Tornati ierimattina da una crociera sul HMY Britannia, al rientro ci ha colti come una sensazione di benessere: l’Italia sembrava più bella, più allegra, piena di speranza. Pioveva, ma c’era il sole, per così dire. È stata la tv a farci capire: Mario Draghi è presidente del Consiglio in pectore (il che, peraltro, significa pure che una volta bastava mandare le lettere con gli ordini e oggi bisogna venire di persona, cosa che registriamo con profonda soddisfazione democratica). Che pacchia ci attende. Il debito? Da ieri non c’è più spazio per quello “cattivo”, giusto l’assunto filosofico congegnato dal nostro: se ne farà solo di “buono”. I ristori? Basta col Sussidistan, solo trasferimenti diretti per conservare intatta la base produttiva. E la cassa integrazione? Finita, solo un investimento temporaneo per non pregiudicare il tasso di occupazione. Addio pure al Reddito di cittadinanza, sostituito da un sostegno limitato che accompagni le persone nella ricerca di un lavoro. E che dire del Recovery Plan? Si concentrerà su sei missioni precise indicate dall’Ue e sarà chiaro chi decide cosa e in che tempi (tipo una task force, però partecipata). Niente più spesa corrente, da ieri ogni euro che esce dal Tesoro si chiama “investimento” (ma non ce n’è bisogno: c’è la fila per darci i soldi). Draghi, contro il Covid, farà il lockdown totale ma con scuole, negozi e piste di sci aperte. Poi chiederà i soldi del Mes sanitario senza prenderli, mentre è quasi pronto il progetto grazie al quale 30 milioni di italiani vaccineranno gli altri 30 e viceversa: il tutto entro febbraio, così avremo pure Sanremo col pubblico. È bello risvegliarsi in un Paese migliore: l’Italia se lo meritava, peccato non averci pensato prima. C’è solo una cosa a cui bisognerà fare attenzione: sconfitto il Covid, ci sarà comunque il pericolo di scivolare sui cospicui strati di bava che da ieri sono comparsi sui marciapiedi adiacenti a redazioni di giornali e studi tv. Secondo uno studio dell’Università “Attilio Fontana” dell’Illinois, pare sia colpa dei droplet causati dalla pronuncia troppo impetuosa della parola “competenza” da parte di gente che, come già un personaggio di García Márquez, confonde il cazzo con l’equinozio. E quanti saranno?, dirà il lettore. “Una cifra”, sostiene lo studio.
Mail Box
Palamara a Rete4: un commento di Esposito
Luca Palamara nella trasmissione Quarta Repubblica di Rete 4 dell’1.02, continua a gettare (ingiustificati e subdoli) sospetti sulla sentenza di condanna di Silvio Berlusconi emessa nell’agosto 2013. Afferma che “il 2013 era caratterizzato da un forte scontro tra la magistratura e Silvio Berlusconi e la magistratura si compattava realizzando un sistema… C’è la volontà di dire riflettiamo su quello che è accaduto”. Ora, poiché Berlusconi, proprio nel 2013, è stato per la prima e unica volta, condannato in via definitiva da un collegio della Cassazione da me presieduto, dopo una serie di assoluzioni e di moltissimi proscioglimenti per prescrizione è opportuno precisare che, a differenza di Palamara, non ho mai fatto parte di alcun “sistema”, non ho mai “trescato” con politici, non ho ricevuto pressioni di alcun genere, e la decisione di condanna del Berlusconi fu esclusivamente basata sulle risultanze processuali. Se c’è un bisogno “di riflettere” è sulla vergogna determinata dal “sistema” di cui Palamara era uno dei principali protagonisti, e sono d’accordo con lui quando dice che non era il solo protagonista. Se poi l’aver fatto parte di questo “sistema” che ordinava, in violazione di qualsiasi regola (che più di tutti il magistrato dovrebbe osservare), secondo casi, punizioni o promozioni, non lo fa sentire “colpevole” o “pentirsi”, allora non si comprende che cosa avrebbe dovuto ancora fare Palamara per raggiungere il “pentimento” e sentirsi “colpevole”.
