Il Cereda, un uomo solo al contatore

Chiuso nel suo ufficetto al piano -1 del Pirellone, il povero Danilo Cereda – 42 anni, laurea in Medicina, specializzazione in Igiene e Medicina preventiva, dottorato in Sanità pubblica – contava e ricontava quei dati sanitari. Lui solo in tutto il Pirellone. Cereda contava e s’incazzava: “Facile dire che c’è da mandare a Roma i dati sull’Rt”, pensava, “pare che qui solo io sappia fare 2+2”. Che poi lui, lo aveva anche detto al suo capo: “Non dico un pc, ma almeno una calcolatrice a batteria solare datemela, che se sbaglio un asintomatico, qui ci mettono in zona rossa…”.

“Ma come la metti giù dura”, gli aveva risposto il capo, “per quattro campi da mettere sì/no. Dài è un lavoro da macaco… Cosa vuoi che siano 234 mila cartelle cliniche da inserire a mano a settimana. Già ti abbiamo dato la scrivania e anche il lapis. Piuttosto, stai attento, che se mi sbagli un numeretto, poi cosa ci dico io al Presidente? Scusi, abbiamo scritto una pirlata a quelli di Roma? Sai com’è l’Atty, non può mica dire che il lombardo sbaglia. Che poi gli tocca tirare su un casino col Tar e compagnia bella… Animo Cereda, lavora e ringrazia, che sei nella regione più efficiente d’Italia…”.

In campo la società civile: tutti furiosi con Italia Viva

In attesa del nuovo governo, torna in campo la società civile. Lettere aperte, appelli e hashtag sui social network. Con richieste diverse, ma un nemico comune: il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che ha aperto la crisi e ha bloccato la formazione del Conte Ter, rallentando i Ristori che dovrebbero arrivare alle categorie più colpite dall’emergenza Covid. Venerdì scorso il primo appello era arrivato da “Libertà e Giustizia” che si rivolgeva ai parlamentari di Italia Viva per lasciare solo Renzi in nome di “un governo di centrosinistra”. Lunedì pomeriggio i comitati “Noi per la Costituzione” e “Comitato per la democrazia costituzionale” hanno inviato una lettera aperta ai capigruppo di Camera e Senato invitandoli al “senso di responsabilità” e a riconfermare l’esecutivo di Giuseppe Conte. Nella lettera, sottoscritta anche da personalità della cultura, della politica e del costituzionalismo come il politologo Gianfranco Pasquino, la politologa Nadia Urbinati, l’ex senatore Pancho Pardi, Alfiero Grandi e Domenico Gallo, i firmatari individuano in Renzi come il responsabile della crisi: “Con disgusto e indignazione assistiamo all’arresto delle indispensabili funzioni di governo da parte di un pugno di parlamentari/ministri confluiti sotto la sigla di Italia Viva, portatori di interessi lontani da quello pubblico e che solo apparentemente sono riconducibili all’egocentrismo e/o all’ansia di visibilità politica di chi se ne dichiara leader”.

Ad attaccare a testa bassa il senatore di Scandicci ieri è stata anche Jasmine Cristallo delle Sardine, che definisce quello di Renzi un “ricatto predatorio” che punta a “distruggere l’identità e la dignità dell’altro” cercando di “portare a casa il più possibile”. Cristallo parla di “accanimento, spudoratezza anche nei confronti delle istituzioni, arroganza con cui si rapporta” da parte dell’ex premier. Ma la crisi politica sta avendo effetti negativi anche sui ristori che dovrebbero arrivare alle categorie più colpite e sono bloccati perché il decreto “Ristori 5” dovrà essere approvato dal prossimo governo.

Così lunedì l’associazione dei lavoratori dello spettacolo “U.N.I.T.A” ha redatto un comunicato per chiedere alla politica di dare “stabilità al Paese per sbloccare le risorse necessarie a garantire la sopravvivenza di migliaia di persone”. Al comunicato di associazioni e sindacati, sui social si è affiancato l’hashtag #vogliamounaltrospettacolo, rilanciato da personaggi dello spettacolo tra cui gli attori Flavio Insinna, Valentina Lodovini, Claudia Gerini, Vittoria Puccini, ma anche Vasco Rossi e il sindacalista Aboubakar Soumahoro.

“È impossibile darla vinta ancora a Renzi”. “Resta sempre il voto”

Sul Fatto Quotidiano di ieri Antonio Padellaro e Marco Travaglio si confrontavano, nei loro editoriali, attorno a un interrogativo: non sarà il caso di andare alle urne invece di continuare ad assecondare i ricatti di Matteo Renzi? Piuttosto che inseguire le manovre personali di un politico palesemente inaffidabile, non conviene rassegnarsi al fatto che le urne sono l’unica alternativa? Un tema che ha appassionato i nostri lettori: in moltissimi ci hanno scritto per farci sapere la loro opinione sulla crisi e sulle possibili soluzioni. C’era chi ancora fino a ieri riteneva si dovesse trattare fino all’ultimo secondo con il “mascalzone fiorentino” e chi invece sosteneva che l’unica soluzione fosse tornare al voto.

