La ragazza con la benda. Marie Colvin. Una giornalista al fronte

Nell’agosto 2011, nella hall dell’hotel Corinthia – affollato di giornalisti stranieri durante l’assedio di Tripoli – una donna alta, bionda e con la benda da pirata sul volto passeggiava elegante come un’antica statua greca ammantata del goretex del giubbotto antiproiettili. La guardavano tutti muoversi sicura come un alfiere sulla scacchiera di strazio e bombardamenti che diventò la capitale libica in quei giorni: era la leggendaria reporter di guerra Marie Colvin. Come nessuno, Marie ha saputo far colare fango e sangue dalle parole in arrivo dalle guerre di Baghdad e Teheran. Tormenti e polveri, quelle da sparo e quelle della distruzione dopo le esplosioni, li ha invece raccontati in Kosovo, Egitto, Afghanistan, Etiopia, Zimbabwe, Sierra Leone, Cecenia. Durante la guerra civile in Sri Lanka è stata colpita da una granata che le costò due cose: la vista all’occhio sinistro e la capacità di distanza dalle cose raccontate. Cominciò allora il suo disturbo di Ptsd. A Timor Est, nel 1999, rimase nella zona assediata nonostante, come sempre, tutti le dicevano di abbandonare il territorio: salvò, con il potere della sua presenza e delle sue testimonianze, 1500 donne e bambini dall’oblio e dall’assalto finale delle forze armate indonesiane. A chi le diceva che era troppo pericoloso, non rispondeva con lo spropositato ego di cui sono equipaggiati quasi tutti i reporter di guerra, ma diceva sempre e solo: “È il mestiere che facciamo”.

Tra tutti i destini a disposizione nella rosa delle esistenze possibili che tocca ad ognuno, Marie aveva scelto, come ha scritto sua sorella Cat, “Un’altra vita: quella consacrata alle vittime innocenti della guerra, sfruttando il suo dono per renderle visibili al mondo”. Quale coraggio un reporter di guerra non debba mai perdere lo ha scritto in un pezzo pubblicato nel 2001 sul Sunday Times, il giornale che è stato il suo piedistallo di carta quando è diventata icona mondiale di un tipo di giornalismo che sa esistere sempre meno: “Scommettere sul fatto che a qualcuno importerà”.

Tutti i reportages di Marie Colvin oggi li ritroviamo nel generoso volume In prima linea (Bompiani, traduzione di Francesco Pieri, pp. 784, euro 24). Nitidi, vissuti e logori di vita, la grande inviata raccoglie la lezione della grande letteratura dal fronte al femminile. Come Colette, che inviata in Italia e in Francia durante la Grande Guerra per Le Matin, riporta l’anelito inconsunto dell’esistenza che nonostante tutto avanza; o Edith Wharton che pone sempre l’uomo, o meglio l’umano, come fatidico punto di mira dei suoi reportage dal fronte; o ancora Nellie Bly che in mezzo all’orrore sa sospendere la tensione anche con dettagli leggeri e personali. Allo stesso modo, Colvin non trascura mai il dettaglio umano – la miseria, la debolezza, il corpo, la paura, l’incertezza – della morte, su cui tante volte è inciampata. Raccontando, per esempio, la morte di Saddam Hussein (in Ho visto morire Saddam, 2006), non trascura di dettagliare gli abiti eleganti del sarto personale turco, il goffo gesto del boia che gli stringe il cappio al collo, e soprattutto il momento in cui Saddam – scorgendo il profilo della propria morte – “È rimasto come sperduto”.

Dopo anni passati a “visitare i luoghi straziati dal caos” – il caos che continua a governare i Paesi che ha attraversato –, Marie ha scritto una verità potente nel modo più semplice possibile: “La cosa davvero difficile è conservare una briciola di fiducia nel genere umano”. Per Marie niente era lontano o almeno niente doveva esserlo. Ha testimoniato tragedie e lacrime: quelle degli innocenti, ma anche quelle delle milizie – regolari e irregolari. Ha attraversato decenni, confini e conflitti che fanno bruciare veloce come fiammiferi vite di soldati e civili. I suoi dispacci arrivano dalle offensive, dagli scontri ravvicinati, delle aree occupate di cui percorre il perimetro. Gli attacchi sono sempre mortali per qualcuno, finché non lo sono stati anche per lei.

L’ultimo reportage arriverà dalla Siria, il Paese di Assad che diventerà la sua tomba, dall’enclave siriana di Baba Amr, dove è l’unica giornalista a riuscire a entrare. “L’esercito siriano sta bombardando una città piena di civili che muoiono di freddo e di fame, ecco come stanno le cose”. L’ultimo respiro invece arriva ad Homs, dove muore insieme al fotografo Remi Ochlik mentre un razzo si abbatte sulla palazzina dove si è rifugiata: muore a 56 anni, 25 dei quali passati da inviata in zone di conflitto, senza scendere mai a compromessi col potere, le sue ombre e i suoi bui. All’indomani della sua morte nel 2012, il poeta inglese Alan Jenkins le ha dedicato alcuni versi che iniziano con una vibrante domanda: “Cosa si fai stesa per terra,/ riversa lì tra le macerie?”. Chiunque abbia letto le sue parole, sa che le macerie di Marie – i granelli della sua anima errante – verranno sempre soffiate dai venti nei luoghi che ha raccontato con bruciante dedizione.

