“Woodcock punito dal Csm? Un segnale a un pm scomodo”

“Sì, questi passaggi nel mio libro non ci sono. Ho introdotto degli argomenti, non ho messo tutto”. Ieri chi vi scrive, autore del libro Magistropoli (edizioni Paper First), si è confrontato con Luca Palamara, protagonista del libro intervista Il Sistema (edito da Rizzoli). A moderare il dibattito online il vicedirettore del Fatto Marco Lillo. Tra gli argomenti trattati, quello sul procedimento disciplinare al pm Henry John Woodcock, condannato dalla consiliatura del Csm successiva a quella di Palamara: fu punito per aver rilasciato un’intervista a Repubblica – mai autorizzata – e poi assolto dalla Cassazione.

Ne “Il Sistema” Palamara si sofferma solo su un punto della vicenda: sostiene – ma il pm Giuseppe Cascini l’ha già smentito più volte – che il 5 luglio 2018 (…) “Cascini mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare (…) mi parla di un’intercettazione tra Legnini, vicepresidente del Csm e quindi arbitro della contesa, e l’onorevole Cirino Pomicino, in cui Legnini parla molto male del pm napoletano, in possesso dello stesso Woodcock, che è intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti (…)”. Cascini ha negato di aver mai parlato dell’intercettazione, della quale ignorava l’esistenza e ha annunciato che adirà le vie giudiziarie. Ma passiamo a ciò che nel suo libro intervista Palamara non dice. Palamara ieri non si è sottratto né alle obiezioni né alle domande. Ha anche sostenuto che intende parlare, di questo e altro, se sarà convocato, dinanzi alla Prima commissione del Csm e alla commissione antimafia. Ha aggiunto: “La condanna di Woodcock a mio avviso è stata un segnale. La mia è solo una valutazione ma ritengo che si trattò di un segnale per dire: ‘smetti di fare le indagini in quel modo’”. Se gliene chiediamo conto è per via di una frase scritta nelle sue chat: quando nel 2019 Woodcock viene condannato, commentando con un collega la sentenza, Palamara scrive: “Segnale per lui”. Adesso sappiamo cosa Palamara intendesse con quelle parole. Ma andiamo avanti.

Nel luglio 2017, quando era nella Prima commissione del Csm, competente sull’eventuale incompatibilità ambientale di Woodcock a Napoli, riferisce in diretta all’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, l’andamento delle audizioni. E Woodcock era indagato (poi sarà prosciolto) proprio dalla procura guidata da Pignatone, per rivelazione del segreto d’ufficio per le fughe di notizie sui primi scoop del Fatto sull’inchiesta Consip. Ieri Palamara ha spiegato: “Nei mesi precedenti, prima dell’indagine, ero stato a cena con Pignatone e Luca Lotti”. A detta di Palamara le cene con poche persone si sarebbero tenute a casa dell’avvocato Paola Balducci. Poi Lotti sarà indagato nell’inchiesta Consip, con l’accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto. Palamara continua: “In quel periodo parlo con Pignatone anche dell’arrivo del fascicolo Consip che riguardava Lotti”. Quindi giunge al suo ruolo al Csm: “All’epoca ero vice presidente della Prima commissione del Csm e tra i miei compiti c’era quello di indagare su fughe notizie che avevano riguardato i fascicoli Cpl Concordia e Consip. Già dal 2016, sia in virtù della mia provenienza dalla procura di Roma, sia per il mio ruolo, c’era un’interlocuzione con Pignatone. L’iscrizione di Woodcock nel registro degli indagati mi lasciò molte perplessità: indagava su Consip ed era indagato dall’ufficio con cui si coordinava. Ne discutevo con Pignatone, con il quale c’era un confronto costante, anche in riferimento a quel che accadeva in prima commissione. L’iscrizione aveva alterato i rapporti tra gli uffici di Napoli e Roma e c’era molta attenzione a comprendere quel che avveniva nelle audizioni”.

Abbiamo chiesto al procuratore Pignatone se sul punto volesse precisare qualcosa ma ha preferito non replicare.

