Draghi, un leader senza social. Base Pd evoca Bersani-Monti

Potrebbe non sembrare una notizia, ma in un’arena politica fatta non più di piazze e comizi ma di tweet e dirette su Facebook, lo è eccome: Mario Draghi è l’unico leader “politico” italiano a non avere profili sui social network. Eppure la sua esposizione pubblica – sebbene senza ruoli politici veri e propri – avrebbe potuto favorire anche una regolare comunicazione sul web, tant’è che il suo successore alla Bce Christine Lagarde ha un profilo Facebook con 209 mila follower e uno su Twitter con oltre 680mila. Draghi no, è sempre rimasto lontano da bacheche, storie su Instagram e post su Facebook. Le sue comunicazioni si basavano unicamente su conferenze stampa molto formali a Francoforte. È probabile che da presidente del Consiglio (per ora solo incaricato) sarà obbligato a scendere nell’arena virtuale per poter raggiungere milioni di cittadini, ma nell’attesa ieri è stato il giorno delle citazioni.

Nelle ultime ore il banchiere che potrebbe sostituire Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, è stato il leader più presente sui social: secondo la società Reputation Science, solo nell’ultima settimana Draghi è stato menzionato ben 200 mila volte e nelle ultime 24 ore il nome del banchiere abbinato a quello di Sergio Mattarella è comparso in oltre 35mila contenuti sul web. Inoltre gli hashtag #Draghi e #Draghipremier sono stati per tutta la giornata di ieri tra i più usati su Twitter con, rispettivamente, 72mila e 7mila risultati. Oltre alle citazioni, sono in molti in rete a voler capire qualcosa di più sul nuovo Presidente del Consiglio incaricato: su Wikipedia martedì la pagina “Mario Draghi” ha totalizzato circa 400 mila visite (prima della chiamata al Colle erano mediamente 7 mila) e sui motori di ricerca le domande più in voga sono: “Draghi quanto guadagna?” e soprattutto “Draghi è di destra o di sinistra?”. Ai posteri l’ardua sentenza.

In assenza di un profilo ufficiale, però, sui social sono nate pagine in sostegno dell’ex presidente della Bce come “Movimento spontaneo cittadini per Draghi Presidente” con 7200 follower, alcuni dei quali ieri hanno manifestato al Quirinale, ma anche la pagina satirica “Il golpe Mario Draghi” (2.000 follower) e l’account-parodia su Twitter “Plaid Mario Draghi” che ha superato i 7.500 seguaci.

Se la crisi di governo vista dai social può far esultare i leader dell’opposizione Matteo Salvini e Giorgia Meloni con il record di “mi piace” e condivisioni, sulla bacheca Facebook del segretario del Pd Nicola Zingaretti fioccano i commenti degli elettori dem che gli chiedono di non appoggiare il nuovo governo tecnico per non rompere l’alleanza con il M5S e soprattutto per non lasciare solo Giuseppe Conte.

Ai post di martedì sera in cui Zingaretti annunciava la rottura con Matteo Renzi e a quello di ieri per “rinforzare” l’alleanza giallorosa con M5S e Leu, la maggioranza degli utenti ha risposto con toni molto critici. “Segretario non faccia lo stesso errore che fece Bersani con Monti” consiglia Raffaele, mentre Massimo non vuole che il Pd “butti il cuore oltre l’ostacolo e faccia il donatore di sangue” per il governo Draghi. La richiesta pressante è quella di tenere uniti i giallorosa con Conte: “Dovete mantenere salda l’alleanza con Leu e il M5S e mi auguro che gli amici di Renzi che sono ancora nel Pd a spargere veleno salutino la compagnia” scrive Elisabetta. Daniela implora Zingaretti di non “dividersi” per non “buttare a mare il lavoro svolto finora dal presidente Conte”, mentre Luca invita il segretario ad andare alle elezioni “con Leu e M5S, con Conte candidato premier e vediamo”. E poi c’è anche chi, in caso di sostegno dem a Mario Draghi, minaccia di strappare la tessera del Pd: “Segretario – gli scrive Marco – purtroppo e a malincuore se il Pd facesse una scelta di questo tipo io lo abbandonerei seduta stante”.

Quando Quirinale e dem dicevano: “Conte o voto”

Il destino di Giuseppe Conte è cambiato davvero rapidamente. Sembra passato mezzo secolo da quando le “fonti del Quirinale” accreditavano le elezioni imminenti come l’unica, realistica alternativa alla nascita del Conte ter. Questi spifferi invece arrivavano dal Colle fino a pochissimi giorni fa. “Mattarella l’ha fatto sapere più volte, considera che con questo esecutivo si siano consumate le formule politiche praticabili con questo Parlamento. Perciò teme, suo malgrado, di dover mettere in piedi un governo di emergenza o di scopo o tecnico o istituzionale o comunque lo si voglia chiamare, che si limiti a chiudere il cantiere del Recovery Plan e curare la campagna di vaccinazione, per portare il Paese alle urne nella tarda Primavera”, scriveva sul Corriere della Sera il quirinalista Marzio Breda lo scorso 18 gennaio.

