“L’editore mi chiede di maritare Jo Peccato: stava meglio da zitella”

Cara signorina Powell, il fatto che le mie sciocche Piccole donne siano state ammesse nel suo college mi onora profondamente, e spero proprio che si comportino bene in un ambiente così erudito, considerato che le poverine non hanno goduto di molti privilegi e sono piuttosto ritrose, come la loro mamma. La prego di impiegarle come meglio crede per la cura del mal di testa o di qualunque altro malanno possano alleviare, non riuscendo a immaginare impiego più nobile per il mio libretto. Il seguito uscirà ad aprile, e come tutti i seguiti probabilmente deluderà o disgusterà buona parte del suo pubblico, perché gli editori non vogliono saperne di lasciare a chi scrive la libertà di decidere in autonomia il finale di una storia, al contrario insistono perché venga infarcito di matrimoni un tanto al chilo, e io ancora non so bene come darmi pace. Jo sarebbe dovuta rimanere una zitella devota alla letteratura, ma sono stata sommersa da talmente tante lettere di giovani lettrici che mi pregavano entusiaste di farle sposare Laurie, o comunque di farla maritare, che non ho avuto il coraggio di rifiutarmi. Alla fine, non senza una punta di perversione, le ho combinato un matrimonio assai bizzarro. Mi aspetto di essere coperta di insulti, ma devo ammettere che la prospettiva mi diverte abbastanza.

20 marzo 1869

Mentre da altre città giungono le cronache delle prime esperienze delle donne ai seggi, eccovi quella di Concord… Ventotto donne erano intenzionate a votare, ma a causa di alcune pratiche burocratiche diversi nomi non sono potuti entrare. Tre o quattro di loro sono state trattenute a casa dai doveri famigliari e non si sono sottratte alle incombenze domestiche per correre ai seggi. Venti donne, tuttavia, erano lì, alcune da sole, la maggior parte in compagnia di mariti, padri o fratelli; tutte di buonumore e nient’affatto intimidite dalla memorabile impresa che stavano per compiere… Nessun fulmine è caduto sulle nostre teste audaci, nessun terremoto ha scosso la città, ma appena eravamo tornate a sedere una piacevole sorpresa ha creato un diffuso scoppio di risate e applausi quando, dopo che avevano votato le donne e prima che avesse votato un singolo uomo, il giudice Hoar ha proposto di chiudere i seggi… La decisione ci è parsa perfettamente equa, considerato che noi non avevamo voce in capitolo in nessun’altra questione all’ordine del giorno… Ma ormai abbiamo rotto il ghiaccio, e prevedo che l’anno prossimo i nostri ranghi saranno più nutriti, e quando anche le più timide o indifferenti vedranno che siamo sopravvissute all’impresa, potranno azzardarsi a esprimere pubblicamente le loro opinioni.

30 marzo 1880

Alcott, piccola grande donna: sgobbona, povera, femminista

Louisa May Alcott ha scritto diversi libri nei suoi 66 anni di vita (1832-1888) ma resta inchiodata nell’immaginario collettivo a una sola sua opera: Piccole donne. Un classico della letteratura per l’infanzia tanto celebre da rendere via via superfluo il nome della sua stessa autrice.

Generazioni di lettrici e di lettori, conquistati dalle vicissitudini delle quattro sorelle March, sono finiti loro malgrado col prestare fede a ciò che Jean-Paul Sartre scrisse recensendo un romanzo di William Faulkner: “I buoni romanzi finiscono per somigliare moltissimo ai fenomeni naturali; si dimentica il loro autore, li si accetta come pietre o alberi, perché ci sono, perché esistono”.

Dietro la saga di Piccole donne – il primo dei quattro volumi è stato pubblicato nel 1868 e da allora non si contano più i milioni di copie vendute e gli svariati adattamenti cinematografici – si nasconde un’artista americana vissuta nell’Ottocento che vale la pena scoprire. L’orma manda in libreria Le nostre teste audaci, epistolario inedito curato da Elena Vozzi, che offre appunto la preziosa occasione di restituire voce corpo identità a un nome su una copertina.

Alcott, nata nel cuore della Pennsylvania da padre filosofo autodidatta e madre suffragetta, non ha nulla a che spartire con una certa idea romantica della letteratura. Da queste venti lettere ci viene incontro una scrittrice ancorata a una concretezza tale da dire di sé: “L’ispirazione dovuta alla necessità di guadagnare è tutto ciò che ho, ed è un aiutante più fidato di qualsiasi altro”. O ancora, in una missiva datata Natale 1878: “Per me il vero successo è riuscire a dare serenità alla mia cara madre nei suoi ultimi anni di vita e potermi prendere cura della mia famiglia. Tutto il resto viene presto a noia”.

La ribalta inattesa e clamorosa che le procura la storia “natalizia” di Meg, Jo, Beth e Amy – bollata dalla stessa Alcott come “il primo uovo d’oro del brutto anatroccolo” – non serve a solleticare la sua vanagloria ma a rendere giustizia a una storia familiare funestata da avversità finanziarie. Basta soffermarsi sulle righe che indirizza alla sorella Anna nella primavera del 1854: “Sgobbo come al solito, cercando di mettere da parte abbastanza denaro per comprare alla Mamma un bello sciallo caldo… Vorrei solo essere capace di guadagnare, fosse pure a costo di infiniti pianti e nostalgia”.