A Palamara abbiamo chiesto conto anche di una chat agli atti. Perché il consigliere Lucio Aschettino gli scrive “Così Francesco (Cananzi, membro del Csm, ndr) fotte Sirignano (Cesare, magistrato che con Woodcock era titolare del fascicolo Cpl Concordia, ndr) io per questo non ho posto l’accento”? E perché Palamara gli risponde: “Non preoccuparti correggo io”? “Fottere” o non “fottere” Tizio o Caio è il modo corretto di condurre un’audizione? Palamara risponde: “L’indagine che facciamo è per capire se ci fu una fuga di notizie da parte dei magistrati di Napoli”. La fuga di notizie teorica non c’era però. Lo scoop del Fatto su un’intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della GdF Michele Adinolfi, infatti, “Non era un notizia riservata e segreta” spiega Palamara “perché era allegata all’informativa su Cpl Concordia. (…) Aschettino in sostanza mi dice: ‘occhio, che se Cananzi fa queste domande, cioè va verso questa direzione, mette nei guai Sirignano, che avrebbe dovuto evitare che la notizia diventasse pubblica da titolare del fascicolo’”.

 

Covid, Bergamo chiede pm. “No” del Csm

“Pensavo arrivasse qui da noi almeno qualcuno dei 300 magistrati in tirocinio, ho scritto due volte al Csm e non mi hanno mai risposto. Invece hanno riempito l’organico a Cuneo, hanno mandato più di 30 magistrati in Calabria…”. È la garbata protesta del procuratore di Bergamo, Angelo Chiappani, il cui ufficio si avvia a concludere l’indagine sui presunti ritardi e le presunte omissioni che avrebbero favorito il dilagare del Covid-19. Nella Bergamasca l’eccesso di mortalità, tra marzo e aprile, è stato calcolato al 464 per cento, il dato peggiore in Europa secondo il Financial Times. Dall’ospedale-focolaio di Alzano Lombardo alla zona rossa che non fu istituita, dalla gestione delle residenze per anziani alla mancata applicazione del piano pandemico nazionale e di quello lombardo, e al rapporto dell’Oms poi ritirato: centinaia di denunce, 800 solo quelle di infortuni sul lavoro, migliaia di pagine. Ci lavorano il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e quattro pm. “Ma nell’ufficio ne mancano cinque su 18, il 27 per cento,” spiega Chiappani.

Al Consiglio superiore della magistratura hanno ricevuto le sue lettere, ma la Procura di Bergamo non è l’unico ufficio giudiziario in difficoltà e l’emergenza può essere risolta anche dalla Procura generale di Brescia. Lo ipotizza il consigliere del Csm Ciccio Zaccaro, presidente della Terza commissione, che si occupa, tra l’altro, della mobilità dei magistrati. “Ai colleghi e cittadini di Bergamo va tutta la mia solidarietà – dice al Fatto il presidente Zaccaro –, ma purtroppo la coperta è corta. Le scoperture in primo grado sono moltissime, oltre 500, e a causa della pandemia i concorsi per magistrati hanno subito un rallentamento. Situazioni come quella di Bergamo, ossia emergenziali, che impongono un rinforzo a tempo per svolgere certe indagini e certi processi, potrebbero essere fronteggiate grazie all’istituzione, voluta dal ministro della Giustizia Bonafede, delle cosiddette piante organiche flessibili, non ancora in vigore: un contingente di magistrati per ciascuna Corte d’appello e destinato a essere assegnato, per un periodo di tempo limitato, agli uffici di un distretto in particolare difficoltà. In alternativa – prosegue – si potrebbe ricorrere all’istituto dell’applicazione infradistrettuale, ossia il procuratore generale, in questo caso di Brescia, si potrebbe applicare colleghi requirenti del distretto alla Procura di Bergamo oppure lo stesso Pg potrebbe chiedere al Consiglio applicazioni extra distrettuali: in quel caso il Csm può indire un bando straordinario in cui chiede se ci siano magistrati che vogliono andare temporaneamente a Bergamo”. Insomma, dovrebbe pensarci il procuratore generale di Brescia, Guido Rispoli, che all’inaugurazione dell’Anno giudiziario ricordava proprio le inchieste sulla pandemia e come “dal territorio si levi sempre più forte la voce dalla popolazione che legittimamente chiede, anzi esige che la magistratura requirente faccia la propria parte nell’accertamento dell’eventuale rilevanza penale di tutta una serie di vicende”.

Morandi, un cavillo hi-tech fa allungare subito i tempi

Il processo per la strage per il Ponte Morandi parte subito con un ritardo. I periti del giudice non avevano messo a disposizione delle difese le “chiavi” del software che ha consentito loro di effettuare i calcoli sulla resistenza del viadotto e di valutare la risposta dei tiranti corrosi che avrebbero scatenato il collasso. Una questione tecnica, su un aspetto però fondamentale. Dopo una mattinata persa in discussioni, con toni anche molto accesi, il giudice ha dovuto cedere alle richieste delle difese. Il programma, un software brevettato dagli stessi periti (restii a diffonderlo per “ragioni di copyright”), sarà messo a disposizione dei legali. E alle difese saranno concesse due o tre settimane per studiarlo. Insomma, l’imprevisto ha smorzato la grande attesa che incombeva sull’incidente probatorio di Genova.

