Rinascita Americana. The Donald al microscopio “Trump, vissuto come una truppa d’occupazione”

“Ogni libro ha la sua storia”, scrive Giovanna Pancheri nell’ultima pagina del suo Rinascita Americana, appena pubblicato da Sem e dedicato agli anni paradossali, ridicoli, pericolosi e tragici degli Stati Uniti sotto Trump.

Il testo ha molte storie (non solo nel libro ma storie del libro, ovvero, eventi ignoti o irrilevanti diventano storie che cambiano tutto) e questo ne fa un caso che merita attenzione. Tre diverse motivazioni spingono a questa scrittura: lo stupore (dono ormai raro nel giornalismo), l’impulso professionale di raccontare, l’interpretazione di fatti che nascondono spesso il senso e il mandante. Il “trumpismo” è troppo semplice e troppo grave per presentarlo come un fenomeno un po’ strano, anomalo, ma chiaramente spiegato, di volta in volta, da esiti e conseguenze.

Sta cambiando la Storia e l’autrice coglie i dettagli che lo provano. A differenza di molti giornalisti, Pancheri sa di raccontare un’America nuova, inedita, radicalmente diversa dal suo profilo tipico, e avvisa subito che qualcosa di inaudito sta avvenendo; non farà collezione di spiegazioni normalizzanti. Invece consentirà al lettore di giudicare vastità e gravità degli accadimenti, grazie all’orizzonte ampio (affollato di eventi impossibili) e a un percorso narrativo con trovate importanti. Il libro dà e chiede attenzione: la dà perché analizza ogni dettaglio dell’uragano Trump, in pagine chiare, fitte di eventi, che esprimono la “pesantezza” del curriculum dell’ex presidente. Il libro chiede anche attenzione perché ogni sua parte è un grappolo di episodi, voci, luoghi e decisioni, cambiamenti brutali e piccoli fatti sconosciuti che compongono un mosaico di Storia, politica e vita umana.

C’è un aspetto – o, se volete, una invenzione narrativa – che rende originale e diverso Rinascita Americana. La narratrice vi pone di fronte alle arrischiate avventure della vita americana ai tempi di Trump, ma non come voice over di un documentario. Piuttosto ne assume la regia. Nel passare da una pagina all’altra vi rendete conto di due fatti rari: la narratrice interviene negli eventi di cui sta parlando (“… a quel punto mi sono accorta che…”, “… la donna mi ha fermato per dire…”); oppure il reportage diventa racconto, con l’autrice come personaggio o come protagonista, e gli intervistati entrano in scena come in una sorta di teatro, un espediente che mantiene teso l’interesse del lettore ma anche la credibilità dell’evento,

Il titolo del libro è ovviamente un augurio coraggioso, è la testimonianza di un rischio molto alto (come si è visto nell’assalto al Campidoglio di Washington) e la dichiarazione che l’America, al momento, ha superato la prova.

Da adesso leggere il libro di Giovanna Pancheri porterà fortuna all’America e a noi, che a quel Paese siamo così legati, e abbiamo subito Trump come una truppa di occupazione.

 

Rinascita Americana, Giovanna Pancheri, Pagine: 256, Prezzo: 17, Editore: SEM

Gamestop: il “canarino”

La doverosa premessa è che nella finanza i soldi non vengono “bruciati”, come amano dire i giornalisti che seguono quel che accade sui mercati come fossero fenomeni naturali. Il denaro passa solo di mano. E allora cosa sta insegnando il caso Gamestop? Come noto dal sito Reddit

è partito un assalto di centinaia di migliaia di piccoli trader amatoriali ad acquistare azioni di alcune aziende – come GameStop, che vende videogiochi – facendole schizzare. Sono società con un tratto in comune: business in crisi e basso valore in Borsa. Sul loro fallimento hanno scommesso molti fondi, che hanno posizioni “short”: prendono cioè in prestito le azioni da un intermediario per venderle sul mercato per poi riacquistarle e restituirle dopo un certo tempo. Se il loro valore cala, gli shortisti guadagnano, altrimenti ci perdono, anche all’infinito se il titolo sale di continuo. L’assalto a Gamestop ha portato il titolo da pochi dollari a 350. Due fondi hanno dovuto chiedere il salvataggio; le posizioni short sui titoli sotto tiro di “WallStreetBets” (il canale Reddit) sommano perdite potenziali per 40 miliardi. È la rivincita del “parco buoi” (i risparmiatori) sugli speculatori? Sì e no. Se anche dei grandi hedge fund perderanno miliardi, altri (chi ha prestato i titoli) ne guadagneranno. Non c’è una spinta etica: è la finanza a muovere l’assalto dei piccoli trader. Secondo l’economista di Princeton Atif Mian, Gamestop è solo il canarino nella miniera, l’epilogo surreale della finanziarizzazione dell’economia iniziata negli anni 80. Il mercato non serve a raccogliere fondi dai risparmiatori per darli agli imprenditori che fanno crescere l’economia. Il settore finanziario è quasi raddoppiato in termini di crediti concessi per dollaro prodotto, ma gli investimenti non sono saliti e le imprese hanno usato il mare di liquidità per ricomprare le proprie azioni e farne salire il valore per accontentare gli azionisti, gonfiando il risparmio dei ricchi e aumentando le disuguaglianze. La deregolazione finanziaria negli Usa permette ai fondi di prendere posizioni “short” superiori anche al 200% del “ flottante” (il numero di azioni di una società scambiate sul mercato). I trader “millennials” di WallStreetBets hanno solo capito che si poteva vincere e fare soldi. Che invertano il trend che da 40 anni guida la finanza è tutto da vedere.

