Un no gentile ma netto

Non è vero che l’esplorazione di Fico sia stata totalmente inutile. Non ci ha ridato un governo, ma almeno ha spiegato fino in fondo a chi ancora avesse dubbi cosa c’era dietro la crisi più demenziale e delinquenziale del mondo scatenata da Demolition Man: al netto delle ragioni psicopolitiche, dall’invidia per la popolarità di Conte alla frustrazione per l’unanime discredito che lo precede su scala mondiale (Arabia Saudita esclusa), ci sono l’inestinguibile bulimia di potere, l’acquolina in bocca per i 209 miliardi in arrivo, la fame atavica di poltrone del Giglio Magico e la congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti. Mentre a favore di telecamere andava in scena lo spettacolo dei tavoli tematici – una farsa dove Iv chiedeva di tutto e di più, forse anche Nizza e Savoia e l’Alsazia-Lorena, e i 5Stelle aprivano financo al “lodo Orlando” per rivedere la blocca-prescrizione se entro sei mesi non fosse passata la legge Bonafede accelera-processi – dietro le quinte si discuteva della ciccia: le famigerate “poltrone”. Mister Due per Cento vi è talmente allergico che voleva passare da due a tre o quattro. Possibilmente anche per la solita Boschi, possibilmente alle Infrastrutture per perpetuare e anzi ingigantire la tradizione dei conflitti d’interessi (Maria Etruria è indagata con l’Innominabile per finanziamenti illeciti, anche da Toto, concessionario autostradale di cui sarebbe diventata il concessore).

Che fosse tutta una questione di poltrone era chiaro fin dall’inizio a tutti, fuorché alle civette sul comò dei talk pomeridiani, che ogni giorno si arrampicano sugli specchi per dar la colpa ora a Conte, ora ai 5Stelle, ora al Pd, ora a fantomatiche “crisi di sistema” pur di proteggere il loro beniamino nell’unico luogo in cui ancora lo prendono sul serio: certi studi televisivi. Il bello è che il noto frequentatore di se stesso, oltreché ai ministri suoi, pretendeva pure di scegliere quelli altrui. Cominciando, indovinate un po’, da Bonafede, Azzolina, Gualtieri e Arcuri, per mettere le mani su Giustizia, Tesoro, Scuola e acquisti anti-Covid. Mentre le civette ancora gli guardavano le spalle, il Tafazzi di Rignano confessava tutto ai suoi (e all’Ansa): “Crimi non cede su nessun nome”. E meno male che non era una faccenda di poltrone. Ora, perché le cose non finiscano male con governissimi o altri orrori, basta che M5S, Pd e LeU siano coerenti e dicano un garbato ma fermo no all’ammucchiata del Colle e di Draghi, per salvare l’unica coalizione che può competere con queste destre: la via maestra è il rinvio di Conte alle Camere; e, in caso di sfiducia, il voto al più presto possibile. Di regali a Salvini & C. ne ha già fatti troppi il loro cavallo di Troia.

La ragazza Bube rinasce spogliarellista per elaborare il dolore del lutto paterno

Carmen Barbieri abita il teatro, la sua palestra di vita. Finalista nel 2014 del Premio Hystrio, ha pubblicato diversi racconti. Il suo romanzo d’esordio per Feltrinelli Cercando il mio nome è un coltello nella carne viva scarnificata, un cammino di redenzione.

La voce narrante si divide in due: ora c’è Anna-bambina, ora c’è Bube, il nickname “artistico” scelto per calcare il palco di un locale di lap dance. Anna-Bube deve mantenersi all’università, si affida a un prete ambiguo per trovare qualche famiglia a cui fare le pulizie e si ritrova in un club di spogliarelliste. L’imbarazzo, la nudità offerta agli avventori del locale sono la chiave per esorcizzare una perdita infinita, un padre amato sin nelle viscere: “Apapà è la crasi di un moto a luogo. A come ad, perciò ‘vieni da/verso papà’. Tu mi rivolgevi sempre così”. E quella canzone di Lucio Dalla cantata all’unisono, quella con la parola “puttana”: “In queste aurore piene di brina in cui galleggia da qualche settimana suona diversa, la canzone, la parola”.

Un mese di spettacoli per uomini affamati di prede, riuscendo a evitare lo scoglio del privé, dove vengono soddisfatti gli appetiti sessuali dei clienti del locale, una volta alleggeriti nel portafoglio consumando champagne. “Guarda che sbagli a dire di no al privé, tanto sei qui… Voglio dire, ti fanno schifo i soldi? I clienti fissi, quelli sono una garanzia, perché si affezionano. E tornano sempre”.

Nel locale – tra uomini viscidi e ragazze dell’est pronte a offrirsi per quattrocento euro – c’è anche Anna, con il dubbio se oltrepassare il crinale che separa il palco dagli stanzini bui: “Nel buio le maschere si levano. Anna bambina sposta lastre di ghiaccio croccante”. Il sesso come catarsi: “Ballare seminuda aiuta; farsi toccare dagli sguardi degli avventori del locale, alleggerisce; mettersi in una condizione di pericolo, ossigena. Spogliata e disarmata stiamo scoprendo il nostro istinto di conservazione: non può esserci umiltà nell’attraversamento di un lutto”.

