrembaggio di Renzi e dei suoi mandanti, ma si rattrappisce alle Ztl, perché nella “maggioranza Ursula” i grillini rischiano di esaurire il loro valore aggiunto in termini di riferimenti sociali e consenso elettorale. Così, lasciamo alle destra praterie di classi medie spiaggiate.

 

Mario il Taumaturgo: il brutto diventa bello

Il nero si fece bianco, la luna rischiarò e anche le acque, dapprima limacciose, presero il colore della luce. La dimensione taumaturgica di Mario Draghi, e non c’è dubbio che di miracoli l’Italia abbia un grande bisogno, già produce effetti nella pubblicistica più avanzata dei commentatori esperti.

Il potere più grande e invidiato del super Mario è di far cogliere, rispetto alla realtà fattuale, un rinnovato spirito di osservazione e un differente punto di vista. È persino banale considerare che il Recovery plan, questa rinascita nella quale tutti confidiamo, lo scriverà di suo pugno e nessuno, proprio nessuno, chiederà di leggere, figurarsi! Sembrerebbe un atto di superbia, un inutile segno dell’arroganza della politica, già miseramente fallita, voler sindacare sul lavoro al quale Lui è chiamato per salvarci dalle tenebre.

E mentre ci salverà, chino sulla calcolatrice, tra gli assi e le ascisse, diagrammi, curve Istat e curve Pil, e sfornerà progetti inchiavardandoli tra gli Appennini e il mare, i problemi quotidiani che prima affannavano gli “incompetenti”, e mettevano ansia e dolore e rabbia e polemiche e creavano tempeste di parole, avranno un corso più regolare, più neutro, più addomesticato.

Non sappiamo se Domenico Arcuri, il nome più attaccato e l’uomo forse più odiato, continuerà a gestire la struttura commissariale dell’emergenza. Sappiamo però che difficilmente il corso della vaccinazione subirà uno scatto di tipo israeliano. Andrà avanti o resterà boccheggiando ferma al palo, ubbidendo alla consistenza degli invii che, come sappiamo, sono nelle mani delle case farmaceutiche alle quali l’Unione europea degli eccellenti ha concesso ogni sorta di insindacabilità. Quindi se rimarrà al suo posto perfino Arcuri, beato lui!, godrà di un atteggiamento compassionevole. Se neanche super Mario sarà riuscito a vaccinarci tutti in un mese, Arcuri quale colpa avrà?

E così il reddito di cittadinanza, se come presumiamo rimarrà al suo posto, non sarà il bersaglio di nessuno. Sarà derubricato al minimo tributo offerto ai Cinquestelle e tutti felici e contenti.

Capiamoci: il governo dei migliori sostenuto dal Parlamento dei peggiori godrà del gotha dei ministri. Il peggiore di quest’ultimo governo sarà migliore del predecessore. Per via del diverso punto di vista sospettiamo che se per caso si confermerà l’allungamento del blocco dei licenziamenti, per non far esplodere nelle piazze il Paese, lo intesteremo all’anima socialista (che pure c’è anche se non si vede) del liberale Draghi, e saranno applausi. E i sussidi, questa miriade di bonus, la linea assistenzialistica del Conte II, saranno registrati come debito cattivo oppure buono? E se persino super Mario dovesse rinunciare al Mes, sempre per ragioni di opportunità, quale Renzi gli si scaglierà contro? E se dovesse star fermo sulla prescrizione giacché i Cinquestelle tirano di qua e Forza Italia di là, chi si permetterà di negare che un governo di tutti debba per forza godere di un equilibrio più avanzato e senza moto?

Diremo che il super lodato super Mario, naturalmente “in sintonia col Vaticano” (mentre quello di prima era sostenuto dalla “rete oscura dei cardinali”) una cosa davvero dovrà fare: il Recovery. A noi interessa solo quello e già ora possiamo dire che sarà bellissimo.

Cambiato il punto di vista, cambia la prospettiva. Certo, ci sarà sempre il malandrino che domanderà: ma mica sarà un effetto ottico? Gli risponderemo: vattelapesca.