Una versione riproposta dai giornalisti che hanno raccontato le riflessioni del presidente della Repubblica anche nelle settimane successive. Fabrizio d’Esposito, sul Fatto Quotidiano del 29 gennaio: “Sullo sfondo c’è un classico delle crisi al buio: il governo del presidente e poi le elezioni anticipate”. Ugo Magri sulla Stampa dello stesso giorno: “Tutto fa ritenere che il Capo dello Stato (in caso di impossibilità di Conte ter, ndr) proverebbe a giocare la carta disperata di un governo di unità nazionale. E se quella andasse male non resterebbero che le elezioni”. Ancora il Corriere della Sera, il 30 gennaio: “Se fallisse questa sfida (il Conte ter, ndr) il capo dello Stato riprenderà in mano questa crisi e non resterebbe che un governo istituzionale o addirittura il voto”.

O conte o il voto, è stato quindi lo spin del Quirinale in queste settimane di crisi. E la stessa formula era valida anche per i contraenti del patto giallorosa. Ovviamente per il Movimento 5 Stelle, ma anche per il Partito democratico. Al netto di spaccature e fragilita in entrambi gli schieramenti, questa è rimasta fino all’altroieri la posizione ufficiale degli uni e degli altri. Le elezioni anticipate non più agitate come la peggiore delle ipotesi, ma come una possibilità concreta in caso di fallimento delle trattative per ricostruire una maggioranza di centrosinistra. “Non c’è alternativa a questo governo – scriveva Repubblica l’8 gennaio, all’alba della crisi, raccontando la versione di Nicola Zingaretti – O Renzi e Conte smettono di litigare (…) oppure sarà il Pd a firmare il finale di partita”. Per Zingaretti il voto era “un rischio concreto, reale, che noi non abbiamo mai temuto”.

Ancora fino a ieri l’altro, il leader dem non pareva contemplare alternative. Dal Foglio del 29 gennaio: “Il segretario del Pd non ha al momento alcun piano B, se non un governo istituzionale che porti il Paese alle elezioni”. Ancora più solenne e perentoria la sentenza del vicesegretario Andrea Orlando in un’intervista all’Huffington Post (21 gennaio): “Conte non si molla. Noi non minacciamo il voto, ma diciamo una cosa quasi banale: se non si tiene questa maggioranza e non la si consolida, il voto diventa una eventualità molto concreta. Le altre ipotesi sono non percorribili, a partire da un governo di unità nazionale”.

Non percorribile, dicevano. E d’altra parte erano le stesse fonti “qualificate” del Quirinale, non più tardi di domenica, a smentire con una certa stizza i retroscena del giorno prima, che riferivano dei contatti tra il presidente della Repubblica e Mario Draghi. Una voce, si assicurava, “destituita di ogni fondamento”.

Poi, molto rapidamente, devono avere cambiato idea tutti quanti: il Pd, il Quirinale, i quirinalisti, magari pure Draghi.

 

 

I PARERI

 

Antonio d’Andrea Un azzardo dare l’incarico senza nuove consultazioni

Già sull’espletamento del mandato esplorativo di Roberto Fico ho più di una perplessità, perché si è trasformato in una specie di tavolo programmatico senza che ci fosse il nome del presidente del Consiglio. Fallito quel tentativo, mi sarei aspettato che il presidente della Repubblica ascoltasse di nuovo i partiti prima di conferire l’incarico a Mario Draghi. Parlare di “governo dei migliori” è un azzardo: non esistono governi istituzionali che possono fare a meno di confrontarsi coi numeri in Aula. A meno che la scelta di Mattarella sia quella di un governo di minoranza, ma non credo sia il caso. Mi chiedo allora perché gettare nella mischia il nome di Draghi senza che fosse prima emerso dalle consultazioni. Questo anche a tutela del Quirinale e dello stesso Draghi. Si è visto, infatti, come un incarico senza un nuovo confronto coi partiti abbia contribuito a creare confusione e a drammatizzare ancor di più la crisi, rendendoci nostro malgrado spettatori di scontri interni alle coalizioni e alle forze politiche. Forse sarebbe servita un po’ di prudenza in più.

 

Roberto Zaccaria Nessuna sfiducia, il rischio è disgregare i giallorosa

Nel valutare la gestione di questa crisi salta all’occhio un elemento importante, e cioè che Giuseppe Conte non ha mai avuto la sfiducia in nessuno dei due rami del Parlamento. L’opzione di mandare Conte alle Camere sarebbe stata percorribile, soprattutto considerando l’alto consenso di cui ha goduto fino alla fine. Il presidente Sergio Mattarella, del tutto legittimamente, ha scelto altre strade che però adesso non vorrei vanificassero un elemento decisivo dell’ultimo governo, ovvero la nascita di quella alleanza tra Movimento 5 Stelle e centrosinistra, che mi sembra un valore da non disperdere. Temo che adesso sia difficile vedere ancora coinvolte nell’esecutivo alcune delle migliori risorse del Conte II, come per esempio il ministro Roberto Speranza. La scelta di chiamare Mario Draghi purtroppo potrebbe gettar via il lavoro fatto finora, perché rischia di disgregare l’asse che ha permesso all’Italia di ottenere risultati importanti nell’ultimo anno e mezzo.