I familiari delle vittime auspicano che il contrattempo non si traduca in ritardi eccessivi: “I giudici stanno facendo un lavoro enorme, spero che il rinvio non appesantisca troppo le udienze”, ha commentato Emanuel Diaz Henao, che il 14 agosto del 2018 ha perso il fratello Henry. Mentre la presidente del Comitato dei familiari delle vittime, Egle Possetti, è intervenuta sull’incertezza generata dalla crisi di governo e sul rischio che la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia scompaia dall’agenda del prossimo esecutivo: “È assurdo e scandaloso che a due anni e mezzo di distanza dalla strage di Genova chi gestiva quel viadotto non sia stato minimamente penalizzato – ha spiegato al Fatto –. Ci era chiaro fin dall’inizio che una parte della politica era contraria a questa strada, chi per paura, chi per motivi meno nobili. Sul piano penale sarà il processo ad accertare le colpe. Sul piano morale per noi Aspi è già responsabile”. È stata un’udienza lunga e spigolosa quella di ieri. E forse è solo un antipasto del processo che sarà.

Settantuno imputati, centinaia di avvocati ed esperti. Questioni tecniche e giuridiche complesse, in alcuni casi eccezioni destinate a ripresentarsi in ogni grado di giudizio. A partire dallo spacchettamento dell’incidente probatorio: la prima metà ha riguardato lo stato dei materiali e dei reperti; la seconda le origini del crollo. Alcuni difensori hanno già obiettato che gli atti condotti nella prima fase, davanti ai primi 21 indagati, non possono essere riversati nella seconda, in cui i potenziali responsabili sono diventati 71 (il più noto, l’ex amministratore Giovanni Castellucci, che ieri non era presente in aula). Un’osservazione respinta dal gip Angela Nutini, destinata probabilmente a essere riproposta fino in Cassazione.

La discussione riprenderà dunque dalle conclusioni della perizia del tribunale: il Ponte Morandi è crollato per la corrosione della sua anima di metallo. Il deterioramento, secondo gli esperti, era già noto dagli anni Settanta. E la colpa è di chi non ha effettuato la manutenzione dovuta e porta dritto all’incriminazione della concessionaria. Questa sequenza logica è condivisa sia dai consulenti della Procura che dagli esperti incaricati dalle parti civili. Mentre va in segno opposto la relazione di Autostrade per l’Italia e di Spea, la società controllata dello stesso gruppo che aveva il compito di monitorare le infrastrutture. Ad assistere all’udienza di ieri c’erano i familiari di cinque vittime (tra loro Roberto Battiloro, padre di Giovanni, e Barbara Bianco, compagna di Andrea Cerulli), decisi a non accettare le offerte di risarcimento di Autostrade per far valere le loro ragioni nel processo: “Non baratto la vita di mio figlio”, ha commentato Battiloro. Un tema – quello dell’accettazione o del rifiuto dei risarcimenti – che divide le famiglie, come accaduto in altri processi, come quello per la strage di Viareggio.

“Stiamo valutando l’ipotesi di costituirci parte civile anche come Comitato delle vittime – ha spiegato ancora Possetti – in modo da consentire a tutti di avere una voce nel processo. Per noi è fondamentale che le vittime abbiano questa possibilità”. L’incertezza che pesa sul governo preoccupa: “La revoca della concessione, insieme alla giustizia, erano a nostro avviso già i temi più divisivi – aggiunge Possetti –. Al prossimo presidente del Consiglio, chiunque sarà, torneremo a chiedere di andare avanti con la revoca della concessione. Un senatore, di cui preferisco non dire il nome, ci ha invitato a occuparci solo dei processi. Dopo quello che è accaduto ci sembra invece fondamentale rivedere le cause profonde che hanno portato a questa tragedia”.