B. torna a Roma: chiederà garanzie su tivù e giustizia

Con ogni probabilità sarà Silvio Berlusconi, questo pomeriggio, a guidare la delegazione di Forza Italia che a Montecitorio incontrerà Mario Draghi. E il fatto che l’ex premier voglia esserci, lascia intendere quale sia non solo la sua posizione politica, ma anche il suo stato d’animo nei confronti dell’ex presidente della Bce. Berlusconi gli vuole quasi mettere il timbro. Del resto, basta dare un’occhiata all’apertura di ieri del Giornale, “Coraggio, centrodestra”, un appello accorato agli alleati a rompere gli indugi nel sì a Draghi. Il quale è arrivato in quella posizione, nel novembre 2011, anche perché lì l’ha voluto l’allora premier, Berlusconi appunto, com’è stato ricordato più volte in questi giorni.

Dopo un giorno passato a temporeggiare, più che altro per non interferire nelle riflessioni di Meloni e Salvini, l’apertura definitiva è arrivata ieri alle 12.24. “La scelta di conferire l’incarico a Draghi va nella direzione che abbiamo indicato da settimane: quella di una personalità di alto profilo istituzionale attorno alla quale si possa tentare di realizzare l’unità sostanziale delle migliori energie del Paese”, recita la nota dell’ex premier, giunta poco prima dell’inizio della riunione dei gruppi. Insomma, FI farà parte della maggioranza.

L’ok finale è arrivato dopo un rapido confronto, via web, con lo stato maggiore del partito. Qualche resistenza, tra i più filo-leghisti, ancora persisteva. “Non possiamo perdere la Lega”, è stato detto nella riunione. “Ma non possiamo nemmeno dire no a Draghi”, ha osservato Niccolò Ghedini. Insomma, via libera da quasi tutti. Mentre l’ala “liberal” di Mara Carfagna cantava vittoria. Si dice che da quelle parti una cinquantina di parlamentari forzisti fosse pronta a votare la fiducia comunque. Tra loro stava già girando un documento per raccogliere firme di sostegno a Draghi. Secondo alcuni si è arrivati a un passo dalla scissione. Ma dopo l’apertura di B. tutto, per ora, è rientrato. “Un governo Draghi non può nascere senza di noi, ma va sostenuto senza ambiguità, senza se e senza ma…”, fa sapere la vicepresidente della Camera. “Questo è un gran giorno, il partito ha fatto la scelta giusta”, aggiunge Osvaldo Napoli.

L’assemblea dei deputati, però, non è stata priva di interesse. “Quale sarà il nostro tornaconto? Dobbiamo vedere Draghi cosa ci offre… E comunque dobbiamo essere protagonisti”, ha detto Antonio Tajani, provocando mugugni e dando l’impressione di aver in qualche modo subìto la decisione. “Tajani voleva stare fuori?”, si è chiesto più di un deputato. Berlusconi non la metterà in quei termini, ma tra le richieste presentate a Draghi verranno inserite rassicurazioni su Comunicazioni e Giustizia. “Non ci sarà un ministro giustizialista”, ha detto lo stesso B.

Per il resto, si guarda con attenzione alla Lega. “Non hanno ancora deciso, sono nel caos…”, dicono da FI. “Auspichiamo che la Lega ci sia, dobbiamo tenerla dentro per il bene di tutti”, dice Mariastella Gelmini. Per la coalizione, secondo i berluscones, però non cambierà molto. “Il precedente l’hanno creato loro, andando al governo con Di Maio…”, dicono. “Avrebbero tutto l’interesse a entrare: con Draghi verrebbero definitivamente sdoganati in Europa”, chiosa, a fine giornata, Lucio Malan.

Salvini impone veti a Draghi: “Scelga tra la Lega e Grillo”

Più che le parole, conta l’immagine. A metà pomeriggio, dagli uffici della Camera che danno su via del Vicario, Matteo Salvini si presenta ai microfoni dopo aver riunito la segreteria politica della Lega con Giancarlo Giorgetti al suo fianco. È la prima volta che succede. Giorgetti, che conosce bene Mario Draghi e con lui ha un’antica consuetudine, è raggiante: è lui a spingere il segretario del Carroccio ad entrare nel governo dell’ex presidente della Bce. E Salvini apre subito a questa possibilità: “L’interesse dell’Italia viene prima dell’interesse del partiti”. Ma poi mette il primo veto che rischia di complicare tutto: “Draghi dovrà scegliere tra noi e Grillo – continua il segretario del Carroccio – se le richieste di Grillo sono la patrimoniale, noi non possiamo starci”.