Non è detto che alla fine vinca davvero la destra

Cari Travaglio e Padellaro, credo che a questo punto siano meglio le elezioni, con la speranza che Conte voglia rimanere in campo (d’altronde, come sappiamo, un lavoro rispettabile lui ce l’ha sempre avuto, non come chi va a Riyad per “esigenze di produzione”. Vinceranno le destre? Tutto da verificare. Di sicuro ci toglieremmo di torno Renzi e i parassiti vari.

Giancarlo Rossini

 

Continuare a trattare fa perdere credibilità

Concordo pienamente con quanto scritto ieri da Antonio Padellaro. Renzi è del tutto inaffidabile e conferma di essere tale con le sue ultime affermazioni. Continuare a trattare con lui significa perdere rapidamente credibilità, sia perché si dà una immagine di debolezza sia perché si dà a credere all’opinione pubblica di essere disposti ad accettare i suoi futuri e inevitabili ricatti pur di non perdere le poltrone. Perciò ritengo che egli vada abbandonato subito e in maniera netta, chiara e intransigente.

Alfonso Di Domenico

 

Sul serio volete Berlusconi al Colle?

No, non ci sto. Non sono d’accordo con Padellaro e Mieli. Capisco il disgusto che proviamo tutti per un irresponsabile mascalzone toscano. Ma la democrazia è la democrazia: non la si può mettere a rischio mai, per alcuna ragione al mondo. Le elezioni anticipate non sono una conferma dell’articolo 1 della Costituzione, ma una sua smentita. Il “popolo” ha votato per una legislatura e finché c’è una qualche soluzione bisogna tentarle tutte. Oggi poi la situazione è di assoluta emergenza: non abbiamo dall’altra parte una Destra democratica. Il duo trumpista Salvini&Meloni è capace di tutto. La sua incoscienza durante la pandemia è stata sfacciata. Vogliamo che l’estrema destra (con l’aiuto di una tv pubblica destrorsa, anche grazie alla riforma Renzi e al sostegno del M5S) abbia anche solo qualche possibilità di vittoria? Proprio non riuscite a sospettare che sarebbe una strada senza ritorno? Per non parlare poi dei soldi europei gestiti da Borghi. Mancano solo 6 mesi al Semestre bianco. L’Italia ha bisogno assoluto almeno di un presidente della Repubblica garante della democrazia, una fotocopia di Mattarella, e non un pregiudicato o chi per lui. Lo so che Renzi fa perdere la pazienza anche ai santi. Ma per favore, non potete aspettare sei mesi?

Enzo Marzo

 

Mai più fare patti con Arabia Viva

Non si tratta più di trovare una sintesi per una nuova compagine di governo, ma più semplicemente arginare il toscarabo. Condivido in pieno la disamina di Padellaro. Occorre liberare l’Italia al più presto da costui. Davvero è forse meglio buttarsi nell’agone delle urne, piuttosto che sopportare questo stillicidio angosciante: cosa dirà Renzi, cosa farà, quali e quanti suoi sgherri vorrà imporre cercando di sopravvivere anche a se stesso in una maggioranza sempre in bilico tra affogare o nuotare. Tentare è umano, perseverare è diabolico.

Susanna Di Ronzo

 

Rischiamo di restare due volte fregati

Caro Antonio Padellaro, non vorrei che questa voglia di liberarsi del noto Demolition Man ci accecasse e ci facesse sottovalutare il pericolo di ritrovarci con questa “destra” al governo. Perché potremmo ritrovarci perdenti su ambedue i fronti. Sicuramente Messer Due Percento ha le spalle coperte, non sparirà dalla scena pubblica e non uscirà dalle stanze del potere e dal Parlamento. Se si andasse alle urne, in qualche modo, lo troveremo riciclato in qualche partito.

Francesco Zanatta

 

Liberarsi del Bomba: la gioia non ha prezzo

Caro Direttore, da tempo la penso come Padellaro, che vedrei bene al tavolo da poker con l’Innominabile. Visto il ritardo – sempre citando Padellaro – per “sfancularlo” (quanto sarebbe stato saggio farlo a tempo debito!), ora l’unico modo per sbarazzarsi politicamente di lui è chiedere il voto degli elettori. Certo ci si deve allineare con (parte) del pensiero della Meloni e forse di Salvini, ma lo scopo è alto e prevedibilmente raggiungibile. D’altronde si spera che oramai tutti si siano convinti che liberare non solo la sinistra, ma la politica intera dalle mire narcisistiche di chi mette avanti i propri interessi a quelli di chi l’ha imprudentemente votato, non farà che rendere più “pulito” e chiaro l’intero ambito della situazione politica in Italia.

Giorgio Di Mola

 

Proviamo ad avere fiducia negli italiani

Sono favorevole ad andare al voto perché ritengo che la destra non avrà le percentuali che dite (oltre il 45%), perché dalle precedenti votazioni gli Italiani si sono fatti più intelligenti. Alle Regionali sembrava che la destra prendesse tutte e sette le regioni e invece ne hanno presa solamente una.

