“La storia giudicherà chi loda il regime saudita”

Hatice Cengiz ha salutato il proprio compagno – l’editorialista saudita del Washington Post Jamal Khashoggi – convinta che di lì a poco sarebbe uscito dal Consolato con i documenti necessari per sposarla. Era il 2 ottobre 2018. Sul New York Times ha scritto: “Se avessi saputo sarei entrata anch’io (…) non è mai uscito da quell’edificio. E con lui, anch’io mi sono persa lì”. Per l’omicidio in Arabia sono stati condannati solo otto responsabili di basso livello. La Turchia sta processando invece 26 persone, alcune delle quali vicine al principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman (MbS) che si è sempre detto estraneo. Hatice Cengiz ha intentato una causa civile negli Usa contro 28 persone, compreso il principe Mbs, lo stesso che ha ideato le conferenze del FII (Future Investments Initiative) e che ha duettato sul palco della quarta edizione con Matteo Renzi, unico politico in carica del mondo occidentale a presenziare. Unico a essere membro del Board dell’FII Institute.

“Credo che l’Arabia Saudita potrebbe essere il luogo di un nuovo Rinascimento per il futuro. Quindi, vostra altezza, grazie molte e benvenuto”, sono state le parole dell’ex premier rivolte a Bin Salman aprendo il dialogo del 27 gennaio. Renzi parla così dello stesso regime mai perdonato da Hatice Cengiz. Quando i figli di Khashoggi hanno perdonato gli autori dell’omicidio, lei, senza alcuna paura, tenne il punto: “Noi non perdoneremo gli assassini né quelli che hanno ordinato l’omicidio”. Hatice Cengiz gira il mondo per combattere affinché sia fatta giustizia, per Khashoggi. E per il popolo saudita ancora oppresso.

Cosa pensa della partecipazione di politici di tutto il mondo alle conferenze della Fondazione FII, ideate da Mohammad bin Salman, l’uomo che lei ha denunciato, con richiesta danni, per l’omicidio di Jamal Khashoggi?

Io non sono a favore né contro alcun politico. Io penso che tutti debbano fare le proprie scelte e risponderne. Abbiamo già visto che il G20 in Arabia è stato un fallimento, sotto molti aspetti. Soprattutto non è riuscito a fornire legittimità internazionale a coloro che sono i principali responsabili delle atrocità e della violazione dei diritti umani dentro e fuori i confini del Paese, compreso l’omicidio del mio Jamal. Coloro che scelgono di sedersi alla corte di chi viola i diritti umani e di cantarne le lodi, fanno una scelta di schieramento: non sta a me giudicare. Sarà la loro coscienza e la storia a giudicarli.

Cosa potrebbero fare i Paesi occidentali per scoprire la verità e ottenere giustizia sull’assassinio avvenuto a Istanbul di Jamal Khashoggi?

Innanzitutto i Paesi occidentali possono dire la verità, perché la conoscono: sanno chi ha ordinato l’assassinio, chi è direttamente responsabile di aver inviato i killer, sanno che non è stata “un’operazione non autorizzata”. Conoscono il killer. Le Nazioni Unite hanno svolto un’inchiesta indipendente le cui conclusioni sono insindacabili e hanno identificato la persona che ha dato l’ordine. I Paesi possono cominciare semplicemente dicendo chi è stato. “Osare”, dire la verità è il primo passo verso la giustizia. Poi devono scegliere: da che parte stanno? Dalla parte dell’assassino o dalla parte di Jamal e del popolo saudita che vive nella paura e nell’oppressione? C’è molto che possono fare, il primo passo è ammettere ciò che sanno sul responsabile.

Pensa che il presidente degli Stati Uniti Biden possa fare qualcosa per rendere pubblici i rapporti segreti della Cia sull’assassinio?

Sì, penso che il direttore dell’intelligence statunitense renderà il rapporto pubblico. Il senatore Wyden durante la sua nomina ha chiesto: “Seguirà la legge e rilascerà il rapporto?”. La sua risposta è stata chiara, ho grandi speranze che l’intelligence rispetterà la legge.

L’Italia di recente ha deciso di revocare il contratto di fornitura di armi all’Arabia Saudita. Cosa ne pensa?

È una decisione importante, da un punto di vista politico e simbolico. È importante anche per gli effetti che produce, nello Yemen e altrove. Da un punto di vista politico: l’esportazione di armi non è come qualsiasi altra transazione commerciale; essa è soggetta a un controllo politico, richiede l’autorizzazione del governo e implica consenso sul modo in cui vengono utilizzate. Revocando le licenze di esportazione, il governo italiano afferma di non appoggiare la continua repressione del popolo saudita o l’uccisione di civili nello Yemen. Simbolicamente, lancia un messaggio: che l’epoca di impunità – dove tutte le azione del regime sono accettate – non è eterna, che ci sono conseguenze per le atrocità commesse. Questo è un messaggio importante. Io non so quali armi siano state esportate dall’Italia e se possano essere sostituite con armi di altri Paesi, ma posso dire che gli effetti sul territorio restano comunque importanti, perché questi messaggi politici e simbolici sull’impunità hanno un impatto diretto sul livello di violenza.

Torniamo negli Stati Uniti. Il presidente Biden ha deciso di riesaminare la vendita di armi all’Arabia Saudita. Cosa ne pensa? Secondo lei si può fare di più in questo campo?

La prima azione della nuova Amministrazione degli Stati Uniti, inclusa la vendita di armi, mi fa essere ottimista. Proprio come ho detto a proposito della vendita delle armi da parte dell’Italia: ciò ha conseguenze politiche, simboliche e pratiche, ancor di più perché si tratta degli Stati Uniti, in precedenza i maggiori sostenitori dell’Arabia Saudita. Voglio sottolineare che per me Jamal è stato tutto, e ovviamente non mi aspetto che sia lo stesso per loro. Il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita è ovviamente una questione molto complessa e ci sono molti fattori coinvolti, non solo i diritti umani. Ma il presidente Biden è stato molto chiaro durante la sua campagna: intende allineare la sua politica estera ai valori degli Stati Uniti. Quindi spero che egli comprenderà che ciò va oltre la questione dell’impunità per l’omicidio a sangue freddo di un editorialista del Washington Post. Ciò ha rilevanza anche in termini di valori condivisi da tutta l’umanità. Per questo sono fiduciosa.