Eppurela linea decisa dalla segreteria del partito – composta anche da molti amministratori del Nord come Luca Zaia e Massimiliano Fedriga – è quella di sedersi al tavolo sabato mattina e ascoltare il premier incaricato. Ed è un segnale che Salvini non parli più di Flat Tax e Quota 100 come condizioni per entrare al governo ma più genericamente di “taglio delle tasse, taglio della burocrazia e difesa dei confini”. Il segretario della Lega, insomma, vuole essere della partita. Ma, fanno sapere fonti vicine al segretario leghista, cercando di evitare un governo troppo connotato politicamente, rompendo lo schema di quella maggioranza Ursula invocata dai giallorosa: in questo caso sarebbe Giorgetti a entrare nel governo, probabilmente al ministero dello Sviluppo Economico.

Tant’è che ancora ieri Salvini andava dicendo: “Se mi ripropongono una riedizione del governo Conte con Azzolina e Lamorgese, non ci interessa. Se deve essere un governo di salvezza nazionale non si può salvare il paese con quelli che ci hanno portato a sbattere”. Concetto ribadito anche da Giorgetti all’Agi: “Mattarella ha chiesto l’unità nazionale, non ascoltare il primo partito d’Italia vorrebbe dire avere un governo zoppo”.

Al leader del Carroccio però non sono piaciute le fughe in avanti dei suoi compagni di coalizione – Meloni per il no, Berlusconi per il sì – e così il centrodestra andrà separato alle consultazioni: “Noi a differenza di altri siamo liberi e non abbiamo scelto prima”. Insomma, la linea approvata all’unanimità dalla segreteria del Carroccio è quella di andare a vedere le carte del banchiere “senza pregiudizi”. E poi si deciderà il da farsi. Giorgetti comunque esclude l’astensione: “O saremo a favore o contro”.

Il segretario ora è stretto da una tenaglia. Da una parte ci sono Giorgetti che ieri ha definito Draghi “un fuoriclasse come Cristiano Ronaldo che non può stare in panchina” e i governatori e gli industriali del Nord – da Zaia a Fedriga – che ancora ieri glielo hanno ripetuto senza troppi giri di parole: “Matteo, non possiamo tirarci indietro di fronte a Draghi: i nostri non capirebbero” è il succo delle parole del governatore del Veneto. Dall’altra però c’è Giorgia Meloni che avrà terreno fertile per fare l’opposizione in solitaria: “Se Matteo entra al governo, un anno e mezzo dopo il Papeete rischia di trovarsi non più solo con il M5S ma addirittura con Pd e M5S” fanno sapere ironicamente dai piani alti di Fratelli d’Italia.

E però Giorgetti sta provando a convincere Salvini che questo governo non sarà una riedizione di quello del 2011 di Mario Monti perché, invece di tagliare, l’esecutivo avrà molti soldi da spendere. E poi il vicesegretario sostiene che appoggiare Draghi darebbe a Salvini quella “patente” per accreditarsi nelle cancellerie internazionali, per poi giocarsi la premiership nel 2023. Linea condivisa dall’ala governista del partito (da Centinaio a Rixi a Candiani) e anche da quella oltranzista, tant’è che a convertirsi è perfino l’euroscettico Claudio Borghi secondo cui “Draghi è un fuoriclasse, ma deve giocare con noi”.

SuperMario, primo giro con i partiti già nel suq

Il primo giro si chiude domani, ma Mario Draghi potrebbe farne un altro, o almeno questa è l’impressione che hanno avuto i primi partiti che lo hanno incontrato ieri. Mezz’ora a testa, colloqui per nulla ingessati, anzi piuttosto diretti: “Mattarella mi ha chiamato per fare un piano vaccinale adeguato e per spendere bene i soldi del Recovery – è il senso del discorso introduttivo di Draghi, accompagnato da due funzionari della Camera – Ne va del futuro del nostro Paese e dell’Europa. Voi come li vorreste spendere?”. Prende appunti, durante le risposte. Annuisce quando tutti gli sottopongono l’esigenza di un governo “politico”. E congeda promettendo che “tutti i consigli sono utili e le parole dei partiti non rimarranno inascoltate”.