Dumbo diventa razzista: nessuno è più al sicuro (nemmeno la treccani!)

Bocciati

Nazigatti. Disney+ ha rimosso dagli account dei piccoli under 7 anni inglesi tre grandi classici dell’animazione per bambini: Peter Pan, Gli aristogatti e Dumbo. Le ragioni sono diverse ma tutte le censure sono motivate dal fatto che i film in qualche modo “denigrano popolazioni e culture veicolando stereotipi sbagliati con messaggi dannosi”. Nello specifico Peter Pan chiama i nativi americani “pellerossa”, il gatto siamese Shun Gon degli Aristogatti mette in cattiva luce gli asiatici. E l’adorabile Dumbo? Nel film la banda dei corvi ridicolizza la schiavitù afroamericana. Onestamente, abbiamo esaurito le parole per commentare.

True colors. Di che colore è Ronaldo? Il Piemonte era arancione come la Valle d’Aosta. Voi direte: e quindi? Il vigente Dpcm stabilisce che, in arancione, non si può uscire dal comune e dalla Regione, se non per “comprovati motivi di lavoro, studio, salute e necessità”. Vale per tutti? Non per Ronaldo, che in settimana ha postato sui suoi canali social un video da un hotel di Courmayeur (riaperto per l’occasione) dove fa il bagno nella piscina riscaldata con la fidanzata. I carabinieri di Aosta stanno svolgendo accertamenti per capire come e perché si sia spostato da Torino nonostante il divieto, per procedere alla eventuale sanzione da 400 euro: denaro che non gli farà nemmeno il solletico, ma spiega bene in cifra il concetto di “la legge è uguale per tutti”.

Promossi

Idiozia contro Enciclopedia. Una giornalista ha attaccato la Treccani, perché nella spiegazione del verbo lavorare tra gli esempi cita l’espressione “lavorare come un negro (o un dannato)”. La risposta è stata fulminante. E qui la riportiamo per intero: “In un dizionario della lingua italiana non soltanto è normale ma è doveroso che sia registrato il lessico della lingua italiana nelle sue varietà e nei suoi ambiti d’uso: dall’alto al basso, dal formale all’informale, dal letterario al parlato, dal sostenuto al familiare e anche al volgare. Il dizionario ha il compito di registrare e dare indicazioni utili per capire chiaramente in quali contesti la parola o l’espressione viene usata. Starà al parlante decidere se usare o non usare una certa parola; se esprimersi in modo civile o incivile”. Giustamente su Twitter hanno fatto notare che “non siamo in uno Stato etico in cui una neolingua ripulita rispecchi il dover essere virtuoso di tutti i sudditi”. E comunque, puristi della lingua, più delle parole dovrebbe farvi paura il loro significato: i lavoratori, di tutti i colori, vengono selvaggiamente sfruttati nei campi e davanti ai computer, in Italia oggi. Ci pensate anche quando comprate la verdura a prezzi stracciati nei supermercati?

Non classificati

Something is rotten in the state of Denmark. In Danimarca è nata iConsent, l’app del sesso. E cosa sarà mai? È un sistema attraverso il quale i due partner prestano il loro consenso al rapporto sessuale: con un clic si ufficializza l’intenzione di fare sesso con un altro utente della app, un contratto valido per 24 ore. “L’utente A”, abbiamo letto su La Stampa, “affida alla app il numero dell’utente B. L’applicazione contatta il citato B, che può accettare o rifiutare. Vengono anche proposti suggerimenti su contraccezione e link a pagine che offrono aiuto in caso di abuso”. Sono impazziti in Danimarca? No: secondo una legge introdotta a dicembre sul modello di quella svedese, l’amore senza consenso esplicito è considerato stupro. Quindi occorre esplicitarlo. Del resto il vecchio Kierkegard nel “Diario del seduttore” dice chiaramente “soltanto nella libertà voglio possederla”, ma forse così si sta esagerando… Che volete: “o tempora, o amores”.