Antonio Esposito
Dare esempio e stabilità è il compito della politica
Spero che i nostri politici riescano a darci un buon governo stabile! Si dimenticano che tutti sono stati eletti dai cittadini per risolvere insieme problemi concreti in un tempo determinato, il tempo della legislatura, supportati da un buon stipendio da loro concordato e aggiornato. Cosa vogliono fare? Indugiare sul da farsi con presunte doti eccellenti di governo? Mandarci in rovina rimandandoci a nuove elezioni con il loro costo, e col rischio di farci ritrovare al medesimo punto, se non peggio? La storia insegna. Proporrei di chiuderli tutti in un conclave. Solo pane e acqua fino ad avere assolto il compito loro assegnato: pandemia, il disagio sociale ed economico, dando buon esempio ai tanti cittadini che faticano ogni giorno per arrivare a fine mese.
Giovanni Fontana
Paragone e Carelli 5S: è stato un grosso errore
Come ha fatto il M5S ad accettare nel proprio movimento due personaggi come Gianluigi Paragone (ex Lega) ed Emilio Carelli (giornalista Mediaset). È troppo tardi oggi considerarli “cavalli di Troia”.
Pietro Miele
Italia Viva canta vittoria, ma il Paese è in ginocchio
La crisi di governo ci consegna un’Italia in ginocchio, che è attraversata da una perniciosa pandemia. Sfumata la possibilità del Conte ter, l’ex rottamatore, oggi sfasciacarrozze, con infantile cattivo gusto, ha esultato: “Noi con il resto del mondo, tre a zero”. Davvero la sintesi alta d’un “grande”, “inarrivabile” statista.
Marcello Buttazzo
Crisi, non si ceda ad altri ricatti
Se il Movimento 5 Stelle dirà di sì a Draghi, scomparirà. Se dirà no, con le elezioni è destinato a scomparire Renzi. Sulla scelta non avrei dubbi. Il primo, al di là della narrazione ostile che ne hanno sempre fatta i poteri forti e i giornali e giornalisti da loro burattinati (l’Armata Brancaleone), rappresenta una diversità politico-culturale preziosa. Il secondo credo abbia ormai reiteratamente dimostrato di rappresentare, non a caso, solo più (o forse sempre) se stesso. E non si ceda all’ennesimo ricatto travestito da mozione degli affetti, tra responsabilità e unità: perché l’accorato appello alla drammatica situazione in cui versiamo, con il richiamo all’emergenza nazionale, dovrebbe valere ora e non quando Conte, mai sfiduciato, ha rassegnato le dimissioni?
Melquiades
Serve un Movimento pronto e compatto
Non è importante che arrivi Draghi, anche se i poveri piangeranno lacrime amare. L’importante è la speranza che il M5S torni a essere quello di una volta, torni a sognare un mondo più giusto, senza la zavorra di Renzi. Magari con Conte per essere pronti per le elezioni, ma uniti.
Luigi Coppola
Il nuovo governo conviene a tutti i partiti
È possibile conoscere cosa pensano gli abbonati e i lettori di un eventuale governo Draghi? Penso che Draghi abbia bisogno come l’aria di Conte, Di Maio e Zingaretti e questi ultimi di Draghi. Che anche Berlusconi e Renzi sostengano Draghi può risultare buono, in quanto il primo può annullare il secondo e viceversa. Peraltro, non concorrere a togliere le castagne dal fuoco regalerebbe le castagne a Forza Italia e Italia Viva.
Marcello Valente
Caro Marcello, sarebbe uno spettacolo da circo: 5stelle, Pd e LeU che fanno un governo con B. e i due Matteo affossatori degli ultimi due governi!
M. Trav.
Air Italy “Noi lavoratori vogliamo essere coinvolti nella nuova Alitalia”
I Lavoratori Air Italy hanno gli stessi diritti di tutti i lavoratori del trasporto aereo italiano. Pertanto devono essere compresi nel progetto di creazione della newco Ita, che non può essere a ri-protezione dei dipendenti di una singola compagnia, come invece sta accadendo.
Abbiamo alle spalle 57 anni nell’aviazione civile come dipendenti di quella che è sempre stata la stessa compagnia: Alisarda, poi Meridiana, Meridianafly e infine Air Italy. Nessun incidente aereo. Air Italy è una compagnia storica con professionisti di altissimo livello (piloti, assistenti di volo, tecnici, personale di terra), un network domestico invidiabile e relazioni internazionali.
