Da Dostoevskij a Pirandello, da Lavia a Lante della Rovere: “Tutta scena” online

Telecamere puntate e riflettori accesi. Oggi si alza il sipario di Tutta scena – Il teatro in camera, il nuovo format di TvLoft per portare la prosa sugli schermi di tutti. D’altronde, il teatro si manifesta dove vuole, quando vuole e a chi lo sa vedere. Oggi è in lockdown e le platee sono vuote, ma l’arte cosiddetta drammatica continua a raggiungere il suo pubblico a casa: da questa esigenza nasce il progetto di Tutta scena.

A inaugurare questa inedita stagione teatrale, disponibile a partire da oggi su TvLoft, è Gabriele Lavia, che interpreta Sogno di un uomo ridicolo, racconto introspettivo sulla contemplazione del suicidio dell’intramontabile Fëdor Dostoevskij. Ed è solo l’inizio: l’11 febbraio ci sarà la possibilità di godersi Vinicio Marchioni con la sua La più lunga ora – Ricordi di Dino Campana e Sibilla Aleramo. Dopo questa parentesi romantica tra il poeta di Marradi e la femminista “Rina”, il 18 febbraio debutterà in tv la mise en scène di Settimo senso, scritto da Ruggero Cappuccio e interpretato da Euridice Axen: un dialogo tra un uomo e una donna – Moana Pozzi – in cui la sensualità straborda in pornografia. Si passa poi il 25 febbraio all’ironica e mordente Ifigenia in Cardiff di Gary Owen, rappresentata da Roberta Caronia.

La rassegna targata TvLoft continua anche a marzo, aprendo la mesata con Una serata con me di e con l’attrice e comica Paola Minaccioni. Segue l’11 marzo Com’era bello quando parlava Gaber scritto e inscenato dal giornalista del Fatto Andrea Scanzi, un omaggio all’indimenticabile Signor G, e il 18 saranno disponibili una serie di brani tratti da Mumble mumble… Ovvero confessioni di un orfano d’arte, scritto da Emanuele Salce e Andrea Pergolari e recitato dallo stesso Salce affiancato da Paolo Giommarelli. Infine, il 25 marzo, chiuderà la stagione Lucrezia Lante della Rovere, che presterà la sua performance al dramma pirandelliano L’uomo dal fiore in bocca.

Gli spunti sono tanti e saranno arricchiti dalle interviste ai vari protagonisti degli spettacoli condotte da Alessandro Ferrucci, giornalista del Fatto Quotidiano. Il progetto è ricco, denso, variopinto, timbrato da Loft Produzioni e grazie alla cura autoriale di Giorgia Salari, con la collaborazione di Cecilia Pandolfi, alla direzione artistica di Duccio Forzano, la regia di Matteo Forzano e la direzione della fotografia di Mauro Ricci.

Ma ora è tempo che si alzi il sipario: godiamoci Tutta scena.

“Vieni, o diletta”: L’“Aida” di Verdi compie 150 anni

Gli anniversarî musicali più importanti di questo 2021 sono il centocinquantenario della prima esecuzione dell’Aida al Cairo (dicembre; in Europa, alla Scala, l’Opera debuttò il successivo febbraio, e ciò a Verdi davvero importava).

I padri della vicenda narrata in musica furono più d’uno, dall’egittologo francese Auguste Mariette al raffinato librettista Antonio Ghislanzoni. L’epistolario del Maestro con lui mostra che Verdi era un metricologo pressoché scientifico. Se si segue la vicenda della nascita del capolavoro e poi dei suoi primi allestimenti si coglie un desiderio di verisimiglianza storica spinto all’eccesso: scene, costumi, taluni, e bellissimi, caratteri arcaistici della musica.

Ma occorrerebbe farsi una domanda di fondo. La storia è quella di un ufficiale egiziano, Radamès, capo dell’esercito. Egli è perdutamente innamorato – nel senso moderno e, vorrei dire, borghese, dell’amore – di una schiava etiope, Aida, e per lei perderà l’onore e la vita, oltre che la promessa del trono che il Re gli fa offrendogli in sposa la figlia Amneris.

Ora, abbiamo noi idea di che fosse l’amore quattromila anni fa in una società complessa, classista, razzista, come quella egizia? Poteva un uomo appartenente alla casta superiore innamorarsi (sempre che l’amore come lo concepiamo noi esistesse: credo che incominci con la civiltà greca ed era per giunta preferibilmente tra un uomo e un ragazzo)? E lo poteva di una schiava, per giunta appartenente a quella ch’era ritenuta una razza inferiore?

Il valore musicale e drammatico dell’Aida non è qui in discussione. Anzi, essa è, insieme col Guillaume Tell di Rossini, colle Vêpres siciliennes dello stesso Verdi, coi Troyens di Berlioz, e con il Don Carlos, sempre di Verdi, il più bello dei Grand-Opéras mai scritti. Nonché uno dei capolavori del teatro musicale, con la sua alternanza di grandiosità e intimismo.

Peraltro, il teatro musicale è il regno dell’inverisimiglianza. Come fanno Dorabella e Fiordiligi (Così fan tutte di Mozart) a non riconoscere nei due stranieri che si presentano loro travestiti i due amanti lasciati pochi minuti prima? Su casi analoghi si potrebbe scrivere un libro. Ma quello dell’Aida mi sembra basilare, fondamentale, tanto da impedire quasi alla baracca di tenersi in piedi.