Israele-Usa. Tra Bibi e Biden è già divisione: colpa di Teheran

Il presidente Usa Joe Biden e il premier israeliano Benjamin Netanyahu non hanno ancora trovato il tempo di avere una conversazione telefonica. Nessuno dei due ha fretta, perché i due alleati divergono apertamente sull’Iran. La Casa Bianca ha mandato messaggi distensivi a Teheran, con la possibilità di tornare all’accordo sul nucleare firmato nel 2015 da Obama, dopo un feroce scontro con Netanyahu. Accordo poi cancellato nel 2018 da Donald Trump, mentre l’Unione europea invece si sente ancora parte di quell’intesa. Israele è molto allarmato dai segnali che arrivano da Washington e si moltiplicano le prese di posizione che indicano la soluzione militare come unica via d’uscita dalla proliferazione nucleare iraniana. Il premier tace ma i suoi fedelissimi hanno già iniziato il fuoco di sbarramento contro la Casa Bianca. L’ultimo è stato il capo di stato maggiore dell’Idf Aviv Kochavi che in una conferenza all’Institute for National Security Studies dell’Università di Tel Aviv ha sostenuto che “l’accordo consentirà all’Iran un arricchimento in grado di produrre una bomba” e Israele trarrà le sue conseguenze. Eppure l’accordo ha clausole precise e dettagliate con metodi di ispezione invasiva concordati dall’Iran e lunghi periodi (tra i 10 e i 30 anni), in cui non sarebbe consentito arricchire l’uranio a un livello elevato. Secondo i rapporti dell’Aiea, dell’intelligence Usa e israeliana, l’Iran ha rispettato i suoi obblighi fino al 2019 prima di iniziare a violare in modo misurato alcune restrizioni. Il problema e il danno nelle osservazioni di Kochavi non sono le sue previsioni ma la rivelazione di aver ordinato all’esercito di preparare un piano operativo contro l’Iran, “in aggiunta a quelli già esistenti”. Le sue parole sono un colpo intenzionale a Biden e una minaccia aperta che Israele possa agire in modo indipendente contro l’Iran. Avvertimento ribadito dall’ex generale Yaakov Amidror, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, una delle persone più vicine a Netanyahu: “Se gli Usa tornano al vecchio accordo nucleare con l’Iran, Israele non avrà altra scelta che agire militarmente per impedirgli di fabbricare un’arma nucleare”.

 

Chi se ne frega della sanità, Atene compra caccia francesi

È un contratto lucroso per la Francia e per Dassault Aviation, di un valore di oltre 2,3 miliardi di euro: il parlamento greco ha approvato l’acquisto di 18 aerei da combattimento francese Rafale. “Per la prima volta, il nostro aereo caccia è stato venduto a un paese europeo”, ha dichiarato il ministro francese della Difesa, Florence Parly, ad Atene lo scorso 25 gennaio per firmare il contratto. La transazione comprende “sei velivoli nuovi forniti dal produttore francese Dassault e 12 usati provenienti dalla flotta francese, per un totale di 1,92 miliardi di euro, a cui si aggiungono 400 milioni di euro per la fornitura di armamenti, in particolare di missili”, precisa una fonte del ministero della Difesa greco.

L’aeronautica greca prevede una prima consegna di sei Rafale di seconda mano entro la fine dell’anno. Per il governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis, l’investimento è volto a contrastare la politica di potenza della Turchia, vicino minaccioso e imponente, otto volte più popoloso. Le tensioni tra Atene e Ankara sono cresciute nel corso del 2020: al centro della contesa la presenza di idrocarburi al largo dell’isola greca di Kastellorizo, nel Mediterraneo orientale. Durante l’estate, la Turchia ha inviato a più riprese la sua nave da ricerca in questa Zona economica esclusiva greca (Zee), non riconosciuta da Ankara, e Atene ha denunciato la violazione dei diritti internazionali sostenuta, tra l’altro, da Parigi. I Rafale francesi andranno a rafforzare la flotta greca, che attualmente conta circa 160 aerei da combattimento americani F-16, contro i circa 220 F-16 della flotta turca, stando a quanto sostengono diversi osservatori della Difesa. Il contratto rafforza anche la cooperazione militare franco-greca di fronte a un avversario comune, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. La contesa greco-turca rappresenta infatti anche l’occasione per il presidente francese Emmanuel Macron di saldare i suoi conti con la Turchia, rivale in Libia e in Siria. Parigi e Atene, ad esempio, hanno organizzato manovre militari congiunte nel Mediterraneo orientale, insieme all’Italia e a Cipro, durante l’estate 2020. In quell’occasione, la ministra francese Parly aveva scritto sui social network: “Il nostro messaggio è semplice: priorità al dialogo, alla cooperazione e alla diplomazia affinché il Mediterraneo orientale diventi uno spazio di stabilità e rispetto del diritto internazionale”. Parigi si rallegra ora per la vendita dei caccia e di missili alla Grecia, un “successo per l’industria aeronautica francese”.

Ma questa strategia di corsa agli armamenti per mantenere la pace e per la costruzione di uno “spazio di stabilità”, per riprendere la parole di Florence Parly, solleva le critiche da parte dell’opposizione greca. L’investimento arriva in un contesto di fragilità economica per il paese legata alla crisi sanitaria del Covid-19. Il lockdown, scattato il 7 novembre per 10 milioni di abitanti, ha paralizzato l’economia. E se 24 miliardi di euro di fondi nazionali ed europei sono stati destinati nel 2020 a sostenere l’economia greca, il Pil del paese è crollato nel terzo trimestre, secondo i dati provvisori dell’Elstat, l’Istituto nazionale greco di statistica. L’acquisto dei Rafale inoltre rappresenta solo una parte degli investimenti che il governo greco ha stanziato per l’esercito. La legge di bilancio 2021, che si basa su una prospettiva di crescita del 4,8% per quest’anno, adottata il 15 dicembre in Parlamento – a maggioranza di destra –, autorizza un incremento del 63% della spesa militare.

L’esercito ottiene 5,44 miliardi di euro, contro i 3,35 miliardi del 2020, mentre il budget per la sanità scende di circa il 13%, a 4.257 miliardi di euro, contro i 4.829 miliardi di euro del 2020. “Il vaccino segnerà la fine della pandemia e l’inizio dell’era post-Covid. Le decisioni di bilancio sono state adattate a queste previsioni”, ha giustificato a metà dicembre il premier greco. “Lo scorso anno un investimento straordinario di 786 milioni di euro è stato stanziato per la sanità per far fronte all’epidemia. Il budget iniziale del 2020 per la sanità era quindi inferiore a quello del 2021”, spiega a sua volta il ministero della Salute, contattato per mail. “È una decisione criminale, in piena pandemia, mentre negli ospedali mancano mezzi e personale” denuncia Antonis Draganigos, portavoce del gruppo extraparlamentare anticapitalista di opposizione Antarsya. La spesa 2021 per la Difesa consentirà il “necessario” svecchiamento dell’arsenale militare greco, secondo il ministero interessato. Essa include anche il progetto di acquisizione di quattro fregate multi-missione nuove, il rinnovo di vecchie fregate e di aerei F-16, e l’assunzione di circa 1.800 militari (15.000 in tutto su cinque anni). Il governo intende investire 10 miliardi di euro in dieci anni per l’esercito: “Ritroviamo così il livello di spesa che avevamo prima della crisi del debito del 2009”, indica il ministero della Difesa. Anche durante l’austerità imposta dai creditori europei nell’ultimo decennio, Atene ha comunque continuato a dedicare il 2% circa della sua spesa alla difesa nazionale, contro il 5% circa prima della crisi, restando uno dei paesi Ue e Nato che spendono di più in questo settore. L’investimento è capitale ora, per i recenti governo, in questo clima storico di tensione con la Turchia.