Tutto questo è stato distrutto da un management distratto in meno di 2 anni, sfociando in una liquidazione in bonis improvvisa e inaspettata, che sta portando alla distruzione di un’azienda di grandi dimensioni, senza averne informato il governo e valutato un’alternativa. Nel 2016 il governo si è preso la responsabilità di siglare e condividere l’accordo tra Qatar Airways e Meridianafly, per rilanciare la compagnia, a detta degli investitori.
Sono stati richiesti pesanti sacrifici occupazionali. I politici che hanno siglato l’accordo si sono presi l’impegno di vigilare sull’operato dei soci, cosa che non è stata mai fatta, e ora hanno la responsabilità di salvare i lavoratori Air Italy. Dall’11 febbraio 2020 abbiamo assistito a un incessante lavoro di smantellamento dell’azienda commissionato a liquidatori nominati dai due ricchissimi proprietari, e a un’inspiegabile e totale assenza di impegno per ricollocare la risorsa principale di una compagnia aerea: il personale. La politica non deve permettere discriminazioni tra professionisti dello stesso comparto lavorativo. Airitaly e Alitalia sono entrambe private, entrambe hanno avuto un partner medio-orientale, sono vittime di scelte sfortunate e detentrici degli stessi e altissimi livelli di competenza.
I fondi dell’Unione europea non possono essere l’ennesimo “prestito ponte” da impiegare solo per salvare i dipendenti di Alitalia. Come richiesto dall’Ue, serve discontinuità. In Air Italy non possiamo accettare di scomparire dal mondo dell’aviazione civile. Con l’emergenza in atto e l’attuale contrazione del mercato serviranno ben più di quattro mesi per rilanciare l’occupazione ed essere coinvolti nel progetto di Ita. Auspichiamo quindi, come conditio sine qua non un prolungamento della cassa integrazione.
Un gruppo di lavoratori Air Italy
Milano, ora Sala ha uno sfidante rossoverde: i cittadini
Chi contenderà a Giuseppe Sala, nelle elezioni di maggio-giugno, la poltrona di sindaco di Milano? Alla sua destra si è mossa una vorticosa girandola di nomi, i tramontati Giulio Gallera e Alberto Zangrillo, i ritornanti Gabriele Albertini e Letizia Moratti, gli immarcescibili Silvio Berlusconi e Maurizio Lupi, i pirotecnici Franco Baresi e Morgan, gli accademici Ferruccio Resta e Paolo Veronesi e poi, via via, Flavio Cattaneo, Alessandro Galimberti, Gianmarco Senna, Luigi Santa Maria, Simone Crolla, fino allo sconosciutissimo Roberto Rasia dal Polo. Già da questo elenco (incompleto) capite che a destra non sanno ancora che pesci pigliare.
A sinistra, invece, si è già consumato un tradimento: quello dei Verdi, che (come l’area Sel e LeU) hanno rinunciato a correre da soli almeno al primo turno, per rincantucciarsi subito al calduccio di una delle tante liste-stampella di Sala, in scia dietro la lista civica “Beppe Sala Sindaco” capitanata nientemeno che da Emmanuel Conte (figlio di Carmelo Conte, uno dei “quattro viceré di Napoli”, insieme a Paolo Cirino Pomicino, Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo), finora noto solamente per aver proposto di dedicare una via di Milano a Bettino Craxi.