Al padre, il 28 novembre 1855, in occasione del compleanno, dedica parole commosse: “Carissimo papà, senza altri regali da offrirti oltre al mio cuore colmo d’affetto”. Sempre rivolta al padre mette nero su bianco propositi di rivalsa: “Sto provando a spremere qualche soldo dalle mie meningi… Userò la mia testa come un ariete da guerra e mi farò strada nella mischia di questo pazzo mondo”.

Emerge il profilo di una donna impegnata a strappare al destino un’emancipazione in grado di affrancarla non solo dal bisogno ma dalla morale del suo tempo. Del resto, bastano le pagine di Piccole donne a certificarlo e in particolare il personaggio di Jo, la sorella più ribelle irrequieta coraggiosa. “Io sono Jo nella maggior parte dei suoi tratti caratteriali”, confessa la stessa Alcott in una missiva del 7 agosto 1875 a una traduttrice olandese.

Prima di dedicarsi alla scrittura (“Scrivo sempre di mattina. Mi serve una cosa sola, il silenzio”) la sua biografia è scandita dalle mansioni più disparate: domestica, sarta, attrice, insegnante. Fu infermiera volontaria durante la guerra di Secessione nella volontà di essere dentro i fatti del mondo, di catturare dalla vita tutto ciò che la società organizzata sembrava precludere alle donne. La sua letteratura scende per le strade, attinge al suo privato: “I personaggi sono ispirati alla vita reale, alla quale si deve qualunque merito essi abbiano, poiché mi sarebbe del tutto impossibile inventare nulla di autentico ignorando anche solo la metà dei meri eventi che la vita mi mette davanti ogni giorno”.

Una sua frase è rivelatrice e insieme una temeraria dichiarazione di guerra contro la prigione di una certa condizione femminile: “Per molte di noi la libertà è un marito migliore dell’amore”.

Serie N. 4 e 5 il ritorno di Boris. Il sequel e un format politico

Luca Vendruscolo, Boris 4 si fa. Ce lo teneva nascosto?

Alt! Stiamo esplorando. Fare la quarta stagione, per motivi evidenti, non è facile.

Quali motivi?

La tv: è cambiata, non è più quel blocco di potere degli anni Zero né la fonte primaria di cultura popolare. E non c’è più Mattia (Torre, con Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico autore della serie, ndr). Ma io e Giacomo, d’accordo con Lorenzo (Mieli, il produttore, ndr), ci siamo detti: “Proviamo a buttare giù delle idee, vediamo se la quarta viene o meno”. Siamo in questa fase, idee.

Eppure Alberto Di Stasio, alias il direttore di produzione de Gli occhi del cuore Sergio Vannucci, l’ha data per certa.

Partiva da un grosso equivoco e ha moltiplicato i fatti per la sua speranza: mettiamola così, un annuncio vero potrebbe non ritardare.

L’entusiasmo sui social tracima.

Siamo basiti, un affetto incredibile: ci sembra che i fan sappiano tutto, citano battute che nemmeno noi ricordiamo. Dai, spero anch’io che la quarta si faccia.

La vedremo su Disney+?

È una deduzione, dato che Fox è stata comprata da Disney, ma io non ne so nulla. Ormai la logica delle piattaforme è più importante delle relazioni tra Putin e Biden.

Il miracolo Boris: come?

Fox voleva entrare nel mercato fiction, io, Mattia e Giacomo stavamo ai piani bassi, ma ci sentivamo pronti per la stanza dei bottoni. Un produttore (Mieli, ndr) libero, un broadcaster non formattato – tanto da non assegnarci un editor – ed ecco una serie-serie, in cui le storie fossero verosimili, i personaggi avessero problemi che assomigliano ai nostri, appena più spinti e grotteschi.

Il successo?

Il lavoro: è l’unica serialità in commedia di questo Paese che parla di lavoro. Fosse stata ambientata in una sartoria, magari sarebbe stata meno interessante, ma se ci pensate, dalla prima stagione, si vede qualcosa di diverso: nessuno abortiva, nessuno si lasciava, nessun figlio si drogava. Temi fondamentali, per carità, ma trattati all’infinito con le stesse banalità, e mai in spirito di verità, da risultare buoni solo per un pubblico di ultraottantenni.

Poi, si rideva.

In Italia la comicità si ferma al copione, senonché poi lo giri e non fa ridere. Ed è ovvio: dai tempi di Chaplin e Keaton, la gag è curata visivamente. Non sapete quante ne abbiamo tagliate.

Saggezza.

Luoghi comuni: “Se ride l’attore, non ride il pubblico”, “se si ride sul set, non si ride al montaggio”, ed è vero. Quasi sempre.

Quanto ci vorrebbe Boris oggi per decrittare la crisi politica?

(Ride) Ci abbiamo provato: nel 2011 elaborammo una serie che con formula sbagliata potremmo definire Boris della politica.

Ci spieghi, Vendruscolo.

