Nell’agosto 2011, nella hall dell’hotel Corinthia – affollato di giornalisti stranieri durante l’assedio di Tripoli – una donna alta, bionda e con la benda da pirata sul volto passeggiava elegante come un’antica statua greca ammantata del goretex del giubbotto antiproiettili. La guardavano tutti muoversi sicura come un alfiere sulla scacchiera di strazio e bombardamenti che diventò la capitale libica in quei giorni: era la leggendaria reporter di guerra Marie Colvin. Come nessuno, Marie ha saputo far colare fango e sangue dalle parole in arrivo dalle guerre di Baghdad e Teheran. Tormenti e polveri, quelle da sparo e quelle della distruzione dopo le esplosioni, li ha invece raccontati in Kosovo, Egitto, Afghanistan, Etiopia, Zimbabwe, Sierra Leone, Cecenia. Durante la guerra civile in Sri Lanka è stata colpita da una granata che le costò due cose: la vista all’occhio sinistro e la capacità di distanza dalle cose raccontate. Cominciò allora il suo disturbo di Ptsd. A Timor Est, nel 1999, rimase nella zona assediata nonostante, come sempre, tutti le dicevano di abbandonare il territorio: salvò, con il potere della sua presenza e delle sue testimonianze, 1500 donne e bambini dall’oblio e dall’assalto finale delle forze armate indonesiane. A chi le diceva che era troppo pericoloso, non rispondeva con lo spropositato ego di cui sono equipaggiati quasi tutti i reporter di guerra, ma diceva sempre e solo: “È il mestiere che facciamo”.
Tra tutti i destini a disposizione nella rosa delle esistenze possibili che tocca ad ognuno, Marie aveva scelto, come ha scritto sua sorella Cat, “Un’altra vita: quella consacrata alle vittime innocenti della guerra, sfruttando il suo dono per renderle visibili al mondo”. Quale coraggio un reporter di guerra non debba mai perdere lo ha scritto in un pezzo pubblicato nel 2001 sul Sunday Times, il giornale che è stato il suo piedistallo di carta quando è diventata icona mondiale di un tipo di giornalismo che sa esistere sempre meno: “Scommettere sul fatto che a qualcuno importerà”.
Tutti i reportages di Marie Colvin oggi li ritroviamo nel generoso volume In prima linea (Bompiani, traduzione di Francesco Pieri, pp. 784, euro 24). Nitidi, vissuti e logori di vita, la grande inviata raccoglie la lezione della grande letteratura dal fronte al femminile. Come Colette, che inviata in Italia e in Francia durante la Grande Guerra per Le Matin, riporta l’anelito inconsunto dell’esistenza che nonostante tutto avanza; o Edith Wharton che pone sempre l’uomo, o meglio l’umano, come fatidico punto di mira dei suoi reportage dal fronte; o ancora Nellie Bly che in mezzo all’orrore sa sospendere la tensione anche con dettagli leggeri e personali. Allo stesso modo, Colvin non trascura mai il dettaglio umano – la miseria, la debolezza, il corpo, la paura, l’incertezza – della morte, su cui tante volte è inciampata. Raccontando, per esempio, la morte di Saddam Hussein (in Ho visto morire Saddam, 2006), non trascura di dettagliare gli abiti eleganti del sarto personale turco, il goffo gesto del boia che gli stringe il cappio al collo, e soprattutto il momento in cui Saddam – scorgendo il profilo della propria morte – “È rimasto come sperduto”.
Dopo anni passati a “visitare i luoghi straziati dal caos” – il caos che continua a governare i Paesi che ha attraversato –, Marie ha scritto una verità potente nel modo più semplice possibile: “La cosa davvero difficile è conservare una briciola di fiducia nel genere umano”. Per Marie niente era lontano o almeno niente doveva esserlo. Ha testimoniato tragedie e lacrime: quelle degli innocenti, ma anche quelle delle milizie – regolari e irregolari. Ha attraversato decenni, confini e conflitti che fanno bruciare veloce come fiammiferi vite di soldati e civili. I suoi dispacci arrivano dalle offensive, dagli scontri ravvicinati, delle aree occupate di cui percorre il perimetro. Gli attacchi sono sempre mortali per qualcuno, finché non lo sono stati anche per lei.
L’ultimo reportage arriverà dalla Siria, il Paese di Assad che diventerà la sua tomba, dall’enclave siriana di Baba Amr, dove è l’unica giornalista a riuscire a entrare. “L’esercito siriano sta bombardando una città piena di civili che muoiono di freddo e di fame, ecco come stanno le cose”. L’ultimo respiro invece arriva ad Homs, dove muore insieme al fotografo Remi Ochlik mentre un razzo si abbatte sulla palazzina dove si è rifugiata: muore a 56 anni, 25 dei quali passati da inviata in zone di conflitto, senza scendere mai a compromessi col potere, le sue ombre e i suoi bui. All’indomani della sua morte nel 2012, il poeta inglese Alan Jenkins le ha dedicato alcuni versi che iniziano con una vibrante domanda: “Cosa si fai stesa per terra,/ riversa lì tra le macerie?”. Chiunque abbia letto le sue parole, sa che le macerie di Marie – i granelli della sua anima errante – verranno sempre soffiate dai venti nei luoghi che ha raccontato con bruciante dedizione.