Mancherà a sinistra Basilio Rizzo, storica e autorevole voce dell’opposizione che ha deciso di non ricandidarsi, dopo 38 anni di presenza ininterrotta sui banchi del Consiglio comunale. La sua area di riferimento ha così deciso di candidare Gabriele Antonio Mariani, architetto-ingegnere, che si propone di costituire una “larga coalizione rosso-verde” che dia voce alle 21 associazioni di cittadini riunite nella Rete dei Comitati milanesi. Basta scorrerne l’elenco per capire quale potrà essere il programma della lista. C’è il Coordinamento San Siro che si oppone all’abbattimento del Meazza e al nuovo cemento che potrebbe crescere nel quartiere se Sala accetterà il progetto di Milan e Inter. C’è il comitato Baiamonti Verde Comune che vuole conservare il parco dedicato a Lea Garofalo, vittima della mafia, destinato a esser occupato dalla seconda “piramide” di Herzog e De Meuron, simmetrica a quella della Fondazione Feltrinelli, che Sala (per farla digerire ai cittadini) ha proposto diventi sede del museo della Resistenza: partisanwashing. C’è il gruppo Salviamo Città Studi che si oppone al trasferimento delle facoltà scientifiche dell’Università Statale nell’area Mind ex Expo. Ci sono i cittadini di Salviamo il Parco Bassini contro i progetti di Comune e Politecnico sull’area verde che dovrebbe scomparire per far posto a un ennesimo edificio. C’è il comitato La Goccia che vuole salvare il parco sui terreni dei gasometri alla Bovisa, e quello Cittadini per Piazza d’Armi che non vuole nuovo cemento sulle aree ex militari di Baggio.
L’elenco è incompleto, ma evidenzia già tre elementi. Primo: c’è a Milano una cittadinanza attiva, minoritaria ma vivace, che si ribella ai progetti immobiliari che continuano a far crescere il consumo di suolo e l’inquinamento atmosferico. Secondo: nella città di Sala lo sviluppo immobilare, spesso realizzato da investitori esteri poco trasparenti, è pressoché l’unico motore proposto per la crescita, in una metropoli in cui continuano ad aumentare le disuguaglianze. Terzo: i proclami verdi di Sala, con corredo di “Forestami”, fiumi verdi, boschi verticali, torri botaniche, biblioteche degli alberi e ponti serra, si rivelano una forma raffinata di greenwashing, a fronte di progetti che intendono cementificare 3 milioni di metri quadrati (Mind, Scali Fs, San Siro e via costruendo). Ci sarebbe di che riflettere, per costruire un’idea meno stantia di sviluppo e un progetto meno marketing oriented di governo della città.
Zingaretti non ha fatto i conti con l’eredità di Renzi e Veltroni
Nel profluvio di peana all’indirizzo di Draghi si è inserita Concita De Gregorio, con espressioni commosse del tipo: tutti lo vogliamo anche come coach della Nazionale. Merita tornare su una polemica di qualche giorno fa. Su Repubblica, la De Gregorio, commentando le comunicazioni rilasciate rispettivamente da Zingaretti e Renzi dopo la consultazione al Quirinale, oppose le laconiche dichiarazioni dell’uno all’efficacia comunicativa dell’altro. Evocando a paragone carismatici leader del passato come Berlinguer, ha espresso un giudizio sprezzante su Zingaretti, rappresentato come un ologramma. Si comprende che il segretario Pd non abbia gradito e, per una volta, abbia risposto per le rime bollando i giudizi della De Gregorio come espressivi della deriva radical-chic di certa sinistra elitaria, non estranea al declino della sinistra politica.
Difficile dare torto a Zingaretti sotto più di un profilo. Penso alla rimozione del contesto dei due interventi: le consultazioni formali con Mattarella. Il contesto istituzionale avrebbe dovuto semmai suggerire di stigmatizzare, non di celebrare, un mediocre comizio di mezz’ora. Penso al parametro di giudizio delle leadership: non quello politico, ma comunicativo, se non estetico. Penso ai paragoni impropri: d’accordo, Zingaretti non ha il carisma di Berlinguer, ma vogliamo paragonare Renzi a Moro? Penso all’approssimazione delle ascrizioni: per amor di tesi (ex Dc protagonisti, ex Pci comparse), la De Gregorio accredita Renzi e Gentiloni come ex Dc. Gentiloni non ha mai militato nella Dc (in gioventù aderì al Movimento lavoratori per il socialismo di Capanna e poi al Pdup) e Renzi nella Margherita faceva riferimento a Rutelli e non ai Popolari.
La critica al limite dell’insolenza viene da certo giornalismo che si racconta di sinistra e che ha dato sponda ai ricatti di Renzi. Non stimandolo ma servendosene, e viceversa: loro usando lui per abbattere Conte, lui sfruttando la loro compiacenza per dare enfasi e plausibilità alle sue azioni corsare. È la linea di Repubblica dopo il cambio di proprietà: si fa un cenno fugace alle intemperanze di Renzi, magari accompagnandolo con un bonario “lo conosciamo”, per poi passare subito a dedicare l’intero svolgimento a stigmatizzare le brutture dello spettacolo che ne è seguito (l’operazione oggettivamente non edificante dei “responsabili”). Come se non vi fosse un nesso causa-effetto.