Ci documentammo, con spesa ingente: una trentina di pranzi e cene con capi di uffici legislativi, capi di gabinetto, ministri, vice e sottosegretari, per raccontare il non raccontato per eccellenza, la politica. Anche la satira sulla politica, anche uno bravo come Crozza, fa critica fenomenologica, dunque caricature, noi volevamo inquadrarne la vita interna, la politica politicata.

Cosa?

Il meccanismo che portava un perfetto cretino a diventare ministro, senza portafogli, all’Inclusione sociale. Prima, la formazione di un gruppetto – si direbbe oggi – di “responsabili” attorno a una figura carismatica della Prima Repubblica, una sorta di Pannella: problema, era matto come un cavallo, e prima di giurare nelle mani del presidente si ammazzava, ché non gli avevano dato la Sanità e con l’Inclusione sociale ti spari nei coglioni. Sicché, fanno ministro il suo vice, un proto-Ciampolillo, lodandone “l’altissimo profilo”: Ciampolillo s’insedia, osserva i soffitti, “sono belli alti, si potrebbe soppalcare tutto”.

Sembra scritta oggi, perché non l’abbiamo vista?

Fox smise di produrre fiction; noi credemmo di non poterci permettere qualcosa che non assomigliasse a Monti e i suoi tecnici. Peccato.

Progetto archiviato?

No, potrebbe sembrare un’Italia tanto giolittiana quanto attuale: metastorica. Mieli di recente ha riletto la sceneggiatura, ha trovato la prima parte fichissima: “Se siete d’accordo, mettiamolo in cantiere per i prossimi anni”.

Boris non lascia, raddoppia. Il suo personaggio preferito?

René Ferretti: gli voglio bene, ora confidiamo di farlo innamorare.

E quello di Torre?

Forse mi sbaglio, ma penso avesse una predilezione per Sergio Vannucci.

Che cosa le manca di più di Mattia?

Mi aiutava a capirmi: quel che diceva mi definiva.

Sahel, 19 morti. Parigi: “Milizie”. Le Ong: “No, erano civili”

“Stavo andando al matrimonio di un amico, Allaye, quando ho sentito diverse esplosioni. Sono fuggito nella boscaglia. C’erano due aerei, uno volava a bassa quota. Il rumore delle bombe era così forte che la terra tremava. Poi Quando sono ho scoperto una carneficina”. È quanto Abdoulaye, maliano di 30 anni, ha raccontato a France Info in un’intervista pubblicata ieri. I fatti si sarebbero svolti lo scorso 3 gennaio. Quel giorno il raid è stato compiuto da due aerei Mirage 2000: l’operazione Barkane affianca il regime politico del Mali nella lotta al terrorismo. La FRancia ha perso 55 soldati. I jet hanno bombardato una zona nei pressi del villaggio di Bounti, nella regione di Douentza. Il bilancio dell’operazione anti-jihadista “Eclypse” è stato di 19 morti e 8 feriti. Parigi sostiene che tre bombe sono state sganciate su una quarantina di uomini armati. Che non c’era nessun matrimonio, né donne, né bambini. “Tutti gli elementi di intelligence riuniti hanno permesso di identificare questo gruppo come appartenente a un GAT, Gruppo armato terrorista”, ha scritto l’esercito. La versione degli abitanti del posto è un’altra: le vittime non sarebbero jihadisti, ma civili, abitanti di Bounti e dei villaggi vicini, di etnia fulana. Human Rights Watch, altre Ong, come la Fidh-Federazione internazionale per i diritti umani, e associazioni locali hanno chiesto l’apertura di un’inchiesta imparziale. Un’indagine della Missione Onu in Mali, la Minusma, è già in corso. A France Inter, Bourahima, 58 anni, un altro abitante di Bounti, ha confermato la presenza jihadista nella regione, ma il giorno dei bombardamenti “i jihadisti erano nel loro nascondiglio, nei boschi, dove vivono giorno e notte”. Le vittime potrebbero essere “simpatizzanti” dei jihadisti. Gli uomini, come vuole la sharia, erano separati dalle donne. Ma Abdoulaye assicura che nessuno di loro era armato: “Se la Francia ritiene di aver colpito dei jihadisti, fornisca le prove. Vogliamo vedere le foto e i video. Io ho perso tre fratelli e un cugino”.