Si confronterà anche con le parti sociali. Poi, fatta la sintesi, scioglierà la riserva. Con l’obiettivo di avere un governo entro la fine della prossima settimana. Non c’è tempo da perdere, ma nemmeno si può andare troppo di fretta: il quadro – da quando ha accettato l’incarico al Colle – è già cambiato. Non più un governo tecnico di unità nazionale, ma un governo “politico” che deve passare per il suq delle contrattazioni. Il monito quirinalizio, pur informale, è arrivato ai partiti: “Mario Draghi è nella condizione di non subire veti”. Che tradotto, significa: non pensate di mettervi a dettare condizioni. “Non cadiamo nel ridicolo”, dice senza giri di parole Bruno Tabacci, già promesso federatore dei Responsabili, ieri alle consultazioni insieme al resto dei gruppi parlamentari minori. Ma è oggi, con la sfilata dei primi “big” che la partita rischia di complicarsi. Sui nomi, ma anche sui confini. Lo spauracchio della Lega terrorizza i giallorosa: con Salvini dentro, è difficile che si riesca a partire. Si continua a ragionare di maggioranza Ursula, “di matrice europeista”, ovvero i partiti del Conte 2, più Forza Italia. Si spende per questo anche David Sassoli, presidente del Parlamento Ue.

I 5 Stelle vogliono due o tre ministeri – si fanno i nomi di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli – ma anche garanzie sui temi: “Che si fa con Autostrade?”. Il Pd vorrebbe un governo molto politico, ma non si può sottrarre a un esecutivo di salvezza nazionale; vorrebbe la Lega fuori, ma non può porre veti, né permettersi di appoggiare Draghi senza M5S. Le parole di Conte sono state accolte con soddisfazione. Ma, oltre ai fan sfegatati, come Goffredo Bettini, il resto del partito, una volta nato il governo, è pronto a dare battaglia per evitare “subalternità”. Per la squadra, si fanno i nomi di Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, in primis. Problema: più partiti appoggiano il governo, più posti servono. Oggi, oltre al ritorno a Roma di Berlusconi, alle consultazioni andrà Matteo Renzi. Non porrà condizioni, ma farà una premessa: se sarà un governo politico, anche Iv dovrà avere la sua rappresentanza.

Al telefono 2 ore: così Mr. Bce ha convinto Grillo

Una telefonata allunga la vita, recitava un vecchio spot. Ma qualche volta fa nascere un governo. E potrebbe essere questo il caso, perché se Mario Draghi metterà assieme un esecutivo sarà anche per il colloquio con il fondatore e Garante dei 5Stelle, Beppe Grillo. Due ore in cui l’ex presidente della Bce ha ripetuto quanto aveva già detto a Roberto Fico e di fatto a Giuseppe Conte: “Senza i Cinque Stelle il governo non si può fare”. Impossibile, senza il primo gruppo per eletti in Parlamento. Così eccola la seconda mossa in poche ore di Draghi, nel mercoledì dove ha messo le basi per provarci. Prima l’incontro con Conte di oltre un’ora, a Palazzo Chigi. Poi la telefonata a Grillo. Quella che ha convinto il Garante a chiamare Vito Crimi, mercoledì notte: “Devi dire ai parlamentari che bisogna ascoltare Draghi, sedersi al tavolo con lui”. Ma soprattutto, lo ha spinto a richiamare Conte: “Giuseppe, serve un tuo segnale, anche al Movimento”.

Viene quasi tutto da lì, dal Grillo che “come al solito ha cambiato le carte in tavola, perché noi fino a poche ore fa eravamo in gran parte per il no” sussurra un ministro. Come nell’estate del 2019, quando il fondatore impose a Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, più che riluttanti, l’alleanza con il Pd. Ma questa volta ci è voluto prima il colloquio con l’ex presidente della Bce. Lungo e molto cordiale, assicura chi ha parlato con il Garante. “Mi è sembrato una persona molto aperta, quasi uno di noi” è arrivato a dire Grillo. Un po’ troppo, a naso.

