Cuba: nel lab del vaccino senza brevetti per i poveri

È Antonio, ultrasessantenne dell’Avana la vittima numero 200 cubana del Covid-19. Da quasi due settimane la Capitale, come tutta Cuba, assiste allarmata all’aggressività che mostra la seconda ondata del coronavirus nell’isola. I contagi quotidiani ormai superano quota 600, i casi gravi aumentano e con essi le morti.

L’Avana da ieri è soggetta a nuove misure restrittive come la proibizione per i minori di circolare in spazi pubblici. Le scuole sono chiuse da due settimane. Sono ripresi i controlli a tappeto in ogni quartiere specialmente sulla salute dei soggetti a rischio – anziani e persone con patologie – nel quale sono impiegati anche gli studenti di Medicina. Vietate le riunioni e feste familiari specie con i parenti cubano-americani giunti in visita nell’isola, considerate uno dei fattori principali del rebrote, scoppio di nuovi focolai. Nelle famiglie e nelle interminabili code di fronte a negozi di alimentari non si parla d’altro. Con ansia e preoccupazione, dato che la pandemia si aggiunge agli effetti di una profonda e necessaria riforma cambiaria e monetaria che ha prodotto una forte inflazione.

In questo quadro, Vincente Vérez, direttore dell’istituto Finlay, ha annunciato che la fase 2a e 2b ( quest’ultima in corso) di sperimentazione del Soberana 02 mostrano “una grande sicurezza e una potente e prolungata risposta immunitaria”. Così a marzo inizierà la fase 3 con la somministrazione di 150 mila vaccini su volontari cubani e, in contemporanea, su 50 mila volontari in Iran, dopo un accordo con l’Istituto Pasteur di Teheran. L’Iran infatti progetta di iniziare nelle prossime settimane la produzione di Soberana 02 anche in vista di una distribuzione in Paesi dell’area mediorientale. Venezuela, Vietnam e Pakistan sono interessati all’acquisto dell’antidoto e vi è un accordo con l’India per sperimentazione e ricerca.

Vérez spiega che la “scommessa” di Cuba di puntare su un proprio vaccino aveva solide basi: “Produrremo 100 milioni di unità entro l’anno e saremo l’unico Paese al mondo ad avere sieri gratuiti per tutti i cittadini, interamente prodotti con tecnologia cubana e finanziati dallo Stato cubano”. “Otto dei 13 vaccini che impieghiamo nel programma di immunizzazione nazionale sono di produzione cubana. E alcune basi di tali vaccini sono impiegate negli attuali candidati cubani al siero contro Covid-19”.

Assieme a Soberana 02, infatti, l’istituto Finlay ha sviluppato e produce anche Soberana 01 in fase 2 di sperimentazione e indirizzata soprattutto ai pazienti guariti dal virus, ma che hanno sviluppato pochi anticorpi o continuano a essere positivi. Le prime vaccinazioni di emergenza – medici soprattutto – sono previste ad aprile.

Entrambi i sieri “sono composti da sub-unità”, spiega l’immunologo italiano Frabrizio Chiodo (professore di Chimica all’Università dell’Avana) che ha partecipato al “disegno” di Soberana 01 e 02 . “Della proteina S – componente del virus SarsCov2 – i sieri cubani utilizzano la parte che è involucrata nel contatto con il ricettore della cellula infettata, il Rbd (receptor-binding domain o regione di unione col ricettore, l’estremo delle “spine” che possiede il virus, ndr) che è anche il punto dove il sistema immunitario umano sviluppa la sua risposta”. Nel caso di Soberana 02, scrive Chiodo “si unisce il Rbd con il toxoide tetanico, base del vaccino del tetano usata anche in altri vaccini cubani, come quello QuimiHiB (il primo vaccino sintetico, secondo una pubblicazione della rivista Science del 2004)”. Si tratta, afferma l’immunologo italiano “di piattaforme valide, utilizzate già per vaccini per bambini, stabili a temperatura ambiente e che si possono conservare in un comune frigo”, con maggiore flessibilità e minore costo.

Di costo del vaccino più avanzato e promettente, Soberana 02, Vérez non ha parlato. Ma ha messo in chiaro che “non siamo una multinazionale che mira al profitto, terremo conto di una combinazione tra umanità e impatto nella salute mondiale, come della necessità di finanziare la produzione di medicinali cubani”. Inoltre, ha aggiunto che non vi è una patente e che tutti i dati sono resi pubblici in Internet.

Assieme a Soberana 01 e 02, si stanno sviluppando nell’isola altri due vaccini, Abadala e Mambisa, prodotti nel Centro di ingegneria genetica e biotecnologica (BioCubaFarma). Anche questi finanziati dal Fondo cubano per la scienza e innovazione e dal ministero della Scienza. Abdala è passata ieri alla fase 2, Mambisa, ancora nella fase 1 della sperimentazione, ha particolarità che si amministra per via intranasale e non con un’iniezione intramuscolare.

Affare mascherine cinesi: il tesoro per un giornalista

Oltre un milione di euro e 56 bonifici sospetti in sei mesi, girati sui conti correnti di società riconducibili a Mario Benotti e a suoi amministratori. La Procura di Roma sta analizzando il flusso di denaro in uscita di Microproducts It srl e Partecipazioni spa, le società del giornalista Rai al centro dell’inchiesta sulle commissioni relative all’acquisto dalla Cina, da parte del governo italiano, di 801 milioni di mascherine al prezzo di un miliardo e 251 milioni di euro. L’affare ha fruttato provvigioni – pagate dai cinesi – per circa 72 milioni di euro, di cui 59 milioni pagati alla Sunsky srl di Andrea Tommasi e 12 milioni alle società di Benotti, entrambi indagati per traffico di influenze. Per gli inquirenti, le forniture sarebbero state “intermediate illecitamente da Benotti, che ha sfruttato la personale conoscenza” del commissario Domenico Arcuri (senza che lo stesso ne fosse al corrente), “facendosi retribuire in modo occulto e non giustificato”. L’intento è ricostruire il giro dei soldi e capire se siano stati commessi altri reati.