Barbieri racconta di mangiare “il senso di colpa per quel cadavere nel piatto, quel pezzo di cielo dalla pelle scura, uno spasmo di notte marcita e messa a tavola”, coinvolgendo ogni senso del lettore in una forma di empatia totale. A differenza de Le onde del destino di Lars von Trier, Anna-Bube riesce a svicolarsi dall’eclisse dell’elaborazione del lutto sulla “natura”, come chiama il suo sesso, evitando così un abisso senza ritorno.

Un esordio potente, tra Eros & Thanatos, divorante di passione: “Disobbedire al lutto, era l’ultimo atto da compiere per poter tornare a nascere. Da qualche parte avevo letto che l’uomo vitruviano di Leonardo era stato progettato per essere il pavimento di una chiesa. Desiderai essere spazio sacro, lo pregai, mordendomi gli occhi con le ciglia strette, di compiere in me quella rinascenza”.

Sanremo senza pubblico: la Rai cede alla scienza

Dalla ridotta dell’Ariston la Rai continua a combattere. Pur di difendere le date stabilite per il Festival, dal 2 al 6 marzo, lo stato maggiore di Viale Mazzini si è deciso a rinunciare all’ipotesi dei figuranti in platea. Il teatro – pardon, lo studio tv – sarà dunque privo di pubblico, pagato o pagante: neppure l’idea degli operatori sanitari vaccinati, di quando in quando riproposta anche dall’amministrazione comunale sanremese, sembra essere più praticabile.

Anzi, per rendere meglio l’immagine di un fortino assediato nel cuore di una città svuotata di ogni evento collaterale, i vertici della tv pubblica hanno deciso di rinunciare pure alle trasmissioni di contorno, per concentrarsi unicamente sulla diretta serale con i cantanti in gara. Nella riunione di ieri mattina, il direttore di Rai1 Stefano Coletta e l’ad Fabrizio Salini hanno esortato Amadeus a “lavorare su idee compatibili con questa impostazione”, come quella, già ventilata, dei cinque collegamenti con i teatri. Sì alle gag con Fiorello, ospiti sul palco e co-conduttrici Naomi Campbell, Elodie, Matilda De Angelis. Ma niente Agorà, Vita in diretta, Unomattina: a questo punto la trovata della nave Costa Crociere che avrebbe dovuto ospitare conduttori e tecnici e le trasmissioni stesse non ha più senso. E allora, in attesa della decisione del Comitato tecnico scientifico che nelle prossime ore valuterà il protocollo di sicurezza predisposto dai dirigenti e dagli esperti sollecitati dalla Rai, proviamo a visualizzare la Sanremo che ospiterà la rassegna.

Praticamente una Berlino Est di buona memoria, forzatamente deserta e privata di ogni senso imprenditoriale (ristoranti chiusi al tramonto, alberghi blindati, Casinò inaccessibile), con il probabile corollario di un “Muro” da erigere attorno al campo delle operazioni. Il fine è nobile: evitare ogni assembramento nei dintorni dell’Ariston, perché figurarsi se i giovani irriducibili in cerca di un autografo non tenteranno la sorte davanti agli ingressi del teatro, pur presidiatissimi dalle forze dell’ordine. Basterà, la “zona rossa”, per evitare focolai e ripercussioni sulla salute dei residenti? Se lo stanno chiedendo gli esperti del Cts: stando al segretario del Comitato, Fabio Ciciliano (che rispondeva a un intervistatore Rai) non dovrebbe esserci “uno slittamento del Festival, ma si tratta semplicemente di analizzare con precisione le attività all’interno e all’esterno del teatro. Decine di migliaia di persone raggiungono Sanremo dalla provincia di Imperia durante quelle giornate”. Anche riducendo all’osso le occasioni di incontro (da settimane è stato cancellato l’allestimento del palco sponsorizzato da Nutella in piazza Colombo) il rischio della mini-invasione resta. Resta ancora da risolvere il nodo della Sala stampa, sfrattata dall’Ariston in direzione Palafiori, dove un centinaio di giornalisti potrebbero essere accolti: il dato curioso è che in assenza di incontri in presenza con i protagonisti della kermesse, l’unico motivo per una trasferta dovrebbe essere quello del voto dei giornalisti. Faccenda forse risolvibile da remoto, con una app?

Macché: sul fronte della “regolarità del suffragio” la Rai è inamovibile. I reporter devono essere presenti, e pigiare il pulsante del telecomando ufficiale. Mentre, come conferma il caso Fedez, il regolamento resta un colabrodo. Forse vedremo 25 “teaser” sui social delle altre canzoni in gara: anche per quest’anno nessuno sarà squalificato.