Nella Grecia moderna, nata nel XIX secolo dalla lotta contro l’impero Ottomano, l’attuale politica, giudicata espansionista, di Ankara ricorda conflitti passati. “L’opinione pubblica greca, assorbita dalla pandemia, non ha ancora davvero reagito a questa spesa faraonica in armamenti. Il problema è anche che l’opposizione di sinistra non ha preso una posizione radicale sulla questione, restando moderata”, spiega la politologa Filippa Chatzistavrou dell’università di Atene. Il 15 dicembre, in parlamento, solo il partito comunista Kkke ha respinto il budget raddoppiato per la difesa. La principale forza di opposizione parlamentare di sinistra, il partito Syriza, al potere dal 2015 al 2019, ha preferito astenersi. “Syriza ha votato contro la legge di bilancio per il 2021, ma, come gesto simbolico, si è astenuto dal votare sulla difesa – ha spiegato a Mediapart Georgios Katrougalos, ex ministro degli Esteri di Syriza –. Noi sosteniamo l’aumento dei finanziamenti, ma senza che questo metta in pericolo le finanze pubbliche e le priorità sociali. E non è così in questo bilancio di ispirazione neoliberale. Astenendoci – continua l’ex ministro – intendiamo anche criticare la mancanza di strategia del governo di fronte alla minaccia turca”. Syriza, favorevole al rafforzamento della flotta greca, aveva a suo tempo avviato le trattative con il costruttore francese Naval Group per l’acquisizione di quattro fregate di difesa e di intervento. “Eravamo vicini a un accordo. Ma il nuovo governo ha sospeso i negoziati per dare priorità all’aviazione”, spiega Georgios Katrougalos. Secondo la stampa locale, la Grecia sarebbe vicina a un accordo con l’americana Lockheed Martin per l’acquisizione di questo tipo di fregate: “Ma la Francia è ancora in corsa. Atene vuole che Parigi resti un partner militare di primo piano”, assicura Vassilis Nedos, giornalista del quotidiano di centro-destra Kathimerini. La partnership militare franco-greca comporta tuttavia delle contropartite. Parigi spera di affermare l’idea di un’Europa forte della difesa, assicurandosi un’autonomia strategica nei confronti della Nato. Una visione condivisa dalle autorità greche. La cooperazione militare va anche oltre i confini europei. A giugno, il ministro della Difesa greco ha dichiarato di voler accrescere la presenza greca in Africa “nelle zone di crisi, per sostenere gli sforzi finalizzati a ripristinare la pace e la stabilità”. Diversi media, tra cui Le Canard enchaîné, hanno riferito a dicembre dell’invio di paracadutisti greci in Mali, nell’ambito del gruppo europeo di forze speciali Takuba, in collaborazione con l’operazione francese Barkhane, che affianca i soldati maliani nella lotta al terrorismo.

 

Proteste pro Navalny: oltre 5 mila arresti

La rabbia russa è più forte dell’inverno. A temperature siderali con molti gradi sotto zero, da Pietroburgo a Vladivostok, la Federazione ha protestato di nuovo, come promesso una settimana fa, contro l’arresto dell’oppositore del Cremlino Aleksey Navalny. Da Khabarovsk a Novosibirsk, a migliaia anche per le strade degli Urali: in 31 città russe si sono ripetute marce, arresti e violenza delle forze dell’ordine. Mosca blindata quanto la zona che circonda la Lubjanka, quartiere generale del Kgb, i servizi segreti accusati da Navalny di essere colpevoli del suo avvelenamento: chiuse sette fermate della metro della Capitale per impedire l’arrivo dei manifestanti. Alla fine di un giorno di rabbia giovane e “massovye zaderzhanya”, arresti di massa, riporta l’ong Ovd-info, che il record di detenzioni della settimana scorsa è stato superato: più di 5 mila persone sono finite in cella da un lato all’altro del Paese. Mentre si continua ad inseguire la cifra precisa in continuo aumento dei fermati, i numeri di anni a cui rischiano di essere condannati i manifestanti sono già noti: 15 anni per resistenza alla polizia, 8 anni per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate. Mentre la Russia è per le sue strade, il tribunale di Mosca obbliga ai domiciliari – per aver violato le restrizioni sanitarie in tempo di pandemia – il fratello del blogger, Oleg Navalny, e l’attivista Ljubov Sobol. Fermata, ma rilasciata dopo poche ore, la moglie dell’oppositore, Yulia Navalnaya.

Un derisorio urlo di battaglia è stato ieri “Akvadiscoteka”, la pista da ballo subacquea che sarebbe nella presunta villa di Putin sul Mar Nero, la “reggia dello zar” al centro dell’ultima video-inchiesta di Navalny, vista sui social da oltre cento milioni di persone. Rielaborando lo sfarzo kitch dell’élite, alcuni hanno partecipato alle marce agitando scopini da bagno, perché quello di Putin, riferisce ancora l’indagine di Navalny, costerebbe oltre 500 dollari.

Contro la violenza esercitata dalle divise invia segnali di pubblica condanna la Farnesina: “Chiediamo il rilascio di quanti sono stati arrestati per aver fatto sentire pacificamente la loro voce”. Prima di arrivare nella Capitale russa il prossimo 5 febbraio per stringere la mano del ministro degli Esteri Serghey Lavrov, anche l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell chiosa: “La gente deve poter esercitare il suo diritto a manifestare senza paura della repressione, la Russia rispetti gli impegni internazionali”.