Ciò detto, un problema per Zingaretti esiste ed è genuinamente politico: una leadership azzoppata non per suoi limiti soggettivi ma per la condizione del suo partito. Egli ha assunto la guida del Pd con le primarie dopo la disfatta elettorale del 2018, ma senza un passaggio congressuale che marcasse un’effettiva discontinuità di linea e di gruppo dirigente. In un partito organizzato in cordate personali, le cui basi sociali e territoriali si sono fatte evanescenti, con gruppi parlamentari scelti da Renzi e presieduti da suoi fedelissimi. Se ne è avuto palmare riscontro nel comportamento ondivago del Pd dentro la crisi. Prima ha dato mezza sponda a Renzi, poi ha mollato la sola linea che avrebbe potuto disinnescare i suoi ricatti: Conte o elezioni. Non solo. La discontinuità rispetto al renzismo presupponeva analoga discontinuità dal suo antefatto. Cioè dalla stagione veltroniana, che impresse una curvatura liberale alla sinistra, pose le basi del suo elitarismo e del divorzio dai ceti popolari. Smarrendo la bussola dell’uguaglianza e della protezione sociale, quando già mordevano i costi sociali della globalizzazione. Aprendo così la strada ai populismi. Non a caso, a quel tempo, Veltroni affidò la direzione dell’Unità proprio alla De Gregorio. In coerenza non solo con una politica “leggera” fatta più di comunicazione che di sostanza politica, ma soprattutto scontando la subalternità dell’asse ideologico-programmatico del Pd al paradigma neoliberale. Ben al di là dell’indubbio timbro snob di certo giornalismo di sinistra (?), è questa la sostanza politica della disputa, non la più o meno felice espressione “radical chic” stigmatizzata dal bravo Michele Serra.
Ricattatori, delinquenti, finanza: è questa l’unità?
È così il “ricattatore seriale” di Rignano pare averla avuta vinta con i suoi 18 senatori e un consenso popolare che stando ai sondaggi è sotto il tre per cento, ciò grazie alla complicità di Tatarella (e chiamando così l’attuale Presidente della Repubblica lo innalzo, perché Tatarella era, è vero, un fascista, ma un fascista per bene) e di Mario Draghi che sarà anche un tecnico di “altissimo profilo”, ma politicamente non rappresenta nulla, non è nulla, è una res nullius.
Nei mesi scorsi tutti i “giornaloni”, come li chiama Travaglio, avevano molto sponsorizzato Draghi – e lo credo bene, perché Draghi rappresenta la finanza internazionale al cui servizio questi stessi giornali operano – ma costui faceva l’indifferente, la parte di colui a cui non importa nulla di diventare premier della Repubblica italiana, invece era lì, attaccato allo studio di Tatarella, o magari nel suo stesso letto, perché non è pensabile che il suo incarico sia stato dato in pochi minuti. Evidentemente un accordo per fare la festa a Giuseppe Conte era in gestazione da tempo. Poiché Tatarella ha invitato, diciamo così, tutte le forze politiche a dare un segno di responsabilità per sostenere un governo di “unità nazionale”, la responsabilità non cade quindi più su chi ha innescato la crisi, cioè su Matteo Renzi, ma sulle forze politiche che non dovessero accettare questo ennesimo ricatto. Ma poi con chi lo farebbero questo governo di “unità nazionale”? Col “delinquente naturale”, che sarebbe poi l’unico vero vincitore di questa partita, preparando così la sua rampa di lancio per un’ascesa al Colle e certificando in questo modo che l’Italia non è un Paese normale ma criminale, col ricattatore di Rignano, con la Lega di Matteo Salvini? Naturalmente tutti i giornali e le Tv si sono sdraiati come sogliole davanti all’“altissimo profilo” di Mario Draghi, il cui solo merito è di essere stato presidente della Bce seguendo le direttive di Angela Merkel. La sera del “fattaccio”, dell’agguato, dell’imbroglio, Sky Tg24, che nonostante il suo ottimo conduttore Milo D’Agostino, fa da stampella al regime, ha intervistato tutti, ma proprio tutti, anche i leader di microfettine di partiti, ma non i principali interessati e cioè i segretari del Pd e del Movimento 5 Stelle, che fino all’ultimo, cedendo gradualmente ai ricatti del ricattatore di Rignano, avevano sostenuto il nome di Giuseppe Conte.