 

Renziani, il fascino dell’assurdo: “crisi? Boh, se c’eravamo dormivamo”

Vale tutto. Quanta grazia Italia Viva. Se i renziani non ci fossero bisognerebbe inventarli. Dopo aver causato la crisi di governo hanno sostenuto in tutti i modi di non aver niente a che fare con la crisi, testualmente: “In questi giorni abbiamo sentito cose inascoltabili: noi non abbiamo disseminato mine ma fatto proposte”, Bellanova “dixit” (le dimissioni di un paio di ministri accompagnano sempre le proposte, un po’ come il cioccolatino col caffè). Dopodiché, non paghi del bombardamento a palle incatenate sul presidente del Consiglio, hanno cominciato a sostenere di non avere problemi con le persone o con i nomi: “Quello che ci interessa è come si affronta la crisi”, con la quale, abbiamo stabilito, loro non c’entrano nulla; e infatti “non discutiamo gli uomini, discutiamo prima dell’impianto programmatico”. Ed ecco il colpo di scena: nessun veto su Luigi Di Maio. Di Maio chi? Il leader del Movimento Cinque Stelle, il cui immobilismo ha paralizzato il Paese, a detta renziana, a partire dal reddito di cittadinanza per arrivare fino al Mes? Dunque l’ “impianto programmatico” pentastellato, sotto il segno dell’Acquario e con le elezioni alle porte, non è più così male… o più semplicemente pur di continuare a bersagliare Giuseppe Conte (con cui dicono di non aver problemi) sono disposti a proporre financo l’improponibile. Una buona sintesi dell’assurdo viene dal vicesegretario del Pd Andrea Orlando: “Mi sembra strano che ci siano persone avvedute e intelligenti che sostengano che per superare una fantomatica e assolutamente inventata subalternità ai 5 stelle si possa indicare Di Maio a Palazzo Chigi”. Ma i renziani sono così: questo è il loro fascino.

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Concetti relativi. Come se le ironie, i calembour, i sinonimi maliziosi per mettere in ridicolo la discutibile famiglia allargata dei “responsabili” non bastassero da soli, ad assestare un colpo ferale all’intera categoria ci ha pensato il fuggevole affaccio sul gruppo del senatore forzista Luigi Vitali. L’uomo, di pulsioni nobili (“in questo momento bisogna lasciare da parte le contrapposizioni”) e natura mutevole, ha comunicato a sera di aver lasciato Forza Italia per sostenere Conte, per poi all’alba rettificare e rientrare all’ovile dell’opposizione: “C’è stato un ripensamento. Mi ha chiamato Berlusconi. Con il presidente ho un rapporto di amicizia dal 1995 e mi ha detto che non potevo fare una cosa del genere per la mia storia e per il mio lavoro in tutti questi anni in parlamento e non solo”. Gli affetti prima di tutto. Perché la responsabilità alla fine è un concetto relativo: chi può assumersi la responsabilità, quella sì, di stabilire se sia più importante mettere in salvo il governo di un Paese durante una pandemia o restare fedeli ad un sentimento e ai suoi trascorsi? Ma c’è uno scrupolo su tutti che ha mosso il vitalismo di Vitali: “Evitare le elezioni anticipate”. Questo sì che è dirimente. Che sia in maggioranza o all’opposizione la vera responsabilità sta nel non perdere il posto a sedere.

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Lacrime di Agnelli Ma cos’è questa crisi? Spese pazze (della Juve) ai tempi del Covid

“Nel biennio 2020-2021 il mondo del calcio accuserà perdite fino a 8,5 miliardi. Nella stagione scorsa abbiamo avuto gli stadi vuoti per 3-4 mesi, la stagione in corso si svolgerà interamente senza tifosi allo stadio. In tema di diritti tv ci sono broadcaster che non pagano e contrazioni ovunque. Nel calciomercato ci sono stati quest’anno movimenti per 3,9 miliardi contro i 6,5 di un anno fa, il che significa 2,6 miliardi milioni in meno nel giro di un anno. È evidente che bisogna correre ai ripari e fare qualcosa di diverso a cominciare dai format delle competizioni europee: dobbiamo pensare ai prossimi, nuovi consumatori del prodotto calcio, la Generazione Z, e chiederci se è questo il prodotto che vogliono”.

Parole e musica di Andrea Agnelli, presidente della Juventus e dell’Eca (European Club Association), intervenuto nei giorni scorsi al webinar di “News Tank Football”. Un vero e proprio discorso della corona che tutti i media hanno riportato senza che nessuno alzasse però la mano per chiedere: “Scusi, da che pulpito arriva la predica?”.

Eh sì, perchè ammesso e non concesso che il carrozzone del calcio si ritrovi sull’orlo del baratro per colpa della pandemia (ma la folle corsa verso lo schianto era in atto da anni, e il Covid è intervenuto solo a dare l’ultimo colpo d’acceleratore), la domanda vera è: che cos’ha fatto la Juventus per adeguarsi alle nuove ristrettezze?

Il club di Agnelli, per chi si fosse distratto, nel primo calciomercato dell’era Covid, quello degli zero acquisti operati da top club come Real Madrid e Barcellona e delle spese al risparmio di molti top club inglesi a cominciare dal Liverpool, a dispetto della crisi in atto ha proceduto agli acquisti di Federico Chiesa della Fiorentina, in prestito con obbligo di riscatto per un totale a regime di 60 milioni di euro, di Alvaro Morata dell’Atletico Madrid, in prestito con diritto di riscatto per un totale a regime di 55 milioni, di Dejan Kulusevski dell’Atalanta, costato 35 milioni più 9 di bonus (totale 44) e di Arthur del Barcellona, scambiato con Pjanic più aggiunta di conguaglio e iscritto a bilancio per un valore di 82 milioni ammortizzabili in 5 anni; il tutto senza calcolare gli ingaggi riconosciuti ai quattro giocatori, altissimi come nel caso di Arthur e Morata (7,5 netti calcolando i vari bonus) e addirittura a salire per lo spagnolo nel caso la Juve decida di esercitare il diritto di riscatto. Ebbene, se è vero che il calciomercato, come ha ricordato Agnelli, ha subìto causa Covid una contrazione di 2,6 miliardi, passando da un giro d’affari da 6,5 a uno da 3,9, di certo non è stata la Juventus a contribuire al calo. Il club bianconero ha infatti iscritto a bilancio 186 milioni per gli acquisti di Chiesa, Kulusevski e Arthur più 55 (per un totale di 241) nel più che probabile caso di conferma d’acquisto di Morata.