Era “il paziente tedesco” mentre si curava dall’avvelenamento da novichok a Berlino. Adesso, da quando ha deciso di fare ritorno in patria il 17 gennaio scorso, sapendo che c’erano poliziotti e manette ad attenderlo all’aeroporto, è diventato il “prigioniero russo” e per lui si schiera la nuova Washington del nuovo presidente Joe Biden. Il segretario di Stato Usa Antony Blinken è tornato a denunciare le “tattiche brutali usate contro i manifestanti: rinnoviamo l’appello alla Russia affinché rilasci i detenuti”. Immediata la risposta alla Casa Bianca inviata dal ministero degli Esteri di Mosca che accusa gli Usa di “interferenza grossolana” nella sua politica interna promuovendo manifestazioni non autorizzate e fake news: “il sostegno a una violazione della legge da parte del segretario Blinken è un’altra conferma del ruolo svolto da Washington dietro le quinte”.

Fisco. Ripartono gli accertamenti dell’Agenzia. E pure i maxi-incentivi (distorsivi) ai dirigenti

Il covid non ha fermato solo le cartelle esattoriali. Ci sono anche gli accertamenti fiscali, che nel 2020 sono rimasti in un limbo e stanno tornando solo ora alla piena operatività. Per la gioia degli sceriffi dell’Agenzia delle Entrate, i più abili dei quali, anche e proprio grazie agli accertamenti, possono arrivare a raddoppiarsi lo stipendio.

Tutto è relativo, ma la partita non vale poco. Per un dirigente di prima fascia dell’Agenzia, raggiungere gli obiettivi “di produzione” significa incassare quasi il doppio dello stipendio tabellare (55mila euro lordi) grazie a una retribuzione di risultato compresa tra 17 e 40mila euro che si aggiunge a una retribuzione di posizione fissa di oltre 36mila euro e a una variabile che va da 41 a 92mila euro. Anche nel complesso le cifre in ballo del sistema incentivante hanno un certo peso. Nel 2016 i dirigenti di vertice hanno percepito un premio medio di oltre 40mila euro per un totale distribuito di 1,84 milioni. Il premio medio per la seconda fascia, sul 2015, è stato invece di 14mila euro, per un totale di 18,5 milioni distribuiti, che salgono a 155,6 milioni per tutti gli altri, a cui sono andati in media 3.800 euro.

Le somme si basano su una convenzione triennale tra Agenzia e ministero dell’Economia, su un accordo sindacale e un complicato incrocio di variabili. La parte del leone riguarda appunto l’Area di contrasto all’evasione, per la quale il Tesoro nell’accordo 2019-21 aveva garantito all’Agenzia un incentivo fisso di 32,8 milioni sulla base di obiettivi che includono il numero dei controlli e degli accertamenti eseguiti, nonché la percentuale degli accertamenti assistiti da un’analisi finanziaria. A valle della Pandemia, nella nuova convenzione il premio fisso sul 2020 per quest’Area è stato ridotto di circa 10 milioni con l’azzeramento dei target sugli accertamenti.

Un sistema così non è a prova di distorsioni. Se viene premiato in base al numero dei controlli o degli accertamenti emessi, il funzionario ha tutto da guadagnare a mandare avanti degli accertamenti, indipendentemente dalla loro forza.

Eppure gli esempi di accertamenti che nel tempo si sono ridimensionati non mancano. Basti pensare ad alcuni casi eclatanti come quello di Google che, accusata di aver evaso imposte per 800 milioni, ha alla fine trovato un accordo con le Entrate per 306 milioni, meno della metà di quanto accertato dagli sceriffi di Ernesto Maria Ruffini. Che senza alcun dubbio, però, avevano raggiunto gli obiettivi annuali e portato a casa il relativo premio. E qui casca l’asino, che è quello dell’incentivo basato anche sull’accertato. “Ritengo che la scelta di individuare il quantum sull’accertato come uno dei parametri su cui fondare la ripartizione dell’incentivo non sia delle migliori – commenta Saponaro, docente di diritto Tributario dell’Università Unitelma di Roma – Sarebbe preferibile rispetto a puntare sempre sulla qualità degli accertamenti, piuttosto che sulla loro numerosità (soprattutto nel periodo finale dell’anno) e sulla loro ‘consistenza’, e ciò anche in relazione agli esiti processuali definitivi favorevoli all’Amministrazione finanziaria”.

 

Alitalia ceda gli asset allo Stato Solo così “Ita” potrà decollare

Nell’anno appena concluso la pandemia ha tolto dai cieli e dai sedili di Alitalia tre quarti dei passeggeri. se negli anni prima del Covid Alitalia andava male e perdeva soldi mentre il mercato andava benissimo, consentendo a imprese estere, low cost e non, di accrescere la loro presenza profittevole, ora il mercato va male e Alitalia malissimo, per effetto di una riduzione dei ricavi molto più consistente rispetto a quella realizzabile sui costi, diversi dei quali sono fissi rispetto ai volumi di traffico.

Questo scenario complica notevolmente il tentativo di rilancio pubblico che è stato avviato con la costituzione della newco “Ita”. Da un lato la gestione commissariale avrebbe bisogno di cedere quanto prima i compendi aziendali perché le perdite cumulate hanno eroso e forse azzerato i 900 milioni di prestito ponte erogati nel 2017 e i successivi 400 aggiunti a fine 2018, rendendo impossibile garantire la continuità dei voli coi soli ricavi da mercato e i ristori Covid. Sull’altro versante la Ita può contare su un’assegnazione di fondi pubblici a titolo di sottoscrizione del capitale per 3 miliardi e non avrebbe dunque problemi a subentrare nella gestione ma si trova di fronte a ostacoli che potrebbero risultare insormontabili, in gran parte generati dalle regole europee.