 

Derivati di Stato, la Cassazione ora riapre il processo contabile agli ex dirigenti del Mef

Torneranno a giudizio davanti alla Corte dei Conti gli ex ministri dell’Economia Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco, e gli ex alti dirigenti del Tesoro Maria Cannata (ex responsabile del debito pubblico) e Vincenzo La Via (ex direttore generale del ministero) per la vicenda dei derivati di Stato con Morgan Stanley. Lo ha deciso ieri la Cassazione che ha accolto il ricorso della Procura regionale della Corte dei Conti contro l’archiviazione del caso per difetto di giurisdizione. Il pm contabile Massimiliano Minerva contesta un danno erariale di 3,9 miliardi nella gestione di alcuni contratti. I giudici contabili si erano però dichiarati non competenti sulla materia, a loro dire non sindacabile in quanto rientrante “in una scelta discrezionale dell’apparato amministrativo”. Linea sconfessata ieri dalla Suprema Corte, che però ha escluso dall’azione per danno erariale la banca Morgan Stanley, visto che neppure il duplice ruolo svolto dalla banca Usa, controparte e advisor delle operazioni, è sufficiente a configurarla come controparte pubblica.

La vicenda è complessa. A fine 2011 (governo Monti), nel pieno della crisi finanziaria e con lo spread alle stelle, Morgan Stanley riuscì a farsi pagare 3,4 miliardi dal Tesoro chiedendo la chiusura di 6 contratti in forza di una clausola concessale da un accordo quadro del 1994 di cui la Cannata ha detto di aver appreso l’esistenza solo nel 2007. Per i pm contabili la stipula, la gestione e la chiusura di quei contratti da parte dei dirigenti è stata caratterizzata da “mala gestio, diseconomicità, gravi imprudenze e irregolarità gestionali”. Alcuni sarebbero stati “speculativi” (le cosiddette swaption) quindi non idonei alla gestione del debito pubblico. Una sorta di scommessa pagata a caro prezzo. Il danno contestato era di 2,7 miliardi all’istituto Usa e 1,2 miliardi ai 4 dirigenti, alcuni dei quali finiti poi nelle grandi banche d’affari controparti del Tesoro nelle aste dei titoli di Stato (Siniscalco è finito proprio in Morgan Stanley).

Le swaption erano parte di una strategia per abbattere il rapporto tra deficit e Pil (in quegli anni in ballo c’era anche l’ingresso dell’Italia nell’euro) e, specie dopo gli anni Duemila, a sostegno di una certa finanza creativa. Poi è arrivato il conto. Molti contratti avrebbero dovuto proteggere lo Stato da un rialzo dei tassi che però non si è verificato e, specie negli anni recenti, hanno provocato perdite anche pesanti.

Ora il processo contabile ripartirà in primo grado, a meno che i giudici non decidano di rimandare la questione alla Corte costituzionale.

Aborto, nel Lazio c’è il via alla Ru486 fuori dagli ospedali

L’aborto farmacologico sarà possibile, nel Lazio, non solo in ospedale (in day hospital) ma anche nei consultori o negli ambulatori pubblici. Lo ha deciso la Regione con una determina del 31 dicembre, in base alla quale le donne potranno assumere mifepristone (Ru486) in consultorio e dopo 48 ore misoprostolo (prostaglandine) a domicilio. La delibera recepisce le linee guida del ministero della Salute dell’agosto del 2020, che hanno esteso da 7 a 9 settimane il periodo in cui l’aborto farmacologico è possibile (in ospedale) e hanno ampliato le strutture in cui può essere praticato fino a 49 giorni, inserendo ambulatori pubblici e consultori.

“Il metodo farmacologico è sicuro ed efficace”, si legge nel testo della determina, che apre alla possibilità che l’aborto farmacologico possa essere praticato anche da medici non specialisti o ostetriche e infermieri, o interamente da casa già come avviene in Europa, dove comunque lo stesso è ormai la prassi (70% in Francia, 83% in Inghilterra, 92,4% in Norvegia, 98% in Finlandia). La decisione è stata accolta con favore da Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni così come dall’Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto. Critica Forza Italia, che nelle parole di Maria Rizzotti sostiene che “non si trattava di una priorità”, così come Massimo Gandolfini del Family Day, che ritiene la Ru486 “una pillola mortifera per i bambini e dannosa per la donna”.

Nel testo tuttavia si stabiliscono alcune condizioni onerose per i consultori: la presenza di un ginecologo cinque giorni a settimana e anche di un ecografo, oltre alla necessaria formazione dei medici. Inoltre la determina non inserisce l’estensione dell’aborto farmacologico ai consultori tra gli obiettivi dei direttori generali, dunque non sono previste eventuali sanzioni, ma “allora perché dovrebbero farlo?”, fa notare la ginecologa Lina Canitano presidente dell’associazione VitadiDonna.