Come noto, tra le tante proposte portate avanti da Agnelli nella doppia veste di presidente Juventus ed Eca, c’è anche quella di ritoccare il format della Champions League creando a tutti gli effetti una sorta di numero chiuso che assicuri la partecipazione, con relativi ricchi appannaggi economici, ai principali top club dei cinque Paesi dominanti, Inghilterra, Spagna, Italia, Germania e Francia. Insomma, Covid o non Covid, c’è chi può dare le carte e giocare facile. E la crisi pandemica c’entra come i cavoli a merenda. Diciamolo almeno.

 

Parole brutalizzate. Analfabeti di ritorno, ora e sempre resilienza! E non è Resistenza

Tullio De Mauro, recentemente evocato su queste pagine da Marco Travaglio, scuoterebbe sconsolato la testa. Chioserebbe che “è l’analfabetismo di ritorno, sempre lui”. Era il suo chiodo fisso. Anche nella breve stagione che lo vide ministro dell’Istruzione (perché anche cotali stranezze infine capitano), il grande linguista non dimenticava mai la iattura che pesava sul Paese. La gente che va a scuola e che torna quasi analfabeta. Povera o del tutto spoglia di grammatica, di capacità di analisi logica e di vocabolario. Perdonatemi perciò se stavolta non racconterò storie di persone o edificanti storie locali, ma parlerò di una disgrazia delle menti che mi va turbando con insistenza quotidiana.

Succede infatti che non riesca più a prendere in mano un documento, non possa più leggere elogi di popoli orgogliosi che non si piegano, scorrere tesi di laurea impegnate su qualsiasi fronte del pensiero, senza trovare la parola magica del momento: resilienza. Mi chiedo con qualche collega come abbiamo fatto a descrivere finora il mondo, il progresso, il conflitto sociale, le virtù civiche, senza usare la parola obbligatoria, la parola-status del tempo della pandemia. Ma soprattutto come ha fatto Hegel, come ha fatto Voltaire, come ha fatto Popper. Ma possibile che nessuno abbia mai insegnato loro ai propri tempi la parola senza la quale non possiamo più vivere? Dalla fisica dei materiali essa è piombata nel dibattito sociale, culturale, politico. Trascinatavi da personaggi di pochi scrupoli, la poveretta non aveva fatto i conti con l’analfabetismo di ritorno. Non sapeva che sarebbe stata snaturata. Sapeva di significare con certezza capacità “di un materiale di assorbire un urto senza rompersi” o “di un individuo di superare un evento traumatico”, sapeva cioè di essere indicativa della capacità di adattamento, e si è ritrovata a significare sempre di più “resistenza”, forse per via della rima truffaldina. Nessuna meraviglia.

Una mia collega che reputavo sapesse carduccianamente di greco e di latino mi ha recentemente rassicurato che sta “finalizzando” il suo articolo per la rivista che lo attendeva. Ho così pensato a quel telecronista sportivo di una tivù commerciale dal quale avevo anni fa sentito dire per la prima volta “finalizzare” invece che “concludere” l’azione. Per dedurne che l’analfabetismo è davvero come la moneta cattiva, arriva ovunque. Così ora dev’essere con chi ha sentito “resilienza” e si è convinto per vie imperscrutabili che sia una variante elegante di resistenza. Più carina, più colta (proprio come il finalizzare, che al cospetto del povero “finire” sembra socio-filosofia).

Ho provato nostalgia per il grande Vittorio Gassman di “desemplificare”, che era comico ma non errato. E ho deciso che qui occorre la matita blu. Perché certo per resistere bisogna un po’ sapersi adattare, questo è indubbio; così come per adattarsi bisogna essere un po’ resistenti. Ma le parole, diversamente dai suoni, stanno su pianeti diversi. I partigiani furono resistenti, anche se dovettero riorganizzare la loro vita. E, come loro, tutti quelli che si opposero alle ingiustizie della storia. Mentre incombe ora su di noi il rischio che un giorno sentiamo alzarsi in un corteo il coro “ora e sempre resilienza”, o che becchiamo in tivù qualche sbandato affetto da ansia di prestazione pronto a spiegarci che il 25 aprile si festeggia la resilienza del popolo italiano. O magari, perché no, che la nostra Costituzione democratica è nata dalla Resilienza.