Si è prodotto in sostanza un doppio impasse: i vertici dell’amministrazione straordinaria non sanno come uscire dalla gestione e quelli della newco non sanno come entrarci. Li separa una muraglia cinese, anzi bruxellese. In primo luogo l’antitrust europeo, in capo alla commissaria Vestager, non comprende e non approva un passaggio diretto dei compendi aziendali dall’una all’altra ma vorrebbe un’asta pubblica, aperta a tutti. Vorrebbe anche che essa fosse organizzata per segmenti: la parte aviation separata dall’handling (attività a terra) e dalle manutenzioni e magari dentro l’aviation il marchio venduto a parte rispetto agli slot (i diritti di atterraggio e decollo, preziosi negli aeroporti congestionati), ed entrambi rispetto alla flotta e così via. Uno spezzatino aziendale al termine del quale della vecchia azienda si riconoscerebbe ben poco. Questo percorso oltre a compromettere l’unitarietà e continuità del vettore ha anche l’effetto di far evaporare le prospettive residuali di risanamento, peraltro già deboli.

Al passaggio diretto senza gara si oppone peraltro anche la normativa italiana sulle crisi d’impresa per la quale l’amministrazione straordinaria non ha solo l’obiettivo di garantire la continuità produttiva ma anche di tutelare i creditori incagliati, realizzando il massimo provento con la cessione dei compendi aziendali. E questo non si può ottenere con una cessione a trattativa privata, anche se essa è ammessa dalle norme appositamente introdotte nel 2008 in occasione della precedente crisi di Alitalia. Se si deve passare per una gara, però, i tempi si allungano e non è detto che l’esito sarà favore di Ita: potrebbero spuntarla candidati con più risorse da spendere.

In ogni caso, se anche domani la Ita potesse acquisire gli asset di Alitalia non potrebbe, sempre per norme comunitarie, usarli prima di ottenere il certificato di operatore aeronautico (Coa) e la licenza di esercizio, e non può conseguirle prima di aver acquisito i compendi aziendali poiché, non avendo mai svolto attività di trasporto aereo, non può dimostrarne la capacità secondo adeguati standard di sicurezza. Questo perché l’uscita dei compendi da un operatore aereo non conserva in capo al loro acquirente il Coa e la licenza, che decadono.

La spiegazione tecnica precedente può essere così riassunta: lo Stato ha in corso due gestioni pubbliche parallele, l’amministrazione straordinaria di Alitalia su cui ha speso più di 2 miliardi. tra prestiti, ristori e cassa integrazione, e la newco Ita ma mancano gli strumenti giuridici per trasferire i compendi e l’operatività della prima alla seconda. Le due mani pubbliche che detengono le due realtà non sono giuridicamente in grado di comunicare. Si può uscire dall’impasse? Credo solo attraverso un bypass normativo col quale i prestiti pubblici concessi ad Alitalia, di dubbia conformità alle norme europee e oggetto di procedura d’infrazione, sono rimborsati in natura attraverso il trasferimento allo Stato che li ha erogati degli attivi aziendali di Alitalia. Se il debitore non ha i soldi per rimborsare i prestiti allora cederà al creditore i beni che possiede, come tra una banca e un mutuatario insolvente. Questa soluzione potrebbe demolire la muraglia di Bruxelles, primo passo affinché la nuova azienda possa presentarsi alla pista di decollo del mercato. Poi n le occorrerà anche un piano di volo che le permetta di decollare, da alcuni chiamato piano industriale.

France first, Macron blinda l’industria dagli assalti stranieri

L’enorme incertezza dovuta alla crisi del Covid ha dato il colpo di grazia all’operazione fra Fincantieri e Stx, che non hanno rinnovato l’intesa. La società italiana avrebbe dovuto acquisire la maggioranza degli Chantiers de L’Atlantique sulla Loira dalla compagnia pubblica Naval Group. Un accordo fragile, perché gli italiani avrebbero comprato dai francesi il 50% e ne avrebbero preso l’1% in prestito (revocabile) per 12 anni. L’antitrust europeo ha poi avviato un’indagine per valutare la concentrazione, dopo le sollecitazioni del governo francese e di quello tedesco.

A Parigi, infatti, serpeggiavano alcuni timori. In particolare, il fatto che Fincantieri avesse creato una joint venture per le navi da crociera con la cinese CSSC. La preoccupazione principale dell’Eliseo, cavalcata anche cda sindacati e Parlamento, è il rischio di una cessione della sovranità tecnologica. E proprio “sovranità” è la parola chiave per comprendere la strategia industriale francese. Una strategia che non nasce certo oggi, anche se Macron la sta reinterpretando.

Il punto è che la Francia ha un forte capitalismo politico, per usare un’espressione di Weber attualizzata da un recente libro di Alessandro Aresu (Le potenze del capitalismo politico, La nave di Teseo). Il confine fra Stato e mercato è sfumato: i capitalisti privati non perseguono solo l’interesse personale, ma sono attori chiave nella strategia di potenza nazionale.

Lo si è visto platealmente con Carrefour. Il gruppo canadese di minimarket Couche-Tard aveva presentato un’offerta da 16 miliardi di euro per acquisire la compagnia francese. Ma il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha bloccato tutto. Carrefour ha un ruolo di primo piano nell’ecosistema francese. Con 85mila lavoratori, è il primo datore di lavoro privato in Francia. Ma è anche un gigante multinazionale, con oltre 12mila negozi in circa trenta Paesi.

Le Maire ha fermato l’acquisizione in nome della “sovranità alimentare” francese. Non si tratta di una vuota formula retorica, ma di un vero e proprio vincolo normativo. Negli ultimi anni alcune riforme hanno reso più rigide le regole sugli investimenti esteri nel Paese e il Codice monetario e finanziario (Cmf) è stato modificato in modo da includere nel regime regolamentato sempre più attività considerate strategiche. In questa categoria rientrano tutte le attività relative all’ordine pubblico, alla sicurezza e alla difesa nazionale. Non solo tecnologia e sistemi informativi, ma anche sicurezza alimentare, per l’appunto. L’obiettivo di Parigi è bloccare acquisizioni straniere che possano minacciare le catene di approvvigionamento del Paese. Una questione che si è rivelata di primaria importanza con la crisi del coronavirus, quando anche le biotecnologie sono state inserite fra i business strategici. Proprio nell’estate del 2020 sono state cambiate di nuovo le regole del gioco. Ora, il controllo governativo scatta se una società straniera (o meglio, extra-europea) supera il 10% dei diritti di voto in una società francese. Prima era il 25%.