Omero Terrin

 

La convocazione di Mario Draghi al Quirinale ci darà molto probabilmente un nuovo governo ma non elimina certo il gravissimo vulnus per la democrazia italiana rappresentato da Demolition man. I messaggi dei lettori del “Fatto”, trasmessi prima che l’esplorazione di Roberto Fico fallisse esprimono due sentimenti contrastanti che poi sono quelli contenuti nell’articolo di Marco e in quello mio. Da una parte l’insofferenza oltre i limiti del sopportabile che proviamo tutti noi nei confronti del ricatto renziano. Allora, questa era la domanda, per uscire dalla palude, per stoppare questo gioco al massacro del paese non sarebbe stato politicamente, e moralmente più igienico andare subito al voto e smascherare così il bluff di Italia Viva? Del resto, Matteo Renzi si è sempre comportato così: dalla scalata del comune di Firenze, e poi del Pd e quindi di palazzo Chigi. Ha sempre speculato sulla buona fede di chi si è fidato di lui, come hanno sperimentato sulla propria pelle Pierluigi Bersani ed Enrico Letta. Di giorno tendeva la mano, di notte avvelenava i pozzi, e non sembra aver perso il vizio. Poi però esiste l’esercizio della prudenza raziocinante, la necessità in una fase delicatissima di evitare decisioni irresponsabili e sconsiderate. Per disinnescare Renzi, questa era l’altra domanda, non è che finiamo dritti nelle fauci del Salvini&Meloni? Il presidente Sergio Mattarella ha scelto una terza via quella del governo istituzionale che tuttavia si presenta come una strada forse ancora più accidentata di quella percorsa da Giuseppe Conte. Infatti non sarà per nulla semplice mettere d’accordo sei o sette partiti in un coacervo di strategie diverse e programmi opposti avendo per giunta sotto il tavolo a tramare il Bomba di Rignano. Restiamo dell’idea che da questa parte del campo non si deve temere il confronto elettorale anche perché nel destra-centro esistono divisioni, tensioni e variabili oggi mascherate dalla crisi della coalizione giallorossa ma che una campagna elettorale, se imperniata sulla scelta europea e sulla gestione dei 209 miliardi, porterebbe allo scoperto. Del resto ogni volta che l’alleanza Pd, M5S e Sinistra ha funzionato, come in Emilia, Toscana e Puglia la destra è andata ko. Siamo anche convinti che il premier Giuseppe Conte abbia governato il periodo più difficile del dopoguerra con disciplina e onore. E che sia pronto a fare la sua parte se la battaglia elettorale lo richiedesse. Ma ora c’è Draghi e la patata bollente tocca a lui. Auguri.

Antonio Padellaro

Il Pil 2020 a -8,9%, l’incognita è il 2021

Il Prodotto interno lordo italiano è tornato a scendere negli ultimi tre mesi del 2020, più o meno come ci si attendeva: -2% sul trimestre precedente (leggermente meno delle attese) e -6,6% rispetto allo stesso periodo del 2019. Questi dati, va ricordato, sono solo la stima preliminare dell’Istat: mai come quest’anno potrebbero infatti esserci revisioni anche rilevanti tra un mese, quando saranno diffusi i numeri definitivi dei conti nazionali.

A oggi si può dire che la stima del governo sull’andamento della crescita italiana s’è rivelata più accurata di quelle, più pessimiste, di molte istituzioni finanziarie internazionali: l’anno si chiude per ora con un -8,8%, cioè all’ingrosso al -9% della Nota di aggiornamento del Def pubblicata in autunno. In sostanza, poteva andare peggio, ma una caduta del Prodotto di questo livello non può certo essere una buona notizia perché abbiamo azzeccato la stima.

Il dato del trimestre italiano è tra i peggiori in Europa: meglio solo dell’Austria (-4,3% sui tre mesi precedenti e -7,8 sull’anno secondo Eurostat) e vicina alla performance della Francia (-1,3% e -5), mentre il resto dell’Eurozona è sostanzialmente in stagnazione a livello congiunturale (eccetto Lettonia e Lituania, che crescono oltre l’1%). Tutti e 19 i Paesi, peraltro, fanno registrare un risultato negativo sullo stesso trimestre 2019: nel suo complesso il Prodotto dell’area dell’euro è sceso dello 0,7% su base congiunturale e del 5,1% a confronto con l’anno prima.

Anche sui numeri che riguardano l’intero anno, e forse anche di più, bisogna usare cautela trattandosi di stime preliminari, ma l’Italia sembra nelle stesse condizioni di Paesi analoghi: il Pil francese dovrebbe calare dell’8,3%, quello spagnolo del 9,1%, quello del Regno Unito di oltre il 10% e del 7,6% quello portoghese. La Germania, invece, dovrebbe registrare una discesa della ricchezza prodotta meno marcata: -5,3% nel 2020 secondo l’istituto statistico nazionale. Va segnalato, in Europa, il caso dell’Irlanda: alle ultime previsioni era prevista in crescita del 3%. Quanto al resto del mondo vanno almeno ricordati il -3,5% stimato per gli Usa e il +2,3% della Cina.

Stabilito, insomma, che più o meno è andata (male) come sembrava, il problema è il futuro: a che ritmo verranno recuperati i 150 miliardi di euro di Pil che abbiamo perso. L’attuale sistema di restrizioni è in vigore da ottobre e ha ovviamente, come sottolinea anche Istat, avuto un impatto negativo sul Prodotto: bisognerà dunque stare attenti all’evoluzione della situazione nel 2021.