Sui social leggiamo soltanto libri brutti. Gli anti-book influencer

Una concorrente del reality La pupa e il secchione (categoria secchioni) si è presentata con la valigia piena di libri (“Il peso della cultura”), compreso un titolo come Le coliche del cavallo, subito notato dagli altri. Benché i problemi gastrointestinali siano una minaccia serissima nell’universo equestre e la concorrente una veterinaria (Giulia Orazi), non si può negare che la “sacralità” intrinseca dell’oggetto libro determini un effetto comico quando accostata ad argomenti di questo tipo. Non manca un contrasto comico neanche quando il libro è talmente inutile e demenziale da entrare nella categoria “stracult”, una delle tante declinazioni del kitsch.

Su Instagram esiste “Libri brutti” dove spicca il Kamasutra a Napoli, con Pulcinella in copertina a brache calate sulle gambe pelose mentre riceve una fellatio. Le zone intime sono coperte da bollini rossi. Pulcinella in fondo deriva secondo alcuni dal Maccus, il servo delle commedie romane che poteva assumere attributi di Satiro, e i personaggi della cultura popolare sono stati oggetto di parodie pornografiche (Bianca neve e i sette negri), anche nella realtà con la transessuale brasiliana Miranda Pinocchio che vive a Napoli, ha un naso tatuato sul pene che si allunga come quando il burattino dice le bugie… Ci sono poi libri anni 80 tratti da telenovele come Dallas e Anche i ricchi piangono, ribaltamento portato agli estremi della catena di montaggio creativa secondo cui è l’opera per il piccolo o grande schermo a derivare dal testo e non viceversa.

Anche su “Libri brutti” non mancano manuali involontariamente ironici per un profano, come Il maiale macchina celere da carne e L’allevamento della chiocciola, pure questi datati (il tempo conferisce una patina patetica prima di incutere il rispetto che si deve alla storia). A proposito di rapporto tra immagine e testo, ingenuamente Le mie pastasciutte, della Sora Lella, strilla in copertina la presenza di “Tutte le ricette illustrate a colori con sequenze filmate”, cioè i fotogrammi stampati stile fotoromanzo, prima di Youtube e Masterchef, ma con il candore pretenzioso che ha la tecnologia agli albori. Comprensibile la predilezione faziosa di “Libri brutti” per le fatiche letterarie della destra più becera d’Europa (quella italiana) e dunque non poteva mancare un numero del fumetto Il leghista (in copertina un energumeno biondo affronta un tipo baffuto e scuro), o I discorsi per la democrazia di Berlusconi, teoricamente il libro più breve del mondo insieme a I grandi amatori svizzeri, Cuochi a stelle e strisce e così via.

“Libri brutti” fa da sano contraltare a tanti spazi virtuali, spalmati tra Facebook, blog eccetera, in cui ogni opera ha diritto di essere amata, secondo un politicamente corretto che impone la parità di genere tra Moccia e Goethe e nessuno può dire che cosa sia letteratura e cosa no all’insegna di “Divoro libri”, “Non riesco a smettere di leggere”. Nella lista dei classici imperdibili figurano perciò Va’ dove ti porta il cuore e Così parlò Zarathustra, ma di De Crescenzo (in realtà era Bellavista), e fioccano ogni due per tre impressioni di lettura su Cambiare l’acqua ai fiori, diventato un tormentone proverbiale (del resto, risulta essere il titolo più venduto in Italia nel 2020). Per i frequentatori di spazi virtuali sul romanzo, la fine del Natale è stata una manna perché le richieste di consigli aumentano a dicembre. Genere: “Mi suggerite un libro con protagonista una ragazzina ipovedente e un coniglio albino e l’happy ending ma senza parolacce?”. Le risposte di solito non tengono conto della domanda e spaziano da Morte a Venezia a Lolita.

Rispetto a molte recensioni “professionali” quelle dei non addetti ai lavori partono con un vantaggio: non risentono di conflitti di interessi e prevedono (in teoria) la lettura completa del testo, ma spesso dimostrano che questo impegno gravoso è necessario e non sufficiente, anche a causa del pudore protestante di rivelare la trama ovvero “spoilerare”. Come se sapere che Anna Karenina si butta sotto al treno possa essere un deterrente alla lettura. Punto di riferimento sono i “book-influencer”, categoria che di solito compare articolata in una classifica di 10/12 nomi e riflette la volontà di strafare per vincere la scarsa attitudine alla lettura e il grigiore del fattore libro. Come nella foto di Emanuela Sorrentino (@manumomelibri), un libro in testa al posto del cappello nel profilo Instagram e una dichiarazione d’intenti “creo eserciti di lettori”; o nel blog WordPress “libri, libri ovunque!”. Non mancano occasioni in cui gli spazi virtuali dissacrano invece di sacralizzare, come nel post con più di mille commenti in cui si storpiavano i titoli dei romanzi: Cent’anni da soli a Udine, Il giardino dei Finti Pompini e così via (credo fosse la pagina Facebook “Leggo letteratura contemporanea”, 120 mila utenti), invece di cambiare l’acqua ai fiori.

Galline, religione, sesso: viaggio alla fine del mondo

Pubblichiamo ampi stralci della postfazione di Giulia Bignami al libro “Lettere dalla fine del mondo” che sarà in edicola giovedì.