Trivelle, bollette e sfratti alla prova della maggioranza

Non sarà facile farlo passare, ma il segnale andava dato: nella bozza che contiene gli emendamenti al dl Milleproroghe, M5S tiene fede agli annunci fatti a fine dicembre e inserisce la moratoria sulle trivelle. O meglio, una proroga della moratoria che insiste ormai da due anni e che era stata introdotta con il decreto Semplificazioni del 2018 (poi prolungata di altri sei mesi nell’ultimo Milleproroghe). Il testo prevedeva la sospensione dell’iter per i permessi di ricerca e di prospezione per 18 mesi (inclusi quelli di valutazione di impatto ambientale) in attesa della stesura del Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI), ovvero una mappatura dell’Italia che, tenendo conto del territorio e delle sue caratteristiche, stabilisse dove e se fosse possibile trivellare. Il via libera sarebbe stato rilasciato solo se le istanze fossero ricadute in quei territorio. L’11 febbraio 2021 sarebbero scaduti i tempi per la presentazione del piano, ad agosto quelli per lo stop delle attività. Il piano però non è mai stato redatto e ad oggi c’è il rischio che gli iter riprendano il loro corso.

Inutile era stato il tentativo, sempre a dicembre, di inserire nel testo di partenza la moratoria definitiva di tutto, dai permessi di ricerca ai rinnovi delle concessioni già in essere. L’opposizione di Italia Viva, del centrodestra e di parte del Pd – insieme alla scusa che il Milleproroghe fosse poco adatto all’inserimento di una modifica normativa – aveva fatto naufragare il blitz e anche un accordo sulla proroga, per evitare di aumentare le tensioni interne al governo. Oggi, il nuovo tentativo, che certo sarà in salita. “Stavolta non dovrebbero esserci problemi di ammissibilità, trattandosi di una proroga”, spiega il primo firmatario dell’emendamento, il deputato del M5s Giovanni Vianello. Il punto è prendere tempo in attesa che ci sia un nuovo governo con cui discutere di un blocco totale, in linea con le intenzioni green “dichiarate” nel Recovery Plan.

Un nuovo rinvio è invece dietro l’angolo per la fine del mercato tutelato che riguarda le bollette di luce e gas di 16 milioni di famiglie. Dopo gli slittamenti previsti dalla legge sulla Concorrenza del 2017, dal Milleproroghe nel 2018 e nel 2019, anche in questo dl compare un’ulteriore proroga: dal 1° gennaio 2022 al 1° gennaio 2024, così come prevede un emendamento presentato dal capogruppo M5s alla Camera, Davide Crippa. Sempre che Matteo Renzi decida di mettersi di traverso. La liberalizzazione forzata nasce, infatti, nel 2017 con il governo Pd del rottamatore “in favore del monopolista Enel”, come spiegò l’allora presidente della commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti. Oggi però il Pd ha una posizione più conciliante, anche su spinta di Leu che è favorevole. E le attuali resistenze di Iv vengono definite dagli addetti ai lavori vengono “non insormontabili”. Se nel passaggio dalla tutela al libero mercato le bollette aumentano almeno del 20%, a un anno dal possibile obbligo non ci sono ancora regole chiare per la partecipazione al mercato dell’energia, con oltre 700 operatori coinvolti. È Enel a detenere il 36% dei volumi dell’intero mercato elettrico.

Tra gli oltre 2.500 emendamenti al Milleproroghe, sono invece un centinaio quelli che si occupano del blocco degli sfratti e che non rendono certa la proroga al 30 giugno 2021. C’è un pressing bipartisan per intervenire sullo stop, soprattutto dopo il parere della Commissione Finanze della Camera che ha proposto di rivedere il blocco. In seno alla maggioranza è tutto da decidere. Il Pd ha proposto di limitare il blocco alle procedure esecutive adottate da fine gennaio 2020. M5S chiede di fermare gli sfratti fino a giugno per le famiglie più in difficoltà e Leu un sostegno ai proprietari, come l’esonero dalle tasse sui canoni commerciali non riscossi. Per Iv la norma va cancellata.

Scuola, giustizia, contagi, Ue. Tutte balle i mantra di Renzi

Come insegna Jürgen Habermas, il discorso pubblico deve essere razionale per essere etico e quindi basato su alcune categorie universali come la “giustezza”, la “verità”, la “veridicità”. Chi sfugge a questa etica, e a questa logica, sono in genere i populisti che possono dire tutto e il contrario di tutto. I contenuti sbandierati costantamente da Matteo Renzi confermano la tesi che l’ex premier, più che al liberalismo politico appartenga proprio a quel populismo che dice di voler combattere. Più che opinioni i suoi “contenuti” infatti sembrano agitati per fare battute, montare polemiche, ma non per discutere seriamente.

1. Le Rotelle a posto

“Basta con la scuola dei banchi a rotelle”, ama ripetere Renzi, anche nell’ultima conferenza-comizio tenuta al Quirinale. Un modo per mettere in ridicolo l’attuale ministra Lucia Azzolina e il commissario-Covid Domenico Arcuri. Facile prendere in giro il ministero. Ma se si trattasse di un “discorso razionale” si dovrebbe ricordare che la decisione sui banchi non è stata un capriccio del ministero o del commissario, ma una precisa indicazione del Comitato tecnico scientifico del Miur presieduto da una figura molto autorevole come Patrizio Bianchi, già assessore nella super-riformista Emilia-Romagna. “Il distanziamento fisico (inteso come un metro tra le rime buccali degli alunni) rimane un punto di primaria importanza nelle azioni di prevenzione” si legge nel documento del Cts che ha fatto da base alle decisioni ministeriali. E tra “le soluzioni ad hoc” indicate, oltre al ridisegno degli spazi, ci sono “i banchi monoposto”. Secondo i dati del Miur i banchi consegnati a oggi sono 2,579 milioni di cui solo 434 mila banchi “innovativi”, cioè le sedie a rotelle determinate dalle scelte autonome dei singoli istituti.

