“Creazzo violò la libertà sessuale della pm Sinatra”

Il Fatto non può sapere chi tra i due – il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, che ha smentito categoricamente nelle sedi opportune, e la procuratrice della Dda di Trapani Alessia Sinatra – dica il vero, il falso oppure ingigantisca o sminuisca l’episodio che leggerete nelle prossime righe. Il dato a dir poco surreale riguarda però l’atto di incolpazione che la Procura generale della Cassazione ha depositato alla pm siciliana. L’antefatto: nelle chat sequestrate a Luca Palamara, durante l’inchiesta che oggi lo vede imputato per corruzione nell’esercizio della funzione, condotta dalla Procura di Perugia, sono state rinvenute alcune conversazioni tra l’ex presidente dell’Anm e Sinatra. Conversazioni nelle quali Sinatra, nei giorni in cui Creazzo correva per la Procura di Roma, lo definiva con appellativi molto duri – “porco” – per un episodio a suo dire avvenuto in un corridoio durante un convegno nel 2015. Queste conversazioni le sono costate un’incolpazione perché, secondo la Procura generale della Cassazione, Sinatra avrebbe violato i suoi doveri di correttezza ed equilibrio. Il suo è stato ritenuto un comportamento gravemente scorretto nei riguardi di Creazzo, che aveva presentato domanda per guidare la procura di Roma (e ancora aspira all’incarico avendo presentato ricorso) perché avrebbe coinvolto Palamara in una “missione”: condizionare in senso negativo i consiglieri del Csm che avrebbero dovuto poi valutarne la posizione. La sconfitta di Creazzo avrebbe costituito per lei una sorta di rivincita morale. Rispetto a cosa? Al fatto che, scrive la Procura generale della Cassazione, Creazzo “nel dicembre 2015 aveva posto in essere nei suoi confronti una condotta abusante e in violazione della sua sfera di libertà sessuale”.

Sul presunto episodio, consumato durante nel corridoio di un hotel romano, la procura generale non si esprime in termini dubitativi, né lo smentisce, ma pare dar credito alla versione di Sinatra. Ed è questo il punto. Precisiamo ulteriormente che Sinatra – è stata una sua decisione, che non sta a noi giudicare – dal 2015 a oggi non ha mai presentato querela e che il fascicolo penale nato dalle chat, a maggior ragione per l’assenza di una querela, ha visto Creazzo ottenere un’archiviazione. Non c’è alcun atto quindi che attribuisca veridicità al racconto di Sinatra, se non le poche righe scritte proprio dalla procura generale. Ma allora: se viene dato per accaduto il fatto, come pare dalla lettura dell’incolpazione, di cosa s’è macchiata Sinatra? Si trattava infatti di una chat privata, dell’interlocuzione con un amico, certamente influente, ma ritenuta in quel momento, e da entrambi, destinata esclusivamente alla personale e riservata corrispondenza. “L’amarezza – ci spiega Sinatra – deriva dal percepire che si sia creduto al ‘fatto’ (in quanto documentato e riscontrato) e non alla ‘sofferenza’ profonda e persistente che ne è derivata. Quasi a voler negare il diritto a manifestare quella ‘sofferenza’, pur nella riservatezza di una comunicazione esclusiva e privata, nella quale toni, espressioni e valutazioni avrebbero dovuto rigorosamente rimanere confinati. La lettura della privatissima rappresentazione della ‘sofferenza’ avrebbe, invero e correttamente, dovuto orientare verso il massimo rispetto della dignità violata della persona. Che risulta oggi paradossalmente incolpata per aver recato grave pregiudizio a chi del ‘fatto’ è stato l’autore. In queste condizioni, una donna si sente ‘violata’ per la seconda volta. Ed è quanto di più doloroso e mortificante possa essere riservato alla vittima di un abuso sessuale”.

“Denis Verdini ai domiciliari? Pratica trattata in tempi record”

Le pratiche burocratiche che hanno portato Denis Verdini, in via temporanea, fuori dal carcere di Rebibbia per “incompatibilità” fra le sue condizioni di salute e l’emergenza Covid-19, sono state “espletate con una velocità che normalmente non è consuetudine all’interno del carcere”. Lo dice Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma Capitale: per i detenuti meno noti dell’ex coordinatore di Forza Italia – spiega al Fatto – ci sono “tempi molto molto più lunghi”. La premessa è che l’ex senatore, detenuto nel dallo scorso 3 novembre in seguito alla condanna definitiva per bancarotta per il crac del Credito cooperativo fiorentino, ha “pieno diritto” alla detenzione domiciliare temporanea. Il tema, secondo Stramaccioni, però è un altro: “Perché solo lui e non anche gli altri?”. E spiega: “Ci sono detenuti che dopo cinque o sei mesi mesi ancora devono ottenere le visite mediche. Molte istanze sono state rigettate negando la presenza del Covid”.