Ciò è possibile non solo di fronte allo splendore e alla raffinatezza della musica di Verdi, ma di fronte all’aura magica da essa creata sì che un velo si pone davanti al nostro intelletto e ci impedisce di pensare alla storia, e alla Storia; e alla coerenza drammatica.

Mi pare, infatti, che l’Aida come Opera meriti un articolo a sé, che intendo scrivere. Ma se si volesse sintetizzarla in una formula, potremmo dire: credo sia il massimo caso di un testo di teatro musicale che con i mezzi stilistici più raffinati (in certi casi, sofisticati) perviene alla massima popolarità presso ogni genere di pubblico.

 

Letteratura o memoir in pretura?

Una mattina del 1959, Truman Capote – il capostipite del moderno romanzo-verità – fu colpito da un trafiletto sul New York Times che riportava la tragedia della famiglia Clutter, che qualche anno dopo divenne l’alveo narrativo di A sangue freddo (1966). Di lì in poi (ma anche prima), passando per Laurent Mauvignier e giungendo a Nicola Lagioia – che per La città dei vivi (2020) ha studiato a fondo l’efferato caso del Collatino –, gli scrittori hanno sempre tratto ispirazione da fatti di cronaca più o meno cruenti. Tuttavia, ancora, si parla di romanzo: qui la letteratura è garantita dalla distanza che lo scrittore frappone tra il racconto e l’io narrante, dallo “spazio letterario” (direbbe Maurice Blachot), cioè quella regione esterna in cui lo scrittore scompare per dare alla luce un’opera che nel suo essere è già altro da sé.

Ma se a scrivere di una violenza è la vittima stessa, possiamo ancora parlare di letteratura? Domanda non anodina che ci poniamo in occasione dell’uscita in Italia de Il consenso (La nave di Teseo) di Vanessa Springora, in cui l’autrice francese racconta di essere stata ripetutamente violentata a quattordici anni da un famoso scrittore che lei chiama “G.”, che aveva plagiato e manipolato lei e altri ragazzini. A muovere l’autrice è “la vendetta”. In Francia il libro è stato un caso letterario (in corso di pubblicazione in venti Paesi e vincitore del Prix Jean-Jacques Rousseau per l’autobiografia) ma soprattutto un caso giudiziario: a partire da questa “testimonianza” (è il caso di dirlo) la procura ha aperto un’indagine per pedofilia ai danni dello scrittore francese di origine russa Gabriel Matzneff, che – linciato sui social e allontanato dall’industria culturale – ha pubblicato a proprie spese in questi giorni Vanessavirus, il libro in cui si difende dalle accuse.

Quello di Springora-Matzneff, tuttavia, è solo l’ultimo caso di auto-fiction di denuncia (letteralmente). Non più tardi di un mese fa, usciva sempre in Francia La familia grande, in cui l’autrice – l’avvocata Camille Kouchner – accusa il patrigno Olivier Duhamel (politologo di spicco) di aver abusato per due anni del fratello gemello quando questi aveva tredici anni. Venendo all’Italia, in Anatomia di un cuore selvaggio (Piemme) Asia Argento per la prima volta svela di essere stata drogata e stuprata dal “predatore” regista Rob Cohen durante le riprese di Xxx (2002), regista che ha smentito e minacciato azioni legali. Ma scavare nel rimosso più doloroso non è appannaggio muliebre. In Storia della violenza (Bompiani), Édouard Louis (già noto per Il caso Eddy Bellegueule) scrive di essere stato abusato e derubato una sera da un ragazzo conosciuto per un appuntamento. Ironia della sorte, è stato il ragazzo in questione a denunciare Louis per la descrizione troppo riconoscibile.

L’autobiografia non è una colpa, ovviamente. In una recente intervista, però, la scrittrice Rosella Postorino ha dichiarato: “Non potrei mai fare autofiction, che noia”. Ma la stessa Natalia Ginzburg nel 1964 – sebbene ne avesse “orrore” – riconosceva “la tentazione dell’autobiografia”, dato che il sé “s’infila sempre nello scrivere”. Qui, però, il passo è successivo: quando la letteratura si fa tribunale, è ancora letteratura?

Non volendo pensare si tratti di marketing (pur ammettendo che i titoli succitati sono vendutissimi), ci troviamo al confine estremo del memoir o a una nuova deriva delle denunce? Di tribunali ne sa qualcosa perfino Emmanuel Carrère, che è stato querelato dall’ex moglie per aver riportato nell’ultimo romanzo, Yoga, alcuni particolari della loro vita sessuale. “Ma da lettore è legittimo porsi questa domanda – ci dice Mario Fortunato, scrittore e critico –. La letteratura si nutre di ciò che non è risolto nella nostra coscienza, ed è quindi possibile che un’esperienza così terribile possa produrre anche a distanza di molto tempo un’eco in chi è uno scrittore. Ma non si diventa scrittori grazie, o a causa, di un accadimento del genere. Possono però venire fuori dei libri-testimonianza interessanti: vedi Il pane nudo di Mohamed Choukri o Il diavolo in corpo del giovanissimo Raymond Radiguet”. Un’esperienza violenta, dunque, può generare un bel libro ma non genera automaticamente uno scrittore. Perché alla letteratura chiediamo di attuare quel processo alchemico di rielaborazione della realtà. Cosa che accade, per esempio, in Bagheria, in cui Dacia Maraini racconta delle molestie subìte nell’infanzia da parte di un amico del padre, nelle poesie di Alda Merini traboccanti di violenze subìte e ricoveri in manicomio, così come in Addio a Berlino di Christopher Isherwood o in Diario del ladro, in cui Jean Genet confessa tutte le sue turpitudini. “È questo il salto da fare – riprende Fortunato – perché se è vero che c’è sempre un sostrato autobiografico nella letteratura, non è detto che la sola autobiografia sia letteratura”.