La variazione acquisita per l’effetto trascinamento ad oggi, ci dice l’Istituto statistico, è +2,3%: la stima del governo è +6% per l’intero anno e molti la ritengono ottimistica. Difficile da dire, perché le variabili sono moltissime. La fine del 2020, ad esempio, ha visto la manifattura andare malino e i servizi malissimo: effetto delle chiusure che potrebbe però, dopo un intero anno di sofferenza, aver anche eroso base produttiva (tradotto: molti hanno chiuso per sempre).

Il rimbalzo dell’estate 2020 (+16%) è un precedente che lascia ben sperare: bisogna tornare ad aprire però o, come dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, “è possibile un balzo del 5-6% se il Covid finisce”. È un bel se…

Ristori congelati, la politica si è scollegata dalla realtà

Serve a prorogare il blocco dei licenziamenti e la Cassa integrazione Covid, ma anche a stanziare nuovi contributi a fondo perduto per le categorie più danneggiate dalla pandemia. Ma il nuovo decreto Ristori, il quinto, che avrebbe dovuto vedere la luce a inizio gennaio è prima finito bloccato nello scontro tra i giallorosa e poi dalla crisi di governo che Matteo Renzi ha deciso di aprire nonostante ci fosse una serie di importanti provvedimenti in sospeso, tra cui questo provvedimento che vale in tutto 32 miliardi. E che, stando al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, dovrebbe essere anche l’ultimo. La volontà del governo uscente era di varare il decreto, considerandolo un atto urgente e necessario per fronteggiare l’emergenza. Ma poi si è deciso di congelarlo in attesa del nuovo governo. Il testo del decreto va ancora scritto, anche se Camera e Senato hanno già approvato un nuovo scostamento di bilancio per finanziarlo.

Il dl Ristori 5 servirà a estendere lo stop ai licenziamenti fino al 30 aprile per tutti e dopo in maniera selettiva, dovrebbe prevedere altre 26 settimane di cassa integrazione per le imprese in crisi e finanziare altri capitoli di spesa (sanità, trasporti pubblici, forze dell’ordine, etc.). Ma sul fronte dei contributi a fondo perduto va ancora chiarito il nuovo meccanismo per identificare la platea degli aventi diritto e calibrare l’entità delle somme da versare. Dovrebbe essere presa in considerazione la perdita di fatturato dell’intero 2020 (non più aprile 2019 su aprile 2020), ma non è chiaro se ci saranno anche paletti relativi ai codici Ateco o se verranno introdotte soglie minime molto alte per limitare la spesa. Così come potrebbero essere inclusi tra i beneficiari anche i professionisti iscritti agli Ordini. Si tratta, comunque, di risorse che mai come in questo momento sarebbero fondamentali per dare respiro ai lavoratori in crisi e arginare le conseguenze dell’emergenza.

Ad aspettare con ansia il decreto Ristori sono in tanti e senza ancora aver ben capito perché sia stata innescata una crisi di governo che ha di fatto congelato gli aiuti. In prima fila ci sono i lavoratori di spettacolo, cinema e musica. Il loro fermo dura da quasi un anno e ha causato mezzo miliardo di perdite. Oltre 50 sigle sindacali, presidi e associazioni di categoria, alla notizia del blocco del nuovo decreto hanno deciso di compattarsi denunciando la condizione d’indigenza in cui versa chi opera nel settore. “I dati Inps parlano di 327mila lavoratori dello spettacolo in Italia, di cui circa 83mila sono attori. Questa categoria di interpreti è impiegata per una media di 15 giorni all’anno e con una retribuzione media di 2.500 euro annuali! È ora di sfatare il luogo comune che tutti gli attori siano ricchi”, spiega Giorgia Cardaci, vicepresidente dell’associazione Unita. “Il ministero ha recepito alcuni dei problemi più impellenti, ma c’è ancora tanto da fare. Pochissimi i soldi percepiti grazie ai bonus (5.600 euro in un anno) e, adesso, lo stop dovuto a questa incomprensibile crisi – sintomo di uno scollamento della politica dalla vita reale – rischia di essere la pietra tombale dello spettacolo italiano”, aggiunge Francesco Bolo Rossini, delegato Unita.

A chiedere di sbloccare gli aiuti sono anche ristoratori e baristi, costretti a vivere nell’incertezza fatta di coprifuoco, chiusure al pubblico e consegne a domicilio. “Il 2020 segna 40 miliardi di minor fatturato. Di fronte a un danno di questa portata, abbiamo ricevuto ristori per soli 2,5 miliardi”, spiega il vicepresidente vicario di Fipe-Confcommercio, Aldo Cursano. L’appello è a fare presto per evitare che il blocco dei nuovi ristori porti a un’ondata di chiusure. “Il Ristori 5 ha beccato la crisi di governo che fa danni al pari del Covid, ma il putto di Rignano ha da piazzare la Boschi”, commenta Giovanni, ristoratore livornese. Poi ci sono le imprese del turismo invernale, un settore con un giro d’affari da 11 miliardi di euro. “Sono preoccupato per i lavoratori che chiedono risposte e per gli interventi urgenti che devono andare avanti. Anche questa mattina ho ricevuto tante telefonate da parte degli operatori della montagna che non sanno neppure se la data del 15 febbraio per la riapertura degli impianti sarà effettiva o meno. E nel frattempo assistiamo a un teatrino che non è accettabile e che soprattutto distoglie l’attenzione dai problemi reali del Paese”, ha detto l’assessore al turismo della Regione del Veneto, Federico Caner.