Nei giorni scorsi, la garante capitolina e quello della Regione Lazio, Stefano Anastasia, hanno preso carta e penna e hanno scritto alla Asl Roma 2 “per potenziare la presenza dei medici” tra le mura di Rebibbia, visto che “in alcuni reparti il medico non c’è, come al G12, dove imperversa ancora il focolaio”. Non solo. “Nell’ultimo mese – prosegue Stramaccioni – abbiamo presentato 30 istanze di sollecito per effettuare le visite mediche ad altrettanti detenuti che lamentano patologie che sono incompatibili con l’emergenza Covid”.

Le considerazioni della delegata capitolina trovano conforto anche nelle parole del Garante nazionale. Daniela De Robert, membro del collegio, spiega che “in questo periodo i magistrati di sorveglianza effettuano poche visite”, in parte “a causa dello smart working, che non facilita la preparazione della documentazione”, anche perchè “i tribunali sono abbastanza sguarniti, oltre ai problemi cronici della giustizia”. Anche De Robert specifica che “il fatto che una persona esca, con diritto, è una buona notizia”, anche perché “qui stiamo parlando di persone con meno di 18 mesi da scontare e senza reato ostativo, come mafia e terrorismo”.

La scarcerazione di Denis Verdini, al quale sono stati concessi i domiciliari fino al prossimo 4 marzo, è stata decisa lo scorso 29 gennaio dal Tribunale di sorveglianza. L’ex senatore, come hanno stabilito i giudici, è un “soggetto particolarmente vulnerabile al contagio da Covid-19” e “occorre tutelare in via provvisoria la sua salute”. Per Verdini, dunque, – come si legge nel provvedimento del Tribunale – sussistono particolari “condizioni cardiorespiratorie croniche già compromesse”.

“Peraltro tra pochi mesi, al compimento del settantesimo anno di età, il condannato potrebbe beneficiare comunque della misura della detenzione domiciliare”, conclude il documento. L’avvocata Ester Molinaro, la legale che ha seguito la difesa di Denis Verdini nel processo penale, spiega a Il Fatto: “Non ci sono state perizie di parte, lui è stato visitato dai medici di Rebibbia più volte e in tempi non sospetti, venendo dichiarato incompatibile”.

Ad altri è andata diversamente. Come Miodrag Miletic, serbo di 69 anni, in carcere dopo una serie di condanne per furto: in totale la giustizia italiana gli ha inflitto pene per un totale di quattro anni e sei mesi, due li ha già scontati a Rebibbia. Miletic “ha metà polmone fuori uso e gravi problemi cardiovascolari”, ha spiegato il suo avvocato Daniele Francesco Lelli.

“Il mio assistito – ha proseguito il legale – da mesi attende una visita del medico carcerario, che non è arrivata nonostante abbia sollevato più volte il tema della sua incompatibilità. Sarebbe dovuto stare fuori da un pezzo, invece non è successo”. Attualmente, il focolaio di coronavirus a Rebibbia è considerato in fase di regressione. Nella giornata di martedì, i positivi erano 66, su un totale di quasi 1.200 detenuti. E la sezione femminile da ieri è Covid-free.

Eni, due nuove prove nel processo a Descalzi. “Lo ‘specchio olandese’ svela la corruzione”

Lo “specchio olandese” aleggia da anni sul processo milanese in cui Eni e Shell sono imputate di corruzione internazionale in Nigeria. Nell’udienza di ieri è entrato direttamente: una riproduzione del “Ritratto dei coniugi Arnolfini”, dipinto nel 1434 dal pittore fiammingo Jan Van Eyck, è stato portato sul banco dei giudici dal pubblico ministero Fabio De Pasquale. Lo “specchio olandese” è, per l’accusa, l’insieme delle email scambiate nel 2010-2011 dai manager della compagnia olandese Shell, in cui si racconta l’acquisizione di Opl 245, il campo petrolifero nigeriano finito alle due compagnie dopo l’esborso — secondo i pm — di una tangente da oltre 1 miliardo di dollari. L’accusa lo ritiene provato dagli elementi raccolti a carico dei manager Eni (tra cui l’ad Claudio Descalzi), corroborati, appunto, dallo “specchio olandese”: cioè dalle comunicazioni dei colleghi della Shell. L’avvocato Paola Severino, difensore di Descalzi, nella sua arringa aveva detto che lo “specchio olandese” distorce e deforma. Ecco allora De Pasquale produrre la riproduzione del dipinto, in cui lo specchio convesso alle spalle dei coniugi “allarga come un grandangolo la vista e ne mostra le terga che altrimenti resterebbero invisibili”. Così fanno le decine di email dei manager, “comunicazioni aziendali e veri rapporti d’intelligence”, che riferiscono ciò che i manager dicono e fanno con “the Milanese Mob” (testuale), finché l’affare sfocia nel pagamento di 1,092 miliardi di dollari su un conto JpMorgan del governo nigeriano, che però — dice il pm — “è solo un tubo” da cui passa un’unica operazione destinata a far arrivare quei soldi a pubblici ufficiali nigeriani. L’accordo “viene raggiunto il 15 novembre 2010, il prezzo è stabilito a metà dicembre”. Descalzi — secondo il pm — poi non blocca l’operazione perché priva di trasparenza, ma “invita solo alla prudenza”, finché lo schema viene cambiato per far scomparire dall’affare la società Malabu, “imbarazzante perché controllata dall’ex ministro del petrolio Dan Etete, già condannato in Francia per riciclaggio”. Il Tribunale ha deciso di acquisire due nuove prove raccolte per rogatoria dall’accusa: una email che dimostrerebbe gli stretti legami tra il ministro Adoke Bello e Alyu Abubakar, ritenuto dall’accusa lo “smistatore” di una parte della tangente; e un messaggio del 23 giugno 2011 in cui il responsabile dell’Antiriciclaggio di JpMorgan a proposito dei soldi versati da Eni scrive: “Siamo sospettosi che tali fondi possano essere profitto di corruzione di pubblici ufficiali”. Eni ribatte che “continuiamo ad assistere alla formulazione di accuse basate su deduzioni e suggestioni, senza elementi probatori in grado di dimostrare che Eni abbia mai corrotto pubblici ufficiali nigeriani”.