Le richieste di Renzi umili e ragionevoli: dal Meb alla Arcuri

A un certo punto Matteo Renzi s’è stufato. Per giorni, il sentimento prevalente nell’opinione pubblica era quello di assoluto stupore nei confronti di una crisi di governo che, oltre al momento storico particolare, sembrava assolutamente priva di ragioni che non fossero l’ego di Renzi, “il suo odio per Conte” (cit. Giulio Gallera) o anche l’ego di Renzi. E questo, l’ego di Renzi, non poteva proprio accettarlo. Per cui l’ego di Renzi ha affidato a un tweet, pubblicato poco prima del discorso di Mattarella, le vere ragioni dello strappo: “Bonafede, Mes, Scuola, Arcuri, vaccini, Alta velocità, Anpal, Reddito di cittadinanza. Su questo abbiamo registrato la rottura, non su altro. Prendiamo atto dei Niet dei colleghi della ex maggioranza”.

Ma tu pensa, davvero hanno detto no? Se il primo editore a ricevere il manoscritto del libro di Harry Potter fosse stato l’ego di Renzi, probabilmente l’ego di Renzi avrebbe sentenziato “Togli il maghetto, Voldemort, la scuola di magia, Albus Silente, lo sport sulle scope volanti e i genitori morti, ma per il resto è perfetto”.

Me lo immagino anche come curatore di una collana sulla cucina italiana. “Via la pizza, gli spaghetti, i tortellini, le lasagne, il panettone e il pesto. Il resto va bene”.

Tuttavia, dal momento che ci sta che nella sintesi in 280 caratteri si perda qualcosa, andiamo a vedere più nello specifico quali sono state le sue umili, ragionevoli richieste a Conte :

Il MEB. Probabilmente quello sul Mes è un refuso dal momento che, più che l’accettazione del Meccanismo Europeo di Stabilità, la prima urgenza di Renzi sembra l’accettazione di Maria Elena Boschi per la sua stabilità. Non scambiatela per un’ossessione, come non lo era quella di Dante per Beatrice. È una questione di merito e competenza, e quindi giustissima la Boschi alle Infrastrutture. O allo Sport, all’Agricoltura, alla Scuola, alla Giustizia. Perfetta anche per tutti i ministeri contemporaneamente, grazie a una speciale poltrona a rotelle brevettata personalmente dalla Azzolina.

Grandi opere. “Il Tav? Non è un’opera dannosa, ma inutile. Soldi impiegati male. Rischia di essere un investimento fuori scala e fuori tempo”. “Continuano a parlare dello Stretto di Messina, ma io dico che gli 8 miliardi li dessero alle scuole per la realizzazione di nuovi edifici e per rendere più moderne e sicure!”. Parlava così, Matteo Renzi, un tempo. Ora che finalmente non deve più fingere di essere di sinistra, si è impuntato sull’esatto opposto. Sì al Tav, sennò salta il banco. Ma soprattutto sì al ponte sullo Stretto, con una piccola deviazione fino a Riyad, in modo che i protagonisti del nuovo rinascimento possano frequentarsi più spesso risparmiando sulla benzina del jet e sulle emissioni inquinanti. Che si sa, l’Arabia Saudita è la più grande fan del processo di allontanamento dal petrolio come fonte energetica: puntano a venderlo in bottiglie e a farcelo bere.

Domenico Arcuri. Sul commissario, Matteo Renzi non sente ragioni. Lo detesta. A tal punto che c’era un disegno preciso, quello di punire non solo il commissario per l’emergenza Covid, ma pure Manuela Arcuri, per l’odiosa omonimia. Posto il veto sulla sua partecipazione a un eventuale remake di Carabinieri, Matteo Renzi ha chiesto a Conte che il ruolo dell’agente Paola Vitali venisse affidato a Maria Elena Boschi.

La prescrizione. Modeste anche le sue pretese in tema di prescrizione. Matteo Renzi ha chiesto che per i processi per fatture false, traffico di influenze illecite e turbativa d’asta la prescrizione subentri a due giorni dall’inizio delle indagini preliminari. A chi lo ha accusato di voler dare una mano al padre, ha risposto che per tutti coloro in possesso di un certificato che attesti lo stato di paternità, lui vuole l’immunità parlamentare. A chi gli ha contestato che non si può prescrivere un reato se non è iniziato il processo, ha risposto: “Questo perché l’Italia è il nuovo Medioevo”.

Alfonso Bonafede. In realtà Matteo Renzi ha molta stima nelle capacità professionali di Alfonso Bonafede, tanto che ha esplicitamente chiesto a Conte di rimuoverlo dall’incarico di ministro perché possa portare la sua esperienza all’estero, soprattutto nel mondo delle carceri. In particolare, aveva proposto per lui un incarico di rilievo in Russia: quello di assaggiatore del rancio di Navalny.

Rocco Casalino. Non è affatto vero che Renzi ne abbia chiesto la testa su un vassoio d’argento. Sembra che la trattativa sia stata molto più modesta. Ne ha chiesto solo stinco, spalla e sottocoscia in un tegame da forno. Con patate.