Alfonso e Matteo rivali già a Firenze: “Mi seguì in bagno”

Diciassette settembre 2012, Palazzo Vecchio, Firenze. Alfonso Bonafede, professione avvocato e nel tempo libero attivista di “Firenze 5 Stelle”, aspetta il sindaco Matteo Renzi fuori dall’aula consiliare con la telecamera in mano. Fa così da anni: entra a Palazzo e riprende il Consiglio, intervista gli eletti, incalza il sindaco e a volte porta con sé un lavoratore incazzato, un ambientalista, qualcuno che abbia qualcosa da gridare. Poi mette tutto in Rete. Renzi, in camicia bianca e maniche arrotolate, entra in aula e prende posto a fianco a Dario Nardella, tira fuori il cellulare – la cover è a bandiera americana con su scritto “Obama Biden” – e mentre sghignazza riprende Bonafede, che a sua volta ha la telecamera accesa. L’uno è nel mirino dell’altro, straordinaria metafora del destino del Paese di lì a nove anni. Solo che oggi c’è poco da sghignazzare.

Renzi brama da mesi la testa di Bonafede, che a sua volta farebbe volentieri a meno dello scomodo alleato se solo ci fosse un’alternativa. Ma i due si conoscono da tempo e non hanno mai smesso di fare a botte. Bonafede a Firenze arriva nel 1995 per studiare Giurisprudenza nella stessa università dove si iscrive pure Maria Elena Boschi e dove entrambi conosceranno il professore di Diritto privato, Giuseppe Conte. Nel 2006 Bonafede ha la fortunata intuizione di unirsi agli “Amici di Beppe Grillo”, ancora poco più di una tavolata da 16 al ristorante, e tre anni dopo si candida a sindaco prendendo l’1,8 per cento, mentre Renzi batte Giovanni Galli e ottiene la fascia tricolore. Potrebbe finire tutto lì, invece Bonafede, che pure non è entrato in Consiglio, inizia a fare opposizione più di molti eletti. Va in Comune e filma i lavori. Il più delle volte Renzi lo sfotte: “Una volta mi ha inseguito fino in bagno con la telecamerina, al che gli ho detto: ‘Ma tu lo sai che il Consiglio comunale è già in streaming sul sito del Comune?’”.

Poi però Renzi inizia a pensare in grande, prepara la scalata al Pd e a Palazzo Chigi sottovalutando tutti i segnali di pericolo. Quel trentenne con la telecamerina che nessuno prende sul serio incarna un malumore che per un paio d’anni resta latente, ma che poi divora anche lo stesso Renzi. A Firenze, Bonafede inizia a filmare una sedia vuota, quella che Renzi lascia sempre più spesso per un’ospitata a Porta a Porta o un comizio in camper. Avvia la campagna “Fiato sul collo”, tempestando di domande la giunta e portando in Comune le proteste dei cittadini. Si appassiona alle proteste dei No Tav locali, chiedendo di ridiscutere il progetto intorno alla stazione Foster: i lavori, che dovevano finire nel 2016, sono ancora in corso. Un giorno Bonafede va in Comune con un mega assegno di carta con su scritto lo spreco miliardario dell’opera. Renzi gli promette un incontro pubblico davanti all’ormai nota telecamerina, poi si dilegua. Jacopo Cellai, allora Pdl, ricorda: “Bonafede veniva spesso, ma non gli davo molta attenzione. E invece avrei fatto bene a fare i filmatini anch’io, che in 16 anni son rimasto sempre consigliere comunale”. Di lì a poco il Giglio magico si sposta a Roma per i suoi anni di gloria, il M5S entra in Parlamento e Bonafede fa carriera, fino al Conte II e agli agguati renziani. Dietro cui, forse, c’è anche un po’ di quel passato fiorentino.

Opposizione o responsabilità: il bivio per Conte e i giallorosa

È andata proprio come sussurravano e immaginavano in tanti, dentro e fuori i Palazzi di ogni ordine e grado. Nella sera in cui viene giù tutto, Giuseppe Conte vede avvicinarsi a Palazzo Chigi Mario Draghi, professore come lui, chiamato dal Quirinale come il salvatore della patria. Forse se lo aspettava anche Conte un finale così, anche quando alla festa del Fatto a settembre lo disse con sillabe da rito scaramantico: “Quando lo si invoca, lo si tira per la giacchetta. Non lo vedo come un rivale: lo avrei visto bene come presidente della Commissione Ue, ma mi disse che era stanco della sua esperienza europea”.

Sei mesi dopo, eccolo Draghi. Ed ecco Alessandro Di Battista, ex deputato ma attualissimo big dei Cinque Stelle, che gli sbarra la strada. “Repetita iuvant” scrive su Facebook, postando un suo articolo dello scorso agosto su Tpi in cui bollava l’ex presidente della Bce come “apostolo delle élite”. L’ex eletto pubblica tutto 58 minuti prima che il Quirinale renda noto di aver convocato il professore. A notizia appena diffusa, Di Battista parla con il Fatto: “Draghi se lo votasse Renzi, che ha fatto tutto questo con l’obiettivo di non far gestire al M5S i soldi del Recovery Fund. Se lo votasse mezzo Pd, che ha lavorato contro Conte, e se lo votasse Salvini che lo elogiava in Parlamento”. E i suoi, i 5Stelle? Su questo non parla. Sa che Draghi metterà in grandissima difficoltà i grillini.