 

Andrea Pertici L’ex governatore bce è la carta del colle prima delle urne

Dopo il mandato esplorativo a Fico, Mattarella aveva tre opzioni. La prima: concedere qualche giorno in più al presidente della Camera. La seconda: riconvocare le forze politiche. La terza, quella che ha scelto: assumersi lui la responsabilità di indicare un nome. Io credo lo abbia fatto soprattutto perché preoccupato dalle tempistiche di questa crisi, motivo per cui Mattarella ha anche deciso di non portare il Paese al voto. Su questo la Costituzione ci dice semplicemente che sciogliere le Camere è prerogativa del Colle, senza escludere che le valutazioni del Quirinale, oltre che relative all’esistenza di una maggioranza, possano tener conto del contesto sociale ed economico in cui si andrebbe al voto. Mattarella ha scelto di aspettare, preferendo indicare il nome di Draghi, ma se anche questa carta fallisse credo che a quel punto non ci sarebbe altra strada che il voto.

Il solito Bomba: Renzi e i 3 ministri (mai sul tavolo della trattativa)

Nel giorno della massima rottura e della massima tensione, Matteo Renzi non ha evitato di straparlare con tutti, anche esagerando non solo il quadro, ma anche la propria importanza. Durante la trattativa sui ministri, poi fallita (o forse mai realmente decollata), l’ex premier andava dicendo ad amici e collaboratori che gli stavano proponendo tre ministri, anche per ripargarlo del “sacrificio” di Maria Elena Boschi. In realtà non è andata così. Le ricostruzioni di chi la trattativa l’ha condotta dicono che questo non è mai stato vero: a Renzi erano stati offerti due ministeri (e un posto da viceministro). Che sarebbero dovuti andare a Teresa Bellanova e Ettore Rosato. Come sempre, si conferma che il fu Rottamatore ama esagerare, anche nel racconto. D’altra parte, in questi giorni, per raggiungere il risultato di ottenere la testa di Giuseppe Conte è arrivato a chiedere la testa di chiunque. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia. E poi, Lucia Azzolina (Scuola) e Piero Benassi (Sottosegretario con delega ai Servizi segreti).

Un’escalation, tra obiettivi veri e escamotage negoziali. Quindi ha messo nel mirino il Commissario Domenico Arcuri e poi Pasquale Tridico (Inps) e Mimmo Parisi (Anpal). Tutto questo buttando lì suggerimenti e richieste, da Mario Draghi in giù. In una narrazione continua e ossessiva, pubblica e privata, tra veline, messaggi in codice, minacce e lusinghe. Dove la verità – ovviamente- diventa un optional.

Pd, pressing su Conte per non restare soli nel sostegno a Draghi

“Stiamo meglio di ieri (martedì, ndr)”. Sono ormai le 19 e 30 della sera, quando dal Pd arriva questa considerazione. Visto che più o meno alla stessa ora del giorno precedente stava saltando tutto, l’affermazione è tutt’altro che rassicurante. La mission, stavolta, è portare a Mario Draghi pure il sostegno di M5S e LeU.

Dopo la doccia fredda e la sorpresa, che pare incredibilmente genuina, con cui Nicola Zingaretti e i vertici del Pd hanno accolto la rottura definitiva di Matteo Renzi al Conte ter e l’annuncio della convocazione al Quirinale di Mario Draghi, il segretario già nella tarda serata garantiva la “disponibilità” del partito al confronto, in nome del “bene comune” del Paese.

Ieri mattina i big fanno un rapido punto della situazione. E individuano la linea: bisogna lavorare per garantire l’appoggio al premier incaricato, attraverso una conferma dell’alleanza con M5S e LeU. Italia Viva non viene nominata, visto che di Renzi non si vuole più neanche sentir parlare. Il “sogno” è quello di costruire una “maggioranza Ursula” con Forza Italia. Sarebbe il modo di evitare il disastro: estromettere il senatore di Scandicci, spaccare il centrodestra, salvare il progetto politico dell’amalgama giallorosso. Peccato che gli ex (e solo ipoteticamente futuri) alleati non siano esattamente d’accordo. I dem individuano in Giuseppe Conte il primo da portare dentro. E così gli parlano un po’ tutti, da Franceschini a Zingaretti, passando per Goffredo Bettini. Gli propongono un ministero, magari quello degli Esteri. Confermano l’idea che si possa andare alle prossime elezioni con una coalizione e un federatore (fino a una settimana fa doveva essere proprio l’ex premier). Il progetto dem è un governo misto, tra tecnici e politico, modello Ciampi. E non è solo Conte quello a cui propongono un ministero per trascinare dentro i Cinque Stelle: l’altro è Luigi Di Maio.

Franceschini, dunque, fa un appello comune. “La sfida è salvare il rapporto tra Pd e 5stelle dentro il nuovo quadro”, dice in un’intervista accorata a metà giornata all’Huffington Post. Zingaretti convoca una conferenza in streaming con i leader di maggioranza.

Ancora una volta, non ci sono piani B. I dem sanno perfettamente che sostenere un governo Draghi senza M5S e LeU sarebbe un suicidio. Un film già visto, con l’appoggio di Pier Luigi Bersani a Mario Monti. Ammesso poi che i numeri lo consentano.

Nel partito, si silenzia tutto. Anche il dissenso di chi pensa che sarebbe meglio un governo puramente tecnico.