Egitto, Zaki rischia altri 45 giorni di carcere. Amnesty: “Lì i diritti valgono meno di zero”

Dopo 360 giorni di detenzione, Patrick Zaki potrebbe restare in carcere per altri 45. L’esito dell’udienza di ieri sulla custodia cautelare dello studente egiziano iscritto all’Università di Bologna verrà comunicata nella giornata di oggi: “Al 99%”, secondo Hoda Nasrallah, legale del 29enne, prevederà una proroga della detenzione preventiva diun altro mese e mezzo nel carcere di Tora, a sud del Cairo. Un paradosso che confermerebbe quanto riportato dal quotidiano Al-Shorouk, per cui il rinnovo è stato già definito. C’è chi spera che “queste notizie esasperanti non siano vere”, come gli attivisti del gruppo Facebook Patrick Libero. Intanto la Procura pare aver confermato la volontà di applicare la legge egiziana che permette fino a due anni di custodia cautelare, mentre la Farnesina continua nei suoi sforzi di sensibilizzazione sul caso. Se la decisione fosse questa, ha detto Amnesty International Italia, si dimostrerebbe “ancora una volta che in Egitto le procedure, i diritti, il rispetto per la dignità dei detenuti valgono meno di zero”.

Pfizer e Astrazeneca: “Vi mandiamo più dosi”

Pfizer e Astrazeneca annunciano di volersi rimettere in riga con le forniture all’Unione europea. E addirittura, di incrementare la produzione, accelerando le consegne nel secondo trimestre 2021. Le due aziende farmaceutiche, le uniche oltre a Moderna fin qui in possesso dei vaccini anti-Covid già approvati da Ema e Aifa (le agenzie del farmaco europea e italiana), ieri hanno annunciato che andranno anche oltre gli accordi sottoscritti con gli stati membri dell’Ue. Dalle parole ai fatti, l’Italia potrebbe ottenere circa 5,3 milioni di dosi entro il 31 marzo.

Da Pfizer Biontech oltre 1,3 milioni di italiani hanno fin qui ottenuto solo la prima dose (i vaccinati “completi” ieri erano 674.270). A gennaio, l’azienda aveva ridotto le forniture settimanali, formalmente a causa di lavori in uno stabilimento in Belgio, finalizzati ad un incremento della produzione. Ieri, poco prima di un vertice in Germania convocato dalla cancelliera Angela Merkel, l’annuncio del responsabile finanziario di Pfizer, Sierk Poetting: “Lavoriamo all’aumento delle consegne dalla settimana del 15 febbraio – si legge in una nota – per assicurare le forniture di tutte le dosi di vaccino stabilite dal contratto nel primo trimestre. Inoltre, nel secondo trimestre potremo consegnare altre 75 milioni di dosi all’Ue”. Rassicurazioni anche da Astrazeneca. Anche la multinazionale anglo- svedese, poche ore dopo il nulla osta dell’Ema, aveva annunciato un taglio del 60% delle forniture. Per l’Italia si sarebbe trattato di 3,4 milioni di dosi al posto degli oltre 8 milioni attesi. Ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha rassicurato: “Astrazeneca consegnerà 9 milioni di dosi aggiuntive all’Ue nel primo trimestre – in totale 40 milioni – rispetto all’offerta della settimana scorsa e inizierà le consegne una settimana prima del previsto”. L’accelerazione sembra sia dovuta agli accordi con Novartis e Sanofi, che “infialeranno” il vaccino realizzato a Oxford.

L’attesa del farmaco anti-Covid è spasmodica: partita ufficialmente la seconda fase. Il primo semaforo verde nel Lazio, dove da ieri mattina gli anziani dagli 80 anni in su potevano prenotarsi online per la prima dose, con le prime somministrazioni dall’8 febbraio. Il sito prenotavaccino-covid.regione.lazio.it è andato subito in tilt e l’avvio delle prenotazioni riprogrammato alle 12. Alle ore 20, si erano già iscritte 22 mila persone, sui 470 mila over 80 presenti nel Lazio. Il crash-web nel Lazio ha attirato le critiche della Lega a Nicola Zingaretti, con l’europarlamentare Simona Baldassarre che denuncia: “Cosa ci si aspettava? Io da medico libero professionista non sono ancora stata chiamata per il vaccino”. Via libera alle somministrazioni l’8 febbraio anche in Puglia, Umbria e Valle d’Aosta. A ruota Veneto, Friuli, Liguria e Campania. Ancora problemi in Lombardia, l’ultima a partire, con gli anziani che riceveranno il vaccino solo dal 25-26 marzo.