2. L’Onu fa scuola

“Il nostro Paese è tra quelli che hanno avuto meno giorni di scuola al mondo”. A questa affermazione ha risposto ieri l’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione e la cultura, secondo cui tra settembre 2020 e gennaio 2021 “l’Italia non è tra i Paesi che più di altri hanno chiuso le scuole”. Chi ha bloccato la didattica in maniera totale sono Germania, Olanda e Regno Unito, con 4 settimane di blocco.

3. Colao meravigliao

“È giusto o no discutere per bene del Recovery Plan senza emendamenti notturni ma ripartendo dal Piano Colao?” chiede Renzi nella sua enews di ieri. Come ricordato dal composto ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, dal mese di luglio 2020 fino alla redazione della prima bozza presso il ministero degli Affari europei si sono tenute ben 19 riunioni aperte ai rappresentanti di tutti i ministeri. Il 15 ottobre il Parlamento ha discusso, e votato, con gli apprezzamenti di Italia Viva, le Linee guida. Tutta la procedura ha seguito le rigide indicazioni Ue e anche l’ultima versione, che Iv sostiene di aver migliorato, non si discosta dai piani di altri Paesi. Lo stesso piano di Vittorio Colao, se lo si va a rileggere, era basato sulle solite 6 Missioni e sui tre assi comuni a tutti: “Digitalizzazione, Rivoluzione verde, Inclusione sociale”. Quanto ai presunti miglioramenti di Renzi, al momento hanno ridotto gli stanziamenti per l’ecologia e aumentato quelli per le infrastrutture e imprese. Il vero obiettivo di Renzi è sempre stato la “cabina di regia”, cioè la gestione dei fondi. Tutto comincia da lì

4. Vedi il Mes quant’è bello

“È giusto o no prendere i soldi europei per la sanità?”. Questa domanda decisiva in Europa la pone solo Renzi. Non c’è nessun altro esponente politico, di destra, di centro o di sinistra, che avanzi la richiesta. E infatti nessun governo ha finora avanzato domanda. La spiegazione l’abbiamo data più e più volte sul Fatto: innanzitutto non si tratta di un pacchetto-regalo che dei pazzi furiosi si rifiutano di ritirare, ma di un prestito e quindi di maggior debito. Il prudente ministro Roberto Gualtieri ha più volte detto che dal punto di vista dei conti pubblici non serve e nel Recovery plan sono stati stanziati 19 miliardi per la Sanità. Il Mes è poi un Trattato regolato da un regolamento che prevede chiare e specifiche condizionalità. Leggere per credere.

5. Contagi e ripresa

Renzi ama sbandierare una tabella del Financial Times che mette l’Italia all’ultimo posto per tassi di contagi uniti alla ripresa economica. Sui contagi, l’Italia ha senz’altro uno dei più alti tassi di letalità (morti sul totale dei positivi), ma questo dato, come ha rilevato il professor Massimo Galli, sconta il fatto che in Italia il virus è arrivato prima degli altri Paesi europei e che all’inizio la nostra capacità di rilevazione dei contagiati (quindi del denominatore) era molto scarsa. “Se si guarda ai numeri della seconda ondata, si scopre che dal 1° settembre a oggi, Italia e Germania hanno un tasso di letalità pressoché identico, intorno al 2 per cento” ha scritto Pagella politica. Quanto al tasso di mortalità calcolato sul milione di popolazione, attualmente l’Italia è sesta, ma anche qui sconta il maggior numero di mesi in pandemia: infatti, nell’ultima settimana è stata superata dalla Gran Bretagna. Quanto al Pil, l’ultima stima del Fondo monetario internazionale sulla crescita nel 2020 è chiara: l’Italia è a -9,2%, la Francia a -9%, la Gran Bretagna a -10, la Spagna a -11.1, la Germania meglio di tutti a -5,4, Ognuno può valutare da sé.

6. Parola di ex renziano

“È giusto o no organizzare una campagna vaccinale degna di questo nome?”, domanda Renzi. La percentuale di dosi somministrate per dosi consegnate a ieri era dell’85,7% mentre sulle vaccinazioni l’Italia è ancora la prima in Europa sopra Germania, Francia e Spagna. In Germania la situazione è molto critica. Questa è la Reuters del 10 gennaio: “Orgogliosi della loro reputazione nazionale di efficienza, i tedeschi sono sempre più frustrati dalla lenta introduzione di un vaccino Covid-19 che i suoi scienziati hanno contribuito a sviluppare”.

Sulla gestione Covid, una risposta inaspettata la offre Yoram Gutgeld che di Renzi è stato consigliere economico che, in un articolo apparso su Repubblica, spiega come “sul Covid non sfiguriamo” e che il confronto con la Germania, spesso presentato come decisivo, non tiene conto di caratteristiche specifiche come la densità abitativa o l’abitudine dei nonni a vivere con i nipoti. Eppure, aggiunge, il tasso di letalità tra gli over 80 nei due Paesi è pressoché identico, 16%. La considerazione che trae Gutgeld da questi dati è che “i talk show non rappresentano la realtà”. La seconda è che “l’Italia è meglio di quanto la pensano molti italiani influenzati, ahinoi, anche dai talk show”.

7. Il divano di Arcuri

“È giusto o no continuare con questa struttura del commissario Arcuri?” chiede Renzi. Da quando si è insediato – al netto della polemica sull’accumulo degli incarichi con Invitalia – Arcuri ha garantito la presenza di mascherine su tutto il territorio nazionale (anche se è stato presentato un esposto su quelle prodotte da Fca), ha permesso l’acquisizione dei ventilatori, è certamente responsabile dei risultati della campagna di vaccinazione fin qui condotta. Ci sono senz’altro punti da spiegare e migliorare, ma la vera discussione andrebbe fatta sulla capacità dei sistemi sanitari occidentali di fronteggiare l’epidemia. L’impressione è che Arcuri paghi ancora per quel “liberisti da divano” con cui ha risposto ai suoi oppositori.