Proprio vero. L’analfabetismo di ritorno corrode tutto. Plana sulle nuove tecnologie per deciderne gli usi più degradanti, si abbatte sui vocaboli un giorno ricercati per trasformarli in segno di “nuove povertà”. Sicché potremmo trovarci a vivere in una società ovunque resiliente dove l’unica cosa a “resistere” sarà lui: l’analfabetismo di ritorno.

 

Social da morire “Mio figlio senza smartphone. Ma perché darlo a una bambina di dieci anni?”

 

“La regola (giusta) di Facebook:
si aceede dopo 13 compleanni”

Cara Selvaggia, sono il papà di tre figli nati in momenti diversi della mia vita, legati a storie peculiari e che poi non sono nemmeno l’oggetto di quello che vorrei scriverti, quindi non indugerò in dettagli privati. Sono però nati a distanza, quasi esatta, di dieci anni l’uno dall’altro e questo, appartenendo io alla proverbiale categoria del “papà-abbastanza-presente”, mi ha dato la possibilità di attraversare tre infanzie e tre adolescenze trascorse in tre periodi storici diversi come ormai possono essere tre decadi oggi, con pochi o pochissimi elementi in comune.

Il più grande ha 34 anni e per pescare ricordi dell’adolescenza devo andare indietro di 20. Quindi potrei sbagliare, ma i suoi tempi sembrano molto simili ai miei. La sola differenza è quella tra la cabina telefonica e il cellulare: ma il telefonino ai tempi serviva a telefonare e poco più; e comunque mio figlio aveva più di 16 anni quando ha ricevuto il primo, un pataccone residuato della mia attività professionale. I social sarebbero arrivati solo qualche anno dopo e gli unici modelli “diseducativi”, oltre alle litigate con la mia prima moglie, provenivano da programmi tv in fascia protetta e da un gruppetto di perdigiorno, a cui si era legato all’inizio del liceo. Cultori dell’abuso di droghe leggere e dei motorini “truccati” (per farli andare più forte), tutti più grandi di lui. Una compagnia allettante (non mancavano le ragazze) e pericolosa, per via dalla facilità con cui ci si poteva far servire alcool ben prima della maggiore età. Ma a un certo punto, senza che da noi fosse esercitata particolare pressione, Giovanni ha smesso di frequentarli, senza nessun motivo apparente. Qualche anno dopo mi ha portato un articolo del giornale locale che parlava dell’arresto di due spacciatori di cocaina. “Ti ricordi quei coglioni con cui uscivo a 15 anni? Guarda qua!”, mi ha confessato al secondo anno di Medicina.

Marta di anni ne ha 22 e quindi la memoria è relativamente più fresca. Non è mai stata una ragazza particolarmente esuberante e, in un certo senso, mi ha lasciato vivere tranquillo. È stata però la prima con cui affrontare l’argomento del “digitale”. Mi sembra che abbia ricevuto in regalo il suo primo smartphone a 14 anni e noi non avevamo ben chiaro di come la sua attenzione potesse essere “sequestrata” dal mezzo. Sul dispositivo. peraltro, non avevamo nessun tipo di controllo che non fosse “puoi usarlo 2 ore e basta”. Finché trascorreva il tempo a parlare con gli amici sorridevo con nostalgia e una punta di invidia, ricordandomi quanto costasse inserire un gettone dopo l’altro nella cabina pubblica di quartiere. Invece ero perplesso per ciò che poteva incontrare sui social. Marta aveva un profilo Facebook, ne sono certo perché sono stato il suo primo amico, e probabilmente stava anche su altri social, ma cosa vuoi che ne capissimo noi? Era un mondo che cambiava in base all’età di chi ci entrava, e forse è ancora così, e ad ogni modo non pensavamo che da uno schermo potessero provenire chissà quali pericoli. Avevamo supervisione su tutti i contenuti alla portata di Marta? Certo che no. Ma la ragazza era già adolescente e ci sembrava, per quanto piccola ai nostri occhi, che avesse già molti degli strumenti che avrebbero potuto proteggerla dalle insidie, reali o virtuali.

Se i social network richiedono tredici anni d’età per iscriversi, forse un motivo c’è. E lo vedo con Alberto. Alberto ha tredici anni e ha ancora l’indole di un bambino. È dolce, ingenuo e generoso, gioca ancora con i lego con un attaccamento al secolo scorso commovente. Da quanto dicono le professoresse, a scuola non è molto diverso rispetto a casa e questo gli causa qualche problema relazionale con i suoi coetanei; che ormai sono come sai. In ogni caso, niente di patologico o particolarmente preoccupante, a quell’età ognuno cresce a modo suo. Dal computer di casa, quando non videogioca a sparare agli alieni o Dio sa cosa, frequenta molto Youtube, opportunamente filtrato da un “parental control” digitale e fisico, nel senso che cerchiamo di dargli un’occhiata costante. Ora i pericoli del web non sono più una minaccia eterea ma, come direbbe Carlino, una solida realtà che per fortuna ancora non ci ha sfiorato. Forse, e dico forse, perché Alberto non ha ancora un telefonino. In realtà l’ha chiesto molto timidamente, forse per un desiderio di omologazione più che per il desiderio di utilizzarlo, ma io e la sua mamma non crediamo sia già pronto ad aver libero accesso al mondo senza il nostro filtro. Forse, dopo più di trent’anni dall’inizio di tutto, ci è andata bene per questo. O forse per culo, come con Giovanni. Ma probabilmente giova aver sempre considerato i tredici-quattordici anni come un’età vulnerabile e da proteggere.