“È a rischio mafia”. La Dda di Reggio “blocca” Caronte

Il rischio è che la compagnia che gestisce il traghettamento sullo Stretto di Messina agevoli la ’ndrangheta e in particolare la famiglia mafiosa Buda, federata con la cosca Imerti-Condello. Per il Tribunale di Reggio Calabria ci sono “più che ‘sufficienti indizi’ della permeabilità della società ‘Caronte & Tourist’ rispetto a infiltrazioni della criminalità organizzata”. Con queste motivazioni la presidente della sezione Misure di prevenzione Ornella Pastore ha disposto l’amministrazione giudiziaria del colosso, valutato 500 milioni di euro. Il provvedimento, eseguito ieri dalla Dia, è stato richiesto dalla Direzione distrettuale antimafia guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri secondo cui si tratta di un’azione “svolta nell’interesse della stessa società per consentire di bonificare quelle situazioni che si sono verificate”. Le indagini si sono avvalse delle dichiarazioni dei pentiti Vincenzo Cristiano e Giuseppe Liuzzo. Questi ha ricordato che il fu cavaliere Amedeo Matacena (padre del latitante ed ex parlamentare di FI), anni fa proprietario della Caronte, sia stato “la persona che realmente aveva dato garanzie alla ’ndrangheta”.

Ieri come oggi gli appetiti delle cosche sono gli stessi. La “Caronte & Tourist” avrebbe agevolato due imprenditori: Domenico Passalacqua e Massimo Buda, figlio del boss Santo Buda. A lui la Dia ha sequestrato beni e società per circa 8oo mila euro. Compresa la ditta “Carist” del cognato a cui la Caronte aveva affidato il servizio di pulizia delle navi. Gli interessi di Domenico Passalacqua, condannato per mafia nel processo “Meta”, riguardavano “i servizi di somministrazione di cibi e bevande sugli imbarcaderi garantiti alla Caap Service Srl”. La presidente della Caronte Olga Mondello ha espresso piena “fiducia nella magistratura”. “Si tratta – ha detto – di uno strumento innovativo previsto dalla legge. Siamo certi che in tempi brevi riusciremo a dimostrare la assoluta liceità delle nostre attività”.

Processo Toto, Mit non è parte civile “Ma ci costuiremo”

Comincia senza il ministero dei Trasporti l’udienza preliminare del processo a L’Aquila al patron Carlo Toto e a tre dirigenti di Strada dei Parchi Spa, la concessionaria delle autostrade A24 e A25 che collegano Roma ai capoluoghi abruzzesi. I quattro sono accusati di inadempimento e frode nelle pubbliche forniture, attentato alla sicurezza dei trasporti e di fatti diretti a cagionare crolli e disastri per la presunta mancata manutenzione di una serie di viadotti. “Adottavano la consapevole decisione di omettere totalmente gli interventi di manutenzione ordinaria”, si legge nei capi d’accusa, che partono dal 2009. I lavori, secondo la Procura, “venivano solo formalmente ricondotti alla messa in sicurezza sismica o all’adeguamento sismico, ma in realtà consistevano nel semplice compimento di alcune operazioni di manutenzione ordinaria tese al ripristino di alcune parti delle opere”. Il ministero dei Trasporti, indicato come persona offesa insieme all’Anas nella richiesta di rinvio a giudizio del procuratore Michele Renzo, ieri non c’era. Protestano i comitati che hanno presentato gli esposti all’origine delle indagini in corso anche a Pescara, Sulmona e Teramo e il segretario di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo. Dal ministero fanno sapere che non erano informati dell’udienza di ieri, ma comunque per la costituzione di parte civile c’è tempo fino alla prima udienza dibattimentale e la decisione tocca alla Presidenza del Consiglio e all’Avvocatura dello Stato. La giudice dell’udienza preliminare, Guendalina Buccella, si è riservata fino alla prossima udienza, il 26, la decisione sulla costituzione di parte civile dell’Anas e dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada rappresentata dall’avvocato Walter Rapattoni. I difensori di Toto, Giandomenico Caiazza e Augusto La Morgia, hanno preannunciato la richiesta di un incidente probatorio in cui condurre una perizia sulla sicurezza di piloni e viadotti.