8. La prescrizione di Cucca

“Basta con il giustizialismo” è l’altro slogan, più per chiedere la testa del ministro Bonafede che per vere ragioni. Nel maggio 2016, infatti, i relatori di maggioranza dell’allora governo Renzi, Felice Casson e Giuseppe Cucca, presentarono l’emendamento al ddl di riforma del processo penale con il quale “la prescrizione cessa comunque di operare dopo la sentenza di primo grado”. Emendamento che attirò il sostegno del M5S allora all’opposizione anche se poi l’allora ministro Orlando fece un passo indietro. Oggi Giuseppe Cucca è il rappresentante di Italia Viva nella commissione Giustizia del Senato.

9. Sulla scia di Biden

Renzi accusa il governo di mancato allineamento all’Amministrazione Biden. Solo pochi giorni fa, però, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha avuto una telefonata di grande sintonia con il nuovo Segretario di Stato Anthony Blinken e lo stesso Conte ha subito scambiato una telefonata di auguri al nuovo presidente Usa. Sempre quattro giorni fa, invece, gli Stati Uniti hanno sospeso le loro forniture di nuovi aerei F-35 agli Emirati arabi uniti e all’Arabia Saudita. Quella stessa Arabia al cospetto del cui leader Renzi si è invece inginocchiato.

10. I nemici del reddito

Italia Viva chiede ora di abolire il Reddito di cittadinanza e di cambiare la stessa “strategia sul lavoro”. Con il Rdc ci sono quasi 3 milioni di persone che hanno da mangiare, a quanto pare non rientrano tra le priorità di Renzi. Il quale, l’ultima volta che si è occupato di lavoro ha fatto il Jobs Act. Anzi no, scusate, l’ultima volta che si è occupato di lavoro si è mostrato “geloso” del costo del lavoro in Arabia Saudita.

La regia della crisi, il Colle e i tatticismi di Iv: una strada c’è

Non è parsa particolarmente sorprendente la mossa del presidente Mattarella di consegnare un mandato esplorativo a tempo lungo per risolvere la crisi, sondando la maggioranza uscente attraverso il presidente della Camera. Questa scelta, tuttavia, ha finito per amplificare il tatticismo fine a se stesso di prestigiatori incastonati sulla scena politica nostrana con i loro valletti di supporto. Sull’esplorazione è chiaro che decide il capo dello Stato, quando ritiene utile “appaltare all’esterno” le ragioni della crisi politica… ma qui cosa c’è da approfondire? Tutti dichiarano esplicitamente e abbondantemente e in realtà anche su questo terreno si registra un’indebita interferenza che doveva essere colta, e casomai non assecondata, da Mattarella.

In effetti, se la vecchia maggioranza parlamentare si profila ancora adesso all’orizzonte, si poteva ab initio chiedere a Conte di tornare senza indugio al Senato, almeno ipotizzando un nuovo, esaustivo dibattito e un voto esplicito in grado di confermare o meno – una volta per tutte – la fiducia al suo esecutivo; con la maggioranza semplice e senza dimettersi ove qualche proposta governativa fosse respinta, preoccupandosi in tal caso solo di cambiare indirizzo. E se il problema è la presenza o meno di un ministro in carica, sarebbe sempre possibile non solo azionare la sfiducia individuale, prevista dai Regolamenti parlamentari, ma anche mettere in campo, magari sollecitandole, iniziative dello stesso presidente del Consiglio: oltre al “rimpasto” sono molti tra i costituzionalisti più autorevoli che ritengono compatibile con la Costituzione la stessa proposta di revoca ministeriale indirizzata al capo dello Stato.

Un conto è, insomma, la sostituzione di uno o più ministri, altro è la permanenza in carica del presidente del Consiglio. Allora se il problema è la sostituzione del premier o la redistribuzione degli incarichi ministeriali, perché Mattarella non ha reciso gli esasperati tatticismi provocando, per quanto di sua competenza, un voto esplicito sulla guida del governo senza lasciare che nessuno sfugga alle proprie responsabilità dinanzi al Paese? Una cosa è certa, sotto il profilo strettamente costituzionale: ove non dovesse emergere alcuna maggioranza o, se anche si ricomponesse quella uscente e non vi fosse alcun nome nuovo in grado di godere dei sufficienti consensi parlamentari, il capo dello Stato, certificata l’irreversibilità della crisi in atto, dovrà sciogliere anticipatamente le Camere. La gestione delle elezioni, cosa altrettanto certa, non può essere consentita a un governo nato al solo scopo di superare il governo dimissionario. Nessun governo tecnico, o di scopo, o istituzionale che dir si voglia, può insediarsi senza che abbia la certezza di ottenere una maggioranza parlamentare in entrambe le Camere. Siamo nelle condizioni di ottenere un altro esecutivo rispetto a quello dimissionario ancora in carica? Se la risposta è no, si dovrà ripartire dall’ultimo governo che abbia ottenuto una investitura parlamentare. Le strade nel nostro ordinamento per fare rapidamente chiarezza ci sono e vanno percorse tanto più che il Paese appare stremato per altre ben più serie ragioni. Basta perciò stucchevoli minuetti accompagnati peraltro da toni apocalittici.

* Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Brescia

La sinistra perbene da 9 in condotta. E Speranza compare solo con il ficus

Come quelle foto di scuola, i ganzi in primo piano e i timidi sempre in ultimo. Loro sono i timidoni del centrosinistra: perfetti, educati, sembrano scolaretti appena usciti da Eton. Loro, cioè lei, cioè LeU, sta in Parlamento per significare che – tutto sommato – la sinistra esiste anche se non si vede, c’è anche se non sparla. Nel mondo capovolto di questa pazza crisi, l’ala estrema, quella famigliola capricciosa e pluri-scissionista che si divide e si rifonda a ogni quinquennio, oggi – di fronte al corsaro Renzi – sembra un universo di buone maniere.