Il corpaccione parlamentare e più di qualche big invocavano già il voto anticipato, quando il Colle ha calato la carta che non era affatto nascosta. Volevano e vorrebbero il voto anticipato, con Conte leader, traino, anche con una sua lista che, assicurano in diversi, “è un progetto già in stato avanzato”. E ora rischiano seriamente di farsi malissimo, di perdere per strada un po’ di giovani deputati, quelli più contrari al Mes per capirci, assieme a veterani stanchi di troppe cose. Toccherà soprattutto all’ex capo ma leader di fatto Luigi Di Maio cercare un senso in mezzo al caos da fine del mondo. Difficile, perché la prima reazione della pancia del Movimento pare un no, e il deputato Luigi Gallo lo scandisce per primo. “Ma dobbiamo restare lucidi, e poi se non regge un esecutivo tecnico può sempre subentrare un altro governo politico” immagina e soprattutto spera una fonte di governo grillina. Pare più complessa di così, mentre Conte fa sapere di non voler dire nulla, di voler ancora stare zitto dopo giorni di silenzio “per doveroso riserbo sull’evoluzione della crisi di governo”.

Per il Pd è lo scenario peggiore. Nicola Zingaretti, Andrea Orlando e Goffredo Bettini si sono spesi per settimane per dire che dopo il Conte ter c’è solo il voto. Ma la direzione in realtà non gli aveva dato un mandato così netto, le subordinate in vista di un governo istituzionale erano sul tavolo. Soprattutto, i dem non sono in condizione di dire di no a Mattarella e Draghi. La condizione in cui si trova il Pd la riassumono le parole di Andrea Orlando: “Discuteremo al nostro interno. Il percorso indicato dal Capo dello Stato merita tutta l’attenzione e la disponibilità, ma se era difficile mettere insieme 4 forze politiche che avevano fatto un percorso insieme, non sarà semplice mettere insieme forze politiche che insieme non hanno fatto e non faranno niente”.

Dietro l’angolo, c’è un cambio di linea politica, un congresso di fatto sulla segreteria di Zingaretti. Matteo Renzi gongola: “Abbiamo ascoltato le sagge parole del presidente della Repubblica Mattarella: ancora una volta ci riconosciamo nella Sua guida. E agiremo di conseguenza”. Di fatto, è il suo schema che ha vinto. Ha disarticolato il sistema, ucciso amici, ex compagni di partito, alleati e alleanze future. Ora è pronto a vendersi il fatto di aver lavorato per portare in Italia “Mandrake”. Raccontano dalla Lega che ha, se non un accordo, almeno un’interlocuzione con Matteo Salvini, per arrivare all’astensione della Lega. Sarebbe la vittoria dello schema di Giancarlo Giorgetti, con il Carroccio che si sposta verso l’europeismo. D’altra parte c’è già Emilio Carelli, che sta organizzando un gruppo con i fuoriusciti M5s, in accordo con il leader leghista. Facile immaginare da parte loro un sostegno all’ex presidente della Bce. Il sì di FI appare già scontato. Nel frattempo, i presunti ribelli di Italia viva si mangiano le mani: erano in 3 pronti ad uscire, ne servivano 4 per arrivare ai fantomatici 161 voti su Conte. Ora voteranno tutti la fiducia senza fiatare. Un’irrilevanza – la loro e quella di molta politica – che appare in tutta la sua evidenza.

Alla fine arrivò Mr. Bce il più evocato della crisi

Subito dopo le dimissioni di Matteo Renzi, dicembre del 2016, Sergio Mattarella spiegò l’assunto più rilevante: “Le crisi politiche maturano nel tempo”. E quella del governo giallorosa, o Conte II, è iniziata ben prima di quando è iniziata. E il convitato di pietra è finalmente apparso. L’inquilino del Colle e Mario Draghi si sentono spesso. Lo avevano già fatto anche a metà gennaio. E una decina di giorni prima dell’inizio della crisi era arrivata anche la chiamata del fiorentino. Il contenuto non importa, conta quel che è accaduto dopo.

Classe ’47, liceo dai gesuiti, laurea a Roma con Federico Caffè (l’economista più a sinistra tra i più bravi della sua epoca) e specializzazione al Mit di Boston con Franco Modigliani e Robert Solow. Draghi è arrivato al Tesoro nel 1983 come consigliere dell’allora ministro Giovanni Goria (governo Craxi) e del suo maestro Guido Carli. Dopo un breve passaggio alla Banca Mondiale torna in via XX settembre nel 1991: resterà lì come direttore generale per un decennio con tutti gli esecutivi. È stato il padre ideologico della grande stagione delle privatizzazioni – non proprio felici – dei primi anni Novanta, partita simbolicamente con il discorso del 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia, ospite di British Invisibles, il gruppo di interessi finanziari della City. A lui sono dovute le riforme del settore del credito , da quella che abolì il divieto di commistione tra banche commerciali e banche d’affari, introdotto in tutto il mondo dopo del 1929 (in Italia lo scrisse Donato Menichella, che lavorò con suo padre Carlo) al testo unico bancario e a quello finanziario. Nel 2002 lascia il ministero e diventa vice chairman a Londra di Goldman Sachs (il lavoro più pagato della sua vita), banca d’affari controparte del ministero nelle aste dei titoli di Stato (la legge sul conflitto d’interessi non esisteva). Lascerà per diventare governatore di Bankitalia nel 2005 e poi della Banca centrale europea (2011).