Kameel, fuga nel gelo dagli ayatollah

I sentieri di montagna tracciati dai contrabbandieri per importare illegalmente in Iran le merci sottoposte all’embargo americano e dell’Unione europea sono stati cruciali per Kameel Ahmady.

L’accademico dalla doppia nazionalità, britannica e iraniana, ha preferito rischiare di perdere la vita nella neve alta due metri e nel gelo d’alta quota per raggiungere il confinante Azerbajan, piuttosto che rischiare di tornare nel famigerato carcere di Evin, fuori Teheran, dove aveva trascorso tre mesi e da dove era uscito qualche tempo prima su cauzione in attesa del processo. “Un viaggio buio, molto lungo, terrorizzante e gelido, senza contare l’eventualità concreta di incontrare le guardie iraniane di frontiera che non esitano a sparare contro chi percorre la rotta verso il confine, come mostrano trionfanti i notiziari del regime allo scopo di scoraggiare chi ne è intenzionato”, ha detto Ahmady.

Arrivato a casa da moglie e figli, Ahmady ha saputo di essere stato condannato in contumacia a 9 anni di carcere “per aver collaborato con un governo ostile”. Una accusa sempre negata dall’antropologo, autore delle ricerche più approfondite e autorevoli sulla pratica delle mutilazioni genitali femminili e sui matrimoni precoci, entrambe violazioni dei diritti umani ancora praticate in molti paesi musulmani, tra cui l’Iran.

Il regime peraltro si è opposto all’abrogazione della legge secondo cui si può sposare una bambina purché abbia compiuto 13 anni. L’antropologo è di etnia curda, stabilita nell’Iran occidentale, ma i suoi genitori lo mandarono in Gran Bretagna quando aveva 18 anni per studiare all’Università del Kent e alla London School of Economics. Ahmady afferma di essere stato preso di mira non solo perché aveva la doppia nazionalità, ma anche perché l’Iran voleva usarlo per vendicarsi del sequestro da parte della Gran Bretagna di una petroliera iraniana, al largo di Gibilterra, sospettata di violare le sanzioni dell’Unione europea.

Per tentare di screditarlo ancora di più, i giudici hanno inserito nella sentenza come motivazione che nelle sue ricerche viene promossa l’omosessualità. Un altro dei tanti tabù iraniani, in primis la verità.

L’Iran da anni è a caccia di cittadini dalla doppia nazionalità che si recano in Iran a fare visita ai parenti per farne dei veri e propri ostaggi da scambiare con i Paesi che considera nemici.

Avvocati radiati e quartieri recintati: è lo stile cinese

Chi vorrà più difendere gli attivisti di Hong Kong se gli avvocati che li rappresentano vengono radiati? È la prima domanda. La seconda, che circola per Hong Kong è: perché le autorità hanno deciso di chiudere a sorpresa interi quartieri sottoponendo obbligatoriamente gli abitanti a tamponi per il Covid-19? Sì, perché in queste ultime settimane, il regime sempre “più cinese” dell’isola sta mettendo in atto una doppia morsa sulla popolazione e contro il movimento pro-democrazia che si batte contro la legge sulla sicurezza imposta da Pechino. Da una parte depenna ogni avvocato che difenda gli attivisti e, dall’altro, con retate mirate con la scusa della pandemia entra nelle case dei cittadini imponendo loro test per il coronavirus, erodendo sempre di più la libertà democratica.

È la nuova strategia della governatrice Carrie Lam per tentare di frenare le contestazioni interne. È successo così che Ren Quanniu, avvocato cinese che ha perso la licenza per aver difeso un attivista democratico accusato di aver tentato di lasciare illegalmente il Paese.

Si tratta di uno dei 12 hongkonghesi braccati mentre, nell’agosto scorso, cercavano di raggiungere Taiwan in barca. Venerdì della passata settimana, mentre prendeva parte a un’udienza per un caso del 2018 in cui rappresentava un membro del Fulan Gong, il gruppo religioso bandito dalla Cina continentale, Ren è stato raggiunto da un avviso del tribunale che revoca il suo diritto di esercitare la professione. L’accusa è “interruzione del normale svolgimento dell’ordine dei procedimenti penali e danno all’immagine degli avvocati con un impatto negativo sulla corporazione”. “Accuse infondate”, ha risposto il legale, spiegando che se la sua “licenza può essere revocata così, ciò significherebbe che il sistema legale cinese è morto”. E pare sia proprio questo il caso. A essere “punito” per aver preso le parti degli attivisti, infatti, Ren non è certo l’unico. Prima di lui, le autorità hongkonghesi hanno incastrato il collega, Lu Siwei con cui ha lavorato al caso dei 12 fuggitivi. Anche a lui è stata revocata la licenza un mese fa. “Gli avvocati dovrebbero essere consapevoli che fare riferimento alla legge e ai fatti in tribunale potrebbe essere pericoloso in futuro”, ha detto Lu, certo che a scatenare le ire dell’autorità sia stata in realtà la difesa dei 12. E una volta accertato questo, “è improbabile che attivisti perseguitati e critici del governo trovino avvocati che difendano i loro diritti”, ha spiegato la Ong Chinese Human Rights Defenders. Finora sono più di una dozzina i legali per i diritti umani radiati dall’albo o la cui licenza è stata revocata con l’obiettivo di silenziare il movimento. Di solito questo avviene quando il metodo precedente, cioè il non rendere reperibili neanche ai propri avvocati i fermati, non funziona e il processo va avanti.