Restano i dubbi sulla lista delle priorità, una volta conclusi anche gli over 80. L’Aifa ha raccomandato l’utilizzo del farmaco di Astrazeneca solo per gli under 55. Che la fascia d’età possa essere 18-55 sembra ormai quasi certo. L’Austria, ad esempio, ha già deciso di iniettarlo agli under 65. Ma proseguono le riunioni in seno al Comitato tecnico scientifico per definire la lista delle priorità in base alle categorie. Fra le proposte c’è quella di inserire in cima all’elenco gli insegnanti, così da facilitare il ritorno alle lezioni in presenza. Con loro, anche i farmacisti e i medici di famiglia, che dovranno vendere e somministrare materialmente il vaccino.

Ieri rientro a scuola per altre 7 Regioni (ma è a singhiozzo)

Ieri è stata la grande attenzionata e non ha passato molto bene l’esame del rientro in classe dei suoi studenti. La Campania, però, non è la sola a portare il fardello di criticità sui trasporti e sulla loro organizzazione per il ritorno in classe, su carta, di un milione di studenti delle scuole superiori, in gran parte su sollecitazione delle sentenze del Tar contro chi ha provato a tenere ancora chiuso tutto. La ripartenza ha portato a galla alcune lacune che andranno colmate al più presto e su cui i tavoli dei Prefetti potranno intervenire nei prossimi giorni.

Si parte dalla Campania, dicevamo, unica Regione ad aver tenuto a casa la quasi totalità degli studenti per circa un anno. Lasciati liberi di decidere quanti studenti accogliere, la maggior parte dei presidi ha optato per il 50 per cento di alunni in presenza. In alcuni istituti (almeno 40) gli studenti hanno preferito non entrare o hanno protestato contro condizioni di sicurezza. A Napoli non sono entrati per scelta gli studenti del liceo Sannazaro e Pansini. “Non siamo favorevoli alla Dad – ha spiegato il rappresentante d’istituto del liceo Vittorini, Antonio Scafuro ai media locali – ma il rientro in classe deve essere in sicurezza. Gli istituti sono in regola, dai banchi singoli alla sanificazione. Ma molti studenti arrivano dai comuni della provincia, ogni mattina prendono pullman, metropolitane e le condizioni dei nostri mezzi pubblici sono pessime”.

A Scampia, invece, l’Isis Melissa Bassi, che conta almeno mille alunni, ha ricominciato con lezioni in presenza al 50 per cento (quindi circa 10-12 alunni per classe) e anche con le lezioni online a distanza pomeridiane dalle 17 alle 19. Di “flop” dei trasporti ha parlato il sindacato di base Usb, chiedendo un maggiore sforzo anche sulle assunzioni del personale. “Nessuna particolare criticità a Napoli e provincia sul fronte del trasporto pubblico – ha ribattuto la prefettura – si sono registrate solo alcune code in prossimità degli accessi alla stazione della metropolitana di Piscinola, dovute alla necessità di evitare l’affollamento delle banchine”. Poi ha però aggiunto: “È stato segnalato uno scarso ricorso ai mezzi sostitutivi su gomma messi in campo dalle società di trasporto”. Il problema insomma c’è, tanto che il prefetto di Napoli Marco Valentini ha convocato per domani il tavolo di lavoro e monitoraggio sulla situazione. Anche le altre regioni in cui era previsto il rientro hanno avuto gli stessi problemi. L’assessore al trasporto del Veneto, Elisa Del Berti, ha parlato di “sbavature”: “È stata una grande prova del trasporto pubblico – spiega –. È andato tutto bene, a parte qualche criticità” con disagi soprattutto sulle “corse più periferiche”. La difficoltà maggiore è stata poi riuscire a controllare gli studenti in fase di salita e discesa dai mezzi pubblici, nonostante gli steward, la polizia locale e le forze dell’ordine. Al Sud e soprattutto nelle zone rurali, i problemi sono stati maggiori. In Calabria, ad esempio, si sono registrati disagi soprattutto per gli studenti provenienti dalla provincia. In questi casi, infatti, gli autobus trasportano anche i lavoratori pendolari e le corse non sono frequenti. “Sono a Catanzaro dalle 7.30 – ha spiegato uno studente –. Vengo da Sellia e ho preso il primo pullman perché quelli successivi sono sempre pieni. Non viaggiamo solo noi ragazzi”. Condizione che rende vani anche gli scaglionamenti. Per non parlare dei casi in cui le corse sono uniche. “Oggi sono qua – ha spiegato un ragazzo – ma chiederò di fare la didattica integrata a distanza”. L’ordinanza del governatore Spirlì prevede infatti che i genitori possano scegliere se far fare lezione in classe o proseguire con la didattica a distanza. Proprio come in Puglia, dove il governatore Michele Emiliano ha lasciato libero arbitrio ai genitori almeno fino al 6 febbraio. Così al liceo scientifico Scacchi di Bari, ieri c’erano solo tre classi su 63. Inutile, dunque, l’aver previsto il coinvolgimento della Protezione civile per gestire il rischio di assembramento all’ingresso e sui mezzi, inutile lo scaglionamento fitto, con l’anticipazione del primo ingresso alle 7.40, inutili i tavoli con la prefettura. La scuola in presenza non è una priorità.