Ma non è detto che la partita sia già finita. Se i 5Stelle si dimostreranno compatti, il governo di “altissimo profilo” di unità nazionale non andrà da nessuna parte perché non ha i numeri sufficienti. Bisognerà anche vedere se il Pd, dimenticandosi di tutta la sua storia, che è una storia di sinistra, ci starà a questo imbroglio, a sostenere un governo col “delinquente naturale”, col ricattatore seriale e magari con la Lega di Matteo Salvini. Un governo molto meno coeso di quello di Giuseppe Conte.
Io rivolgo da qui un appello a Beppe Grillo, a Luigi Di Maio, ad Alessandro Di Battista, perché rimangano compatti. Senza i 5Stelle, che sino a prova contraria sono la forza maggioritaria nel Paese, questo governo infame non si può fare, non ha i numeri, oltre che una qualsivoglia identità. Naturalmente, come diceva l’altra sera sempre a Sky Tg24 Ferruccio de Bortoli, già direttore del Corriere della Sera, un uomo per tutte le stagioni sulla carta stampata come Bruno Vespa lo è in Tv, una ventina di parlamentari 5Stelle la si può sempre far propria ricattandoli sul fatto che se si andasse a nuove elezioni non verrebbero rieletti. Cioè quando Giuseppe Conte cercava dei “responsabili” per dare una maggioranza sicura al suo governo era un infame, se lo fa invece il tecnico di “altissimo profilo” Mario Draghi va bene.
Io sostengo da tempo, da quando pubblicai nel 2004 Sudditi. Manifesto contro la Democrazia, che la democrazia rappresentativa è una farsa tragica, concetto che ho ribadito in quest’ultimo mese con due o tre articoli sul Fatto Quotidiano. Beh, il comportamento delle Istituzioni democratiche, dei partiti, dei “delinquenti naturali”, dei ricattatori seriali, sembrano fatti apposta per darmi ragione.
Quando un enigmista incontra un comico uno dei due ci rimane male
Quando, chiacchierando con un comico, un enigmista prende spunto dalle sue parole per interromperlo con un pun (parli di un fossato, e lui dice: “Ivano”; tu non capisci, e lui aggiunge: “Ivano Fossato”), il comico viene molto infastidito da quella decisione unilaterale di violare con una tale stronzata le massime della cooperazione conversazionale (Grice, 1975) che impongono di essere rilevanti (fare un pun è come fare uno sgambetto: la fase della vita in cui questo scherzo è frequente fra compagni dovrebbe terminare alle scuole medie). L’enigmista ci rimane male: perché l’interlocutore, un comico, non ha apprezzato il suo dono? I due sono destinati all’incomprensione, in quanto i loro piaceri sono differenti: un enigmista è competitivo, si pasce del ludus, la sfida intellettuale del gioco linguistico fondato su regole; a un comico, invece, della gara mentale non importa nulla: usa il gioco linguistico per far ridere. Per dirla con la Canzone dello Indovinello di cui scrive Boccaccio, dove “indovinello” sta per “cazzo” (Bartezzaghi, 2017): enigmista e comico sono entrambi esibizionisti, ma mentre l’enigmista apre l’impermeabile per sbalordire col suo cazzo enorme, il comico considera il cazzo solo un’appendice buffa, da mostrare per far sganasciare, come fanno i mariti, arrapati da astinenza, nella Lisistrata di Aristofane. (L’irritazione da pun non sarà allora una ostilità verso il grosso cazzo del Padre, cioè un retaggio edipico? Potrebbe dirsi lo stesso di rivoluzionari e satirici, con la loro fissa della lotta contro il Potere, politico economico religioso, vedi Civolla, Nei meandri della psiche, 2010).