Intanto, la polizia semina panico con trappole per la città con la scusa di far rispettare le regole anti-Covid. Negli ultimi 10 giorni, squadre di agenti hanno chiuso interi quartieri “in stile imboscata”, costringendo gli abitanti a sottoporsi a tamponi per il Covid. Chi si oppone viene multato con l’equivalente di 600 dollari. Sui social i video che mostrano la polizia che sfrecciando per strada, srotola nastri per delimitare la zona e poi sottoporre chi resta dentro ai test sono diventati virali. Parte della strategia di contenimento, prevede anche, ha detto il governo, che le autorità entrino a sorpresa nelle case per prendere con la forza chi si rifiuta di sottoporsi ai tamponi. Sui media girano consigli su come sapere se la tua casa sarà la prossima. Secondo quanto riferito, le autorità hanno rilevato circa una dozzina di casi tra gli oltre 10 mila testati. Questo perché a Hong Kong i contagi sono in diminuzione. Merito, secondo Sophie Chan, segretaria alla Salute, proprio dei blocchi a sorpresa. “Non pensiamo che questo pesi sulle persone o sia uno spreco di denaro pubblico”, ha insistito Chan.

Il Gop diviso da Greene, la deputata fan di QAnon

I Repubblicani non riescono a decidere se e come sanzionare l’ultra-trumpiana Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia, che auspica l’uccisione della speaker della Camera Nancy Pelosi, o l’anti-trumpiana Liz Cheney, che vota a favore dell’impeachment dell’ex presidente. E così si muovono i democratici: il capo della maggioranza alla Camera Steny H. Hoyer, annuncia un voto – oggi – per estromettere la Greene, adepta di QAnon, da due commissioni, l’Istruzione e il Bilancio. La decisione è frutto di contatti tra Hoyer e il leader dei Repubblicani alla Camera Kevin McCarthy, da cui risulta chiaro che i Repubblicani non prenderanno provvedimenti contro la Greene, nonostante molti cerchino di metterla all’angolo ritenendola pericolosa, mentre danno sostegno alla Cheney, figlia del vice del presidente George W. Bush Dick Cheney. La discussione fra i Repubblicani al Congresso è un capitolo della ‘resa dei conti’ in atto nel partito dopo la sconfitta elettorale di novembre e in vista del processo d’impeachment all’ex presidente, che sobillò i facinorosi che presero d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio. Divisi tra conservatori e ‘trumpiani’, i repubblicani faticano a trovare una propria identità. Il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell considera la Greene “un cancro” nel partito, per la sua storia di razzismo e di complottismo, anche se si sarebbe recentemente dissociata da QAnon; e, invece, esprime apprezzamento per la Cheney, che ha “convinzione e coraggio”. Ma lo stesso McConnell ha poi votato contro la costituzionalità della procedura d’impeachment, convinto che il partito sia così permeato da Trump che è ormai impossibile liberarsene senza fare gravi danni. E McCarthy, che giorni fa è andato a prendere ordini da Trump in Florida, si riallinea al magnate, dopo essersi defilato. Greene si fa forte dell’appoggio di Trump, che fece campagna per lei e che le ha appena fatto “una telefonata fantastica”; e progetta d’andarlo a trovare in Florida presto. I Democratici lanciano una campagna di spot che sfruttano in chiave anti-repubblicana sue affermazioni negazioniste e complottiste sull’11 settembre, la strage di Parkland in Florida e la morte di Jfk jr. Al Senato, Democratici e Repubblicani hanno concordato come gestire i lavori nell’assemblea divisa a metà, 50 e 50, dove il voto decisivo è della vicepresidente Kamala Harris, presidente del Senato.

Trionfo Brexit col vaccino. BoJo sfrutta la pandemia

Primo ritratto del Regno Unito post Brexit. Cominciamo dal consenso per il governo conservatore e il suo leader Boris Johnson. L’ultimo sondaggio Opinium vede un recupero dei Conservatori di 4 punti rispetto a sole due settimane fa. Il Labour ha perso il vantaggio raggiunto nelle fasi più drammatiche della pandemia ed è tornato al 38%, giù di tre punti. Non solo: Johnson ha ripreso la prima posizione come primo ministro preferito, dal 30 al 33%, punti sottratti al segretario del Labour, Keir Starmer, che è passato dal 32 al 29%.

Come è possibile, nella settimana in cui il Regno Unito ha superato la tragica soglia dei 100 mila morti da Covid e malgrado i 19.202 nuovi contagi e le 1.322 vittime registrate ieri? I fattori sono molti, inclusa la tiepidissima opposizione di Sir Starmer, ma i principali sono due: il primo è che le statistiche stanno migliorando. Il secondo è che il governo che, più di tutti in Europa, ha sbagliato la gestione della pandemia, sta invece azzeccando quella della campagna vaccinale, che ha già superato i 10 milioni di prime dosi. Come hanno fatto? Anche qui, ragioni complesse. Sintesi: hanno, rispetto ad altri Paesi, fra cui Usa e Ue, “puntato al risultato”, “anticipando” le autorizzazioni dei vaccini, mentre altri aspettavano dati più completi; organizzato per tempo distribuzione e somministrazione; spaziato prima e seconda dose in base alla disponibilità e non ai protocolli; ignorato i dubbi, per mancanza di sperimentazione, sull’efficacia del vaccino Astrazeneca negli over 65. I dati di immunizzazione da Covid scorporati per tipo di vaccino non sono pubblici, ma lo scenario, rilanciato fra gli altri dalla testata investigativa Byline Times, è che “ai più vulnerabili sia stato somministrato il meno efficace vaccino Astrazeneca perché è più facile da distribuire”. Su questa “vittoria” si innesta un nuovo nazionalismo vaccinale, versione Covid del sovranismo Brexit, a un mese dall’uscita definitiva del Regno Unito dall’Ue. Grazie anche ai molti e gravi errori della Commissione Ue che hanno rinfocolato una guerra culturale permanente di cui forse in Italia non si percepisce la misura, media anche autorevoli ora scrivono: guardate l’Ue che disastro, elefante burocratico incapace di fornire vaccini ai suoi cittadini, fortuna che ne siamo fuori. Retorica bellica sempre utile, specie ora che i danni da Brexit mordono. La hard Brexit con cui si è di fatto chiuso il negoziato già lascia in ginocchio il settore della pesca, quello della cultura e, soprattutto, molte piccole imprese dipendenti dall’export. Secondo il sito di fact-checking Brexit FactBase sono circa 140mila, che impiegano oltre 2 milioni di persone e rappresentano circa il 30% delle esportazioni.