Si prendano un neuroscienziato X e uno scrittore Y su un pianeta a caso, tipo QAR C1122-13 c, di una galassia qualsiasi, tipo quella di Andromeda. E mettiamo che X e Y decidano di scrivere insieme un libro per esporre e confrontare le loro idee su argomenti importanti in ordine sparso come: vita, natura, memoria, morte, galline, religione, sesso, anima, scienza, donne, letteratura, arte, eccetera. Mettiamo anche che X e Y abbiano un’amica comune, Z, offerta volontaria per rileggere e dare pareri, in qualità di cavia di questo assurdo esperimento. Logica vorrebbe che, per prima cosa, X e Y cercassero di mettersi d’accordo su un indice delle idee e degli argomenti, su un formato in cui organizzare il tutto, su un titolo che sia giustamente riassuntivo dell’impresa e, soprattutto, ascoltassero i pareri e i consigli di Z. Invece, dato che non siamo nella galassia di Andromeda, ma più banalmente nella Via Lattea, e più specificatamente sulla Terra, dove X = Giorgio, Y = Massimiliano e, sfortunatamente (per loro), Z sono io, ecco, niente di tutto questo è successo.

Chi sono Giorgio e Massimiliano? Sulla Terra non hanno bisogno di molte presentazioni. Giorgio Vallortigara è professore di Neuroscienze e ha fatto dello studio di cervelli e comportamenti animali la carriera di una vita. Massimiliano Parente si definisce, come scrittore, il meglio che l’evoluzione abbia prodotto negli ultimi quattro miliardi di anni e per questo, attraverso le sue opere, ha fatto della distruzione dell’umanità la battaglia di una vita. Che cosa li accomuna? Se dovessi rispondere onestamente direi la follia, ma per fortuna non devo. La risposta, quindi, è il loro comune approccio scientifico alla spiegazione dei comportamenti degli uomini, come quelli degli altri animali. La ricerca di un comune denominatore biologico con cui sezionare le credenze, superstizioni o religioni, distruggendo ogni possibile traccia di speranza rimasta al povero lettore. Legittimamente, ci si potrebbe anche chiedere perché ci sia di mezzo io in questo sgangherato progetto e sarei felice di dare una dotta spiegazione, ma non la so neanche io. Tanto per cominciare non si capiva come dovesse essere strutturato questo libro. Il grande piano era quello di fare una trascrizione delle loro telefonate che (cito uno dei due, non mi ricordo chi) “sono talmente belle e intelligenti che fanno di già un libro” (A pensarci bene, data l’intrinseca modestia che traspare, credo si tratti di una frase di Massimiliano, ma non è importante, andiamo avanti). Ho avuto, diciamo, il piacere di ascoltare molte di queste telefonate (spesso mentre facevo ginnastica, riuscendo a turbare entrambi con quello che per me era normale fiatone, ma per loro provocante ansimare) e posso confermare che alcune sono state molto belle, ma la maggior parte sono state fondamentalmente deliranti. Inclusa una abbastanza recente in cui un Giorgio molto freudiano, è persino riuscito a ottenere da Massimiliano una confessione riguardo a traumi infantili causati da una certa, cattivissima, suor Rosamelia, che credo spieghi molte cose.

Comunque, entrambi si sono subito trovati d’accordo su questo piano, ma essendo tecnologicamente arretrati, non avevano la minima idea di come farlo funzionare. A quel punto si trattava di cercare un modo per registrare e mettere in forma scritta un loro dialogo, che rispecchiasse il ritmo e i contenuti dei loro dibattiti telefonici. O meglio, quello sembrava il piano fino a che il demone letterario non si è impossessato di uno dei due (chissà chi), spingendo a un cambio completo di formato da un dialogo a un epistolario. Quando ho chiesto il perché di questo repentino cambio non programmato, mi è stato detto che in questo modo si dava molta più dignità letteraria al libro. Io ho obiettato che, però, si sarebbe persa la dinamica molto interessante che i loro dialoghi avevano, ma mi è stato fatto capire di non rompere le palle.

Siccome Giorgio e Massimiliano non avevano ancora bene idea di quali argomenti avrebbero trattato nel libro (per carità, un indice è da dilettanti), hanno giustamente pensato che la cosa migliore da fare fosse mettersi a battagliare su un possibile titolo. E, per farla breve, questo libro, ancora prima di esistere, di titoli ne aveva già almeno tre: prima Nati per morire (che a me piaceva moltissimo e per questo è stato immediatamente silurato), poi Dialoghi tra uno scrittore e un neuroscienziato (vastamente troppo ovvio e banale) e quindi Lettere dalla fine del mondo (approvato perché giudicato da entrambi ottimista al punto giusto).