Monoclonali, c’è l’ok definitivo

Anche i medici italiani potranno curare i malati Covid coi monoclonali. Aifa ha concesso l’autorizzazione in emergenza rimasta ostaggio di una poco giustificabile inerzia. Disco verde al Regeneron e al Bamlanivimab di Eli Lilly, quello prodotto a Latina. Sempre che si trovino, a questo punto, e che si corra – stavolta – con un protocollo per la somministrazione in tutti gli ospedali. Dove, sempre notizia di ieri, con discrezione qualcuno già li usava.

Ma andiamo con ordine. Dopo il pressing del ministro Speranza la strada era sembrata in discesa. Ci sono voluti invece altri due giorni di scontri ai piani alti dell’Aifa. Direzione generale e Cts hanno infine ceduto alla granitica convinzione del suo presidente Giorgio Palù, alla testa di un esercito di scienziati e politici che chiede all’agenzia di darsi una mossa. Nel Cts straordinaria di martedì lo scontro è stato sullo strumento normativo. Decretazione d’urgenza del ministro, uso compassionevole, un’ordinanza immediatamente eseguibile ai sensi della 219/2006. Si esaminano tutte le opzioni. Rispuntano paletti e resistenze del regolatorio.

Chi c’era racconta di un Palù al limite dell’esplosione. Nei corridoi dell’agenzia corre voce volesse inforcare le porte della Procura per denunciare altri tentativi dilatori a danno dei malati. Poi è il dg Nicola Magrini, fino a ieri campione di prudenza, a intestarsi il cambio di rotta che prelude al sì. Parla di “dati promettenti ma non conclusivi”, convoca le aziende produttrici, assicura che il governo ha copertura per gli acquisti.

Tutto a posto, insomma. In realtà no, i fuochi d’artificio non coprono i mesi di buio. La vicenda rivelata dal Fatto delle 10 mila dosi gratuite proposte a ottobre dal virologo Guido Silvestri. I tentativi perfino di negarla o quelli di prender tempo, come col “bando per lo studio di efficacia” che può durare anche 12 mesi per il quale Aifa non aveva neppure opzionato le dosi. Magrini ieri lo ha confermato, vai ora a trovare il volontario che accetterà il placebo anziché il farmaco (autorizzato) che lo guarisce. Difficile cancellare gli errori. Insuperabile quello di giustificare pubblicamente il diniego col refrain: “È necessaria l’autorizzazione di Ema”. La Germania li ha comprati senza, ora lo fa l’Italia. Quattro mesi fa era impossibile, ora lo è. Nell’indecisione, qualcuno però è morto. E qualcun altro no.

Il direttore delle malattie infettive dello Spallanzani Emanuele Nicastri ieri ha annunciato che due pazienti Covid immunodepressi del suo reparto sono guariti proprio grazie a monoclonali prodotti da una delle due case farmaceutiche “che ce li fornisce per uso compassionevole”. Altri sono in trattamento. Ed è curioso, perché a silurare il trial gratuito della Lilly furono soprattutto le riserve del direttore dello Spallanzani Giuseppe Ippolito, in qualità di “osservatore” del Cts di Aifa. Solo ora salta fuori che il suo istituto ci salva i pazienti. Monoclonali per pochi e non per tutti? Ora (forse) la storia cambia.

Piano vaccini a fasce di età. A ciascuno il più indicato

I vaccini di Pfizer/Biontech e Moderna saranno distribuiti alle Regioni in base alla popolazione over 80, che dovrebbe essere completata entro aprile. Dal 15 febbraio cominceranno ad arrivare anche quelli di AstraZeneca, che però al momento sono “consigliati” dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) solo per la popolazione tra i 18 e i 55 anni senza gravi malattie. Dovrebbero essere 3,4 milioni di dosi e quindi, con due iniezioni a testa, saranno prioritariamente destinate alle categorie individuate dal ministro della Salute, Roberto Speranza: insegnanti e personale scolastico, forze armate e di polizia, detenuti e personale delle carceri.