Con questa nuova regola il numero di aziende francesi protette indirettamente dal governo sale vertiginosamente. Secondo il centro di ricerca indipendente AlphaValue addirittura il 69% delle società transalpine sarebbero fuori portata per investitori non-europei. La norma, introdotta con decreto a luglio 2020, doveva scadere alla fine de 2020, ma è stata prorogata fino al 31 dicembre 2021.

Derubricare queste scelte a mero protezionismo economico sarebbe ingenuo. Il modello di globalizzazione nato negli anni ’90 sull’onda del Washington Consensus sta mostrando i suoi limiti. La crisi da Covid ha evidenziato l’importanza di una visione strategica in economia. Anche chi era abituato ad affidarsi alle virtù del libero mercato sta cambiando prospettiva. Le Maire è passato dall’essere un alfiere delle privatizzazioni a proporre la creazione di “campioni europei” sostenuti dalle autorità pubbliche. Macron all’inizio del mandato sembrava uno paladino del liberismo europeista, e ora dice che non si può delegare il futuro al mercato.

In quest’ottica l’Europa politica è lo spazio naturale dove difendere gli interessi francesi. Uno spirito “napoleonico” ben evidente da una recente intervista del presidente francese a Le Grand Continent: “Si tratta di pensare in termini di sovranità europea e di autonomia strategica, in modo da poter contare da soli e non diventare il vassallo di questa o quella potenza senza avere più voce in capitolo”. Non è semplice protezionismo, è politica industriale, che potrà trovare un alleato in Thierry Breton, il risanatore della Telecom francese, ora commissario europeo al mercato interno. Non a caso a marzo 2020 Breton ha lanciato una nuova “strategia industriale europea”, basata sui seguenti pilastri: economia verde, transizione digitale, Europa come potenza globale.

Il progetto europeo ha affinità non da poco con la visione di Macron che ha trovato espressione nel piano di ripresa France Relance: un programma da 100 miliardi imperniato sul rilancio dell’industria nazionale a suon di sussidi, con un’accelerazione nel campo dell’energia e della sostenibilità. Per la Francia l’Europa non è solo un’arena, ma è anche uno strumento, perché a Parigi sanno di non potercela fare da soli. Soprattutto con una Germania che si è avvicinata al Sud con l’accordo sul Recovery Fund.

Proprio qui entra in gioco l’Italia, secondo partner commerciale di Parigi. Nel 2019 l’interscambio commerciale fra i due Paesi ha superato gli 86 miliardi di euro. Se è vero che l’Italia era in avanzo di 13 miliardi nei rapporti bilaterali, nello stesso anno i francesi avevano 71 miliardi di stock di investimenti in Italia, contro i 32 italiani in Francia. I francesi amano investire in Italia, ma sono gelosi dei loro confini. Non a caso il Copasir ha rafforzato la sorveglianza sull’attivismo francese nel nostro Paese, in particolare su banche e assicurazioni.

Esistono però anche esempi di collaborazione virtuosa, come Naviris, una joint venture per il settore militare proprio fra Fincantieri e Naval Group. Un embrione di quell’integrazione economica franco-italiana che l’economista Marcello De Cecco auspicava per controbilanciare lo strapotere tedesco nella manifattura europea.

Che la politica industriale di Parigi abbia bisogno dell’Italia è da tempo un dato di fatto. Che la penisola si possa ridurre a un semplice asset da usare per dialogare sullo stesso piano con la Germania è un rischio

Porti asiatici gonfi di merci: ritardi e prezzi alle stelle

Magari il battito d’ali di una farfalla in Asia non provocherà un uragano in Sudamerica, ma i porti intasati in quel continente possono di certo farsi sentire anche in una piccola officina ciclistica di Lorenteggio, Milano: molti pezzi (cambio, freni, eccetera) vengono prodotti esclusivamente in Cina e, tra i ritardi di produzione accumulati durante i lockdown e il collo di bottiglia della logistica, le biciclette scarseggiano. Questa situazione ha creato un altro problema e Davide, uno dei due proprietari, lo conosceva prima ancora che ne scrivesse il Financial Times martedì 19: “I prezzi dei container per le merci sono quintuplicati”. È vero: per l’Europa si è passati in media da duemila dollari a 9mila in pochi mesi, ma le agenzie specializzate riportano anche offerte da 12mila o 16mila dollari per ogni container da 40 piedi (all’ingrosso 12 metri di lunghezza per due metri e mezzo di larghezza e altezza). Questa situazione eccezionale dovrebbe durare almeno fino al primo trimestre del 2022.

Qual è il problema? All’ingrosso questo. L’Asia, se non è proprio la fabbrica del mondo, è almeno la fabbrica delle fabbriche del mondo: produce semilavorati e beni primari necessari a moltissime produzioni in Occidente. Lars Jensen della società di consulenza SeaIntelligence ha spiegato l’ovvio al FT: “È un problema di collo di bottiglia. . . Questi prezzi sono causati dai clienti che litigano per una risorsa scarsa: i container”. Bert Colijn, economista senior di ING, ha portato il discorso più in là: “La carenza di offerta e le tariffe di trasporto più elevate potrebbero frenare un po’ la crescita del commercio” e contribuire a “pressioni inflazionistiche temporaneamente più elevate nel corso dell’anno”. In sostanza, la situazione della logistica potrebbe rallentare la crescita mondiale in un momento in cui ce ne sarebbe molto bisogno e, cosa altrettanto negativa, far aumentare i prezzi dei prodotti (tipo quello della bici che vorreste comprare).

È un altro dei mille effetti del Covid-19. Prima si sono fermate la Cina e mezza Asia, poi Europa e America, dove sono rimasti bloccati migliaia e migliaia di container che non è stato (e non è) facile portare indietro. Con la riapertura, esplodono gli ordini di imprese e clienti, le merci si accumulano nei porti asiatici e – nonostante un po’ di nuovi container e nuove navi messe in campo – il traffico è lontano dal ritorno alla normalità: un po’ meglio va sull’asse Cina-Usa per l’intervento dei governi; la Ue come al solito fischietta e lascia fare agli armatori.