Ma al di là dell’ottima impressione, il Garante a Draghi ha chiesto assicurazioni sui temi. Innanzitutto su quelli legati all’ambiente, e allora ecco perché ieri Conte ha fatto quel riferimento “allo sviluppo sostenibile” come cardine del programma della coalizione giallorosa. Un segnale a tutte le parti ma innanzitutto a Draghi, perché non dimentichi quale deve essere il punto di partenza. Ma Grillo e il possibile nuovo premier hanno parlato anche, e molto, di reddito di cittadinanza. E anche su questo, totem del M5S, il premier incaricato avrebbe dato garanzie. “Ha promesso che non verrà smantellato, anzi che verrà migliorato” ha (in sostanza) raccontato Grillo ai suoi. Ed è un altro punto essenziale anche per reprimere il malcontento che c’era e che tuttora si percepisce, eccome, nel corpaccione parlamentare, soprattutto in Senato. Il fondatore lo sa benissimo. Per questo nelle ultime ore ha chiamato molti parlamentari. E ha sentito Conte, anche ieri mattina.

È stato lui a spingerlo a parlare, a esporsi su Draghi. E a esortarlo a dare un segnale innanzitutto ai Cinque Stelle. “Giuseppe deve entrare con noi” ripete a vari big. A lui, all’avvocato, ha chiesto invece di parlare dritto sul nuovo governo. Di precisare che non ha alcuna intenzione di ostacolarlo. Ma anche di ricordare che l’eventuale governo Draghi dovrà avere un preciso baricentro, politico. Insomma, non potrà essere un esecutivo dove a comandare il gioco siano grisaglie non passati dalle urne, i tecnici. “Ho voglia di venire a Roma” dice Grillo agli interlocutori. e infatti ieri notte dovrebbe essere arrivato in città.

La certezza è che in queste ore è tornato centrale, decisivo. Sa che il Movimento rischia l’osso del collo in questo passaggio, e che Draghi potrebbe essere la ferita finale per un M5S già lacerato da troppe divisioni e compromessi. Non è un caso che ieri a Roma ci fosse anche, già in giornata, Davide Casaleggio, l’uomo della piattaforma Rousseau. Venuto a capire, spiegano, quante possibilità concrete abbia di partire il governo Draghi. “Ma sulla piattaforma Rousseau non possiamo votare questa volta, non possiamo concedergli questo” sibila un big a sera inoltrata.

Perché Casaleggio per parlamentari e maggiorenti ormai è persona ostile, avversario. Grillo sa anche questo. Ma ora ha la testa solo sul governo Draghi. L’ennesima strada molto stretta, per il Movimento che ignora la serenità.

Conte: “Il governo sia politico”. E si candida a leader giallorosa

L’ultima, classica scena dell’era Conte potrebbe essere l’inizio della nuova fase. A Mario Draghi per fare un governo servivano i Cinque Stelle dubbiosi e lacerati, e glieli porta in dote l’unico che poteva riuscirci, Beppe Grillo, sentito via telefono. Poi però c’è Giuseppe Conte, che dopo essersi sentito proprio con Grillo all’ora di pranzo parla davanti a palazzo Chigi, circondato da giornalisti assembrati, per dire che “serve un nuovo governo, politico”. E si rivolge innanzitutto “agli amici dei 5Stelle, a cui dico che ci sono e sarò sempre”. Perché sarà ancora in politica, magari anche come leader del M5S. Di certo come mastice e futuribile candidato premier giallorosa.

E infatti: “Agli amici Pd e di Leu dico che dobbiamo lavorare tutti insieme perché l’alleanza per lo sviluppo sostenibile che abbiamo iniziato a costruire è un progetto forte e concreto”. Da qui vuole ripartire Conte, dal patto anche con quei dem che in queste ore gli avevano chiesto in tutti i modi il sostegno al governo che verrà. Da quella coalizione che Matteo Renzi voleva disfare, con lo strappo che è già costato l’incarico all’avvocato. Così eccolo, il presidente uscente, che quasi lo giura: “Ho sempre lavorato perché si possa formare un nuovo governo. Mi descrivono come un ostacolo, evidentemente non mi conoscono o parlano in mala fede. I sabotatori cerchiamoli altrove”.