L’enigmista sfida il lettore a trasformare un testo dissimulato in un testo risolto, secondo le regole di un gioco; un comico, al contrario, evita come la peste il modo agonistico, poiché la sfida, mettendo in palio la superiorità, distrarrebbe lo spettatore dalla gag (il cazzo buffo) e ucciderebbe l’effetto comico (è ciò che accade quando si spiegano le barzellette). Un comico non fa battute per dimostrare quanto è intelligente e spiritoso, ma per far ridere. Infatti, un comico che sappia il fatto suo usa il pun solo per caratterizzare il personaggio (di solito, un ignorante, l’agroikos della commedia antica). È la via di Chico Marx (Groucho gli parla di un viadotto, viaduct, e Chico domanda: “Why a duck?”, che suona come viaduct). Anche Totò fa così, e perfeziona la tecnica. Ne La banda degli onesti, dice ai due complici cosa comprerà con le banconote false: Un bel cocomeri americano. Peppino: Come? Totò: Di flanello. Peppino: Cocomeri? Totò: Di flanello. Col cappuccio. Americano, americano. Col cappuccio. Peppino: Ma che ci sono i cocomeri americani? Totò: E come, non ci sono i cocomeri americani? E l’hanno portato loro da lì, adesso li fanno anche qui. Peppino: I cocomeri? Totò: Quello col cappuccio, che quando fa freddo io me lo alzo sotto il portone, è vero, io me lo alzo e sto incappucciato. Peppino: Ah, ho capito. Il montgomery. Totò: Il montgomery, incappucciato. Peppino: Il montgomery, sì, quello a tre quarti. Totò: A tre quarti, quello… Peppino: Cogli alamari. Totò: Coi calamari, bravo!
Totò, unendo la comicità di carattere alla fusione (un metalogismo di permutazione), riscatta la semplicità del pun (cocomeri/montgomery): fa sorridere col suono k ripetuto (cocomeri), ma fa ridere col tratto divertente (“Ah ah, che ignorante!”, pensiamo) e con le immagini buffe (i cocomeri col cappuccio e i calamari sul montgomery). Callois (1958) distingue quattro tipi di piacere ludico: gara, fortuna, simulazione, adrenalina. Per un comico, la comicità di carattere, come tutta la prassi divertente, è un gioco di simulazione e di adrenalina.
(5. Continua)
La corsa all’immunità è piena di errori
Vaccinare 7 miliardi di persone non è un gioco da ragazzi. Ma è possibile che chi ha gestito contratti e piani di vaccinazione si sia comportato con l’ingenuità di un “ragazzo”? Gli annunci si sono alternati ai proclami delle ditte produttrici prima che gli enti regolatori si pronunciassero e che alcuni trials venissero pubblicati. Data la gravità della condizione si è fatta deroga a tutto, budget, velocità dei trials, accordi firmati prima dell’esistenza dei prodotti. È possibile che nessuno abbia pensato che, in tempo di Brexit, gli inglesi ne avrebbero approfittato per tenersi stretti Astra Zeneca? E che, tendenzialmente, ogni Paese avrebbe cercato di limitare le esportazioni dei vaccini prodotti dalle proprie aziende? È possibile che ci sia fidati senza pensare che qualcuno avrebbe potuto firmare accordi paralleli? Nella “trattativa di vendita” dei vaccini, le aziende non hanno illustrato la propria capacità produttiva, lo dice il ceo di AstraZeneca, Pascal Soriot: “Besteffort”: faremo del nostro meglio, non c’è un obbligo di consegna. Inoltre l’impegno alla consegna è trimestrale. La clausola è gravissima, perché non tiene conto del tempo di vaccinazione e del numero dei sanitari impiegati.
I numerosi tavoli tecnici europei e italiani hanno fatto due conti sulle tempistiche della campagna vaccinalei in relazione anche al tempo di immunità promesso dai vaccini (sette/otto mesi), del numero di persone da vaccinare e di dosi disponibili? L’autunno e l’inverno sono generalmente i periodi di maggiore circolazione del virus, se ne è tenuto conto? Secondo quanto conosciamo ad oggi, i vaccini dovrebbero prevenire la malattia (sintomi gravi) non la circolazione del virus. Pertanto “il maledetto” continuerà ad infettarci e dovremmo cominciare a programmare una seconda vaccinazione nel prossimo autunno. Cinquecento morti al giorno sono inaccettabili. Non si può vivere risolvendo l’emergenza, bisogna fare tesoro delle conoscenze per prevenire nuove emergenze.