Anticorpi monoclonali: è il giorno del sì alla cura. Palù da Speranza

Potrebbe essere il giorno della svolta sui monoclonali. All’Aifa questa mattina si terrà una Cts straordinaria per autorizzarne l’uso in emergenza, come ha già fatto la Germania. Il disco verde sarebbe una vittoria del presidente Giorgio Palù sulla direzione generale dell’agenzia che ha lungamente osteggiato l’uso delle terapie anticorpali, e ancor più per medici e pazienti. Dopo un passaggio col ministro Roberto Speranza, la strada dell’approvazione sembra in discesa. Potrebbe bastare un’ordinanza. L’Aifa autorizzerebbe l’uso in emergenza avvalendosi della legge 2019/2006 già utilizzata nel 2015 per quella, molto meno grave, dell’Ebola.

Gli anticorpi sarebbero così subito disponibili, dopo mesi di inerzie e polemiche. Già a ottobre – i lettori del Fatto lo sanno – il virologo Guido Silvestri dagli Stati Uniti aveva tentato di portare in Italia con un trial “clinico pragmatico gratuito” 10mila dosi di Bamlanivimab (Eli Lilly): il primo monoclonale autorizzato al mondo, prodotto anche a Latina. Aifa lasciò cadere la proposta sollevando dubbi sull’efficacia e sostenendo la necessità di autorizzazione dell’Ema (che solo ieri ha iniziato a esaminare i dati sul Regeneron, l’altro monoclonale autorizzato). Il dg Nicola Magrini arrivò a negare l’esistenza stessa della proposta. L’Italia, in realtà, poteva autorizzare, proprio come la Germania, che ha così demolito il castello di obiezioni. Parola del professor Guido Rasi, fino a due mesi fa direttore di Ema: “È necessaria per uso commerciale classico, nella pandemia non c’è n’è alcun bisogno”.

Per riaprire la pratica il 21 gennaio Palù ottiene un “bando per lo studio randomizzato”. Per le “molte richieste ricevute” la scadenza viene prorogata di due settimane: l’Aifa che ha snobbato per mesi i monoclonali, scopriva all’improvviso che c’è la fila per usarli. Non per studi accademici e “ridondanti” però, perché nel frattempo dati validati di fase 3 confermano la riduzione del rischio di morte del 70%. Lo “studio” poteva durare “non oltre 12 mesi”. Un tempo infinito, data l’emergenza. Palù alza il tiro: “Abbiamo bisogno di un approccio combinato – spiegherà al ministro – tra prevenzione dei vaccini e terapia di monoclonali che sono i farmaci più efficaci che conosciamo. Tra l’altro, la loro combinazione è in grado di bloccare la replicazione del virus e può agire sulle varianti. Sono un sistema potentissimo, da utilizzare subito”.

Per l’Italia è solo l’inizio di una nuova sfida. La prima riguarda l’approvvigionamento. “Il ritardo sui vaccini fa crescere la domanda globale di anticorpi – spiega Aldo Braca, titolare della Bsp Pharmaceuticals di Latina –. Ho ancora capacità ma l’Italia rischia che l’intera produzione venga opzionata dall’estero”. Mentre Aifa tentennava, i suoi camion refrigerati partivano per ospedali di mezzo mondo tranne in Italia. “Non ci dormo la notte”, confessa Braca. Forse anche per lui è l’epilogo di una brutta storia fitta di paradossi; Arcuri – e cioè i contribuenti italiani – si troveranno presto a dover pagare farmaci che avrebbero potuto avere gratis già quattro mesi fa, con un risparmio di 10 milioni di euro e di chissà quante vite. Senza contare il contributo alla ripresa delle attività.