Avrai capito che ti scrivo in seguito alla morte di quella bambina in circostanze ancora oscure, forse neppure legate a quello che vedeva sul telefono, senza aver nessuna risposta ma una sola domanda: perché a dieci anni aveva un cellulare?

Massimo

 

Caro Massimo, leggo le parole di un padre attento ma anche fortunato. Io non ritengo sbagliato a prescindere regalare un cellulare a dieci anni, mio figlio Leon ha ricevuto il suo primo a 11, ma ritengo che vada corredato da un sacco di optional: tutti gli strumenti intellettuali e l’educazione digitale per utilizzarlo, per esempio. Il problema, semmai, è quanti genitori siano in grado di fornire tali strumenti ai figli, ma questo è un problema ben più antico di computer e smartphone.

Selvaggia Lucarelli

Fede e politicaBiden e il pluralismo di Murray, il teologo gesuita che ispirò Kennedy e Paolo VI

La fede (cattolica) tra dottrina e libertà. E soprattutto Verità con la maiuscola e al singolare, o al plurale, le verità? Poco più di sessant’anni fa, il democratico John F. Kennedy fu il primo presidente cattolico degli Stati Uniti. I suoi critici temevano che avrebbe subìto in modo decisivo l’influenza della Chiesa. E invece proprio quell’anno Kennedy tenne un celebre discorso a Houston, il 12 settembre 1960, su religione, politica e libertà. La sua platea era composta da pastori protestanti.

Il merito di quel discorso fu di un teologo gesuita, John Courtney Murray, amico di don Luigi Sturzo e Jacques Maritain, e che di lì a poco, a dicembre, avrebbe addirittura guadagnato la copertina di Time con il seguente titolo: “I cattolici americani e lo Stato”. Murray in quell’anno decisivo aveva pubblicato un libro destinato a segnare una svolta nell’approccio della Chiesa alla temuta libertà religiosa, considerata come un male da tollerare: We hold these truths, Noi crediamo in queste verità. Sottotitolo: Riflessioni cattoliche sul “principio americano”.

In pratica, Murray affrontava e sviluppava in senso positivo il pluralismo del costituzionalismo americano. Una svolta, appunto, con le verità al plurale. Come la separazione tra Stato e Chiesa e la libertà di professare la propria fede religiosa in pubblico, secondo il I emendamento. E scrisse: “Qualsiasi altra soluzione diversa dalla libertà religiosa e dalla separazione tra Chiesa e Stato sarebbe stata disgregatrice, imprudente, non pratica, insomma impossibile”. La sua parabola ascendente si completò un lustro dopo. Ché nel 1965 il teologo gesuita, da esperto del Concilio Vaticano II, fu l’ispiratore della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. E sempre nel 1965 il suo libro fu tradotto per la prima volta in italiano da Morcelliana, casa editrice legata a Paolo VI.

Ora in coincidenza con l’elezione del secondo presidente cattolico degli Stati Uniti, Joe Biden, Morcelliana ripubblica il testo con un’ampia e densa premessa di Stefano Ceccanti, professore di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, attuale deputato del Pd e già presidente della Fuci, gli universitari cattolici. Ceccanti parte dal carattere innovativo della Dignitatis Humanae: “Un punto di svolta, di obiettivo cambio di paradigma, nonostante alcuni tentativi (allora e in seguito) di sminuirne la portata, anche se lo scisma lefebvriano è avvenuto utilizzando proprio tale cambio come argomento principale. Una svolta che non sarebbe stata possibile senza l’irruzione nella Chiesa cattolica del diritto costituzionale americano”.

Al netto, infine, delle riflessioni sulle rivoluzioni (francese e americana), la nuova edizione del libro di Murray avviene in una controversa stagione cattolica, in cui risorgono le spinte clericali se non neo-confessionaliste della destra sovranista e populista. E che stanno mettendo già alla prova Biden sulla questione aborto. Il nodo è atavico: il pluralismo delle verità e la Verità di cui comunque è portatrice la Chiesa cattolica.

Fabrizio D’Esposito

La piovra della droga: i tentacoli sull’Italia della mafia albanese

Silenziosa e letale. Organizzata con una struttura piramidale e da un insieme di famiglie legate dal vincolo di sangue. Al primo posto tra le organizzazione criminali straniere presenti in Italia. La mafia albanese cresce da anni senza sosta, trovando cittadinanza lungo tutta la nostra Penisola. I vari clan hanno fatto del traffico di stupefacenti il loro punto di forza: garantendo un servizio per le mafie italiane sia come fornitori di materia prima, sia come corrieri, essendosi insediati in diversi Paesi dell’Europa e avendo instaurato stabili rapporti con i trafficanti di droga in ogni parte del mondo. “In Italia parlerei ormai di radicamento delle mafie albanesi” spiega Vincenzo Musacchio, giurista e ricercatore della Scuola di studi strategici sulla criminalità del Royal United Institute di Londra. “La favorevole posizione geografica dell’Albania offre un collegamento diretto con il nostro Paese, quindi anche per questo la criminalità organizzata italiana ha stabilito ottimi rapporti collaborativi con la criminalità albanese” continua Musacchio.