Istanbul, caccia agli studenti gay

“Non abbasseremo mai lo sguardo” è lo slogan, diventato virale su Twitter, che gli studenti dell’Università del Bosforo di Istanbul hanno iniziato a scandire dopo l’arresto di 159 compagni. Lo studente di fisica Havin Ozcan, tenuto in stato di fermo per ben 4 giorni – secondo la legge il fermo non può protrarsi oltre le 48 ore – durante le precedenti ondate di arresti avvenute nelle ultime settimane, ci spiega cosa significa lo slogan delle proteste in corso da un mese. “Mentre le squadre antisommossa portavano i miei compagni ammanettati in questura gli urlavano di guardare in basso, come facevano i nazisti con gli ebrei, e chi osava alzare la testa veniva picchiato. Ma noi questa volta non ci arrenderemo perchè quello che sta avvenendo in Turchia è un tentativo del regime fascio-islamista di Erdogan di annichilire la cultura indipendente e la scienza per metterla al servizio della sua agenda politica. Essendo omosessuale, quando le squadre antisommossa hanno fatto irruzione all’alba nella mia abitazione puntandomi il fucile d’assalto in faccia hanno iniziato a chiamarmi ‘frocio di merda’ e in commissariato mi hanno picchiato e minacciato di sodomizzarmi obbligandomi a denudarmi per l’ispezione corporale. Uno dei poliziotti poi si è messo dietro di me strofinando i suoi genitali sul mio sedere. Ho 21 anni, non ero mai stato fermato e questa esperienza mi ha terrorizzato ma non fiaccato. Anche gli studenti delle università di Ankara, di Smirne e di altri atenei del Paese stanno protestando con noi e con i nostri docenti”. Sì, perchè questa volta in piazza ci sono anche i docenti. Ogni giorno, i professori con indosso la toga degli accademici escono dalle aule e si radunano nel campus dove, senza dire una parola, rimangono in piedi per mezz’ora incuranti del freddo e della neve. Tutto è iniziato un mese fa quando il presidente Erdogan ha sostituito il rettore dell’Università del Bosforo via decreto per insediare Melih Bulu. Dopo la riforma costituzionale passata di misura in seguito al referendum del 2017, il capo dello stato ha la facoltà di indicare i rettori delle università. Ma Bulu, ex parlamentare del partito della Giustizia e Sviluppo di Erdogan, non ha i requisiti. Il nuovo rettore, per mostrare fedeltà al “fratello musulmano” numero uno, Erdogan, ha denunciato gli studenti alla magistratura due giorni fa con un tweet che riprendeva quello del ministro degli Interni Soylu. Nel tweet, il ministro faceva riferimento a “4 studenti pervertiti Lgbt che hanno osato profanare l’Islam e sono stati arrestati”. Si tratta dei giovani che hanno esposto il disegno di una donna mezza serpente all’interno della Mecca. Un “insulto” al Corano, secondo il ministro. A sostegno dei manifestanti è intervenuto il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, possibile sfidante di Erdogan alle presidenziali.

Navalny va in gattabuia. “Andate in piazza per me”

“Questo processo dimostra la vostra debolezza, non la vostra forza”. È stata una delle ultime frasi pronunciate da Aleksey Navalny prima che fosse emessa la sentenza: trascorrerà i prossimi due anni ed otto mesi in carcere. I giudici del tribunale di Simonovsky hanno commutato la sua libertà vigilata in pena detentiva perché, mentre si curava in Germania per l’avvelenamento da novichok, l’oppositore – secondo la sentenza – ha violato almeno 50 volte i termini della condizionale impostagli nel 2014 per il caso Yves Rocher. L’appello del Fondo Anti-corruzione fondato dal blogger è stato immediato appena emessa la condanna alla colonia penale: i ragazzi di Navalny si sono riuniti ieri notte nella piazza del Maneggio di Mosca, dove nel buio attendevano già dispiegate le squadre dell’anti-sommossa. Le tre fermate della metro della capitale più vicine al Cremlino sono state chiuse.

Ad ascoltare il verdetto in aula la moglie Yulia, scoppiata in lacrime quando è arrivata la decisione della Corte ma a cui il marito, con le occhiaie e la felpa blu, ha ripetuto fiducioso: “Andrà tutto bene”. Insieme alla Navalnaya i diplomatici europei ed americani che hanno fatto arrabbiare, per l’ennesima volta, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova: “È interferenza nei nostri affari interni, sono lì per fare pressione ai giudici”. I primi a tuonare contro il Cremlino e chiedere l’immediato rilascio di Navalny sono stati il ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab, l’omologo tedesco Heiko Mass, e il segretario di Stato Usa Antony Blinken: “Gli Stati Uniti sono preoccupati dalle azioni russe”. L’Alto rappresentante della politica estera Ue Joseph Borell, in arrivo a Mosca il 5 febbraio per discutere con il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, ha chiesto al suo team di organizzare un incontro con il dissidente. Dall’Italia, la Farnesina sottolinea che “la condanna è originata da un processo già definito ‘arbitrario e manifestamente irragionevole’ dalla Corte europea dei Diritti Umani. Inoltre “la detenzione di Navalny, dopo l’avvelenamento con agente chimico conferma la tendenza alla soppressione dei diritti fondamentali” in Russia. Gli avvocati dell’oppositore faranno ricorso al Consiglio d’Europa. “La canaglia assetata di potere”, come lo ha offeso ieri il furente ex presidente russo Dimitry Medvedev, ha ribadito di sapere che il suo processo serve ad intimidire chio esterna scontento: “Mettono uno solo in galera per spaventarne milioni, ma non si può mettere in galera un Paese intero”.