L’apparente doppiezza del personaggio, catalogato nel tempo come servitore dello Stato o infiltrato dei poteri forti della grande finanza internazionale, Keynesiano e fervente liberista, furono riassunti nella definizione regalata dal Financial Times: “L’enigma Draghi”.

I nei in una carriera che, a 74 anni, lo hanno consegnato come uno degli uomini più potenti d’Europa, d’Italia senz’altro – anche grazie al whatever it takes che nel luglio 2012 salvò l’euro – non sono mancati. Il più rilevante, il disastro del Montepaschi. Il 17 marzo 2008 da governatore autorizzò l’istituto guidato da Giuseppe Mussari nella sgangherata operazione di acquisto di Antonveneta, strapagandola: “Non risulta in contrasto con il principio della sana e prudente gestione”. Eppure Bankitalia sapeva che Mussari stava suicidando il Monte perché pochi mesi prima, dicembre 2006, aveva concluso con toni severi un’ispezione nella banca padovana, disastri di ogni genere.

L’ultima farsa dei tavoli e le teste da tagliare: così Renzi ha rotto tutto

Alle 19 Matteo Renzi telefona all’esploratore, Roberto Fico, per dirgli che non ci sono più margini per il Conte ter. “È finita”. Game over. ll distruttore ha distrutto. E forse poteva solo finire così, con un cumulo di macerie. Solo lì poteva fermarsi Renzi, a ciò che ha fatto ieri sera: rovesciare il tavolo sui possibili nomi del Conte ter per ottenere la testa che era la sua ossessione, quella dell’ex presidente del Consiglio, di Giuseppe Conte, con l’obiettivo di spaccare ora e per sempre anche l’alleanza giallorosa tra Pd e M5S, quel matrimonio tra diversi che un anno e mezzo fa aveva favorito e che ora vuole sabotare per mille ragioni. “Ci affidiamo alla saggezza di Mattarella” twitta il capo di Iv a missione appena compiuta, attorno alle 19.30. E in quelle righe stipa i presunti torti degli ex alleati: “Bonafede, Mes, Scuola, Arcuri, vaccini, Alta velocità, Anpal, Reddito cittadinanza, su questo abbiamo registrato la rottura”. Ha rotto sulle altre teste che non ha potuto far rotolare e sui totem grillini che non ha potuto distruggere. E lo rivendica, dopo aver mandato ieri mattina le fedelissime Maria Elena Boschi e Teresa Bellanova a trasformare in commedia dell’arte l’altro tavolo a Montecitorio, quello pubblico, sui temi. Una riunione dove ieri le italo-vive hanno detto di no a tutto e ritirato fuori dagli Inferi perfino il Tav, tanto per mettere le dita negli occhi dei grillini.

Neanche hanno risposto, quando Leu ha provato a stanarle, a chiedere se volessero Conte ancora a Palazzo Chigi. E alla fine del tavolo slittato più volte i partiti non sono riusciti neanche a stilare un verbale di sintesi, neanche fossero automobilisti che litigavano sul Cid. Secondo Iv la bozza andava completamente riscritta. E di fatto era già finita lì, quando Fico è uscito fuori dalla riunione nella Sala della Lupa con la furia negli occhi, conscio di essere stato preso in giro. Inutili i tavoli, inutili le telefonate dell’ultimo minuto di Fico a tutti i leader, a partire da Renzi. L’ex premier aveva già deciso di premere il bottone rosso. Dietro di sé lascia avversari feriti, con 5Stelle vari che già rimproverano al reggente Vito Crimi la linea al tavolo, l’aver dichiarato intoccabili il Guardasigilli Bonafede e la ministra all’Istruzione Azzolina. “Qualcosa dovevamo cedere” rumoreggiano la pancia parlamentare e qualche big. Crimi però non ostenta dubbi e precisa: “Iv sindacava sui nostri nomi e voleva solo poltrone, non dava rassicurazione su Conte premier”. Nel Pd gli stracci devono ancora cominciare a volare ufficialmente, anche se da giorni è sotto accusa soprattutto il protagonismo di Goffredo Bettini. Dario Franceschini ha cercato di portare avanti la trattativa dall’inizio alla fine, gestendo anche le battaglie sotto traccia dentro tutta la coalizione. Come quella sui vicepremier: i dem li avrebbero voluti, il M5S ha fatto muro, anche per evitare un commissariamento di Conte. Problemi marginali rispetto alle intenzioni di Renzi.