Il legame con i clan e le cosche italiane si concentra in particolare sul traffico di droga. Il Paese delle Aquile è diventato snodo fondamentale per il narcotraffico europeo e internazionale. La cannabis coltivata in Albania e venduta in Italia vale circa 3 miliardi di euro l’anno. Ad oggi oltre il 50% di tutti gli oppiacei, cocaina, eroina e morfina, sequestrati in Europa viene confiscato proprio sulla rotta adriatica, la via che dall’Afghanistan porta all’Europa passando per Iran, Turchia e sud est europeo. E persino nella maxi-inchiesta “Rinascita Scott”, che nel dicembre scorso ha messo in ginocchio la ’ndrangheta vibonese, è stato scoperto un canale albanese dove viaggiavano i carichi di marijuana e hashish con destinazione porto di Bari.

I rapporti sono prevalenti con “le mafie pugliesi e con la ’ndrangheta”, puntualizza Musacchio. “Ci sono state indagini che hanno portato alla Camorra, alla mafia siciliana e ai gruppi criminali romani. Al Nord invece la ritroviamo in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Non c’è regione, tuttavia, dove anche in minima parte non sia presente” continua ancora. L’evoluzione delle organizzazioni criminali albanesi, in particolare quelle costiere, è stata improvvisa: sono passate da dare un supporto logistico ai cartelli, ad avere grande disponibilità di mezzi e risorse economiche, che gli hanno permesso di elevarsi a leader dei traffici di droga e armi e di controllare una batteria di “soldati” di altre nazionalità impiegati negli affari minori. In Italia, in particolare, l’approvvigionamento di stupefacenti “è dedicato alle famiglie mafiose Mazzei e Santapaola, alle cosche calabresi Trapasso, Mannolo e Zoffreo di San Leonardo di Cutro, alla cosca Bellocco di Rosarno, e in alcuni casi al clan dei Casalesi, fazione Schiavone”, spiega un agente della Dia (Direzione investigativa antimafia), che preferisce rimanere anonimo.

La loro struttura organizzativa è invece assimilabile alla ’ndrangheta. “Sono molto usati i matrimoni tra componenti di clan diversi: per siglare una tregua o formare nuove alleanze. All’interno c’è un rigida disciplina e una chiusura a chi è esterno alla famiglia. Negli ultimi anni hanno anche sviluppato elementi più moderni, stringendo patti con la politica. Ed è molto difficile per loro pentirsi”, spiega l’agente. A guidare i principi della mafia albanese rimane comunque il Kanun: un codice di comportamento che disciplina i rapporti nella società albanese da secoli. La violazione di uno o più principi del codice può provocare un hakmarrje, ossia una faida di sangue come vendetta contro la famiglia o il gruppo rivale. Il Kanun è diventato di fatto anche il codice di riferimento per clan e famiglie criminali albanesi, che fanno uso della violenza come principale mezzo di intimidazione.

Negli ultimi anni a Tirana e in varie parti del territorio albanese si sono registrati numerosi omicidi per il predominio nel traffico di stupefacenti tra cosche. E le esecuzioni per le strade delle città sono all’ordine del giorno. “Uno tra i massimi esponenti criminali è Clemente Balili, ex funzionario pubblico, conosciuto come il Pablo Escobar dei Balcani. A Valona invece si sono radicate molte famiglie mafiose: Çaushi, Kakami, Gaxhai che hanno contatti con l’Italia. Questi gruppi criminali attualmente sono in guerra fra di loro per la conquista di piazze di coltivazione e traffico di droga. A Berat domina la cosca di Altin Dardha, in contatto con le mafie pugliesi. All’estero invece c’è Ismail Lika definito il re della droga d’America che ha contatti con i narcos messicani e con la ’ndrangheta”, spiega Musacchio.

L’agguato di Torvaianica dello scorso settembre – dove un cittadino albanese è stato ucciso da due colpi di pistola – allo stesso modo è stata una fotografia della ferocia della mafia albanese. “I clan di Tirana e Scutari gestiscono direttamente le piazze di spaccio romane, controllano i carichi e hanno un ruolo di interlocuzione privilegiata con i cartelli calabresi e campani. Oggi il potere di Carminati, Diabolik e degli Spada sta passando alle famiglie mafiose albanesi”, chiosa l’agente. Insomma, una piovra criminale sempre più espansa e pericolosa. Capace anche di assumere i caratteri della mafia nigeriana: “La struttura delle organizzazioni criminali albanesi ha dato maggior spazio alle donne”, aggiunge Fabio Iadeluca, sociologo e criminologo. “Alcuni clan lasciano alle donne posizioni di potere e la gestione del mercato della prostituzione, come fanno le ‘madame’ nigeriane” conclude l’esperto.