Accusando in aula per il suo avvelenamento di nuovo il servizio di sicurezza Fsb, Navalny, stanco ma sfrontato ha chiosato contro “il nonno che sta perdendo la testa”, “l’uomo che si nasconde nel bunker e che ho offeso mortalmente sopravvivendo”, ovvero Putin, il presidente che passerà alla storia come lo zar “Vladimir l’Avvelenatore”. Poiché qualcuno ha paragonato la sua vicenda a quella della tragedia di Chernobyl, rivolgendosi alla Corte prima che si ritirasse per deliberare, Navalny ha detto alla fine: “Giudice, non spinga il bottone rosso”. Mentre il dissidente pronunciava un’arringa per la sua innocenza e, insieme, d’accusa contro il regime russo, per chiedere il rilascio di tutti i prigionieri politici oltre al suo – sono diventati intanto 6.000 gli arrestati per le proteste di domenica scorsa svoltesi in 31 città – le forze dell’ordine hanno ammanettato altre 350 persone riunitesi fuori dall’aula del tribunale di Simonovsky. Se ieri è arrivata la sentenza dei giudici, quella della popolazione russa davanti al bivio di questa pena inflitta è ancora ignota. Navalny spera che il suo popolo non smetta di reagire.

“Con i Regeni, nell’ora più buia”

“Mi sono trovata davanti due persone distrutte dall’ansia e quasi rassegnate, a cui io stessa ho dovuto comunicare il ritrovamento, poche ore prima, del corpo di un giovane che presumibilmente era il loro figlio. È stata la pagina più dura del mio impegno da ministro, una mezz’ora di angoscia. Da genitore, non avrei mai voluto fare quella visita, spero di dimenticarmela per il dolore che mi ha causato”. Quando l’ex ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, entrò nell’appartamento dove viveva Giulio Regeni, al civico 8 di Yanbo street, a Doqqi, quartiere sulla sponda occidentale del Nilo della Capitale egiziana (anche se fa parte del Governatorato di Giza), era la tarda serata del 3 febbraio 2016, esattamente cinque anni fa.

La ministra quel giorno era in Egitto a capo di una missione economico-diplomatica. Una dozzina di ore prima, il cadavere dello studente della Cambridge University era stato rinvenuto in un fossato lungo l’autostrada verso Alessandria. Il culmine della tensione al termine di una giornata controversa e drammatica. Quello che per la Guidi doveva essere un ‘normale’ impegno istituzionale si era ormai trasformato in un calvario, tanto che la missione fu poi annullata nel tardo pomeriggio: “Verso le 18 di quel mercoledì, mentre mi trovavo con la delegazione di imprenditori italiani all’interno della nostra ambasciata (lungo la Corniche del Nilo, a dieci minuti d’auto dall’appartamento di Regeni, ndr), ricevetti una comunicazione dal nostro massimo rappresentante diplomatico, Maurizio Massari. Le autorità egiziane avevano trovato un corpo, realisticamente poteva essere quello di Regeni. Nel dubbio convenimmo di annullare la missione, dopo esserci confrontati con la Farnesina e col governo. Quello stop irritò molto al-Sisi e l’Egitto. Sarei ripartita in nottata alla volta di Roma, ma prima fui incaricata di incontrare i genitori di Regeni”.

Assieme a Massari e al Consigliere diplomatico presso il ministero, Mario Cospito, Guidi si recò a Doqqi e quando arrivò al secondo piano della palazzina di Yanbo street trovò Paola e Claudio Regeni: “La mamma di Regeni sapeva già cosa fosse accaduto, le era bastato uno sguardo – ricorda quei momenti l’ex ministra –, mi pose una domanda o forse fu un’affermazione, non saprei dire: ‘Non torna più Giulio’. Non è stato facile consolare due genitori a cui viene comunicata, in sostanza, la morte di un figlio. In quel momento non c’era l’ufficialità, ma ripeto, lo sguardo della mamma di Regeni era consapevole di una tragedia imminente, quasi rassegnata. Dentro l’appartamento vidi soltanto loro due, nessuna traccia degli inquilini. I genitori erano arrivati al Cairo da qualche giorno, appena saputo della sparizione del figlio. Da mamma, quando vidi la casa, il quartiere e più in generale la città, la sua pericolosità, mi misi nei loro panni e provai angoscia”. Oggi ricorre il quinto anniversario di quel 3 febbraio, tragica conclusione di un percorso durato otto giorni, dal rapimento di Giulio Regeni avvenuto la sera del 25 gennaio. I destini dei protagonisti di quel mercoledì nero presto sarebbero cambiati. Il 5 aprile Federica Guidi si dimise dal suo incarico al Dicastero dello Sviluppo economico, mentre due mesi più tardi, il 1° giugno, Maurizio Massari, dopo essere stato ‘ritirato’ dal governo Renzi, divenne Rappresentante permanente presso l’Unione europea.

Guidi ricorda altri particolari importanti di quella giornata, dall’atterraggio del volo di Stato all’aeroporto internazionale del Cairo al decollo verso l’Italia meno di 24 ore dopo.