Contano anche le partite personali: a conservare il loro ministero puntano sia Franceschini, che Lorenzo Guerini (Difesa). Nemmeno il destino di Roberto Gualtieri (Mef), vicino a Draghi dai tempi in cui era europarlamentare (e che ieri twitta tutto il suo sostegno) sembra segnato. Sotto traccia resta anche la contesa che aveva segnato le trattative per il Conte ter: Andrea Orlando, il vice segretario, non è fuori gioco. Comunque vada, i conti sono solo rimandati. Il frontman delle ultime settimane è stato Bettini, uno che non ha alcun incarico ufficiale al Nazareno e che da sempre è considerato il consigliere prediletto da Zingaretti. Ormai, il fallimento della strategia del Pd viene attribuito perlopiù a lui. Ha parlato troppo dall’inizio, ha svelato quella che doveva essere una trattativa a carte coperte con Forza Italia, si è schiacciato troppo su Conte, ha sgomitato eccessivamente per entrare come Sottosegretario a Palazzo Chigi. Lungo l’elenco delle critiche. Con un tema di fondo, sollevato, a titolo personale domenica da Alfredo Bazoli, deputato di Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini: “Bettini a nome di chi parla?”.

Per adesso, nessuno scontro, ma il congresso è dietro l’angolo. Br è pronto a chiederlo non appena le acque si saranno calmate. Perché il progetto della segreteria di costruire un’alleanza politica, in cui il Pd fa la sinistra e c’è poi un centro, non convince molti. Certo, prima bisogna capire come va a finire. Per niente chiaro e neanche scontato. “Ci stiamo provando”, dicono dal Nazareno dopo la riunione con M5S e LeU. Appunto.

Salvini chiama “Mario”: la Lega gli apre la porta

Quando Giancarlo Giorgetti fa il suo ingresso al vertice del centrodestra, a Montecitorio, a Giorgia Meloni scappa un sorriso storto. Perché l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che da circa un anno propone un governo Draghi, non partecipa quasi mai ai summit di coalizione. Ieri invece c’era, anche se è rimasto in silenzio. Ed è presumibile che poi abbia fatto una telefonata al premier incaricato per raccontargli il clima.

Giorgetti, del resto, a questa soluzione ha lavorato, con la sponda di Gianni Letta e Matteo Renzi. L’ex sottosegretario da tempo è l’interlocutore dell’ex presidente della Bce nella Lega. I due si sentono. E l’hanno fatto anche in questi giorni. Mario Draghi, però, martedì pomeriggio ha ricevuto anche un’altra telefonata, quella di Matteo Salvini. Quando i giochi del Conte ter stavano per finire e già circolava l’ipotesi Draghi, il leader leghista ha alzato il telefono. “La stimo molto, da parte nostra non avrà alcun pregiudizio. Conterà cosa vorrà fare…”. E ha messo in fila alcune richieste: “Libertà di crescere, libertà di studiare, di uscire, di costruire, di edificare, di lavorare”.

La Lega adesso è al centro della tempesta. Se Giorgia Meloni ha già detto il suo no forte e chiaro, che però potrebbe trasformarsi in astensione per non spaccare la coalizione, e Silvio Berlusconi è già quasi per il sì (“non posso dire no a Draghi, ho lanciato io la proposta di un esecutivo di unità nazionale”), la Lega è in bilico. Combattuta tra un Salvini che, pur apprezzando il banchiere, non vuole lasciare Meloni da sola all’opposizione a far razzia dei voti a destra, col rischio del sorpasso. E un bel pezzo del partito e dei territori – dal Veneto di Zaia alla Lombardia di Grimoldi – che invece portano acqua al mulino di Draghi. Ieri mattina Salvini ha ricevuto diverse telefonate dal territorio. “Con i soldi dell’Europa si gioca il nostro futuro economico. Attento Matteo, se stiamo fuori da questa partita perdiamo il Nord. Industriali e partire iva sono sul piede di guerra…”, il tono di alcune conversazioni.

Alle 13, poi, è iniziato il vertice, partito con un applauso spontaneo per la caduta di Conte. I sorrisi, però, sono durati poco, perché Meloni è andata subito all’attacco ribadendo, con tono molto duro, che per lei “non c’è alcuna possibilità di un sostegno a Draghi”. Lasciando però una porticina aperta all’astensione, “a patto che ci sia un accordo per sciogliere le Camere prima che inizi il semestre bianco, con il voto in autunno”. Ipotesi ribattezzata “lodo Meloni”: un governo a tempo su cui anche il leader leghista sta ragionando.

Alle consultazioni, però, è probabile che si vada divisi. “Vogliamo ascoltare Draghi prima di decidere. Poi, se mette un giustizialista a Via Arenula…”, ha spiegato Berlusconi. Diverse fonti, però, sostengono che FI sia già dentro, nonostante qualche malumore in Senato. L’attenzione, dunque, è tutta su Salvini. Che si ritrova il partito spaccato. Perché poi c’è tutta l’ala dei Borghi e dei Bagnai, gli anti-europeisti nemici di Giorgetti, schierata per il no.