Il regalo di Novara ai privati: Antonelli finisce in un B&B

La perversione della lingua, si sa, è insieme effetto e causa della perversione dei rapporti sociali: del nostro stesso essere umani. Così, in un mondo in cui i sanguinari signori del petrolio possono essere impunemente celebrati come mecenati rinascimentali, non stupirà che la parola “alienazione” sia intesa come il più elevato grado di “valorizzazione”: una parola-ameba, quest’ultima (per dirla con Ivan Illich), che è ormai così sformata da accogliere anche il significato ad essa più contrario. Un po’ come l’amore coniugale tiene dentro volentieri l’uxoricidio, nei titoli mostruosi dei giornali.

Così, non apparirà strano che il comune di Novara – guidato da un sindaco bocconiano e leghista, per dire che le disgrazie non vengono mai sole – si appresti ad alienare il suo edificio più mirabile, più rappresentativo, più eletto: Casa Bossi, di Alessandro Antonelli, definita nel suo sito web – e con molte ragioni – “il più bel palazzo neoclassico d’Italia”. Un palazzo vincolato nel 1980 (purtroppo non in tempo per salvare gli arredi originali) e oggi presidiato da un civico “Comitato d’amore”, che ha tenuto viva la memoria del monumento tra i novaresi: ma cos’è mai l’amore di fronte al denaro?

Così, il Comune ha deciso di inserire Casa Bossi nel proprio Piano delle Alienazioni, “che prevede l’apporto del bene in un Fondo Immobiliare specificamente creato al fine di valorizzare il patrimonio immobiliare pubblico piemontese”. L’idea è che il Comune di Novara conferisca Casa Bossi al Fondo, in cambio di quote di partecipazione al Fondo stesso, tenendosi però la possibilità di riscattarle in futuro, entrandone di nuovo in possesso. Un po’ come mandare un figlio schiavo, riservandosi però di scioglierlo dalle catene, e riportarlo a casa. Ma qual è l’obiettivo di questo strano giro di proprietà? Quello ovvio, e ben comprensibile visto il doloso massacro delle finanze degli enti locali che dura da decenni: “Il Fondo, una volta proprietario del bene, lo ‘valorizzerà’ attraverso un progetto di restauro finanziato con risorse proprie”. E il Fondo, a sua volta, che ci guadagnerà? È presto detto: questo capolavoro del geniale ed eccentrico autore della Mole torinese diventerà sede di ristoranti, bed and breakfast e residenze di lusso, forse addirittura di una spa. E chi potrebbe scommettere che, realizzato tutto questo ben di dio per il lucro privato, il Comune davvero riscatterà le sue quote, ricomprandosi Casa Bossi? La risposta è tristemente scontata.

Ora, di fronte a tutto questo, esiste una istituzione terza, in grado di ridare alle parole il loro significato, imponendo che “valorizzazione” significhi (come stabilisce l’articolo 6 del Codice dei Beni Culturali) conoscenza aperta a tutti, e non ristoranti e alberghi di lusso? Sì, quella istituzione (ancora) esiste, ed è la Soprintendenza. La quale è chiamata a fornire una serie di prescrizioni che (ai sensi degli articoli 20 e 55 del citato codice) leghino le mani che caleranno sul monumento, escludendo ogni intervento non compatibile con il suo carattere storico e artistico.

Non si tratta solo di mettere paletti dettagliati ed espliciti, ma anche di esprimere un progetto culturale: per esempio quello di allestire in Casa Bossi un museo dedicato ad Alessandro Antonelli, e di trovarvi finalmente una sede espositiva degna per le opere dei Musei Civici (tra le quali dipinti di Defendente, Cerano, Legnanino…) che giacciono in deposito dal 2008, e che nessuno si sogna di restituire al pubblico godimento. Naturalmente, se la Soprintendenza farà qualcosa di simile (cioè farà il suo mestiere), l’amministrazione comunale (che certo si aspetta paletti invece tanto larghi e generici da aver le mani libere) non sarà per nulla contenta: ma saranno i novaresi, e specialmente quelli del futuro, ad essere profondamente grati a funzionari che lavorino non per il consenso, ma per il bene comune.

Esisterebbe, infine, un’altra strada. La via maestra, in un Paese normale. Lo Stato potrebbe esercitare la prelazione, acquistando Casa Bossi dal Comune che la aliena. E farne uno straordinario luogo di cultura: prima restaurando l’intero edificio (sarebbe un esemplare cantiere-scuola), poi costruendoci un grande museo sulla cultura artistica piemontese e italiana dell’Ottocento, intorno alla figura di Antonelli. Magari concentrando, a quel punto, tutta l’arte antica al Broletto, dove è sempre stata, e collocando invece in Casa Bossi la Galleria Giannoni, tutta dedicata all’arte moderna. Resterebbe molto spazio: la stessa Soprintendenza potrebbe avervi sede, insieme a tante altre funzioni culturali.

Insomma, Casa Bossi potrebbe diventare uno straordinario centro culturale aperto a tutti, invece di un luogo di profitto privato per pochi. Chissà se tra “Netflix della cultura” e “arene del Colosseo”, il Ministero per i Beni Culturali troverà soldi e testa per un progetto come questo, capace di ridare alla parola “cultura” – parola ameba per eccellenza – verità e sostanza. Per Novara, per l’Italia.