“Il programma, specie per quel mercoledì, era molto fitto e iniziava col botto: in mattinata incontrai il presidente Abdel Fattah al-Sisi. Con lui discussi di temi economici e dell’importanza della missione industriale. Prima di partire per l’Egitto, tuttavia, avevamo convenuto con i colleghi dell’esecutivo sulla necessità di porgli una domanda sulla scomparsa di Giulio Regeni. E così feci. La sua risposta, tradotta dall’arabo da un interprete, fu più o meno ‘Mi occuperò personalmente della cosa, faremo il possibile per ritrovarlo’. Quella mattina, Regeni risultava ancora scomparso, ma mentre al-Sisi cercava di mostrarsi desideroso di essere d’aiuto, il corpo di quel ragazzo era appena stato trovato lungo l’autostrada”. “Il resto della giornata – conclude Guidi – gliel’ho già raccontato. Verso le 3 di giovedì 4 febbraio, dopo l’incontro coi Regeni, partimmo alla volta dell’aeroporto. Massari mi chiese se volevo andare in obitorio per visionare la salma, declinai gentilmente preferendo salire a bordo di quell’aereo il più presto possibile e tornare in Italia”.

Ecco “Project goal”: così i fondi esteri si prendono il calcio

“Operazione Project Goal”. L’hanno chiamata così, come un film di 007. E in effetti un po’ vi assomiglia l’operazione spericolata con cui la Serie A è pronta a vendersi a fondi d’investimento la cui proprietà si snoda fra Lussemburgo, Cayman e Stati Uniti. Tutto per dare una governance indipendente, una dimensione internazionale e soprattutto un bel pacco di soldi al nostro campionato, dove i club sono alla canna del gas e sperano di salvarsi con gli 1,7 miliardi promessi da Cvc, Advent e Fsi. Per riuscirci, la Lega ha scomodato i pareri illustri (e cari: 100mila euro) dell’ex ministro Giulio Tremonti, o del mentore del premier Conte, il prof. Guido Alpa. Ha affidato una consulenza milionaria all’advisor Lazard, studiato interpelli fiscali, normative, scappatoie. Così si è arrivati al contratto che domani sarà in assemblea e Il Fatto rivela.

Nel term sheet ci sono cifre, nomi ee clausole che regoleranno il rapporto fra i padroni del pallone. Il progetto è noto, il presidente Paolo Dal Pino ci lavora da mesi. La Serie A darà vita a una “Media Company”, in cui confluiranno la commercializzazione dei diritti tv, la gestione di contratti commerciali, marketing e merchandising, tutto ciò che genera business. Il 90% rimarrà alla Lega, il 10% sarà ceduto alla Salieri Investimenti: Spa con sede a Milano divisa fra i tre fondi, Cvc (50%), Advent (40%) e Fsi (10%, dentro c’è pure Cassa depositi e prestiti).

L’affare vale 1,7 miliardi, per una partnership almeno fino al 2026, poi il partner potrà rimanere, vendere o quotare in Borsa. Ma non tutto è oro quel che luccica. All’inizio i fondi pagheranno un’entry fee da 250 milioni, il grosso arriverà dopo: 1,4 miliardi a fondo perduto in sei tranche, 350 milioni nel 2021-2023, 117 nel 2024-2026. Questo secondo i piani della Lega permetterà di distribuire alle squadre 250 milioni l’anno, 400 (bonus Covid) nel 2021, usando i criteri della legge Melandri: ci guadagnano le big, la Juve in primis, sopravvivono gli altri. In dubbio invece l’ulteriore linea di credito da 1,2 miliardi: i club avrebbero dovuto garantire in solido, ma non si fidano tra loro. Al partner in cambio andrà il 10% delle entrate future da diritti tv: considerando che valgono oltre un miliardo a stagione, parliamo di (almeno) 100 milioni l’anno. Così l’affare assomiglia più a un prestito. Il prezzo da pagare è la sovranità sulla Serie A: nel Cda a 13 membri, 7 spettano alla Lega (già eletto, tra gli altri, Andrea Agnelli), ma i fondi scelgono il potente amministratore delegato, su cui la Lega potrà porre il veto solo una volta.

Fra le pieghe del contratto, poi, ci sono una serie di piccole clausole che rivelano il futuro del pallone. Ad esempio, è scritto che “MediaCo. intende lanciare il Canale della Lega”: frase che lascia capire come dovrebbe andare già l’asta sui diritti tv del prossimo campionato. Si mette in conto che la Champions cambierà: dal 2024 avrà 36 squadre (oggi sono 32) e 225 gare (più del doppio delle attuali), da disputare non solo durante la settimana ma anche nei weekend.

L’assemblea decisiva è domani. Di mezzo ci sono i Lotito, i De Laurentiis, i più riottosi, non a caso i proprietari dei club con i conti più a posto: loro non hanno bisogno di un’operazione che per altri ha assunto i contorni della disperazione. Bastano pochi voti per far saltare tutto. Ma il vero problema è la legge Melandri, per cui solo la Lega può commercializzare i diritti tv. Così, invece, in posizione di monopolio sarebbe una società terza, con dentro un privato, scelta senza gara. È vero che le linee guida restano all’assemblea, ma sarebbero stilate e proposte dalla MediaCo. A riguardo la Lega aveva richiesto due pareri legali: sonore bocciature a ottobre. Da allora i termini sono stati rivisti ma la sostanza non pare cambiata. E che dire della parte sportiva, che dovrebbe spettare solo alla Lega (e alla Figc, che però tace). Formalmente è così, ma nel contratto è scritto che l’unica modifica al format accettata nei prossimi 15 anni sarà il passaggio da 20 a 18 squadre; per tutto il resto bisognerà valutare l’impatto negativo sui ricavi (ed eventuali penali).