Il 20% di queste ha già sospeso gli scambi con l’Ue per evitare costi e scartoffie. Si prevede che il numero di dichiarazioni doganali passi dai 55 ai 270 milioni, a un costo annuale di 15 miliardi. È probabile che, con il tempo, questo choc venga assorbito: ma, come conferma al Fatto il partner di uno degli studi legali più coinvolti nel post Brexit, il governo sembra orientato a una significativa e crescente divergenza dall’Ue ovunque serva. Siamo solo all’inizio. Poi c’è la grande incognita dell’indipendenza scozzese, e qui l’uomo da ascoltare è Sir John Curtice, esperto di sondaggi e di casa all’Ateneo scozzese di Strathclyde.

Il primo a segnalare come, già mesi fa, il sì all’indipendenza avesse superato il no per la prima volta dal referendum del 2014. L’incremento si è arrestato, ma emerge un dato interessante: circa il 90% di sostenitori del sì intendono votare per il Snp, il partito indipendentista, alle Politiche di maggio. Se, come previsto, questo dovesse trionfare, può interpretare la vittoria come un nuovo mandato referendario. Johnson può, è nelle sue prerogative, continuare a negare il voto, ma rischia che il bubbone politico si ingigantisca e lo tormenti fino alle Politiche del 2024.

Quanto alla effettiva realizzabilità dell’indipendenza di Edimburgo, gli scogli non sono solo politici. Il maggiore è economico. Secondo Disunited Kingdom, recentissimo studio della London School of Economics con la Hong Kong University, l’indipendenza colpirebbe l’economia scozzese due o tre volte più duramente della Brexit, comporterebbe una contrazione dell’economia fra il 6 e il 9% e non sarebbe compensata nemmeno dal grande obiettivo finale, la reintegrazione nell’Unione europea.

Il Covid ha incoronato il monopolio Amazon (e le grane di Bezos)

Gli occhi del mondo finanziario sono puntati su Amazon: il colosso di Seattle ha diffuso i numeri del 2020, con aumenti che confermano la sua capacità di farsi “sistema” globale, ma ha pure registrato l’addio del fondatore Jeff Bezos al ruolo di Ceo. Eventi che solo apparentemente possono sembrare distanti.

I numeri. I dati del 2020 risentono delle chiusure a cui negozi e centri commerciali sono stati costretti per lockdown in tutti i Paesi. L’e-commerce è stata una scelta inevitabile e Amazon ha potuto spingere il suo mercato sistemico e parallelo, con regole stabilite a Seattle per tutti. È diventata una piattaforma globale di logistica integrata, in grado di collegare produttori e consumatori in tutto il mondo con profitti crescenti su ogni transazione. Il Covid ha solo velocizzato una tendenza in atto. I ricavi sono aumentati del 40% nel quarto trimestre (125,5 miliardi di dollari, +38% sull’ anno , pari a 386 miliardi), di fatto sono raddoppiati rispetto al 2019. Sono cresciute del 50% le superfici dei centri logistici e la capacità nei trasporti. Circa la metà dei pacchi è stata consegnata da Amazon stessa (2,5 miliardi su 5), il 70% negli Usa. Quando la domanda accelera, infatti, i trasporti sono il collo di bottiglia più critico: i corrieri non hanno di norma capacità aggiuntiva disponibile per rispondere a picchi improvvisi. Negli ultimi anni, però, Amazon ha investito sullo sviluppo di una propria capacità di trasporti, con una flotta di decine di aerei per garantire consegne in 24 ore ai clienti Prime. La forza lavoro ha raggiunto 1,3 milioni di dipendenti, 500mila in più nell’anno, 175mila solo nel quarto trimestre. Il segmento “internazionale”, ovvero tutti i paesi fuori degli Usa, ha registrato i risultati migliori: la crescita è quadruplicata (+57% nell’ultimo trimestre, rispetto al 14% del 2019) complice anche lo spostamento del Prime Day nell’ultimo segmento per l’emergenza Covid. Il direttore finanziario Brian Olsavsky ha attribuito questa accelerazione al fatto che molti paesi europei erano in lockdown.