Il no dei 5 Stelle, di nuovo al bivio. E c’è chi spera ancora nel “ter”

Dipende tutto da loro, e non è la prima volta. Dipende dai Cinque Stelle, che il giorno dopo la frana dei giallorosa cercano una via per non esplodere in mille pezzi e magari in una scissione, per non disperdersi in tanti gruppetti che solo Giuseppe Conte, mastice naturale, teneva (abbastanza) assieme. Di sicuro, dopo la notte dei no a Mario Draghi, con il reggente Vito Crimi in prima fila a fare muro, “perché il Movimento non può votare un governo tecnico”, i Cinque Stelle si mostrano per come sono: divisi, talvolta lontanissimi tra loro, anche e magari soprattutto sul nome di Draghi. Ma non se lo possono più permettere, e allora eccola la via stretta per sopravvivere: provare a cambiare un aggettivo. Ovvero passare da un governo tecnico, fatto solo di grisaglie mai passate dalle urne, a un esecutivo politico. Con l’economista sempre lì, a Palazzo Chigi, circondato però anche da tanti ministri dei partiti. E a cementare tutto un pacchetto di temi concordati, dei punti forti su cui cercare una nuova amalgama in una legislatura che vive di esperimenti. Può essere una via per non farsi malissimo, anche se qualche eletto verrà perso per strada, è inevitabile.

E deve pensarlo anche il grillino più atteso, Luigi Di Maio. In rumoroso silenzio fino a ieri pomeriggio, quando interviene nell’assemblea congiunta. Prima di esporsi voleva capire l’aria che tirava, Di Maio. Ragionare su ogni singola parola. Anche lui, ministro degli Esteri uscente, quindi crocevia naturale di pressioni e istante internazionali, era ed è combattuto sul da farsi. Ieri pomeriggio ascolta gli interventi che dipingono un M5S frammentato. Il primo segnale del dibattito interno l’aveva già dato Stefano Buffagni, prima della riunione: “Mario Draghi ha un profilo inattaccabile, nulla da dire. Sul sostegno del M5S deciderà l’assemblea”.

La conferma che qualcosa tra martedì notte e ieri si è mossa, ma anche della sofferenza interna, la si rintraccia nelle dichiarazioni di Paola Taverna. Di mattina scandisce. “No a Draghi, le elezioni sono l’unica strada”. Nel pomeriggio è più morbida: “L’ex presidente della Bce è una figura di altissimo spessore, ma no al governo tecnico”. Fino alla precisazione serale: “Conte resta l’unico premier che appoggeremo”. In questo quadro, sospeso tra chi come Federico D’Incà teorizza che “bisogna sedersi al tavolo con Draghi e capire cosa propone”, e tra il no secco di Alfonso Bonafede (“Dobbiamo restare compatti su Conte, è un discorso che non si chiude”), ecco Di Maio. “Mattarella ha individuato una persona di alta responsabilità, ma noi dobbiamo provare a costruire un governo politico” dice ai parlamentari. Nel suo intervento non c’è mai un no secco a Draghi. Piuttosto assicura: “Nessuno si libererà mai di me”. Cioè non vuole fare una sua lista. Soprattutto, invoca “un movimento europeista che abbia il senso delle istituzioni”. Parole per tenersi in equilibrio, mentre veterani come Elio Lannutti e Laura Bottici dicono no a Draghi. Diversi grillini sperano che il governo tecnico non parta, e che magari si torni a trattare per un Conte ter. Difficilissimo. Nell’attesa, il Movimento prova a sondare l’altra strada, un governo politico con Draghi. Le difficoltà però emergono anche nella riunione serale tra le delegazioni di M5S, Pd e Leu. “Dovremmo tornare con Renzi, e il Pd spinge per far entrare anche Forza Italia” sbotta un grillino.

Ma si tratta e il segretario del Pd Nicola Zingaretti in serata lo fa capire: “È rimasta aperta una prospettiva politica unitaria”. Però dal M5S sibilano: “Draghi vuole mettere nelle caselle di peso solo gente di sua fiducia, così come si fa?”. Mentre Alessandro Di Battista tuona: “Non cedete alle pressioni su Draghi, vogliono indebolirci”. Crimi invece cerca di barcamenarsi. In assemblea mette come opzione il voto sulla piattaforma web Rousseau su Draghi, “Ma è riduttivo decidere su una singola persona” aggiunge. Perché è tutto maledettamente difficile.

Ora le consultazioni per farlo “partire”. Senza M5S non si va

Per una coincidenza – o forse è anche il destino che s’è già innamorato di lui – il timer delle luci tricolori che proiettano la bandiera italiana sulla facciata di Palazzo Chigi si accende nel preciso istante in cui Mario Draghi sta uscendo dal colloquio con Giuseppe Conte, l’ultimo degli incontri a cui l’ex presidente della Bce ha dedicato il suo esordio da premier incaricato. Sono le 4 e mezza del pomeriggio, Draghi era entrato nella sede del governo 80 minuti prima. Da tre ore ha detto il suo sì (con la riserva d’ordinanza) all’appello di Sergio Mattarella per guidare un governo che porti l’Italia fuori dalle sacche della pandemia e non le faccia perdere l’occasione del secolo, altrimenti detta Recovery fund. E come poteva dire di no?

I fotografi hanno già fatto il giro dei banchi del mercato Pinciano dove sovente lo si incontra a fare la spesa, hanno immortalato la casa ai Parioli e il casale umbro di Città delle Pieve dove da più di dieci anni trascorre il tempo libero, lockdown compresi. E i cronisti ne annotano l’andatura scattante nonostante i 73 anni, qualche collega si spinge a dire che, in fin dei conti, “è anche un bell’uomo”. L’amore vince sempre. Figuriamoci quando è a un passo dal potere.