I fondi saranno padroni , del campionato. I dubbi rimangono. Una volta firmato, l’accordo resterà sub iudice: per completarsi dovrà ottenere il via libera dell’Antitrust, di Palazzo Chigi (per il Golden Power), dell’Agenzia delle Entrate (sulla struttura fiscale). Le parti sperano entro maggio, ma a potrebbe slittare dopo l’estate. E i club sono disperati, hanno bisogno di soldi subito: è per questo che si vendono la Serie A.

Il caos vaccini svela i limiti dell’Unione

L’Unione europea è stata umiliata da AstraZeneca e dal Regno Unito. E ora, mentre Boris Johnson si gode il suo “momento Falklands” (così scriveva il Mail on Sunday), l’Ue si lecca le ferite che si è autoinflitta per il comportamento di funzionari animati da buone intenzioni ma, in ultima analisi, incompetenti.

Lo scontro non va letto solo in termini di capacità di comunicazione, perché il rischio di non ricevere in tempo i vaccini avrà costi umani ed economici. Non doveva andare così, e dovremmo trarre qualche lezione da questa esperienza.

Lezione 1: i muscoli non bastano, serve anche il cervello. Non basta mobilitare le risorse, è importante agire con intelligenza. In linea di principio, un blocco commerciale grande come l’Ue è in una posizione migliore per negoziare l’acquisto di vaccini rispetto ai singoli Stati membri. Le dimensioni contano quando si tratta con delle multinazionali farmaceutiche durante una pandemia. Lo dimostra il successo degli Stati Uniti nell’assicurarsi una quantità impressionante di vaccini. Eppure, la Bibbia ci insegna che Davide può battere Golia. È il caso di Israele. L’Ue invece non solo è stata lenta nelle trattative, ma ha anche firmato un contratto con AstraZeneca che di fatto lascia l’azienda libera di mandarla a quel paese senza rischiare sanzioni. I dettagli del contratto non sono ancora tutti noti, ma è chiaro che i negoziatori europei sono stati gabbati non solo da AstraZeneca, ma anche dagli altri clienti della società che sono stati in grado di garantirsi accordi migliori. Se è probabilmente vero che l’Unione ha strappato un prezzo di vendita più basso rispetto ad altri, il risparmio diventa insignificante rispetto ai costi di un ritardo nel programma di vaccinazione.

Lezione 2: è difficile agire con intelligenza quando mancano trasparenza e responsabilità giuridica. Certo, gli accordi con le aziende in parte sono riservati, ma non c’era motivo che l’Ue tenesse gli Stati membri e i cittadini all’oscuro di tutto fino all’oltraggioso annuncio fatto da AstraZeneca a pochi giorni dalla consegna delle fiale. Un certo grado di trasparenza avrebbe permesso all’Ue di rimediare agli errori, invece di cadere nella trappola predisposta da quello che appare essere un sodalizio tra AstraZeneca e il Regno Unito. Forse la causa di questo errore si deve all’assenza di responsabilità personale. A livello nazionale o locale, un simile abbaglio avrebbe senz’altro scatenato dimissioni a catena da parte dei responsabili politici. Finora nessun funzionario Ue ha messo sul tavolo le sue dimissioni, né sono state date spiegazioni soddisfacenti per le discutibili decisioni prese nella vicenda. Perché i contratti con AstraZeneca (o Pfizer) sono stati fatti così in ritardo? La Commissione ha forse ceduto alle lobby tedesca e francese e dato priorità a contratti dubbi con i campioni nazionali, BionTech e Sanofi? Qualcuno ha consultato Dublino prima di prendere la decisione, disastrosa, di reintrodurre la frontiera con l’Irlanda del Nord. E se non è stato così, perché?

Lezione 3: ormai la salute è una questione altamente politica. La “guerra” contro il virus implica un nuovo concetto di sicurezza e istituzioni adeguate. La politica della pandemia è stata finora in gran parte orientata dalla paura. In questo senso può essere letta come una politica della sicurezza, anche se un tipo di sicurezza diverso da quello militare tradizionale. Quando Macron ha detto ai francesi “siamo in guerra” non aveva in mente le portaerei, ma cercava di giustificare misure draconiane adottate per combattere una pandemia che causa morte e devastazione economica. I vaccini, non gli aerei, sono le armi contro il “nemico” invisibile. Negli ultimi decenni abbiamo speso molti soldi per preparare la guerra “sbagliata”. Ciò non significa che le minacce nucleari o terroristiche scompariranno nel futuro, ma i cittadini chiederanno misure di sicurezza sanitaria diverse da quelle messe in atto finora. Le istituzioni di sicurezza pubblica e i loro investimenti dovranno essere ripensati e adattati alla nuova percezione della minaccia: l’emergenza sanitaria, ma anche il degrado ambientale.