Renzi, il nemico numero uno di Supermario
Ci sono almeno cinque motivi per considerare Matteo Renzi il peggior nemico (o se volete il peggior amico) di Mario Draghi. 1. Dopo l’attentato di Demolition man contro il governo Conte, il quadro politico sembra la città di Coventry rasa al suolo dall’aviazione nazista. Un panorama di macerie con il Pd diviso, i 5Stelle dilaniati pur nella contrarietà al governo tecnico. Mentre a destra si aprono vaste crepe tra chi dice a Draghi proprio sì (Berlusconi), o proprio no (Meloni), e chi (indeciso a tutto) forse sì, ma anche no (Salvini).
Nel presente sfacelo mettere insieme una maggioranza sarà un compito improbo. E lo sarà molto di più far convivere nel tempo pezzi di sinistra con pezzi di destra: Zingaretti e Orlando con Salvini e Berlusconi. È la tempesta perfetta officiata dallo sceicco rignanese. 2. Costui, orgoglioso di aver terremotato il Paese nella situazione che sappiamo, appare, dalla sera di martedì, in preda a conati irrefrenabili di boria in una crisi compulsiva di vanterie (“noi contro il resto del mondo, tre a zero”). Per una personalità autorevole e sobria come l’ex presidente della Bce avere intorno che gli fa la ola questo rodomonte (con arie da kingmaker) non è certo il massimo della vita. 3. Che il politico di gran lunga più impopolare abbia abbattuto il politico più popolare accresce la corrente di solidarietà nei confronti di Giuseppe Conte.
Tanto più che si tratta di un premier a cui pochi giorni fa Camera e Senato avevano confermato la fiducia, e le cui dimissioni non sono state al momento accolte da Mattarella. 4. Oltre all’accordo con i vertici dei partiti, per governare l’Italia in emergenza a Draghi occorre il consenso più vasto dei cittadini, stremati da un anno di pandemia. Dovrà prima di tutto convincerli che lui con i complotti renziani non c’entra niente. Non sarà facile ma dovrà provarci. 5. È del tutto evidente che l’ascesa al Quirinale, tra un anno, è un orizzonte legittimo di Draghi, classica personalità en réserve de la république.
Ricorrono in questi giorni le analogie di SuperMario con un altro banchiere centrale, quel Carlo Azeglio Ciampi che da Palazzo Chigi salì al Quirinale. Nel campo dei supertecnici prestati alla politica c’è però un altro esempio, e non proprio augurale: quel Mario Monti che entrò a Palazzo Chigi papa e ne uscì cardinale. E non aveva neppure un Renzi attaccato ai maroni (che magari adesso pretende come cadeau un ministero per Maria Elena Boschi).
La sinistra ha già il nuovo idolo
Chissà dove ha vissuto Carlo Calenda negli ultimi due o tre anni. L’altra sera, ospite a Dimartedì, il leader di Azione ha esordito lamentandosi che “tre quarti della classe giornalistica” lo abbia “preso a pernacchie” quando chiedeva Draghi premier. Per fortuna a rinfrescare la memoria a Calenda c’era una buona compagnia di ospiti in studio. A fianco a un Alessandro Barbano (Corriere dello Sport, già Mattino e Messaggero) che esalta Renzi per “lo choc salutare” provocato alla maggioranza e a Marianna Aprile che gioisce perché Draghi e i suoi futuri ministri (sulla fiducia) saranno “l’ultimo nostro treno decente”, ecco Concita De Gregorio: “I professionisti tornano in campo e i professionisti vincono sempre”. Mica come Conte: “Che Draghi fosse meglio di Conte non ci voleva Renzi a dircelo. Draghi è meglio di Conte, questo è.. La Palice”. Di più: “Lo volevamo tutti da subito, può fare il presidente della Repubblica, l’allenatore della Nazionale, può fare qualsiasi cosa meglio di Conte”. E tutto questo senza neanche aver messo piede a Palazzo Chigi. Dovesse anche dire “Buongiorno” all’usciere, c’è margine per la beatificazione.