È il “collo di bottiglia” che spinge in alto le tariffe e consente ai trasportatori di chiedere un extra-prezzo per la consegna nei tempi stabiliti. E i problemi iniziano a vedersi: a volte – è il caso di alcuni produttori di elettrodomestici inglesi – l’aumento del prezzo dei container è tale da superare il margine di guadagno e allora si preferisce svuotare i magazzini e sperare nel futuro.

Quando non è il prezzo,il problema sono i tempi: Volkswagen ha comunicato che la sua grande fabbrica di Volksburg ha ridotto la produzione perché non arrivano i semiconduttori necessari su alcuni modelli. IHS Markit ha segnalato, nel suo sondaggio di dicembre, che i tempi di consegna dei fornitori dell’Eurozona sono al livello peggiore dai lockdown di aprile e che le aziende intervistate affermano che le scorte di materie prime e semilavorati stanno finendo e segnalano un rapido aumento dei prezzi dei beni primari necessari alla produzione (input). Fin qui lo stato dell’arte, ma certo ci sarebbe da domandarsi quanto razionale – e sostenibile, in primo luogo a livello ambientale – sia un sistema in cui si affida a un Paese (o a un continente) il compito di essere la manifattura del pianeta.

La lotta di classe nella logistica alle prese col sistema Amazon

Se qualcuno nell’ultimo ventennio si fosse chiesto dov’era finita la conflittualità operaia, la risposta sarebbe stata una sola: tra i facchini. È nella logistica che a partire dalla grande crisi finanziaria (2008) si forma, ignorato per lo più da media e partiti, un movimento di lotta che ha trasformato un settore che all’ultima stima disponibile valeva nel suo complesso oltre il 7% del Pil, 116 miliardi e mezzo. Nel 2020 però i ricavi del mercato della contract logistics – cioè all’ingrosso quello dei corrieri specializzati – erano previsti fermarsi a quasi 78 miliardi, in calo del 9,3% rispetto agli 86 dell’anno precedente (stima dell’Osservatorio Gino Marchet del Politecnico di Milano). Colpa soprattutto del blocco del commercio internazionale: la maggior parte del fatturato 2019 infatti, poco meno del 60%, dipendeva dal segmento B2B (business to business), quello dei trasporti tra imprese, ma in questi anni è esploso anche il B2C (business to consumer) – insomma i pacchi che vi arrivano a casa – cresciuto negli ultimi anni del 30% contro il 5% del B2B (dati dell’Autorità sulle comunicazioni). Nel 2019 la sola logistica terrestre contava poco meno di 100mila imprese, per lo più piccole o piccolissime, e quasi 900mila occupati: se parliamo delle sole consegne di pacchi in 5 anni si è passati dai 250 milioni movimentati nel 2014 ai circa 625 milioni del 2019 col boom dell’e-commerce.

12 anni di conflitto. Settore ricco, dunque, in cui quella che un tempo si chiamava lotta di classe vede ancora in campo entrambi gli attori e non solo “i padroni” come in gran parte dell’industria e dei servizi. La ragione è anche, per così dire, consustanziale alla logistica per due ordini di motivi: 1) non si può “delocalizzare” il traffico merci più di tanto; 2) il rispetto dei tempi è parte rilevante di questa industria: scioperare e bloccare i camion fa davvero sanguinare le imprese ogni ora che passa. E basta guardare le cronache locali per sapere che nella logistica si sciopera: un magazzino qui, uno lì; piccole vertenze o enormi come quella della Fedex-Tnt, che vuol licenziare 6.300 lavoratori in Europa; singoli magazzini o scioperi generali come quello indetto da SiCobas venerdì e che ha causato, tra le altre cose, il blocco al porto di Napoli. Sono “lavoratori essenziali” in tempi di Covid, eppure facchini e corrieri hanno avuto poco e nulla anche in termini di diritto alla sicurezza (ricordate il focolaio alla Brt?). La sigla SiCobas, che magari confondete con altre del sindacalismo di base, è importante in questa storia. È intorno a SiCobas che si compatta oltre dieci anni fa il movimento dei facchini: parte dalla cintura di Milano e arriva nei magazzini di mezza Italia, portando nuova capacità di conflitto dove il sindacato tradizionale è spesso asfittico, sempre prudentissimo.

La reazione: i Dl Salvini. Il ciclo di lotte dei primi anni Dieci, animate in gran parte da lavoratori immigrati, ha cambiato la logistica. Tradizionalmente si puntava a spremere utili comprimendo i salari, specie attraverso il sistema dei subappalti affidati a cooperative che vanno e vengono, tenendo i “soci lavoratori” nella perenne paura del licenziamento e costringendoli a turni assurdi (da 12-14 ore) e ritmi infernali. “Su circa 42 mila nostri conteggi sulle buste-paga dei soci di cooperativa, in più del 90% dei casi emergevano differenze retributive superiori ai 1.000 euro per ogni anno lavorato, e nel 45% dei casi superiori ai 5.000 euro”, ha scritto Giuseppe D’Alesio dell’esecutivo nazionale di SiCobas.

Così si viveva – e a volte ancora si vive – nei magazzini della grande distribuzione o negli hub dei grandi corrieri, a non dire delle piccole aziende. Scioperi e picchetti, spesso repressi con durezza dalle forze dell’ordine, hanno portato qualche risultato: il più rilevante è che tra i corrieri diminuiscono le cooperative e aumentano Srl o assunzioni dirette. Il successo di quegli scioperi aveva contagiato altri settori, come la filiera dell’ agroalimentare, in particolare in Emilia Romagna: la reazione non si è fatta attendere e il pubblico la conosce come “decreti Salvini”. La reintroduzione del reato di blocco stradale anche su via ordinaria, ad esempio, è pensato esplicitamente per la logistica: gli aggravi di pena per reati o infrazioni commessi durante manifestazioni fanno il resto. Tra logistica e agroalimentare (vedi caso Italpizza) sono ormai centinaia i processi aperti contro sindacalisti e lavoratori nella sola “rossa” Emilia Romagna.