Peccato che per arrivarci, al potere dei palazzi romani – che è altra cosa da quello con cui è già in confidenza – a Mario Draghi serva conquistare i più instabili della politica italiana, quei Cinque Stelle che hanno fatto il governo con Matteo Salvini e con Nicola Zingaretti, gli stessi che due settimane fa gridavano “mai più con Renzi” e invece l’altroieri erano pronti a sedersi di nuovo al tavolo con lui. Che fare quindi con il Movimento che, un minuto dopo aver sentito le parole di Mattarella, chiariva che il loro sostegno sarebbe arrivato “solo a un esecutivo guidato da Giuseppe Conte”?

C’è un punto, che il premier incaricato ha tirato fuori in tutti i colloqui di ieri (oltre a Conte e Mattarella, ha visto i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Elisabetta Casellati): “Per far partire il governo, serve il sì dei Cinque Stelle”. Non vuole Draghi una maggioranza debole e divisa, che nascerebbe – se mai la Lega di Matteo Salvini decidesse di essere della partita – con i voti di Pd, renziani, centristi e pezzi del centrodestra. Immagina piuttosto un esecutivo che muova i passi dalla maggioranza uscente, allargata a Forza Italia: il famoso “modello Ursula”, di chiara “matrice europeista”. Ma sa anche che per nascere, il suo, non può essere un governo tutto “tecnico”, come sarebbe nelle sue corde: chiede “l’altra strada”, quella della politica, Luigi Di Maio. Come imboccarla, è ancora tutto da vedere: Draghi può contare sul pressing del Pd, che “farà di tutto” per non rompere l’alleanza giallorosa, e intravede margini di manovra anche dopo il colloquio con l’ex premier Conte.

È disposto a trattare, questo è un fatto: avvierà nuove consultazioni a partire da oggi. Un segnale di apertura ai partiti, anche sulle caselle da impegnare. E se Conte non ha chiesto incarichi, non è detto che la trattativa con il M5S non possa partire da qui. Un paio di ministeri a loro, un altro paio al Pd, idem per centristi e renziani, personalità d’area per Forza Italia: a Draghi, in sintesi, resterebbero due o tre pedine, per quanto fondamentali. Alla Giustizia una donna – Marta Cartabia o Paola Severino, al Tesoro – dove le quotazioni di Roberto Gualtieri sono in discesa, soprattutto perché Draghi conosce assai bene – potrebbe arrivare un fedelissimo come Dario Scannapieco, oggi alla Banca europea degli investimenti. Un esecutivo sulla falsariga di quello guidato tra il ’93 e il ’94 da Carlo Azeglio Ciampi – di cui Draghi fu allievo –, con l’aggiunta che l’ex capo di Bankitalia, cinque anni dopo, fece il salto al Quirinale, a 79 anni. Passaggio che non sarebbe precluso all’attuale incaricato, seppur non al prossimo giro: quello che comincia a gennaio prossimo – è una delle partite che viaggiano parallele – spetterebbe al dem Dario Franceschini, che con la maggioranza Ursula avrebbe la strada quasi spianata.

Raccontano che durante il suo primo ingresso in Parlamento apparisse “emozionato”. “Trattare con mille parlamentari – si scherza – è il lavoro più difficile che gli sia mai capitato”. Chissà se anche stavolta varrà la regola del whatever it takes.

Conte non vuole posti, né spaccare i 5 Stelle

L’ormai ex convitato di pietra a Palazzo Chigi si è presentato in carne e ossa proprio lì, in visita per nulla rituale all’altro professore, quel Giuseppe Conte di cui ora dovrebbe prendere il posto. In un uggioso mercoledì pomeriggio, Mario Draghi è andato cercare un sostegno dell’avvocato, o almeno una posizione di non belligeranza rispetto al suo possibile governo. Fondamentale, dall’uomo che rappresenta un punto di riferimento per i 5Stelle, il primo movimento per eletti in Parlamento.

Anche per questo, nonostante Palazzo Chigi lo abbia smentito già ieri sera (soprattutto per motivi di etichetta istituzionale) Draghi ha formulato massima apertura e piena disponibilità, qualora Conte lo volesse, a un incarico per il presidente del Consiglio uscente, di qualsiasi natura. Ma l’avvocato ha risposto con un cortese no, grazie. Un rifiuto che non ha turbato il colloquio di oltre un’ora. In cui l’avvocato non ha mostrato veti o comunque dubbi sulla figura di Draghi, per nulla. Raccontano che martedì sera Conte abbia appreso della convocazione dell’ex presidente della Bce al Quirinale dalla televisione. Nessuno lo aveva avvertito. Ma anche questo non ha inciso, giurano, sul tono di un confronto fitto quanto cordiale. Conte ovviamente sa quanto sia delicata la situazione del Paese. Ma è consapevole anche di quanto sia a rischio il progetto della coalizione giallorosa. È amareggiato soprattutto per quello, raccontano: perché lo strappo di Matteo Renzi rischia di seriamente di disfare la tela giallorossa già molto complicata da comporre. Ma Conte vorrebbe evitarlo. Come vorrebbe assolutamente preservare l’unità del M5S. Ieri ha chiesto più volte notizie sulla situazione all’interno dei 5Stelle, lacerati dal nome di Draghi e dall’ipotesi di un governo tecnico.