L’utile operativo ha raggiunto 6,9 miliardi di dollari (+74%), mostrando la leva in un business che grazie agli alti volumi satura la capacità disponibile e produce ritorni più che proporzionali. Sull’anno l’utile operativo ha raggiunto 22,9 miliardi (+54%), quello netto è più che raddoppiato (+121%) a 7,2 miliardi. I due segmenti trainanti del business e degli utili sono stati come negli anni precedenti AWS (la divisione dei servizi di cloud computing) e la parte retail del Nord America, che hanno contribuito circa metà dell’utile ciascuna (AWS pesa per appena il 12% dei ricavi, ma è il gioiello della corona con un margine operativo del 28%). Il settore retail internazionale, tradizionalmente in perdita, è in nero per il terzo trimestre consecutivo, con un modesto utile (360 milioni contro i 2,9 miliardi del Nord America e 3,6 miliardi di AWS). Il 55% (è un record) delle unità è veduta dai seller con una crescita sull’anno del 54% dei ricavi da commissioni: significa che Amazon è più piattaforma di vendita per venditori terzi che retailer in proprio. Anche questo, insieme al forte aumento dei ricavi pubblicitari (a 7,9 miliardi nel terzo trimestre, +64% sull’anno, tutto di margine), aiuta a spiegare il forte miglioramento della redditività, che cresce ben più dei ricavi.

Il dominio. Un dato che conferma il ruolo sistemico raggiunto da Amazon riguarda i libri. Nel mercato italiano per il 2020, l’e-commerce (che nel settore è per l’80% Amazon) ha raggiunto in valore il 43% di tutte le vendite, ma se guardiamo al dato delle copie (inclusi e-book e audiobook, che hanno un prezzo più basso) si arriva ben oltre il 50%. Significa che se nel 2018 Amazon vendeva in Italia un libro su 5, ora siamo vicini a 1 su 2. Le vittime sono le librerie indipendenti, ancor più quelle di catena: in stazioni, aeroporti e centri commerciali hanno subito nel 2020 cali fino al 70%. Nel 2015 il canale e-commerce era appena il 15% del totale. Altra notizia recente: negli USA Thrasio, una società che acquista business FBA su Amazon (ovvero il servizio di deposito e distribuzione della merce) è riuscita a raccogliere 500 milioni di dollari per acquisire brand e asset da venditori attivi su Amazon. Sulla stessa scia, decine di società in Europa che ricevono centinaia di milioni di euro da società di venture capital. È partita una specie di caccia alle Unilever del futuro che, grazie all’abbondanza di dati disponibili, è possibile scovare tra i milioni di venditori sulla piattaforma. Questi flussi di capitale e le centinaia di transazioni di acquisizioni e fusioni sono un’ulteriore indicazione dell’enorme potere commerciale raggiunto da Amazon.

Cambio al vertice. È in questo contesto che Jeff Bezos cede il suo posto a Andy Jassy, finora ceo di AWS, per diventare presidente operativo. Non è un passo indietro: si concentrerà su temi strategici, come acquisizioni, sviluppo nuovi prodotti e innovazione. La mossa era nell’aria fin dalle dimissioni autunnali di Jeff Wilke, dal 2016 ceo di Worldwide Consumer (ma veterano, al pari di Jassy, che è in Amazon dal 1997), cioè di tutto il settore retail, che in termini di ricavi vale il 90% di Amazon. Nella corsa all’eredità di Bezos ha prevalso Jassy. Dave Clark, già a capo della logistica e stretto collaboratore di Wilke, lo sostituirà a capo di tutto il business Retail. È possibile che questo avvicendamento sia conseguenza dell’inchiesta annunciata a novembre dall’Antitrust Ue guidata da Magarete Verstager, che indaga sull’uso da parte di Amazon di dati sensibili sui venditori terzi: vi è il sospetto che l’algoritmo che assegna la buybox (il pulsante “compra ora” dal quale transitano l’80% delle vendite) favorisca le offerte di Amazon che, infatti, con meno del 10% dei listings genera il 45% dei ricavi e favorisca i seller che ricorrono ai servizi di spedizione di Amazon, che pagano commissioni più alte. Amazon dovrà rispondere per abuso di posizione dominante. Ci sono poi due indagini parallele dell’antitrust tedesca (pratiche anticompetitive verso i venditori terzi e accordi restrittivi della concorrenza con alcuni fornitori, come Apple).

Sempre a novembre è stato pubblicato un documento che dettaglia i risultati delle indagini sulle aziende Big Tech della commissione del senato americano, guidata dal senatore Cicilline, dove ci sono chiare accuse di comportamenti anti-competitivi e abuso di posizione dominante, in particolare sul doppio ruolo di gestore della piattaforma e venditore sulla stessa che facilmente si presta a conflitti di interesse. Davanti alla commissione Cicilline, Bezos è stato chiamato a testimoniare lo scorso anno. E forse sarà proprio lui a doversi occupare di alcuni di questi nodi che sempre più stanno iniziando a venire al pettine.

Censurare Trump per educare tutti?

Il 20 gennaio alla Casa Bianca si è insediato il 46° presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden. La transizione dei poteri col suo predecessore non è stata semplice. Il 6 gennaio si è verificata un’irruzione a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Donald Trump, il quale, soprattutto su Twitter, incitava i suoi 88 milioni di follower a rivendicare la vittoria, a suo dire “rubata” ingiustamente.

Di lì a poco, l’8 gennaio, il Consiglio di amministrazione di Twitter decideva di bloccare l’account del presidente uscente “per il rischio di ulteriori incitamenti alla violenza”. A seguire anche Facebook, Instagram, Twitch e Snapchat hanno sospeso l’account di Trump. Apple e Google hanno rimosso Parler, un’applicazione di social network molto usata dai suoi sostenitori, e Amazon ha privato il medesimo social dello spazio di archiviazione dei dati.