Arrivati al fatidico punto dell’inizio della scrittura, sono abbastanza sicura che X e Y, su QAR C1122-13 c, si sarebbero principalmente preoccupati di quali argomenti trattare per primi, di come mantenere la giusta consequenzialità delle lettere e di come fare incontrare o scontrare le loro idee. Ovviamente, non è stato così sulla Terra per Giorgio e Massimiliano anche se, dovendo ognuno mantenere le rispettive parti del grande professore e del grande scrittore, non lo ammetteranno mai. Quali dovrebbero essere le loro risposte a un’ipotetica intervista per la pubblicazione di Lettere dalla fine del mondo, se fossero sinceri? Diciamo che se la domanda fosse del tipo: qual è stata la sfida più grande incontrata nel fondere i punti di vista di uno scrittore e di uno scienziato in un’unica opera? Loro dovrebbero rispondere così:

Giorgio: “Convincere Massimiliano a usare il più ragionevole formato di file .doc invece che .rtf”.

Massimiliano: “Riuscire a far scrivere Giorgio nell’unico font accettabile, Times New Roman”.

Lipa, eurodeputati visitano i migranti. Ira della Croazia

La Croazia ha alzato i toni e ha accusato di “provocazione” gli eurodeputati Pd bloccati sabato scorso per diverse ore al confine con la Bosnia nel corso di una missione per verificare le condizioni di vita dei migranti nei campi profughi a Bihac. Zagabria ha definito la loro visita un “tentativo di screditare la reputazione” del Paese e ha parlato di “ennesima provocazione contro la polizia croata”. Le dichiarazioni infuocate del ministro degli Interni croato, Davor Bozinovic, hanno scatenato la reazione indignata dei dem che si sono detti “sorpresi”: “Ci aspettavamo delle scuse per averci impedito di fare il nostro lavoro” e “non delle false accuse”. Secondo la polizia croata i quattro europarlamentari – Brando Benifei, Pietro Bartolo, Alessandra Moretti e Pierfrancesco Majorino – non si sarebbero presentati a un valico di confine regolare, ma avrebbero tentato di attraversare la frontiera in uno dei punti usati dai migranti per entrare in Europa attraverso la Croazia. Secondo Bozinovic nessuno di loro aveva un permesso “poiché non esiste la possibilità di rilasciare permessi per attraversare i confini in modo illegale”. La Croazia si rivolgerà all’Europarlamento, mentre la polizia locale ha aperto anche un’inchiesta. Per Zagabria sembra che l’intenzione fosse di “fare una performance al confine, dato che nelle stesse ore era stato notato anche uno spostamento di un gruppo di migranti verso il punto dove gli eurodeputati avrebbero voluto entrare in Bosnia”. Accuse rispedite al mittente. “Possediamo foto, audio e video che provano che siamo stati fermati quando ancora lontani dal confine, per impedire la nostra ispezione”, hanno ribattuto gli eurodeputati, precisando di avere informato le autorità croate della loro visita “con adeguato anticipo”. Una tensione politica dai toni bellicosi che apre uno squarcio sul dramma dei profughi ammassati nel campo.

“La Cina non è contenta: a loro The Lady piaceva”

Dal 2017 Champa Patel dirige l’Asia Pacific Program del prestigioso centro di studi geopolitici londinese Royal Institute of International Affairs, noto come Chatham House. Negli anni precedenti ha diretto la sezione del Sud-Est asiatico di Amnesty International.

Cosa ha fatto implodere il difficile compromesso fra la National League for Democracy al governo e i militari, che ha retto per oltre un decennio?

Fin dalla prima fase della graduale transizione dalla dittatura militare al “regime democratico”, nel 2008, il Tatmadaw, le forze armate birmane, si sono tutelate dalla perdita di potere imponendo una Costituzione che garantisce loro il 25% di rappresentanza in entrambi i rami del Parlamento. Quando, lo scorso novembre, le elezioni hanno visto una vittoria senza precedenti del governo civile, è stato subito chiaro il rischio che i militari intervenissero per sostenere il proprio ruolo. Il fatto che Aung San Suu Kyi abbia consolidato il proprio consenso, ha aggravato il loro senso di insicurezza, scatenando la reazione.

Quali sono le implicazioni di questo colpo di Stato nella regione?

Non mi aspetto dalla Cina che sia favorevole, perché Pechino ha sviluppato ottime relazioni con Aung San Suu Kyi, rese più salde dalla risposta dei governi occidentali alla sua gestione della crisi dei Rohingya. Al contrario, i militari sono visti dalla Cina come più autonomi e orientati a controbilanciare l’influenza cinese. E questo crea un dilemma: dato questo contesto, che tipo di pressione può esercitare Pechino? Sotto la giunta militare il paese era isolato e soggetto a sanzioni, ma questo ha avuto un impatto limitato sull’esercito, e nulla fa pensare che adottare le stesse tattiche possa impedire al Tatmadaw di imporre di nuovo un regime militare. Quanto alle altre nazioni della regione, faranno il solito balletto: parleranno di un “problema interno”, molto “preoccupante” ma, come è stato chiaro nel caso della crisi dei Rohingya, è improbabile che mettano in campo azioni significative. Sarà l’ennesima dimostrazione di quanto i Paesi del sud-est asiatico siano incapaci di affrontare adeguatamente i problemi della regione.