“Ha pesato soprattutto il veto sulla Boschi”, racconta chi nel Pd è rimasto al tavolo sui contenuti. In cambio della rinuncia a “Meb”, Renzi ha chiesto a Crimi e a Franceschini tre ministeri: voleva Ettore Rosato alla Difesa, il Lavoro per Teresa Bellanova, un terzo discastero per Luigi Marattin o Raffaella Paita e un viceministro. Oltre a un accordo sulla prescrizione, intorno al Lodo Annibali. Il Pd ha fatto muro sul Lavoro, per via del jobs act. A Iv hanno offerto il ministero dell’Agricoltura, il Mit, un terzo ministro di area e un viceministro. Non è bastato. Renzi voleva la testa di Alfonso Bonafede e Lucia Azzolina. Ufficialmente, ma in questi giorni ha chiesto di tutto. E alla fine ha rotto, con una telefonata che è sembrata recitata, come se fosse fatta di fronte a una platea. Dopo aver passato la giornata inveendo contro il mancato accordo e dando le sue ricette per il futuro. “Ora scommetto su Draghi”. Nel suo disegno, questo governo sarebbe appoggiato da Forza Italia e Pd e avrebbe l’astensione della Lega di Salvini. E i Cinque stelle? “Non potrebbero dire di no”. Mentre la giornata si chiude, con il presidente Sergio Mattarella che fa un appello a tutte le forze politiche per arrivare a un governo in grado di gestire le tante emergenze che il Paese deve affrontare, il Pd sgomento interviene per dire che “è finita l’alleanza con Iv”, per sottolineare, con Andrea Orlando, che Renzi aveva dall’inizio l’idea “di far saltare questa formula, legata a un’alleanza”. E le tenebre si allungano, sututto il sistema politico.

Muore il Conte ter, il Colle vuole il governo Draghi contro il virus

Ancor prima di nascere, il Conte III spira ufficialmente in serata. Anticipato dal necrologio via tweet del Demolitore di Rignano, l’esploratore Roberto Fico sale al Quirinale qualche minuto prima delle venti e trenta. Ci vogliono trenta minuti per stilare il certificato di morte dinanzi a Sergio Mattarella, il capo dello Stato ha un’espressione grave e preoccupata.

Poi le telecamere, per l’annuncio, alle venti e cinquantré. Il presidente della Camera riassume in una manciata di secondi il risultato del mandato ricevuto venerdì: “Allo stato attuale permangono distanze alla luce delle quali non ho registrato l’unanime disponibilità di dare vita a una maggioranza”.

Addio giallorossi. E addio Conte.

Il presidente della Repubblica già nella giornata di lunedì aveva annusato l’esito negativo dei tatticismi di Matteo Renzi, al punto da far trapelare una “forte irritazione” per la trattativa sui nomi dei ministri (prerogativa del premier incaricato) senza affrontare il nodo dei nodi. Cioè il sì o il no di Italia Viva all’ipotesi di un terzo governo dell’Avvocato. E alla fine è stato pollice verso, una risposta temuta ma messa in preventivo, dopo venti di giorni di crisi in cui la pazienza di Mattarella ha sostenuto sia la disperata ricerca dei Costruttori-Responsabili, sia il tentativo di pacificazione tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Tutto fallito.

Anche per questo il capo dello Stato si presenta alle ventuno e tredici e rivolge un drammatico appello alle forze politiche per un governo del presidente che non sia transitorio. Altro che secondo giro di consultazioni. L’esperienza giallorossa naufraga senza aver altre possibilità. Non c’è tempo da perdere, per il Quirinale, in questo tragico tempo di pandemia. La diffusione del contagio e la paura di altre ondate. La campagna di vaccinazione. La crisi sociale con la fine del blocco dei licenziamenti.

E soprattutto i soldi del Recovery Plan. Dice il presidente: “Entro il mese di aprile va presentato ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza perché quegli indispensabili finanziamenti vengano presto: restano due mesi di tempo per discutere il piano con un mese ulteriore per approvarlo da parte della commissione Ue, occorrerà successivamente provvedere tempestivamente”.

Ergo: “Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo e non possiamo permetterci di perdere questa occasione fondamentale per il nostro futuro”.

A questo punto, Mattarella comincia a tagliare un vestito fatto su misura per l’invocato Mario Draghi. Un governo di fine legislatura al posto delle elezioni anticipate, che farebbero perdere mesi preziosi e favorirebbero il virus anche a causa di una lunghissima campagna elettorale.

È il centro del suo discorso: “Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non deve identificarsi con alcuna formula politica”.

Sono condizioni tratteggiate appositamente per l’ex presidente della Bce. Un esecutivo non a tempo e sostenuto da un arco quanto più ampio di partiti e forze politiche.

Il nome di Mario Draghi esce pochi minuti dopo. Oggi a mezzogiorno sarà al Quirinale per il conferimento dell’incarico. L’Italia torna all’autunno del 2011. All’epoca c’era lo spread e il governo di Monti, un altro SuperMario, prese il posto dell’ultimo esecutivo di Silvio Berlusconi sostenuto dai fatidici Responsabili di Razzi & Scilipoti.

Dieci anni dopo la storia si ripete, con la pandemia al posto dello spread. E a casa va il centrosinistra demogrillino. Un’operazione del genere potrebbe far esplodere Pd e M5S, ma al Colle non interessa più. Mattarella ha dato settimane ai giallorossi per rimettere insieme i pezzi. Da oggi è tempo di governissimo.