Ma nelle stesse ore Conte ha ricevuto telefonate dal Pd, e in particolare da Dario Franceschini. È l’ex ministro della Cultura il più attivo nel cercare una quadra per rilanciare la maggioranza giallorosa attorno al nome di Draghi, rafforzandola con i voti di Forza Italia. Insomma a spingere per la cosiddetta maggioranza Ursula, quella che in Europa votò come commissario europeo la Von der Leyen. Ma serve il M5S, perché senza il Movimento non si può partire e comunque non si potrebbe reggere. “Bisogna convincere i 5Stelle” gli ha detto più volte Franceschini. E l’importanza di avere il consenso di tutte le forze politiche gliel’ha rimarcata anche Draghi. Sa che Conte è la chiave di volta. E l’avvocato adesso medita. Ha capito che costruire un governo politico, imperniato soprattutto su ministri dei partiti, potrebbe essere una via per tenere dentro i grillini, assieme a una definizione precisa dell’agenda.

È tutto molto difficile , ma è comunque possibile. “Devo almeno iniziare, provarci” gli avrebbe in sostanza detto ieri Draghi. Non sarà l’avvocato a sabotarlo. E la lista Conte, le urne? Non è il momento per parlarne, ha fatto capire (ad altri). Anche se molti grillini ci sperano, ancora. Ma adesso c’è da uscire dal pantano voluto da Renzi. In qualche modo.

Incarico a Draghi: se fallisce c’è un altro nome, poi il voto

Da teutonico adottivo, diciamo così, Mario Draghi sale al Quirinale sei minuti prima di mezzogiorno. Sergio Mattarella lo incontra per poco più di un’ora, dopo la telefonata dell’altro giorno nelle convulsioni finali del defunto Conte ter.

E i primi trenta minuti passano veloci senza entrare nel merito delle questioni. L’ex presidente della Bce, dicono dal Colle, “parte da zero”. Ergo s’informa sulle procedure. In pratica vuole sapere cose deve fare, come organizzarsi, dove svolgere le consultazioni. La versione ufficiosa dell’incontro riferisce di un Draghi “sballottato e disorientato”, se non “spaventato” dall’impegno che lo attende. Insomma, il Quirinale ci tiene a far sapere che non c’è nulla di preparato nella sua convocazione. Non solo. Sergio Mattarella respinge ogni fastidioso paragone con il suo predecessore Giorgio Napolitano, come fatto tante volte nel suo mandato.

Questa, secondo il Colle, non è come l’operazione di Mario Monti, dieci anni fa. Allora Re Giorgio apparecchiò la tavola al neo senatore a vita e scelse e contattò finanche i ministri. Stavolta non sarebbe così. Il capo dello Stato ha chiamato Draghi solo nella serata di martedì e solo dopo aver saputo da Fico, sempre via telefono, che la fumata per il Conte ter era nerissima.

Detto questo, l’incarico dato ieri all’economista è “molto libero”. Nel senso che non ha paletti, né scadenze da rispettare. Certo, i tempi devono essere ragionevoli ma proprio perché Draghi parte da zero non c’è una data da rispettare. Per quanto riguarda l’assenza di paletti, il premier incaricato lavorerà senza una rete di protezione preventiva da parte dei grandi partiti, con l’eccezione del solito Pd diviso. E questo significa che la formula può essere variabile. Dall’auspicabile maggioranza Ursula, i giallorossi più Forza Italia, a un governissimo con dentro persino Matteo Salvini. La libertà d’azione riguarda anche la composizione del gabinetto: ministri tecnici ma pure politici. Sarà Draghi a decidere.

E questa è un’altra differenza di metodo rispetto all’operazione Monti. Si potrebbe dire che Draghi vada quasi allo sbaraglio. Non a caso al Colle c’è un clima teso che oscilla tra prudenza e pessimismo. Al punto che già dalla notte precedente all’incarico di ieri, Mattarella avrebbe fatto un esplicito riferimento al piano B in caso di fallimento del super-economista: conferire un incarico a Cartabia o Lamorgese – due donne, la prima ex presidente della Consulta, la seconda ministro dell’Interno – per un esecutivo elettorale con le urne a giugno. L’avvertimento è rivolto soprattutto ai “pasradan” pentastellati di Giuseppe Conte. Se i Cinque Stelle pensano che il fallimento di Draghi porti a una nuova possibilità per un terzo governo dell’Avvocato sbagliano di grosso, fanno trapelare dal Quirinale. Draghi è qui e ora e va sostenuto.

E il perimetro, comunque, lo disegnerà l’ex presidente della Bce durante le consultazioni, consapevole che il suo non dovrà essere un governo a tempo.

Alle dieci di ieri sera , anche al Colle, dunque, l’incognita maggiore di questo incarico investiva i Cinque Stelle e Conte. Non senza qualche richiamo alla lealtà delle settimane scorse. Per la serie: Mattarella ha fatto di tutto per sostenere e proteggere il premier uscente. Ergo, la speranza è che lo capisca.

Incontri al buio

Se nascerà, il governo Draghi sarà giudicato dal Fatto come tutti gli altri: ne valuteremo maggioranza, ministri e scelte in base alle nostre convinzioni, senza pregiudizi né positivi né negativi, non avendo nulla da guadagnare né da perdere. Al momento, del “governo di alto profilo” incautamente evocato da Mattarella (come se gli altri tre da lui nominati fossero scartine), si conosce solo il curriculum del premier incaricato, che il profilo ce l’ha altissimo. Ma come banchiere: come politico è tutto da scoprire e inventare. E non è un demiurgo che crea maggioranze dal nulla, in un Parlamento che resta sempre lo stesso.