Non poteva essere lui a mettersi di mezzo. Ma il suo riferimento al governo politico, “che prenda decisioni politiche”, imperniato su ministri e punti di programma concordati con i partiti, non è proprio ciò che appare, un via libera. Fonti qualificate raccontano che quel riferimento sia anche e forse soprattutto un modo per sottolineare che questo esecutivo dovrà avere precise caratteristiche. Cioè si potrà fare solo concordando i temi con le forze politiche, “e finora nelle consultazioni di temi Draghi non sta parlando” assicurano le stesse fonti. Tradotto, Conte non fa muro. Ma ieri non voleva spingere le vele di Draghi. Piuttosto, rivendicare le ragioni e i temi dei giallorosa. Lo ha fatto dopo aver incontrato Draghi, mercoledì, e dopo aver (ri)sentito Grillo, convintosi ad appoggiare il nuovo esecutivo dopo una telefonata con l’economista romano. Un incastro a tre che cambia l’inerzia dentro il Movimento. Fino a mercoledì notte, in maggioranza per il no, secco. Ma già nell’ennesima assemblea del M5S, all’una della notte tra mercoledì e giovedì, il reggente Vito Crimi aveva di fatto aperto a Draghi. Un segnale che aveva colpito molto i parlamentari collegati via Zoom. Anche in questo caso per nulla casuale, visto che Crimi aveva parlato dopo aver ricevuto apposita telefonata di Grillo. Ieri, attorno alle 12.30, il segno dell’aria che tira lo dà una nota dell’ex capo ma leader di fatto, Luigi Di Maio: “Oggi si aprono le consultazioni di Mario Draghi e il Movimento ha il diritto di partecipare, ascoltare e assumere poi una posizione sulla base di quello che decideranno i parlamentari”. Tradotto, bisogna sedersi a quel tavolo, trattare.

Poco dopo, sul Foglio.it, la sindaca di Roma Virginia Raggi: “Il M5S apra a Draghi”. Quindi Conte, con microfoni su un tavolino in mezzo alla piazza e il portavoce Rocco Casalino che esorta le telecamere a inquadrare il Parlamento. Comunque vada i 5Stelle qualche eletto lo perderanno. Soprattutto in Senato, pieno di veterani che si sono esposti contro l’economista. “Chi crede che si possa creare un vero governo politico è cieco” ringhia Alberto Airola. Per ricucire si muovono due big, Paola Taverna e l’ex capogruppo Stefano Patuanelli. Ma lì fuori c’è sempre Alessandro Di Battista, contrarissimo a Draghi.

Mercoledì sera aveva capito la piega degli eventi, e si era appellato pubblicamente ai suoi: “Non cedete alle pressioni”. Ieri l’ex deputato si è incollato al telefono, chiamando molti maggiorenti. Ma l’inversione di marcia pare difficile. E comunque poi si torna sempre a Conte. “Nel suo intervento si è rivolto innanzitutto a noi, è la conferma che vuole essere il nostro leader” dicono in diversi.

Ma proprio per questo ora dal M5S risale forte la richiesta che l’avvocato entri ufficialmente nel Movimento, che si iscriva. “Giuseppe c’è, resta con noi” sillaba con soddisfazione dentro la Camera Federico D’Incà. Buon per loro.

Suicidio assistito

Ci sono vari modi per suicidarsi: l’aspide, la cicuta, il gas, il cappio, il balcone, la finestra, il ponte, la clinica svizzera, i barbiturici, le vene tagliate nella vasca da bagno, il topicida, la pasticca di cianuro. Tutti tragici, ma rispettabili. Il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle poche ore dopo che i gruppi parlamentari che avevano deciso (a maggioranza ampia al Senato e più risicata alla Camera) di non appoggiare il governo Draghi. Intendiamoci: il carnefice non è Draghi, che anzi s’è accollato una bella gatta da pelare. I carnefici sono i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l’insano gesto. Draghi non è un drago sceso dal cielo che ripulisce, con un colpo di coda e di spugna, le lordure di un Parlamento pieno di voltagabbana, sciacalli e squali. Anche lui, come Conte e come tutti, dovrà far fuoco con la legna che c’è per trovare una maggioranza, possibilmente più ampia di quella che ha sbarrato la strada a Conte malgrado la fiducia appena ottenuta alla Camera e al Senato.