La seconda sfida è organizzare la somministrazione. Gli anticorpi vanno infusi entro 72 ore dai primi sintomi tramite una flebo da 700 mg. “È una sfida complessa per l’organizzazione sanitaria, dopo le polemiche è su questo che bisogna concentrarsi – spiega Silvestri –. Bisogna combinare il test antigenico rapido e l’attivazione dei servizi territoriali per la terapia nei presidi ospedalieri e/o a domicilio. Anche negli Stati Uniti incontriamo difficoltà, ma l’Italia ha una solida rete di servizi territoriali. Veneto, Toscana, Emilia-Romagna e altre potrebbero fungere da regioni pilota”. Alcune hanno già risposto all’appello.

Riyad è lo sponsor del jihad, altro che “Rinascimento”

L’affermazione di Matteo Renzi sull’Arabia Saudita, “baluardo contro l’estremismo islamico”, ha lasciato sgomenti analisti e docenti di politica internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e i musulmani, tra cui quelli europei che si oppongono all’incessante opera di radicalizzazione dei propri giovani da parte degli imam salafiti inviati nelle metropoli occidentali. È infatti arcinoto che l’Arabia Saudita è la culla del waabismo, una delle correnti islamiche più oscurantiste, nata in seguito a un patto tra la casa regnante dei Saud e i fondatori del salafismo. La stirpe dei Saud, che regna sui sauditi da quando il capostipite rese possibile la nascita del Paese, non ha mai mitigato nel tempo l’approccio fondamentalista del waabismo. Eppure il principe ereditario Mohammed bin Salman (detto MbS), il reggente de facto, in questi ultimi tre anni, ha più volte sostenuto di voler cancellare molte leggi liberticide soprattutto nei confronti delle donne, ma in realtà ha preferito aprire discoteche e sale cinematografiche solo per uomini e sbattere in carcere le attiviste che hanno provato a guidare l’automobile. La maggior parte delle saudite è costretta a vivere indossando una sorta di burqa nero che copre anche gli occhi.

Per quanto riguarda la politica estera del “macellaio” di Riyad e dei suoi predecessori, va ricordato che da 40 anni sostengono attraverso organizzazioni di beneficenza locali l’estremismo islamico, ovvero quello che ha dato origine ad al Qaeda (Bin Laden faceva parte di una famiglia di notabili legati ai Saud e i dirottatori erano sauditi) e a numerosi gruppi jihadisti, l’Isis in primis, che ancora combattono in Siria.

Andando indietro agli anni 90, uno degli esempi più eclatanti dell’azione saudita fu il sostegno e il finanziamento del Fronte Islamico di Salvezza in Algeria, fatto che portò alla guerra civile e alla morte di 100mila persone, la maggior parte civili. Con l’ascesa di MbS e la sua nomina a ministro della Difesa, il principe nel 2015 ha scatenato, e quindi intensificato, il conflitto nello Yemen contro il gruppo ribelle sciita Houthi sostenuto dall’Iran, tentando di imporre un’irrealistica soluzione militare che ha portato il piccolo e poverissimo paese alla catastrofe umanitaria.

“Ogni anno migliaia di algerini musulmani che vivono in Francia pagano circa 5mila euro per andare in pellegrinaggio alla Mecca, in Arabia Saudita. Il denaro probabilmente gli viene versato attraverso alcune Ong salafite insediatesi in Europa. Ma non sembra che questa somma sia a fondo perduto visto che una volta arrivati trovano ad attenderli negli alberghi, dove soggiorneranno per un mese, dei predicatori salafiti che tentano di radicalizzarli e di metterli in contatto con altri estremisti islamici che si trovano in Europa”, dice al Fatto l’imam Hassen Chalghoumi. L’imam, che vive costantemente sotto scorta per le tante minacce di morte e attacchi fisici, è diventato noto in tutto il mondo per la sua denuncia contro l’islam salafita e la Fratellanza Musulmana all’indomani della decapitazione del professore francese Samuel Paty. L’imam aggiunge che i salafiti in Francia promuovono di fatto il separatismo, ovvero vogliono imporre la legge coranica, la sharia, sulle leggi della repubblica e di tutte le repubbliche europee democratiche basate sui principi dell’Illuminismo. I giovani musulmani sono attratti anche dal “folklore” proposto dalle stanze di preghiera salafite dove si entra solo se vestiti secondo i dettami. Del resto i giovani emarginati delle banlieue non hanno altri modi per “divertirsi”. Il jihad insomma è una delle dimensioni della dottrina waabita che giustifica la morte di quelli che non condividono i principi dell’Islam. Per questo il jihadismo planetario è stato per decenni finanziato dall’Arabia Saudita e solo quando il Paese ha iniziato a essere preso di mira per questa sua nefasta influenza nei primi anni Duemila ha cominciato a essere più attento alla sua politica di finanziamento del terrorismo islamico.