L’obiettivo del piano vaccini, così come rimodulato ieri nella riunione tra il governo e le Regioni, è somministrare 2 milioni di dosi a febbraio, 4 milioni a marzo e 8 milioni ad aprile, per un totale di 14 milioni: ce ne vogliono 12 milioni solo per esaurire gli ultraottantenni dopo gli operatori sanitari e il personale e gli ospiti delle Rsa. Le persone tra i 56 e i 70 anni e quelle con malattie gravi specie oncologiche, saranno vaccinate con Pfizer/Biontech e Moderna i cui prodotti hanno un’efficacia dichiarata sopra il 90 per cento. Ma a questo punto, sembra di capire, dovranno aspettare un po’: sono infatti poco meno di 20 milioni. Per avviare la loro vaccinazione insieme a quella degli over 80 non è escluso un nuovo passaggio in Parlamento. “Il tetto anagrafico (di 55 anni appunto, ndr) per il vaccino AstraZeneca potrebbe essere superato in futuro dopo ulteriori valutazioni scientifiche”, ha detto ieri Speranza, ma insomma per ora rimane. Non basta lo studio dell’Università di Oxford, peraltro partner della multinazionale anglosvedese, per fugare i dubbi sulla sua efficacia. Diversi studi valorizzano invece il vaccino russo detto Sputnik V, che secondo il ministero della Sanità potrebbe essere prodotto anche in Europa, ma prima dev’essere approvato dall’Agenzia europea Ema e non ha ancora presentato la richiesta.

Ieri Speranza, il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia e il commissario straordinario Domenico Arcuri hanno iniziato a ridefinire il piano di consegne con le Regioni. Avverranno, per i diversi vaccini, sulla base della popolazione interessata, quindi le Regioni stanno mandando i dati per ciascuna categoria destinataria dei diversi vaccini. L’epidemia intanto segue il suo corso, ieri sono stati registrati 477 morti che portano il totale a 89.820: è una curva che non si abbassa da settimane, segno che l’abbassamento dei contagi ha molto a che fare con le variazioni dei tamponi. Gli accessi alle terapie intensive danno invece qualche segno di discesa, tanto che complessivamente l’occupazione dei posti letto si è abbassata al 25 per cento (la soglia d’allerta è al 30): ieri sono stati 133, il maggior numero (21) nel Lazio. I nuovi contagi sono stati 13.189, il 4,72 per cento dei 279.307 tamponi (di cui 121.376 antigenici istantanei)

C’è molta preoccupazione per le varianti, anche perché come sappiamo l’Italia fatica a rintracciarle. Per la prima volta è stata individuata nel nostro Paese quella sudafricana, a Varese, in un uomo trovato positivo al rientro a Malpensa da un Paese africano. Inquieta l’aumento, definito anomalo, dei contagi in Umbria, in particolare in provincia di Perugia, che potrebbe essere collegato alla presenza della variante brasiliana secondo la professoressa Daniela Francisci, direttore delle Malattie infettive all’ospedale di Perugia: dopo i primi due casi rilevati lunedì sono in corso le analisi dei genomi su altri 42 campioni. Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità tengono sotto stretta sorveglianza anche Chieti e altre zone dell’Abruzzo dove è già stata individuata più volte la variante inglese.

Italia commissariata dal golpe bianco del Demolition Man

Si dirà che alla fine Matteo Renzi ha ottenuto quello che voleva e cui aspirava da quasi un anno: il siluramento di Giuseppe Conte, uno dei Presidenti del Consiglio più popolari nell’Italia degli ultimi decenni. Troppo popolare per risultare gradito a poteri forti che Renzi vuol rappresentare e favorire. Mario Draghi era sin da principio l’uomo provvidenziale che Renzi proponeva o meglio adulava, nei giorni stessi in cui ha fatto finta di negoziare un rinnovato governo Conte con i partiti dell’ex maggioranza.

È per silurare tale negoziato che Renzi gonfiava sempre più le condizioni e gli attacchi, ben sapendo che non potevano essere digeriti tutti insieme da Pd, 5Stelle e LeU. Quel che praticamente chiedeva era la sconfessione di un governo e di un Presidente del Consiglio che avevano mostrato di combattere la pandemia con determinazione, ricoperto le proprie cariche con disciplina e serietà, ottenuto un cambio fondamentale nell’Ue (l’accettazione d’indebitarsi in comune, le somme del Recovery per l’Italia).

Era un vero piano distruttore quello che Renzi aveva in mente, una specie di golpe bianco attuato bendandosi occhi e orecchie. Prima chiedeva quattro ministeri invece di due e sindacava perfino sui dicasteri Pd e 5Stelle. Contemporaneamente snocciolava ossessivamente i punti del suo piano: approvazione del Mes e dell’Alta velocità, smantellamento del Reddito di cittadinanza, del cashback, delle riforme della giustizia, della campagna di vaccinazione. Poi s’infiammava sulla scuola, ignorando i rischi di contagio ormai riconosciuti e riducendo il delicato capitolo all’insulsa questione dei banchi a rotelle, secondo una sinistra fraseologia umoristica del tutto identica a quella sistematicamente adottata da Salvini e Meloni. Contestualmente, il piano renziano prevedeva lo spodestamento di personalità particolarmente esecrate, anche se avevano fatto bene o proprio perché avevano fatto bene: dal ministro Gualtieri al Commissario anti-Covid Domenico Arcuri – oltre ai presidenti di Inps e Anpal. I vizi e misfatti di cui veniva accusato Conte (giustizia e prescrizione, efficacia delle vaccinazioni e Arcuri, crisi sanitaria ed economia), davano vita a un tessuto di menzogne ben smascherato l’altroieri sul Fatto da Salvatore Cannavò.