E lì, quando inizieranno le consultazioni “vere”, rinviate per due giorni per frollare partiti e coalizioni per sfinimento, finirà la truffa del governo “tecnico uguale neutro”. I governi tecnici sono quanto di meno neutro e più politico esista: decidono anch’essi dove indirizzare i nostri soldi e ora anche quelli dell’Ue, l’economia, la finanza, la giustizia, il lavoro, la sanità, l’istruzione, la cultura, i diritti. Quando il polverone della crisi si sarà depositato insieme ai fiumi di bava e saliva dei media per SuperMarioBros, l’equivoco si scioglierà. Ogni partito detterà a Draghi le sue condizioni e tutti capiranno che non esistono salvatori della Patria né uomini della Provvidenza né governi, premier o ministri asessuati (mica sono angeli). Il sesso dipende da chi li vota e da cosa fanno. Invece per Draghi “basta la parola”, come per il confetto Falqui, e chissenefrega dei contenuti. Come se esistessero premier multiuso per tutte le stagioni, gli stomaci e i palati (è l’accusa che si faceva a Conte, che però prima governò con la Lega e poi col Pd, ma sempre con maggioranza 5S,e in tempi diversi: non contemporaneamente). Come se i governi nascessero da un bel curriculum, anziché dalla volontà e dai programmi di una coalizione. E meno male che era Conte quello “senz’anima”. Vediamo le 4 alternative di Draghi.

Governo giallorosa-bis. Includerebbe M5S, Pd e LeU, che si ritufferebbero nelle grinfie dell’Innominabile, di nuovo decisivo, come se questi 17 mesi di sevizie non fossero bastati.

Ammetterebbero che il problema era Conte (non una grande idea per chi lo vuole candidato premier). E ricomincerebbero a litigare su Mes, giustizia, reddito, bonus, autostrade ecc.

Governo Ursula. Terrebbe insieme M5S, Pd, LeU, FI, Iv, Bonino e Calenda. Tutta gente col pelo sullo stomaco abituata da anni a inciuciare e a far digerire di tutto ai rispettivi elettori (reali o virtuali), con un’eccezione: i 5Stelle. Che con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l’irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino. Se Di Maio restasse ministro con berlusconiani e renziani, qualcuno potrebbe domandargli perché nel 2018 rinunciò a fare il premier per rifiutare non l’alleanza, ma una semplice telefonata con B. E giungerebbe alla conclusione dei peggiori detrattori dei “5S pronti a votare qualunque roba pur di salvare la poltrona”. Intanto, soli soletti all’opposizione, Salvini e Meloni griderebbero all’attentato alla democrazia, lucrerebbero consensi su ogni scelta impopolare e lite del governo (dove nessuno sarebbe d’accordo con nessuno su nulla) e si spartirebbero le spoglie dei fu 5Stelle. Che, sì, avrebbero reso superflua Iv e tenuto uniti i giallorosa, ma non potrebbero più uscire di casa.

Governo Ursula senza 5S (che si asterrebbero salvando, se non l’anima, almeno la faccia). Non avrebbe la maggioranza neppure relativa. E sarebbe curioso se Mattarella lo consentisse, dopo aver archiviato il Conte-2, dimissionario sì, ma senza accettazione delle dimissioni e appena “fiduciato” dalle due Camere. Ma a quel punto sarebbe lo stesso premier incaricato a rinunciare.

Governo Pd-FI-Iv. Avrebbe ancor meno voti del precedente. Dovrebbe elemosinare l’astensione di almeno un grande gruppo fra 5Stelle o Lega, o di entrambi (la Meloni si astiene solo se nessun alleato dà la fiducia, sennò vota contro). E sarebbe un governo balnear-elettorale di minoranza, tutto il contrario del mandato di Mattarella, per giunta esposto a ricatti degli astenuti che potrebbero votare contro se non ottenessero ciò che vogliono. Cioè, per i 5Stelle, il mantenimento di tutte le loro riforme, invise a quasi tutti gli altri. E, per la Lega, i mantra di Salvini: condono fiscale, flat tax, “libertà di scavo” (cioè di trivelle), basta Dpcm e chiusure anti-Covid, rinuncia ai prestiti del Recovery, frontiere e porti chiusi e altre cazzate. Dunque neppure Draghi ci starebbe. E tutti i suoi turiferari scoprirebbero che la politica, scacciata dalla porta, rientra sempre dalla finestra.