Aung San Suu Kyi è molto popolare fra la popolazione birmana, a maggioranza buddista, ma è una figura controversa in occidente per il suo ruolo nel genocidio della minoranza musulmana dei Rohinga. Questo può influenzare la reazione della comunità internazionale?

Kyi è stata giustamente criticata per la risposta a quella crisi, ma chiunque abbia a cuore la democrazia dovrebbe essere allarmato per il colpo di Stato in Birmania. Non stiamo parlando solo di repressione politica. I militari hanno arrestato anche il regista Min Htin Ko Ko Gyi. Gli ultimi sviluppi dimostrano quanto la transizione democratica sia stata superficiale.

Come si esce da una situazione in cui la leadership confermata alle urne dalla gran parte della popolazione è in arresto?

Dipende dai birmani. Aung San Suu Kyi è criticata dalla comunità internazionale ma molto amata in patria, e dalla detenzione ha già fatto appello ai connazionali perché scendano in piazza a protestare. Anche i suoi oppositori, e perfino i diversi gruppi etnici del Paese, si oppongono all’esercito, che disprezzano, e non vogliono il ritorno a un regime militare.

Da cadetto insignificante al ruolo di nuovo dittatore

“È un ragazzo molto intelligente perché ha calcolato correttamente che potrebbe commettere una pulizia etnica e farla franca”. Neanche Mark Farmaner, osservatore di lungo corso del Myanmar e direttore della Burma Campaign Uk, avrebbe potuto immaginare nella sua intervista del 2017 al Time che quel ragazzo, per la storia il generale Min Aung Hlaing, non solo l’avrebbe fatta franca, ma tre anni dopo avrebbe preso il potere spodestando “la signora” Aung San Suu Kyi. L’osservatore inglese su una cosa aveva visto giusto: “Hlaing è un generale sottovalutato”.

Nominato comandante in capo nel marzo del 2011, la biografia del 64enne che porta avanti il Tatmadaw – il ministero della Difesa – è molto scarna, ridotta quanto la sua iniziale esposizione. Stando al racconto di un suo ex compagno di classe alla Reuters, trattasi di caso inspiegabile di successo. Cadetto insignificante, ammesso all’Accademia della Difesa d’élite al terzo tentativo, Min Aung Hlaing ha avuto un’ascesa lenta, ma inesorabile. Ha trascorso gran parte della sua carriera nell’esercito combattendo i ribelli al confine orientale del Myanmar, in scenari noti per gli abusi sulle minoranze etniche. Nel 2009 supervisiona le operazioni militari lungo il confine con la Cina: l’obiettivo è annientare l’uomo forte della regione, Pen Jiasheng. Lo scontro dura una settimana, gli vale l’etichetta di efficiente e porta a casa la vittoria: spegnere una polveriera lungo una delle principali rotte commerciali per il Myanmar. I governi occidentali lo vedono di buon occhio, nei confronti di Min Aung Hlaing prevale l’entusiasmo generale: ha capacità di statista, riporterà il Tatmadaw nelle caserme. In realtà il futuro comandante in capo, che scopre un grande carisma, sta solo mettendo in atto la sua strategia politica teorizzando la necessità di un coinvolgimento dei militari al governo. “Per un esecutivo civile a pieno regime potrebbero volerci 5 o anche 10 anni”, confessa alla Bbc nel 2015, pochi mesi prima delle elezioni che incoroneranno Suu Kyi. Dalla sua, la Costituzione del 2008 che ha sancito l’autonomia dei soldati, ma ha rafforzato i poteri del “comandante supremo delle forze armate”, permettendogli di agire da arbitro finale degli affari militari e anche del processo democratico. In un governo ibrido, sta a Hlaing, nel frattempo assurto a unico comandante in capo a partecipare alla Giornata dei Martiri, valutare se l’esperimento democratico va fuori strada ed esercitare il diritto di assumere il potere.

Nel governo con Suu Kyi, la quale ha combattuto i generali dall’opposizione, si rivela imprescindibile. Indossati gli abiti civili, gli impegni pubblici di Min Aung Hlaing raddoppiano e per testimoniarlo si fa un sito e un profilo Facebook con 1,3 milioni di follower attraverso i quali lancia la sua immagine in contemporanea con l’offensiva contro la minoranza musulmana nel 2017. Sulla scena internazionale, secondo le fonti Reuters, sostiene di voler evitare per il suo Paese il caos della Libia o del Medio Oriente. Per il mondo, Min Aung Hlaing non è un paria, nonostante il genocidio Rohingya e le sanzioni internazionali. Si vede in compagnia di ambasciatori e rappresentanti di Stati Uniti, Europa, Nuova Zelanda, Giappone, India, e, non ultimo, della Cina. È dell’anno scorso il suo incontro con il leader cinese Xi Jinping a Pechino, il primo in 19 anni. Nel frattempo Hlaing si è allungato il mandato di 5 anni, sorprendendo chi si aspettava un passo indietro. Poi sono arrivate le denunce di irregolarità elettorali da parte dell’esercito nel voto dell’8 novembre. E il generale sottovalutato ha iniziato a lanciare segnali criptici sull’abolizione della Carta, ostacolo ultimo verso l’ascesa.