LeU è la responsabilità in purezza. Più responsabili di quelli di LeU chi? Arteria femorale del Pci con vari innesti ecologisti, libertari e socialisteggianti. Insieme conta più dell’Italia Viva di Matteo Renzi ma vale, al mercato dei media, un decimo per via del carattere riservato. È un fatto che il leader della formazione sia Roberto Speranza che da un anno non si muove dal suo ministero, a cui sembra inchiodato, e non parla che di virus. Speranza è così dedicato nella fatica di dare salute a un Paese infetto, che anche i suoi collegamenti televisivi si replicano dalla stessa postazione ministeriale, con il solito finto ficus a fargli compagnia e lui, con la cera pallida di chi non dorme e mangia poco e si tormenta, che ci spiega l’ecatombe.

Speranza non ha fatto una sola polemica pubblica, nemmeno quando forse gli sarebbe toccato. Non bluffa e quindi non buca lo schermo, non irride e tenta di non parlare a vanvera. Il suo gruppo si chiama Articolo uno, contiene il tutor, Pier Luigi Bersani, e altri riformisti attempati, tra cui Vasco Errani e Guglielmo Epifani. Sinistra Italiana, diciamo più movimentista, è rappresentata da Nicola Fratoianni. Più pop ma sempre dentro la regola.

Per i talk show una delusione dietro l’altra. Infatti non ci sarebbe motivo alcuno, né utile unità di misura, nel vedere in televisione Teresa Bellanova e ascoltarla mentre discetta di Recovery anziché Stefano Fassina, bocconiano, interprete di un pensiero economico contrario al sistema globalista, ostile da sinistra al Mes e teorico di un sovranismo moderno.

Nel miracolo social del mondo capovolto, un tipetto come il palermitano Davide Faraone, della disinvolta fanteria renziana votata a costruire alleanze sulle tessere, come in Sicilia, ha più voce di Federico Fornaro, il capogruppo alla Camera di LeU. Mite piemontese, omone con una passione assoluta per i meccanismi elettorali e per Saragat, il fondatore del Sole nascente, il partito socialdemocratico del Novecento. Quanti Faraone vale Fornaro? Eppure…

La verità è che questi di LeU, iniziando dal capostipite che si chiama Piero Grasso e che per un momento è parso come il padre fondatore dell’armata, non fanno paura e non hanno voglia di mettere paura. Non fanno la crisi e quando, come è successo a Fratoianni e Palazzotto, i due più scapigliati del gruppo, hanno proposto una tassa sul patrimonio, dose minima di giustizia sociale, si sono visti scaraventare all’inferno. Bocciato l’emendamento per volere del governo prima ancora che dell’opposizione. E loro? Zitti, nessuna intimazione renziana: o Mes o noi!

Troppo silenziosi, dunque troppo buoni, dunque inutilizzabili per la caciara etnosalviniana. Nell’età del proporzionale, dove chiunque abbia una vocina ha diritto di vederla notificata al tg, LeU potrebbe farla grossa. Giusto per dire, Fausto Bertinotti mandò a ramengo il governo Prodi per il suo sogno d’infanzia: far lavorare meno tutti quanti e far guadagnare di più a tutti.

Ma essendo capovolto, il mondo di oggi assegna a LeU meno deputati (oggi 12) di Italia Viva, che alle elezioni mai si è presentata. E vedrete che a breve saranno superati anche da quel marpione di Bruno Tabacci, democristiano intramontabile, che raccoglie desaparecidos di ogni fattura.

Questa è infatti l’età del casino. Farlo sempre e possibilmente a prescindere.

 

Altro che ministeri: Mattarella irritato vuole il sì di Iv su Conte

Le assordanti voci sulla trattativa per i ministri dell’eventuale Conte III sono ovviamente arrivate fino al Colle, suscitando sorpresa e soprattutto irritazione. E così il presidente della Repubblica fa sapere ciò che tutti dovrebbero conoscere, Costituzione alla mano: cioè che dei ministri ne discute il capo dello Stato con il premier incaricato. Punto.

Ed è per questo che stasera Sergio Mattarella attende l’esploratore Roberto Fico con una sola aspettativa. Questa: Italia Viva di Matteo Renzi ha sciolto la riserva sul nome di Giuseppe Conte?

La risposta all’interrogativo è la sola cosa che interessa al Quirinale dopo aver dato il mandato al presidente della Camera nella serata di venerdì scorso. Vanno bene i tavoli, va bene la discussione tra le cinque forze che si sono dette disponibili a un nuovo governo politico in continuità con il Conte II (M5S, Pd, Leu, Iv e Maie), ma il Demolitore di Rignano è tenuto a rispondere a Fico sulla questione del nome del premier. Considerato soprattutto che nel colloquio di Renzi con Mattarella, durante le consultazioni al Colle, non è stato posto alcun veto su un reincarico all’Avvocato.

Di qui l’irritazione di ieri del capo dello Stato. Anche perché sovvertire l’ordine della trattativa non è solo uno sgarbo costituzionale ma dà modo al leader di Iv, partitino che scomparirebbe in caso di elezioni anticipate, di guadagnare tempo e alzare in continuazione il prezzo dei suoi gruppi parlamentari, in particolare quello del Senato, decisivo per le sorti della maggioranza giallorossa.

Ecco perché Mattarella non vorrebbe dare una proroga a Fico. Certo, se oggi il presidente della Camera dovesse chiamare il Colle per chiedere un’altra mezza giornata di tempo, non ci sarebbero problemi. La salita di Fico slitterebbe al massimo a mercoledì. Ma, appunto, il Quirinale non vuole tollerare oltremodo i tatticismi dell’ex Rottamatore. Il fine settimana sulle voci smentite di un contatto tra il capo dello Stato e l’ex presidente della Bce Mario Draghi ha lasciato il segno. E si teme appunto che Italia Viva miri a fare melina per logorare Conte e favorire un governo istituzionale guidato da Draghi. Senza sapere, però, che qualora si arrivasse a tanto, Renzi non toccherebbe palla su niente ché un governo del genere risponderebbe solo al presidente della Repubblica e sarebbe composto da tecnici. Il leader di Iv, quindi, farebbe meglio a concentrarsi sull’ipotesi di un Conte ter, la più realistica tra tutte quelle che circolano. E dare la sospirata risposta a Fico entro oggi.