Draghi avrà a che fare con un’immensa crisi economico-sanitaria ma anche con Renzi, quando costituirà una maggioranza e governerà. Si vedrà, allora, quale sia la sua perspicacia, quanto esteso il suo intuito. Se si renderà conto della pericolosità di un personaggio che ha regolarmente rotto i patti divenendo un liquidatore seriale di politici e alleanze da lui stesso propugnate (prima dell’alleanza 5 Stelle-Lega, poi di quella giallo-rosa). Se capirà che la crisi è stata freddamente scatenata per ottenere quello che in fin dei conti è un commissariamento dell’Italia, e se asseconderà la vulgata diramata dai giornalisti che più frequentano i notiziari Tv e i talk show: la presunta “morte” della politica e dei partiti bollati in blocco come populisti, la “salvezza” ultra-terrena che verrebbe da Draghi, il Recovery Plan riscritto da capo dopo che già era stato migliorato con il concorso di tutti, di Gualtieri, Speranza e Bonafede, e non solo di Renzi.

La politica fu considerata morta anche quando l’Italia venne una prima volta commissariata dopo la lettera della Bce del 5 agosto 2011, in cui si chiedeva “una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala” e una riforma radicale del “sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.

La lettera era firmata dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi. Venne poi il disastro greco: un ulteriore e ancor più umiliante commissariamento imposto da Bce, Commissione europea e Fondo Monetario. Alcuni indizi lasciano supporre che l’irruzione del Covid-19 abbia mutato alcuni dogmi di Draghi, sul ruolo dello Stato nell’economia e le privatizzazioni che gli erano care nella lunga epoca neoliberista, ma la distinzione operata oggi fra “debito buono” e “cattivo” non mi sembra sufficiente.

È soprattutto urgente sapere se Draghi abbia veramente chiari i poteri di riferimento dell’ex sindaco di Firenze. Da questo punto di vista il viaggio di Renzi in Arabia Saudita, nel mezzo della crisi da lui attizzata, getta una luce sinistra sui probabili aspetti geopolitici del suo piano. Incensare il regime saudita e considerarlo un baluardo neorinascimentale contro il terrorismo internazionale è più di una cantonata: fa balenare il lecito sospetto che Renzi sia un lobbista al servizio di poteri non tanto italiani o europei quanto extra-europei. Corteggia le nuove alleanze tra potentati del Golfo e regime Netanyahu in bellicosa funzione anti-Teheran, proprio nel momento in cui Biden potrebbe, con gli europei, resuscitare gli accordi con l’Iran. La visita di Renzi non è solo scandalosa per gli emolumenti elargiti da Riyad a un senatore che rappresenta l’Italia. Getta ombre sui suoi legami politici e le sue fedeltà, nonché sui suoi seriali assassinii politici in patria.

L’Italia sarà meno pericolante il giorno in cui Renzi verrà davvero neutralizzato. Cosa che quasi sicuramente avverrebbe se andassimo a votare, anche se le preoccupazioni di Mattarella sui rischi sanitari ed economici di un voto a primavera sono più che comprensibili. In assenza di elezioni non c’è che da sperare nella perspicacia di Draghi, ma anche nella riluttanza di Pd e 5Stelle a fare promesse sconsiderate al nuovo alleato Berlusconi.

Giornaloni a reti unificate: un anno a invocare Mario

Il leader più invocato alla fine è arrivato. Non sul Colle più alto di Roma, ma a Palazzo Chigi, dopo la caduta del governo Conte. Eppure, dal termine del suo mandato alla Bce, Mario Draghi è stata la figura più invocata da politici, giornali e commentatori per prendere il posto del premier e far uscire l’Italia dalla pandemia. Ora quello che per mesi è stato lo spauracchio del governo giallorosa è stato incaricato da Sergio Mattarella, ma è utile ripercorrere le tappe dell’ultimo anno per capire che la scelta di Draghi viene da lontano.