La nuova fase. Nel frattempo l’intero settore andava incontro – ai suoi vertici – a un processo di fusioni e acquisizioni massiccio, fermatosi (per ora) nel 2020: riporta l’Osservatorio del Politecnico che su 92 operazioni concluse dal 2015 che hanno coinvolto fornitori di logistica internazionale (nel 34% dei casi) e nazionale (66%), solo 9 hanno avuto luogo nel 2020. Un’analisi dell’Agcom sui servizi postali di ogni genere, iniziata nel 2018 e ancora in corso, ha individuato solo 17 operatori rilevanti: Amazon, Asendia, Brt, Citypost, Dhl, Elleci, FedEx, GLS, Hermes, Milkman, Nexive, Poste Italiane, Rpost, Schenker Italiana, Sda, Tnt, Ups. Quelli davvero grandi, comunque, si contano sulle dita di una mano.

Al processo di concentrazione s’è aggiunto l’avvento nel settore di Amazon. Non solo l’e-commerce è in enorme espansione (e la piattaforma di Jeff Bezos vi ricopre un ruolo dominante), ma Amazon è sbarcata anche nei trasporti rivoluzionando il settore: automazione e standardizzazione delle attività, niente subappalti, molto lavoro in somministrazione. Il rispetto formale dei contratti si declina, però in un’organizzazione che diremmo post-umana: riduzione al minimo delle pause, controllo di ogni attività da parte dei capisquadra, tempi di lavoro assoggettati a quelli di algoritmi e robot operativi, gamification (tipo le “medagliette” date a chi fa più consegne). Il massimo d’innovazione, paradossalmente, riporta il terreno di scontro in un luogo tradizionale per il sindacato: quello della resistenza operaia ai tempi della macchina. È puro Novecento: il Chaplin di Tempi moderni oggi vive in quei magazzini.

Nel frattempo, dicevamo, il braccio logistico con cui la società di Jeff Bezos ha integrato verticalmente la sua attività di vendita online s’è presa il mercato delle consegne B2C, quello in maggiore espansione: ha scritto Agcom che in soli 4 anni – tra il 2016 e il 2019 – la quota di mercato di Amazon nelle consegne deferred (3-5 giorni lavorativi) è passata dal 17 al 59% (Poste Italiane ha il 36% e gli altri non contano); nelle consegne “espresse”, che rappresentano oggi l’84% del mercato, l’attore dominante è ancora Gls con una quota del 40%, ma Amazon dal 2016 è passata dal 3 al 24% (seguono Brt col 17 e Poste col 10%). I numeri dell’azienda di Bezos, peraltro, sono sicuramente cresciuti nel 2020. Risultato: oggi si trova ad essere sia cliente che concorrente dei corrieri tradizionali e può decidere, dato il suo ruolo nel commercio su internet, come e quanto espandersi nel mercato B2C.

Avere a che fare con una grande azienda è certo più facile per un sindacato rispetto a un pulviscolo di cooperative e padroncini, ma Amazon non è certo un cliente facile, come non lo erano le mega-industrie del secolo scorso: nella sezione Motherboard di Vice qualche mese fa sono stati pubblicati una serie di documenti interni che dimostrano come il controllo di Bezos & C. sui loro impianti sia totale. Amazon dispone di quella che potremmo definire una rete di intelligence – organizzata da una sezione chiamata “Centro Operativo di Sicurezza Globale” – per sorvegliare la sua catena produttiva, gli umori dei lavoratori e le organizzazioni sindacali (quante riunioni, quanti partecipanti, argomenti trattati). Siccome la realtà ama i simbolismi, tra le aziende assunte da Amazon a questo fine c’è anche l’agenzia investigativa Pinkerton, che tra Otto e Novecento si distinse per certe spiacevoli praticacce anti-sindacali. Ieri era l’acciaio, oggi sono i pacchi (e quanto ad Amazon non dimentichiamo il cloud), ma il gioco è lo stesso.

Io, mio nipote e il clima. La sera torno a casa al calduccio, col mio bel riscaldamento globale

L’altro giorno ero a pranzo con mio nipote, un ragazzino molto sveglio e intelligente. A un certo punto mi chiede: “Scusa zia, tu lo sai cos’è il riscaldamento globale?”. E io: “Certo che lo so, io lo dico sempre. In questa casa fa freddo! Mettiamo il riscaldamento globale, quello sì che riscalda globalmente, lo dice la parola stessa. Ma nessuno mi ascolta. Dicono che si sta benissimo con il riscaldamento autonomo, accendi e spegni quando vuoi e risparmi pure!”. E mio nipote allarmato: “Ma che dici zia? Il riscaldamento globale è un’altra cosa. Riguarda tutta l’umanità”.

“Certo”, ho risposto: “Tutti hanno bisogno di stare al caldo! Uno la sera torna a casa infreddolito e ha tutto il diritto di starsene al calduccio col suo bel riscaldamento globale!” – “Ma no zia, il riscaldamento globale è il mutamento del clima terrestre già sviluppatosi alla fine dell’800” – “Ah si, addirittura? Io pensavo che a quell’epoca si scaldassero davanti al caminetto” – “Ma no zia, che stai dicendo che c’entra il caminetto?” – “C’entra, c’entra eccome. Per esempio, a casa di mia nonna, in campagna, c’erano tre caminetti! Uno in camera, uno in salotto e uno in cucina. Faceva un caldo globale. Lì però, ci vuole la legna buona, se no la fiamma non prende” – “Ma no zia, io parlavo del mutamento del clima terrestre caratterizzato dall’aumento della temperatura media globale, e da fenomeni atmosferici: le alluvioni, la siccità, la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento degli oceani, con ondate di caldo e di freddo. Il mondo è in pericolo, dobbiamo far presto prima che sia troppo tardi!” – “Eeeh, calma! Adesso però non mi mettere fretta! Io lo sapevo benissimo, tua zia è informata sai. Dobbiamo correre ai ripari! Qui deve intervenire il condominio. Domani telefono all’amministratore!”.