In caso di sì a Conte, Mattarella potrebbe già stasera dare il reincarico al premier uscente. A quel punto tra lista dei ministri e giuramento si dovrebbe chiudere tutto in settimana. Ed è comunque a Conte che spetterà poi risolvere i nodi delle varie caselle in ballo qualora Italia Viva decidesse di partecipare al terzo esecutivo dell’Avvocato.

 

Il Mes e le Bicamerali: l’impresa impossibile del documento scritto

“Stiamo solo perdendo tempo”, “bisogna avere pazienza”, “sono nel bunker a provare mediazioni impossibili”. Le “voci di dentro” sono tutte più o meno conformi, i volti di quelli che escono più estenuati che scuri. Il tavolo per il programma, messo in piedi a Montecitorio dall’ “esploratore” Roberto Fico con i capigruppo della fu maggioranza, va avanti per tutto il giorno. Ed è proprio il presidente della Camera a introdurre i lavori, per poi lasciare la Sala della Lupa dopo una mezz’oretta: “Vi lascio lavorare”. Dentro si discute di programma, di contenuti. Ma in realtà è chiaro a tutti che la vera trattativa si svolge in altre stanze. Però, più vanno avanti le ore, più diventa chiaro che anche scrivere un documento sul programma è tutt’altro che facile. “Anche perché lo stiamo facendo senza il premier designato” sussurra più d’uno. Sarà forse pure per questo che i lavori si trascinano senza entusiasmi per tutto il giorno. I grillini avevano allertato a sostegno anche un eletto per ogni commissione, pronto per essere consultato su aspetti tecnici in caso di bisogno dai capigruppo Ettore Licheri e Davide Crippa. Ma i due, di aiuto esterno, ne chiedono poco. La discussione è spesso vaga, un po’ sfilacciata.

Ma le scintille, come sempre, arrivano da Iv. L’ex ministra Teresa Bellanova fa l’ariete di sfondamento. E quando si capisce che la trattativa più serrata – quella sui nomi – potrebbe non essere così favorevole ai renziani, cala sul tavolo una serie di richieste, sempre più difficili da accettare, soprattutto per i Cinque stelle. Prima il Mes, o almeno una sua parte, poi una bicamerale per le riforme, una per la giustizia, una per la gestione del Recovery Fund. E poi, la messa in discussione del Reddito di cittadinanza. E sembra un modo per provare ancora ad alzare la posta e cercare l’incidente. Così i 5Stelle fanno muro, totale sul Mes. Ritirano fuori con una vecchia bandiera, il salario minimo, e invocano una legge elettorale proporzionale con le preferenze

Stamattina si ricomincia alle 9 con un altro tema caldo, la giustizia. E si dovrebbe finire alle 12.30, ad occhio con un nulla di fatto. Di certo, assicurano, arriverà un verbale dei lavori, con dentro anche l’elenco delle differenze sui vari temi. Una sintesi, tra la richiesta di Iv che pretendeva un vero e proprio accordo scritto, e gli altri partiti, che si sarebbero accontentati anche d i un’intesa di massima, orale. Nell’attesa dai vari partiti trabocca stanchezza: ” I tavoli non servono a niente”. In realtà, però, a qualcosa stanno servendo: a evidenziare ancora una volta le distanze tra i vari giallorosa, che ora dovrebbero rimettersi assieme. In qualche modo.

Attenti a quei due: l’indagata Meb e il “sistema” Delrio

Nel totoministri – antica arte del retroscenismo politico – i loro nomi non sono mai mancati. S’intende Maria Elena Boschi e Graziano Delrio. Nella spartizione che dovrebbe avviare (forse) il Conte Ter sono dati in pole position per un incarico: un ritorno al governo gradito senz’altro ai loro partiti, e magari non solo a loro. L’ipotesi accreditata è che prendano il posto di Paola De Micheli, spacchettando in due il ministero: Boschi alle Infrastrutture, Delrio ai Trasporti. Magari non succede ma, per ogni evenienza, opportunità di ordine politico e, nel caso della Boschi, anche giudiziario, suggerirebbero di evitare il remake, tanto più nel ministero in questione, che Delrio peraltro ha già guidato.

Boschi infatti rischia di trovarsi in futuro nell’esecutivo da rinviata a giudizio. È indagata dalla Procura di Firenze, assieme a Matteo Renzi, Luca Lotti e pezzi del fu “Giglio magico” per finanziamento illecito alla (ormai) ex cassaforte politica del renzismo, la fondazione Open, considerata dai pm un’articolazione della componente renziana del Pd (linea, per la verità, su cui la Cassazione ha espresso alcune perplessità). L’inchiesta è nata nella prima metà del 2019, e quindi – entro la fine della legislatura – si chiuderà con l’archiviazione o la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. Nasce dal rapporto che il renzismo ha avuto con il mondo degli affari e fin dall’inizio si è concentrata sui legami tra l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della Open, e il gruppo Toto Costruzioni su un pagamento di 400 mila euro per un incarico professionale nell’ambito di un contenzioso con l’Anas che – per i magistrati – dissimula in realtà un trasferimento di fondi alla Open. Toto è un concessionario dello Stato, tra le altre cose, per la sua Strada dei Parchi, che controlla l’autostrada Roma-L’Aquila-Teramo. Il gruppo è impegnato in un complesso negoziato col ministero, dove siederebbe la Boschi, per il rinnovo del Piano economico finanziario scaduto da anni e bloccato da un lungo braccio di ferro.

L’inchiesta, peraltro, ha portato alla perquisizione di diversi imprenditori-finanziatori della Open (non indagati) che intrattengono rapporti con lo Stato e il Mit, come il gruppo Onorato (Moby e Tirrenia). Sotto la lente sono finiti i 50mila euro versati “a titolo personale” dall’armatore e i 100mila elargiti dalla sua società. Onorato (che ha anche siglato contratti con la Casaleggio Associati e la Beppe Grillo srl, che gestisce il sito del fondatore del M5S) è sempre stato un sostenitore dei benefici fiscali per le compagnie che impiegano personale italiano e comunitario, e una norma in tal senso è arrivata nel 2017 per mano del renzianissimo senatore Roberto Cociancich. Ma è anche un concessionario dello Stato, di cui è debitore per l’acquisto di Tirrenia. La concessione è scaduta e al ministero toccherà decidere se prorogarla.