Lezione 4: il sistema policentrico di governance dell’Ue va bene per la società di Kant o di Ugo Grozio, ma non per quella di Hobbes e Machiavelli. L’Ue può e deve giocare un ruolo importante nella nuova architettura della sicurezza mondiale, ma per farlo deve individuare i suoi punti di forza e di debolezza. Raramente è in grado di rispondere con velocità a una crisi grave, perché prima ha sempre bisogno di stabilire quale sia l’interesse comune dei 27 membri. È un processo complesso e richiede tempo, e per di più spesso il risultato è dato dal minimo comune denominatore. Inoltre, la risposta europea dipende dai contributi finanziari dei singoli Stati. Tutto ciò rende difficile agire in modo strumentale per punire le imprese e gli Stati che si comportano male. L’Ue è molto più adatta a creare strutture istituzionali e stabilire regole di comportamento legittimo che non ad agire da pompiere quando scoppiano problemi di sicurezza. Il meccanismo deliberativo e il principio dell’unanimità delle decisioni le impediscono di intraprendere azioni rapide e audaci, anche se la mette al riparo dal fare scelte precipitose di cui poi pentirsi. Purtroppo, nel caso AstraZeneca, ha scelto di non ricorrere al meccanismo deliberativo, e questo ha reso la sua azione inefficace e illegittima.

Lezione 5: in un’Europa dove dilaga il nazionalismo, l’Ue non ha altra scelta che il multilateralismo. La nozione di nazionalismo europeo è una contraddizione in termini. Se la forza dell’Ue sta nel definire regole di comportamento legittime, allora deve dare l’esempio. Lo scopo del progetto di europeo è sconfiggere il nazionalismo, non di generalizzarlo. L’idea che 27 Stati attingano alle loro risorse per fare i prepotenti con chi si mette sulla loro strada è autolesionista. La gente non si radunerà sotto la bandiera europea per promuovere l’egoismo nazionale e la xenofobia. L’Ue ha modi migliori di far valere la sua forza. Il mondo l’ascolta se difende i principi dello Stato di diritto e l’uguaglianza. Se perseguisse l ambizioni egoistiche a spese degli altri verrebbe vista con sospetto, troverebbe attori più forti o più deboli pronti a imbrogliarla.

Nel giugno del 1991, in piena crisi nell’ex Jugoslavia, il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jacques Poos, dichiarò: “Questa è l’ora dell’Europa”. Poos suscitò aspettative che l’Ue non fu in grado di soddisfare. Tre decenni dopo, l’Ue non è meglio attrezzata. Non suggerisco di creare un esercito europeo di epidemiologi, ma almeno un sistema che unisca le risorse diplomatiche, militari, legali, finanziarie, mediche e ambientali per affrontare le nuove minacce. Forse lo scontro con AstraZeneca e il Regno Unito ci aiuterà a rendere l’Ue più attrezzata alla prossima crisi.

(Traduzione di Riccardo Antoniucci)

 

Figuranti cercansi: i cablo segreti

Un pubblico di figuranti. Idea artistica, suggestiva, come la frutta di alabastro e i nani da giardino, ma troppo complicata da mettere in pratica, tanto da dover optare per un Festival di Sanremo desertificato. I provini per scritturare i figuranti da piazzare nella platea del Teatro Ariston si sono rivelati un’inutile faticaccia, come dimostrano questi verbali a cui siamo pervenuti in via del tutto riservata.

“Buongiorno. Vuole battere le mani, per favore?” “Clap, clap, clap.” “Insomma. Adesso dica: ‘Bravo Amadeus!’” “Bravo Amadeus”. “Uhm, un po’ legnoso. Le faremo sapere, avanti un altro.”

“Buongiorno. Ha già fatto uno del pubblico?” “Prima fila?” “No, terza. Però ho fatto il maggiordomo”. “Vediamo. Dica: ‘Il pranzo è servito’”. “Il pranzo è servito”. “Va bene, le faremo sapere, avanti un altro”.

“Buongiorno. Lei ascolta la musica leggera?” “Sì, certo, tutti i giorni”.

“E Sanremo le piace?” “Da matti. Non mi sono mai perso una serata davanti alla tv”. “Mi dispiace, ma non possiamo prenderla”. “Ah no? E perché?” “Perché se il Festival le piace davvero come fa a fare finta che le piaccia? Avanti un altro”.

Buongiorno. A lei piace il Festival di Sanremo?” “Molto poco, ogni anno sempre meno”. “E allora perché si è presentato a questo provino? Avanti un altro”.

“Buongiorno. Lei cosa ne pensa di Sanremo?” “La città dei fiori”. “OK. E mi dica: perché il Festival di Sanremo si fa a Sanremo?” “Perché Sanremo è Sanremo.” “Bene. E se il festival di Sanremo si facesse ad Assago?” “Assago sarebbe Sanremo”. “Molto Bene. E se il Festival di Assago si facesse a Sanremo?” “Assago sarebbe Assago”. “Ottimo. E se il Festival di Sanremo si facesse senza pubblico?” “Il pubblico non sarebbe Sanremo”. “Meraviglioso. E allora cosa sarebbe? “Sarebbe il buco con Sanremo intorno”. “Complimenti. La assumerei volentieri se potessi, ma mi hanno appena rimosso da direttore del casting”. “Davvero? E perché?” “Hanno scoperto che sono un figurante”.