È un film già visto: Suu Kyi in carcere e militari al potere

I militari birmani si sono mossi all’alba di lunedì, arrestando la leader di fatto del governo, Aung San Suu Kyi, i vertici del suo partito, la National League for Democracy (NLD), fra cui il presidente in carica Win Myint e una quarantina di parlamentari, e almeno 16 attivisti per la democrazia in Myanmar. I militari avrebbero anche preso il controllo dei loro account social. Nel frattempo veicoli armati occupavano le strade della capitale Naypyitaw e della città principale Yangon; fuori uso le tv di Stato e le connessioni telefoniche e Internet. I raid sono scattati poche ore prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, dopo le elezioni dello scorso 8 novembre (le seconde dalla fine di 50 anni di dittatura militare, nel 2011) in cui il governo guidato dalla NLD ha ottenuto una maggioranza dell’83%: risultato interpretato come un referendum a favore della leadership di Aung San Suu Kyi e come una intollerabile minaccia al potere dei militari.

Le forze armate hanno giustificato il colpo di Stato parlando di elezioni invalidate da brogli elettorali, di cui non ha però fornito evidenze: “La Commissione elettorale non è riuscita a venire a capo di grosse irregolarità nelle liste elettorali” ha dichiarato l’ex generale Myint Swe. Accuse del tutto prive di fondamento, secondo Phil Robertson, vicedirettore di Human Rights Watch (HRW) in Asia. “È una cosa trumpiana, tutte queste accuse di brogli senza prove”. Nella giornata di ieri i militari hanno imposto lo stato di emergenza di un anno e creato un governo ad interim, affidandone la guida al generale Min Aung Hlaing. La nuova giunta ha rimosso 24 ministri, sostituendone 11 per i dicasteri principali, fra cui Finanze, Difesa, Esteri e Interni. Contemporaneamente, Min Aung Hlaing prometteva nuove elezioni “libere e giuste” e il rispetto del risultato, senza indicare quando dovrebbero tenersi. Per ostentare una parvenza di normalità, il nuovo governo ha reintegrato i giudici della Corte Suprema e le alti corti regionali, così come i membri della Commissione nazionale anticorruzione e di quella dei diritti umani. Imposto anche il coprifuoco dalle 20 alle 6 in tutto il Paese. Su Facebook è apparso un appello attribuito a Aung San Suu Kyi e preparato in previsione dell’intervento militare: “Chiedo con tutto il cuore alla gente di non accettare tutto questo, di opporsi e di protestare contro il colpo di Stato” che “riporterebbe il Paese alla dittatura” e la fine del sogno democratico birmano. Non è chiaro se ci siano stati scontri fra i militari e la popolazione, ma sui social media circolano le immagini di un giornalista con il volto insanguinato dopo essere stato picchiato mentre documentava una marcia di sostenitori del regime a Yangon. Richieste di aiuto e solidarietà internazionale si sono diffuse ieri sui social, con hashtag #SaveMyanmar, #SaveAungSanSuuKyi, #RejectTheMilitary. La protesta si è spostata nella confinante Thailandia: a Bangkok una folla di residenti di origine birmana si è radunata davanti all’ambasciata, chiusa, per dare sostegno a distanza alla causa democratica, tanto che anche il governo thailandese ha imposto il coprifuoco nella Capitale dalle 22 alle 5. Le Nazioni Unite hanno chiesto il rilascio dei detenuti e il ristabilimento della democrazia, seguite da Unione europea, Regno Unito, India, Giappone e Australia. Il neo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è andato oltre, minacciando il ritorno delle sanzioni ritirate nell’ultimo decennio. Più sfumata la posizione cinese: nessuna condanna ma un invito rivolto a entrambe le parti, a rispettare la Costituzione birmana (scritta dai militari e che assegna alle forze armate il 25% dei rappresentanti di ognuno dei due rami del Parlamento) e a preservare la stabilità.

L’arte della guerra (in tempo di pace)

Cinquecento anni fa, usciva a Firenze, per gli eredi di Filippo Giunta, Dell’arte della guerra, l’unica grande opera politica di Machiavelli, che vide la luce quando l’autore era ancora in vita. I libri che lo hanno reso famoso, Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, furono stampati dopo la sua morte (1527), nel 1532 e nel 1531.

La scrisse fra il 1519 e il 1520, incoraggiato dai giovani aristocratici fiorentini che frequentavano gli ‘Orti Oricellari’, il cenacolo intellettuale che si riuniva nei giardini di Palazzo Rucellai. In quei giovani – alcuni memori della predicazione di Savonarola, altri di fervide idee repubblicane, altri ancora, come Lorenzo di Filippo Strozzi, a cui Machiavelli dedica il libro, sostenitori dei Medici, tutti amanti della cultura classica e impazienti di coniugare gli studi umanistici e l’impegno civile – Machiavelli, già avanti negli anni (era nato nel 1469), crede di trovare animi generosi capaci di tradurre le sue idee in concrete riforme istituzionali e in nuovi e migliori ordini militari.