Graziano Delrio al ministero delle Infrastrutture è invece un déjà vu non proprio entusiasmante: in tre anni (dal 2015 al 2018) l’ex sindaco di Reggio Emilia, già renzianissimo, non ha mai scalfito il sistema di potere incarnato dal predecessore Maurizio Lupi e dall’ex ras delle grandi opere Ercole Incalza, spazzato via dalle inchieste giudiziarie (per lo più archiviate). Prima ha sbandierato l’arrivo della mitologica analisi costi-benefici, poi l’ha messa nel cassetto al momento di stilare l’elenco delle grandi opere “strategiche” (valore: 133 miliardi). È stato un buon alleato dei concessionari autostradali, guardandosi bene dallo scardinare i meccanismi che hanno mostrato, col disastro del Morandi, tutto lo strapotere dei signori del casello. Basti ricordare che si è battuto con l’Unione europea per prorogare le concessioni dei Benetton e dei Gavio. Piano riuscito, ma bloccato dal successore Danilo Toninelli dopo il disastro di Genova. Nell’accordo col Mit per costruire la Gronda – il passante autostradale di Genova – Aspi aveva ottenuto pure una remunerazione stellare e un maxi-indennizzo a fine concessione (un beneficio calcolato dall’economista Giorgio Ragazzi in quasi 10 miliardi di euro).

“Bonafede non si tocca”: i 5S avvertono Renzi. Incubo Boschi al governo

L’uomo che lo giurava da settimane, “noi non vogliamo poltrone”, si siede al (metaforico) tavolo dei giallorosa e di poltrone ne invoca quattro, per ottenere almeno tre ministeri. Ma il Matteo Renzi che per tutto il giorno tratta sui nomi da mettere (innanzitutto Maria Elena Boschi) e da togliere (innanzitutto il Guardasigilli Alfonso Bonafede) sembra, e va sottolineato sembra, aprire al primo avversario, a Giuseppe Conte. “Si è rassegnato al Conte ter” assicurano fonti trasversali del Pd e M5S, mentre a Montecitorio va in scena il tavolo sui temi convocato dall’esploratore, il presidente della Camera Roberto Fico: “Una pantomima” a detta di più o meno tutti.

I giallorosa sono convinti che Renzi non riesca più a tenere i suoi parlamentari. E dal Pd teorizzano: “Se non si chiude su Conte, un altro governo politico non è possibile e allora lui cosa otterrebbe, un governo tecnico? E per farci cosa?”. Mentre da ambienti di Palazzo Chigi, dove l’avvocato ha ordinato tattico silenzio, sussurrano ottimismo. Sta trattando davvero, è la convinzione. Ma non può essere così liscia. Perché il fu rottamatore, ha invertito l’ordine usuale del gioco, anteponendo la definizione della squadra di governo al patto ufficiale sul nome del premier. Seguito dagli altri: Pd, M5S, Iv e LeU stanno cercando una quadra che soddisfi tutti per riconfermare Conte. Fonti vicine a Renzi in serata rimarcano che “si è ancora molto lontani dal Conte ter”. Anche se lui stesso sostiene di voler chiudere. Oggi riunirà i gruppi. Non è secondario che quasi tutti, da Luigi Marattin a Ettore Rosato, siano per insistere su Conte.

Però al tavolo sul cosiddetto programma i suoi chiedono a gran voce il Mes, eresia per i grillini. Tradotto, si cammina sempre su una lastra di ghiaccio. Per questo i big dell’ex maggioranza passano il lunedì al telefono. A guidare il gioco per i dem è Dario Franceschini, per il Movimento il reggente Vito Crimi (per il nervosismo di alcuni grillini) mentre l’emissario di Renzi è Rosato. Ma tanto a porre veti e a chiedere di far rotolare teste è lui, il fu rottamatore. E il primo bersaglio è Bonafede, ai suoi occhi il ministro della prescrizione. Ma l’elenco di Renzi continua con il presidente dell’Inps Pasquale Tridico e con quello del’Anpal, Domenico Parisi, nominati dal M5S. Poi c’è il commissario all’emergenza vicino a Conte, Domenico Arcuri. Oltre al ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri (blindato però dal Colle).

Ma i 5Stelle fanno subito muro su Bonafede. “Resta alla Giustizia” scandisce Crimi, che dichiara subito intoccabili tutti i ministri del Movimento. È la sua linea da settimane per incassare il più possibile, e la ripropone assieme a un veto: “La Boschi non può far parte del prossimo governo”. È la contromossa per arginare l’assalto a Bonafede. Ed è il punto più stretto della trattativa, durante cui Iv spara alto: le Infrastrutture per la Boschi, l’Interno per Rosato e almeno un altro ministero. Chiedono il ritorno di Teresa Bellanova all’Agricoltura, i renziani, ma a entrare, invece, dovrebbe essere Luigi Marattin. E ci sarebbe il rientro pure di Elena Bonetti, in posizione da definire. I grillini invece hanno discusso per giorni di caselle con il Pd, e quindi qualche incastro con i dem è già definito. Ergo, Andrea Orlando potrebbe sostituire all’Ambiente il 5Stelle Sergio Costa. Ma punta a un posto da sottosegretario a Palazzo Chigi per la gestione del Recovery Fund. La dem Paola De Micheli potrebbe tenere la delega ai Trasporti, se non andrà a un grillino (Stefano Buffagni). Mentre la grillina Nunzia Catalfo potrebbe lasciare il Lavoro a Debora Serracchiani (Pd). E la Giustizia? “Bonafede” ripetono dal M5S, anche se pure il Pd accoglierebbe volentieri almeno un tecnico (Paola Severino).