Almeno dal 25 marzo, nell’ora più buia della pandemia, quando il banchiere scrisse un lungo intervento sul Financial Times suggerendo ai governi europei di intervenire tempestivamente attraverso “un significativo aumento del debito pubblico”. Così il giorno dopo, il 26 marzo, era uscito il primo articolo sul Corriere della Sera in cui si invocava proprio l’arrivo di Draghi. “Da destra a sinistra: tutti evocano Draghi per guidare il governo finita l’emergenza Coronavirus” era il titolo del retroscena. Quasi profeticamente il quotidiano di via Solferino spiegava che “la strada del voto è sbarrata” e quindi “difficilmente il quadro politico potrebbe reggere così, fino al 2022, in piena emergenza”. Il Corriere raccontava anche che a perorare un governo Draghi sarebbe stato anche il vicesegretario della Lega Giancarlo Giorgetti, ma anche il Pd come “partito di responsabilità nazionale”. Sembra oggi, ma era un anno fa.

Il 19 aprile poi, sul Tempo, a profetizzare l’arrivo a Chigi del banchiere era stato Luigi Bisignani, profondo conoscitore delle zone d’ombra del Palazzo: “Il dopo Conte è già iniziato e nel risiko del potere è partita una nuova sfida, quella tra Colao e Draghi” scriveva Bisignani. Il 13 maggio, in un’intervista ad Affaritaliani.it, era stato il filosofo Massimo Cacciari ad annunciare quello che sarebbe successo. “Finita la Fase 2 si scateneranno proteste di ogni genere e ci sarà l’arrembaggio ai pochissimi soldi disponibili. A quel punto sarà davvero durissima per questo governo”. E quindi? “Scenderà in campo Mattarella e di fronte alla catastrofe che ci sarà in Italia sarà Draghi il salvatore, con un governo sostenuto da quasi tutto il Parlamento”.

Il 24 giugno, l’ex Presidente della Bce aveva incontrato riservatamente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e al meeting di Rimini, il 18 agosto, era intervenuto parlando di “debito buono e debito cattivo” chiedendo di “investire sui giovani andando oltre i sussidi”. Molti giornali – da Repubblica al Corriere passando per La Stampa – videro in quell’intervento una sferzata al governo. Tant’è che due settimane dopo, i direttori dei principali quotidiani italiani – Luciano Fontana, Maurizio Molinari e Massimo Giannini – si erano ritrovati al festival di Dogliani proprio per parlare del futuro del banchiere. Lo stesso giorno, il 5 settembre, in cui Conte alla Festa del Fatto aveva detto: “Proposi a Draghi di fare il presidente della Commissione, ma disse che era stanco”.

Il direttore di Repubblica Molinari lo vedeva come candidato in pectore a Palazzo Chigi: “Occorre riconoscere a Draghi di aver detto con molta chiarezza qual è la sfida che il Paese si trova davanti”. Poi è arrivata la crisi e a dicembre le profezie sono diventate ipotesi più concrete. Sempre Giorgetti al Corriere annunciava: “Conte cadrà, ma il centrodestra non è ancora pronto”. E che governo arriverà? “Uno guidato da Mario Draghi, il migliore, con un ampia base parlamentare: sarebbe quello che ci vuole”. Cinque giorni dopo, il direttore del Giornale Alessandro Sallusti scriveva un editoriale dal titolo emblematico: “Draghi che tace fa buon brodo”. Sallusti rivelò che “da giorni sui giornali e nei palazzi della politica si parla con sempre maggiore insistenza dell’arrivo di Mario Draghi”. Il direttore del Giornale se lo augurava: “C’è solo da sperare che Draghi taccia ancora per qualche giorno, quelli necessari al presidente Mattarella per fare di conto”. Poi Draghi è arrivato davvero.

La storia a perdere dei governi Tecnici. Il Parlamento commissariato dal Quirinale

I governi “tecnici”, o meglio del Presidente, hanno evidenziato la debolezza della classe politica italiana e la sua incapacità di dare stabilità al sistema.

La crisi della classe politica è dimostrata anche dalla provenienza dei “tecnici”: tutti economisti e tre su quattro provenienti dalla Banca d’Italia.

In questa instabilità, il ruolo del presidente della Repubblica è diventato decisivo, forse troppo, come dimostra anche il discorso di Sergio Mattarella dell’altra sera. Ma finora, la nascita di quei governi è avvenuta sempre con ampi sostegni parlamentari, anche tramite astensioni, e con la scelta del presidente del Consiglio decisa con i partiti.

Ciampi il salvatore

Il primo “tecnico”, nel 1993, è Carlo Azeglio Ciampi. È anche il primo non parlamentare a guidare un governo. Dopo le elezioni del ’92 che vedono la sconfitta dei due partiti-chiave della Prima Repubblica, Dc e Pci, ora Pds, e soprattutto dopo l’inchiesta di Tangentopoli e i referendum elettorali del 1991 e del 1993, il sistema politico fa i conti con la propria delegittimazione. Quando l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo chiama per l’incarico, Ciampi chiede: “Perché proprio a me?”. “Perché non ho altra scelta” è la risposta del Quirinale. Presentandosi alle Camere, il futuro presidente della Repubblica dirà di intendere il suo mandato come “morale” e il suo governo affronterà uno dei periodi più duri con una strana “trattativa Stato-mafia” alle sue spalle, l’ombra delle bombe mafiose, la crisi post-Tangentopoli, la crisi economica, la crisi dei partiti. Tanto che una delle sue leggi principali sarà il Mattarellum, la legge elettorale maggioritaria-mista proporzionale che, come vedremo più avanti, non risolverà i problemi politici del Paese.

