Hatice Cengiz ha salutato il proprio compagno – l’editorialista saudita del Washington Post Jamal Khashoggi – convinta che di lì a poco sarebbe uscito dal Consolato con i documenti necessari per sposarla. Era il 2 ottobre 2018. Sul New York Times ha scritto: “Se avessi saputo sarei entrata anch’io (…) non è mai uscito da quell’edificio. E con lui, anch’io mi sono persa lì”. Per l’omicidio in Arabia sono stati condannati solo otto responsabili di basso livello. La Turchia sta processando invece 26 persone, alcune delle quali vicine al principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman (MbS) che si è sempre detto estraneo. Hatice Cengiz ha intentato una causa civile negli Usa contro 28 persone, compreso il principe Mbs, lo stesso che ha ideato le conferenze del FII (Future Investments Initiative) e che ha duettato sul palco della quarta edizione con Matteo Renzi, unico politico in carica del mondo occidentale a presenziare. Unico a essere membro del Board dell’FII Institute.
“Credo che l’Arabia Saudita potrebbe essere il luogo di un nuovo Rinascimento per il futuro. Quindi, vostra altezza, grazie molte e benvenuto”, sono state le parole dell’ex premier rivolte a Bin Salman aprendo il dialogo del 27 gennaio. Renzi parla così dello stesso regime mai perdonato da Hatice Cengiz. Quando i figli di Khashoggi hanno perdonato gli autori dell’omicidio, lei, senza alcuna paura, tenne il punto: “Noi non perdoneremo gli assassini né quelli che hanno ordinato l’omicidio”. Hatice Cengiz gira il mondo per combattere affinché sia fatta giustizia, per Khashoggi. E per il popolo saudita ancora oppresso.
Cosa pensa della partecipazione di politici di tutto il mondo alle conferenze della Fondazione FII, ideate da Mohammad bin Salman, l’uomo che lei ha denunciato, con richiesta danni, per l’omicidio di Jamal Khashoggi?
Io non sono a favore né contro alcun politico. Io penso che tutti debbano fare le proprie scelte e risponderne. Abbiamo già visto che il G20 in Arabia è stato un fallimento, sotto molti aspetti. Soprattutto non è riuscito a fornire legittimità internazionale a coloro che sono i principali responsabili delle atrocità e della violazione dei diritti umani dentro e fuori i confini del Paese, compreso l’omicidio del mio Jamal. Coloro che scelgono di sedersi alla corte di chi viola i diritti umani e di cantarne le lodi, fanno una scelta di schieramento: non sta a me giudicare. Sarà la loro coscienza e la storia a giudicarli.
Cosa potrebbero fare i Paesi occidentali per scoprire la verità e ottenere giustizia sull’assassinio avvenuto a Istanbul di Jamal Khashoggi?
Innanzitutto i Paesi occidentali possono dire la verità, perché la conoscono: sanno chi ha ordinato l’assassinio, chi è direttamente responsabile di aver inviato i killer, sanno che non è stata “un’operazione non autorizzata”. Conoscono il killer. Le Nazioni Unite hanno svolto un’inchiesta indipendente le cui conclusioni sono insindacabili e hanno identificato la persona che ha dato l’ordine. I Paesi possono cominciare semplicemente dicendo chi è stato. “Osare”, dire la verità è il primo passo verso la giustizia. Poi devono scegliere: da che parte stanno? Dalla parte dell’assassino o dalla parte di Jamal e del popolo saudita che vive nella paura e nell’oppressione? C’è molto che possono fare, il primo passo è ammettere ciò che sanno sul responsabile.
Pensa che il presidente degli Stati Uniti Biden possa fare qualcosa per rendere pubblici i rapporti segreti della Cia sull’assassinio?
Sì, penso che il direttore dell’intelligence statunitense renderà il rapporto pubblico. Il senatore Wyden durante la sua nomina ha chiesto: “Seguirà la legge e rilascerà il rapporto?”. La sua risposta è stata chiara, ho grandi speranze che l’intelligence rispetterà la legge.
L’Italia di recente ha deciso di revocare il contratto di fornitura di armi all’Arabia Saudita. Cosa ne pensa?
È una decisione importante, da un punto di vista politico e simbolico. È importante anche per gli effetti che produce, nello Yemen e altrove. Da un punto di vista politico: l’esportazione di armi non è come qualsiasi altra transazione commerciale; essa è soggetta a un controllo politico, richiede l’autorizzazione del governo e implica consenso sul modo in cui vengono utilizzate. Revocando le licenze di esportazione, il governo italiano afferma di non appoggiare la continua repressione del popolo saudita o l’uccisione di civili nello Yemen. Simbolicamente, lancia un messaggio: che l’epoca di impunità – dove tutte le azione del regime sono accettate – non è eterna, che ci sono conseguenze per le atrocità commesse. Questo è un messaggio importante. Io non so quali armi siano state esportate dall’Italia e se possano essere sostituite con armi di altri Paesi, ma posso dire che gli effetti sul territorio restano comunque importanti, perché questi messaggi politici e simbolici sull’impunità hanno un impatto diretto sul livello di violenza.
Torniamo negli Stati Uniti. Il presidente Biden ha deciso di riesaminare la vendita di armi all’Arabia Saudita. Cosa ne pensa? Secondo lei si può fare di più in questo campo?
La prima azione della nuova Amministrazione degli Stati Uniti, inclusa la vendita di armi, mi fa essere ottimista. Proprio come ho detto a proposito della vendita delle armi da parte dell’Italia: ciò ha conseguenze politiche, simboliche e pratiche, ancor di più perché si tratta degli Stati Uniti, in precedenza i maggiori sostenitori dell’Arabia Saudita. Voglio sottolineare che per me Jamal è stato tutto, e ovviamente non mi aspetto che sia lo stesso per loro. Il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita è ovviamente una questione molto complessa e ci sono molti fattori coinvolti, non solo i diritti umani. Ma il presidente Biden è stato molto chiaro durante la sua campagna: intende allineare la sua politica estera ai valori degli Stati Uniti. Quindi spero che egli comprenderà che ciò va oltre la questione dell’impunità per l’omicidio a sangue freddo di un editorialista del Washington Post. Ciò ha rilevanza anche in termini di valori condivisi da tutta l’umanità. Per questo sono fiduciosa.