Non è facile la partita. Anche perché lo stesso Bonafede, raccontano, non ha voglia di cambiare ministero. Senza la Giustizia sarebbe pronto anche a tornare deputato semplice. “Ma se resta Conte come fanno i 5Stelle a tenere anche Bonafede?” si chiedono vari giallorosa. È un dubbio che hanno anche alcuni grillini. Secondo cui alla fine il sacrificio sarà inevitabile. E poi ci sarebbe sempre Conte, che chiede una promozione per il fedelissimo Mario Turco, ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Potrebbe andare al ministero del Sud, al posto del dem Giuseppe Provenzano. Ma bisogna sbrigarsi. Oggi pomeriggio Fico torna al Colle. E un nome lo dovrà fare.

Sì, ma è ancora lunga

Caro Antonio, io mi fido meno di te. Partito in tromba per far fuori Conte, bombardare la coalizione giallorosa, spaccare 5Stelle e Pd, dirottare dove sa lui i 209 miliardi del Recovery, il tutto per nobili ragioni ideali e non certo per vili poltrone, lo statista di Rignano è lì che traffica per sistemare la Boschi. E ogni cinque minuti alza la posta: via Bonafede, Gualtieri, Arcuri, Tridico, Parisi, Benassi, via la blocca-prescrizione, dentro il Mes e la Bicamerale sul Recovery, e magari anche una fettina di culo disossata. Anche se e quando votasse la fiducia al Conte-ter, continuerebbe a fare l’unica cosa che sa fare quando non comanda lui: rompere. Quindi sì: le elezioni sono la soluzione migliore. Anche perché ci libererebbero per sempre di lui. E il trionfo del centrodestra non è più così scontato ed è assai probabile che, se Demolition Man continua a fare il suo unico mestiere, si scivoli verso le urne più facilmente di quanto si immagini. Tutte le chiacchiere e i fiumi di inchiostro sui governi Draghi, Cottarelli, Cartabia, Severino, Giovannini, Panetta, Fico, Di Maio, Patuanelli, Franceschini sono sprecati: la scelta del premier spetta al partito di maggioranza relativa, cioè ai 5Stelle, che l’han detto e ripetuto: “O Conte o andiamo all’opposizione”.
Anche i governi istituzionali, tecnici, di larghe intese, di scopo e di scopone scientifico sono fantascienza, salvo che M5S e Pd non stiano raccontando balle. I 5Stelle, se perdono Conte, non appoggiano nessun altro, la Meloni non li lascia certo da soli all’opposizione e a quel punto Salvini ha grossi problemi a ritrovarsi la rivale che gli punta il fucile carico. Così le intese si fanno ristrettissime, perché restano FI, Pd e la Lega di Giorgetti, sempreché i dem facciano ciò che negano di voler fare: sommare i propri voti a quelli sovranisti. In ogni caso i numeri non bastano. Ed eccoci alla terza e ultima opzione possibile. Che purtroppo non sono le elezioni subito, cioè a marzo, come sarebbe naturale in tempi normali. Ma a maggio/giugno, quando si spera che finirà la nuova ondata pandemica.

Più in là non si può andare perché a luglio scatta il semestre bianco. Quindi, senza maggioranza, Mattarella varerebbe un governo a tempo, di tipo tecnico-elettorale, anche di minoranza o “delle astensioni”, affidato a un personaggio super partes. E a fine aprile scioglierebbe le Camere. Prima, però, può rinviare il Conte-2 al Parlamento che – non dimentichiamolo – nell’ultimo voto di fiducia gliene aveva tributata una assoluta alla Camera e una relativa al Senato. Lì il Conte-2 aveva ottenuto 156 voti (più quello virtuale di un grillino malato di Covid e momentaneamente assente): tanti quanti ne avrebbe avuti l’opposizione se Iv avesse votato la sfiducia, come voleva l’Innominabile, poi dissuaso da molti dei suoi che oltre l’astensione non sarebbero andati e a quel punto avrebbero optato per la fiducia, regalando a Conte la maggioranza assoluta. Scena difficilmente ripetibile dopo l’ennesima rottura causata dal tappetino di Bin Salman: l’ultima, quella decisiva per portarci alle urne. A quel punto Iv potrebbe davvero spaccarsi, tra le evebraun renziane pronte a seguire il capo nel bunker perinde ac cadaver e gli italomorenti intenzionati a restare vivi. E il governo potrebbe persino ottenere la fiducia e andare avanti senza quel famoso gatto appeso ai maroni con uno che gli tira la coda da dietro. Insomma, la scelta fra Conte-ter ed elezioni non è immediata: passeranno purtroppo altri giorni, che sono esiziali per l’Italia, ma non per un leader totalmente irresponsabile.

Se invece, dopo i fuochi d’artificio delle ultime ore, costui scendesse a più miti consigli ricordandosi del suo 2% e accontentandosi di qualche poltrona in più, Conte avrebbe il dovere di provarci. Per tre ragioni. 1) Guidarci in questi mesi cruciali per il Recovery Plan, la guerra dei vaccini, i ristori alle categorie penalizzate dalle chiusure e la lotta alla pandemia (dovrebbe concentrarsi solo su queste urgenze, lasciando al dopoguerra tutti i temi “divisivi”). 2) Non prendersi la colpa di una crisi voluta da quell’altro. 3) Salvare la coalizione 5Stelle-centrosinistra che, col valore aggiunto di Conte alla guida, potrebbe giocarsi la partita con Salvini con qualche chance di vittoria. Sempreché, naturalmente, Conte, 5Stelle, Pd, LeU ed Europeisti ritengano possibile andare avanti senza pagare un pizzo inaccettabile (tanto per essere chiari: Bonafede e le sue riforme non si toccano). Certo, l’eventuale Conte-3 partirebbe più debole del 2. Ma anche l’Innominabile perché, se tornasse a ricattare, a tradire gli impegni (stavolta scritti) e a far saltare il tavolo, anche le evebraun italomorenti potrebbero decidersi a mollarlo. O sedarlo e spedirlo in Arabia Saudita in una valigia. Sola andata.