Queste decisioni a catena hanno provocato risposte divergenti. Da una parte, ci sono state reazioni indignate per la violazione della libertà di espressione scelta da un management aziendale; dall’altra, la decisione di silenziare Trump è stata accolta con sollievo, come se una mina pronta a esplodere fosse stata disinnescata appena in tempo. Il New York Times ha persino pubblicato la lista completa – lunghissima – di tutti gli attacchi verbali social del presidente dal 2015 a oggi.

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È molto importante comprendere il significato di quel che è accaduto, perché tocca il rapporto tra tecnologia e democrazia, oggi quanto mai fondamentale. Ci sono almeno due considerazioni da fare, per iniziare a comprendere come sia possibile che piattaforme digitali abbiano potuto silenziare un capo di Stato democraticamente eletto, quale quello degli Stati Uniti d’America.

La prima consiste nel ricordare che una norma di legge americana – la Sezione 230 del Communications Decency Act – afferma che “nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Dunque, di per sé i social network non sono responsabili per i contenuti che contribuiscono a diffondere, qualunque essi siano. Eppure, la decisione dei social è sembrata frutto di una decisione legata a un senso di responsabilità.

La seconda considerazione consiste nel fatto che i social sono piattaforme private che chiedono agli utenti di accettare alcune norme, in particolare quelle sulla condotta che incita all’odio. Chi viola tali norme, chiunque egli sia – un privato cittadino o un capo di Stato –, può vedersi rimuovere l’account dalle piattaforme. Dunque, l’amministrazione dei social valuta e giudica quale decisione prendere senza dover rispondere ad autorità superiori, fossero anche politiche e pienamente legittime.

Ora, per molto tempo i social hanno tenuto un atteggiamento ambiguo in riferimento alla comunicazione del presidente Trump, giungendo al massimo e solo di recente a “segnalare” i post che mettevano in circolo contenuti contrari alle norme e alle loro linee guida, perché giudicati alla stregua di fake news o messaggi di odio. D’altra parte, però, Facebook, a partire dal 2016, ha introdotto l’eccezione della “notiziabilità”, per cui le norme restrittive non si applicano se i contenuti incriminati sono ritenuti di pubblico interesse, in particolare se diffusi da politici. Pensiamo al caso di Steve Bannon, mai rimosso da Facebook, nonostante in diretta abbia invocato la decapitazione di due alti funzionari del governo americano! Lo stesso Bannon che Trump ha “graziato” poche ore prima di lasciare la Casa Bianca. Da notare ovviamente anche come il silenzio sui social presidenziali – se lo riteniamo giustificato – sia calato troppo tardi, cioè a Trump uscente e del tutto sconfitto.

Interessante, però, quel che ha scritto Jack Dorsey, l’amministratore delegato di Twitter: “Non festeggio e non sono orgoglioso del nostro divieto a @realDonaldTrump, o di come ci siamo arrivati”. E ha precisato che la scelta è stata fatta sulla base delle “circostanze senza precedenti che ci hanno costretto a concentrare le nostre azioni sulla sicurezza pubblica”. Detto questo, ha continuato Dorsey, “ritengo che lo stop sia un fallimento” nell’obiettivo di “promuovere una conversazione salutare”. Questo tipo di decisioni – ha ammesso – “fissano un precedente che ritengo pericoloso: il potere che un singolo o una società ha su una parte della conversazione pubblica globale”.

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Hanno fatto bene, dunque, i social a “bannare” Trump? Qual era la posta in gioco? Ciò che ha scritto Dorsey è davvero importante e addita con chiarezza e lucidità il punto critico di una situazione che non si può dirimere facilmente: società private oggi esercitano un potere reale e forte su una parte della conversazione pubblica globale e sul modo di vivere ed esprimere la democrazia.

Oggi la conversazione in Rete tramite i social ha un peso politico rilevante. Da una parte, cresce la capacità di partecipazione dei cittadini e di espressione delle opinioni: la cittadinanza oggi non può che essere anche digitale. Dall’altra parte, crescono pure la possibilità di manipolare l’opinione pubblica, anche grazie all’uso astuto dei dati e degli algoritmi, e la possibilità di istigare all’odio e di diffondere notizie false.

La censura di Donald Trump ha messo in evidenza che l’ambiente digitale oggi è un ambito “privato” in cui valgono le regole del proprietario delle piattaforme di comunicazione. Nel caso specifico, questo pare abbia messo al riparo da ulteriori violenze. Ma il problema resta: chi decide? E quando l’intervento può scattare? Attualmente valgono le regole private del contratto. E qual è il confine tra l’applicazione di regole e il meccanismo di censura?

La tecnologia ha impresso modificazioni profonde alla nostra vita sociale e politica: bisogna prenderne atto. Una forte presa di coscienza è avvenuta il 15 dicembre scorso, con la presentazione del Digital Services Act da parte della Commissione europea.

Nel momento in cui le piattaforme digitali svolgono un importante servizio pubblico di rilevanza democratica, esse richiedono una coscienza sociale – frutto anche di un’educazione al digitale che si rivela urgentissima – e una conseguente decisione politica: non possono essere libere di autoregolarsi con norme private e algoritmi segreti. Servono trasparenza, forme di tutela, vigilanza, insieme alla consapevolezza del modello di business delle piattaforme, che controllano contemporaneamente l’infrastruttura, i contenuti, gli utenti e il mercato pubblicitario.

Ne va del destino delle nostre società.