Ciampi deve anche garantire l’ingresso italiano nell’Europa di Maastricht. Prendendo il testimone dal governo Amato che lo ha preceduto, nel luglio del 1993 sigla un accordo sindacale con le parti sociali per eliminare il residuo sistema di scala mobile, che permetteva ai salari di essere sempre agganciati all’inflazione, dando vita alla grande gelata salariale di cui ancora oggi scontiamo gli effetti.

È un governo che Ciampi formerà “in solitudine” e sui 24 ministri solo 9 saranno parlamentari. Dovrà anche affrontare la crisi con i ministri ex Pci che si dimettono dopo 12 ore per via dell’autorizzazione a procedere negata a Bettino Craxi. È un governo molto autorevole, con nomi come Silvio Spaventa, Sabino Cassese, Leopoldo Elia, Paolo Savona (che tornerà di attualità nel primo governo Conte). Ma anche Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer e Augusto Barbera, dimessi rapidamente dal Pds (come anche Francesco Rutelli dei Verdi). E c’è ovviamente il prestigio di Ciampi che, non a caso, diventerà in seguito presidente della Repubblica.

Ma i risultati finali non sono eccezionali: la stabilizzazione economica è fatta a spese del lavoro dipendente; si dà vita a un sistema maggioritario contraddittorio, e ai partiti che daranno il sostegno a questa esperienza, in particolare Dc e Pds, le successive elezioni del 1994 riserveranno una doccia fredda. Saranno infatti le elezioni della vittoria di Berlusconi e della messa in soffitta della “gioiosa macchina da guerra” ideata dall’allora segretario del Pds, Achille Occhetto.

Dini il traditore

Un governo molto più tecnico, senza ministri politici, sarà quello che nasce nel 1995 a guida Lamberto Dini. Si fanno i conti con la crisi del primo governo Berlusconi, scaturita dalla rottura con Umberto Bossi sulla riforma delle pensioni. Berlusconi, che nasce con il sistema elettorale maggioritario (come si vede, non risolutivo) resiste e chiede le elezioni, ma alla fine si arrende al ricambio indicando il ministro del Tesoro del suo governo, Lamberto Dini, come presidente del Consiglio. Scalfaro, però, non accetta che a Palazzo Chigi sieda come sottosegretario alla Presidenza il braccio destro di Berlusconi, Gianni Letta. E così Berlusconi opterà per l’astensione lasciando la maggioranza nelle mani di Lega, Ppi e Pds. Dini avrà ministri molto tecnici, ma decisi dalla politica: Berlusconi piazza il ministro della Giustizia, Filippo Mancuso e quello delle Telecomunicazioni, Agostino Gambino, già avvocato di Michele Sindona.

E anche Dini, da buon tecnico, si avventa sul terreno sociale realizzando quella riforma delle pensioni che Berlusconi non era riuscito a fare. Un po’ più mite, ma sempre molto dura. Il premio saranno i ministeri nei governi di centrosinistra.

Monti il killer del Pd

I “tecnici” per antonomasia sono però quelli raffigurati nel governo di Mario Monti, dalla riforma Fornero delle pensioni o dal Fiscal compact.

Anche in questo caso i ministri sono tutti tecnici e l’emergenza fondamentale è quella economica, lo spread che supera quota 500, la crisi del governo Berlusconi-ter avviata dalla rottura con Gianfranco Fini, con un governo che per circa un anno trova la maggioranza in Parlamento grazie a transfughi come Scilipoti. Nell’estate del 2011, anche grazie all’intervento di Draghi, riceve una lettera da parte della Bce che imponendo riforme strutturali pesantissime, sa quasi di commissariamento.

L’interventismo presidenziale è micidiale, ben esemplificato dalla nomina di Monti a senatore a vita il 9 novembre il giorno in cui il Quirinale accetta le dimissioni a termine di Silvio Berlusconi che avverranno il 12 novembre.

Il governo Monti è quello con la maggioranza più ampia: 566 voti favorevoli e 61 contrari alla Camera e si reggerà su un patto effettivo tra le maggiori forze. Che però verranno dissanguate alle elezioni del 2013 che segnano la prima vittoria del Movimento 5 Stelle.

Ora tocca a Draghi. A differenza dei predecessori è il primo a poter spendere, ben 209 miliardi, ma anche in questo non farà mancare il rigore. La sua nomina è stata scaraventata sul tavolo delle forze politiche senza nemmeno consultarle. Se avesse successo la “correzione presidenziale” della nostra democrazia parlamentare, per usare l’espressione di Stefano Ceccanti, sarebbe permanente.