L’Arte della Guerra rinfrescò la reputazione di esperto di cose militari che Machiavelli aveva già consolidato quando, Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica Fiorentina dal 1498 al 1512, seguiva la politica estera. In quegli anni aveva accumulato una notevole esperienza su tutti gli aspetti dell’arte della guerra: aveva scritto relazioni dettagliate sull’organizzazione, l’armamento, le dimensioni, il morale dei più importanti eserciti del suo tempo; per due mesi, nell’estate del 1500, aveva accompagnato i commissari fiorentini che governavano le operazioni militari contro Pisa; nel 1502 era andato in missione presso il duca Valentino, Cesare Borgia, eccellente comandante; più volte fu inviato al campo che i Fiorentini avevano messo attorno a Pisa per soggiogarla; nella speranza di liberare Firenze dalla piaga delle milizie mercenarie, persuase i governanti fiorentini a istituire una milizia composta da sudditi del contado; aveva seguito di persona l’addestramento degli uomini destinati a far parte della milizia e aveva scelto i capitani; partecipò attivamente alle operazioni militari che portarono alla conquista di Pisa (4 giugno 1509); fino agli ultimi mesi del governo popolare cercò di reclutare fanti e organizzare la milizia a cavallo. Nell’Arte della Guerra aveva dunque distillato la sua diretta esperienza, ripensata, come in tutte le sue opere politiche, alla luce degli storici antichi e moderni.

Grazie al rinnovato prestigio come esperto di cose militari, e all’aiuto di Lorenzo di Filippo Strozzi, Machiavelli ottiene, nell’aprile del 1526, l’incarico di provveditore e cancelliere dei Procuratori delle mura di Firenze, con l’esplicita indicazione di rafforzare le difese della città in vista dell’attacco delle milizie di Carlo V. Oltre a favorire il suo ritorno in Palazzo Vecchio, l’Arte della guerra rafforzò la sua fama post mortem. Ristampata ventuno volte nel Cinquecento, fu tradotta in francese, inglese, tedesco e latino. Sulla sua reputazione pesò tuttavia la storia che raccontò Matteo Bandello (1485-1561) frate domenicano, cortigiano e novelliere di buon valore. Nell’estate del 1526 Machiavelli era in missione, per conto di Francesco Guicciardini, presso Giovanni de’ Medici, il comandante militare che più di ogni altro ammirava. Incoraggiato dal condottiero, Machiavelli provò a ordinare le truppe secondo gli schemi che aveva descritto nell’Arte della guerra e che parevano buoni e facili da applicare. Sulla carta. Sul campo le cose andarono però in maniera diversa. “Messer Niccolò”, scrive il Bandello, “quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinare tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto, e mai gli venne fatto di potergli ordinare”. A por fine al tormento intervenne Giovanni de’ Medici. Disse a Machiavelli di mettersi da parte e lasciar fare a lui. In un “batter d’occhio”, con l’aiuto dei tamburini, Giovanni ordinò quelle genti in vari modi “con ammirazione grandissima” di chi assisteva alla prova. La storia dimostra, commenta il Bandello, “quanta differenzia sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messo le mani, come dir si suole, in pasta”.

Ma non è per imparare come schierare e muovere truppe che dobbiamo rileggere l’Arte della guerra. Il più utile insegnamento che Niccolò ci ha lasciato è l’aureo principio “amare la pace e saper fare la guerra”. Una repubblica che vuole rimanere libera ha bisogno di buone leggi e di buone armi. Senza buone forze armate le repubbliche si corrompono, come “l’abitazioni d’uno superbo e regale palazzo, ancora che ornate di gemme e d’oro, quando, sanza essere coperte, non avessono cosa che dalla pioggia le difendesse”. E buone sono le forze armate formate da ufficiali e soldati che la guerra, compresa ai nostri tempi la guerra al terrorismo, la sanno fare, ma non cercano di turbare “la pace per avere guerra”.

Altrettanto utile è l’esortazione a non dimenticare che la vita civile e la vita militare devono essere “unite” e “conformi” l’una all’altra. Chi porta le armi non è al di sopra della Costituzione e delle leggi. È tenuto a rispettare e a difendere l’una e le altre. Ha doveri di lealtà e di disciplina più rigorosi di quelli ai quali sono tenuti i cittadini che non servono la patria in armi. Pare proprio che la nostra Costituzione abbia voluto tradurre in norma la saggezza di Machiavelli quando ha stabilito che “L’ordinamento delle Forze armatesi informa allo spirito democratico della Repubblica” (art. 52).

Ma da leggere è soprattutto la pagina in cui Machiavelli auspica che i giovani che leggeranno i suoi scritti possano aiutare l’Italia a rinascere dalla corruzione e dalla servitù: “Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che, essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piacciano, ai tempi debiti, in favore de’ vostri principi, aiutarle e consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura”. Sarebbe bello, se queste fossero le parole di una profezia che si avvererà, come si è avverata in passato.