Draghi. Fino a domenica, chi lo sondava per proporgli Palazzo Chigi veniva respinto da cortesi ma fermi dinieghi. Dunque chi da tempo aveva concepito il piano Draghi – l’Innominabile, B.&Letta, la Lega di Giorgetti, le quinte colonne renziane nel Pd e i loro mandanti dell’alta finanza – confidava nella professionalità di Demolition Man a sfasciare la maggioranza giallorosa e nel “patriottismo” di Draghi l’avrebbe spinto alla fine a raccogliere l’estremo grido di dolore di Mattarella da un palazzo in macerie. Ma, al netto della buona fede che gli va riconosciuta fino a prova contraria, l’uomo non è un ingenuo e sa bene a cosa va incontro: un governo che farebbe esplodere il centrodestra e i giallorosa e si reggerebbe sulla nobile figura di un pregiudicato, sul sostegno sbiadito del Pd e soprattutto sull’appoggio (si fa per dire) dei due Matteo, gli sfasciacarrozze più inaffidabili del pianeta che han rovesciato gli ultimi due esecutivi: l’uno decisivo (Salvini, sempreché alla fine ci stia) e l’altro superfluo (l’Innominabile). Con il partito di maggioranza relativa (M5S) e quello della leader emergente (FdI) all’opposizione. E con le prevedibili risse su Mes, Quota 100, Ue, chiusure anti-Covid, disastri lombardi ecc. Francamente, non vorremmo essere nei suoi panni. Ma, se lo fossimo, correremmo al Quirinale a rimettere il mandato.

Mattarella. Ha gestito la crisi, come tutta la sua presidenza, da arbitro imparziale: l’opposto di Napolitano. Ma con due eccezioni, segno di una fragilità che nelle emergenze lo porta a perdere la bussola e a compiere decisioni avventate al limite della temerarietà. Cioè a napolitanizzarsi. Accadde nel maggio 2018 quando, visto il nome dell’innocuo professor Savona nella lista dei ministri del Conte-1,mandò a casa la maggioranza gialloverde che univa i due vincitori delle elezioni e incaricò tal Cottarelli, mai citato da alcuno nelle consultazioni. È riaccaduto l’altra sera, quando ha convocato Draghi senza che nessun partito gliel’avesse chiesto. Per giunta al buio, esponendolo a rischi enormi e mostrando che le consultazioni sono puro teatro. Poi ha detto cose che, se le avesse dette dopo le dimissioni di Conte (che non ha ancora accettato) rinviandolo alle Camere (che gli avevano appena dato la fiducia), gli avrebbero garantito la maggioranza assoluta anche in Senato: “O questo governo o si vota”. E ha contraddetto tutti i moniti degli ultimi mesi: “Dopo Conte, c’è solo il voto”, “Non si cambiano i generali durante una guerra”. Salvo cambiarli tutti senza passare per le urne.

Conte. La sua cacciata era scritta fin dal giorno del suo maggior successo: il 21 luglio 2020 quando, dopo due giorni e due notti di trattative, vinse la battaglia a Bruxelles contro i “frugali” e portò a casa 209 miliardi di Recovery, 36 più del previsto, mentre tutti scommettevano sulla débâcle. Da allora fu chiaro che i poteri marci con giornaloni e burattini in Parlamento avrebbero fatto di tutto per impedire che a gestire quel tesoro fosse un governo perbene, per giunta il più progressista e “sociale” mai visto.

Centrodestra. Non è mai esistito: FI sta con Draghi, la Lega quasi, FdI contro. La Meloni mette la freccia per il sorpasso.
5 Stelle. Non possono che stare, civilmente e non sguaiatamente, all’opposizione di un governo nato dalla decapitazione del loro premier per buttarli fuori, a opera di un irresponsabile che, compiuta la missione, nel governo tecnico scomparirà. Ma sarà comunque in maggioranza, rendendola incompatibile con il M5S (che dovrebbe ciucciarsi anche B.). Prima o poi si andrà a votare e i 5Stelle sarebbero suicidi a passare per quelli che votarono tre governi pur di restare al potere. Un conto è mantenere il proprio premier e i propri ministri per fare e difendere le proprie riforme, anche con alleati diversi. Un altro è il “Franza o Spagna purché se magna”.

Pd. Con la fermezza di un budino, è passato da “o Conte o elezioni” a “o Draghi o Draghi”. Sarebbe un triste spasso vederlo votare a braccetto con B., con l’Innominabile e forse persino con la Lega, cioè con gli avversari anziché con gli alleati. Restando compatti, potrebbero convincere Draghi a rinunciare all’avventura al buio in Parlamento con pessime compagnie e il solito viavai di “responsabili”, magari sfruttando il suo patriottismo per quella cabina di regia sul Recovery che, essa sì, richiede tecnici di vaglia. Andando in ordine sparso, invece, sfascerebbero l’alleanza giallorosa, l’unica che può competere col centrodestra. E, con l’ennesima piroetta che già scatena le proteste della base sui social, donerebbero altro sangue ai tecnici quirinalizi, non bastando la trasfusione Monti. A questo punto, perché non diventare una filiale dell’Avis?