Fra i pagamenti sotto la lente degli investigatori, due bonifici del 9 settembre, per totali 166.117,71 euro, versati alla Diadem Research srl, società bresciana con 88.191 euro di capitale sociale, che si occupa di “ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle biotecnologie”, ed è partecipata al 7,2% dalla Partecipazioni spa di Benotti e al 76,1% dalla Panakès Partners. Quest’ultima è una società di gestione del risparmio, per un terzo di proprietà del manager toscano Fabrizio Landi (estraneo all’inchiesta), membro del cda di Leonardo con Matteo Renzi premier e primo finanziatore nel 2012 della Fondazione Open. Oggi Landi è presidente della Fondazione Toscana Life Sciences, al lavoro – anche per conto del governo – nella ricerca sugli anticorpi monoclonali in chiave anti-Covid. Filo conduttore fra queste realtà sembra essere Heber Verri (estraneo all’inchiesta), cui l’11 agosto Microproducts ha pagato 60.000 euro come “acconto prezzo promessa di cessione quote Diadem”. Dal suo profilo Linkedin, Verri risulta, “currently entrepreneur in residence” di Panakès e “scientific advisor & quota holder” di Diadem Research, mentre a ottobre si firmava su Affaritaliani.it “direttore scientifico Partecipazioni spa”. A Daniela Guarnieri, compagna di Benotti – fra gli indagati per traffico d’influenze – i finanzieri hanno sequestrato “una cartellina trasparente con accordo siglato tra Heber Rafael Verri e Khouzan Gfs”, rappresentante legale di Partecipazioni. Landi, Verri, la Diadem e la Panakès sono estranei all’inchiesta.

Il legale di Benotti, Salvino Mondello, commenta: “Risponderemo ai pm. Benotti ha reso un servizio al Paese. Speravamo che il commissario Arcuri dicesse qualcosa, il suo silenzio addolora”.

I medici: “Non ci vaccinano tutti” E la Moratti riesuma Bertolaso

Da una parte, migliaia di medici che protestano per essere rimasti senza vaccino anti Covid-19. Dall’altra, un medico – uno solo – che sorride. È Guido Bertolaso, il quale è stato contattato dall’assessore lombardo al Welfare, Letizia Moratti, per il ruolo di “responsabile della governance dell’organizzazione operativa territoriale, della formazione delle équipe e dell’organizzazione della macchina regionale vaccinatoria sull’intero territorio lombardo”. Dal Pirellone confermano: “Sì, è un’opzione più che probabile”. E Bertolaso si è detto felice di tornare, dimenticato il mega-flop dell’ospedale in Fiera.

Bertolaso che ieri, da Macerata, era tornato ad accusare il governo: “Bisogna sempre essere pronti ad affrontare tutti i possibili scenari, preparandosi al sopraggiungere anche della peggiore delle ipotesi. Tutto questo, però, nell’emergenza Covid-19, non è stato sempre tenuto a mente. Nei mesi di aprile, maggio o giugno scorsi – ha aggiunto – era giusto essere pronti a una successiva seconda ondata. Così non è stato”. E mentre Bertolaso pontificava, i medici che non fanno atterrare astronavi nelle fiere, attendevano il vaccino.

“Sono sconcertato”, attacca il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi. A lasciarlo senza parole l’email ricevuta il 29 gennaio scorso con la quale il dg della Ats Milano, Walter Bergamaschi, lo avvisava che i medici di libera professione e gli odontoiatri non saranno vaccinati prima di marzo: “Stante l’attuale progressione della campagna in corso e considerati gli indirizzi regionali, i vostri iscritti potranno essere vaccinati a partire dalle prime settimane di marzo”, si legge nella missiva. Ma, avverte Ats, “tale tempistica è soggetta a possibili modifiche in funzione dell’andamento delle consegne dei vaccini”. Quindi neanche marzo è una certezza.

“Mi cadono le braccia – attacca Rossi – leggo sulla stampa di centinaia di migliaia di dosi somministrate a personale non sanitario… e poi mi dicono che devo aspettare un mese”. Il riferimento è al rilevamento della Fondazione Gimbe di giovedì scorso, secondo il quale il 51% dei vaccini in Regione sarebbe andato a personale non sanitario e solo il 40% a personale medico e paramedico. Una ricostruzione smentita dal Pirellone, per il quale degli oltre 256.000 vaccini iniettati, 172.000 (67,2%) sarebbero andati a operatori sanitari; 30.000 (11,7%) a ospiti di Rsa e solo 54.000 (21,1%) a operatori non sanitari.

Numeri che Rossi non può controllare, perché lasciato ai margini dell’organizzazione. E per il presidente esiste proprio un problema organizzativo: “Non solo non siamo stati interpellati sul piano, ma non sappiamo le date di consegna dei vaccini, né che tipi si useranno. È assurdo che io lo debba venire a sapere dalla stampa”. E le sue preoccupazioni si rivolgono anche alle prossime fasi, quando si dovranno vaccinare milioni di persone: “Ci vuole un’organizzazione logistico-amministrativa che a oggi mi sembra mancare”.

Chi dubita fortemente dell’organizzazione lombarda è il consigliere regionale M5S, Gregorio Mammì, per il quale i dati riportati dal Pirellone sono inattendibili, a causa di alcuni bachi nel software: “Il programma elaborato da Aria non prevede campi nei quali inserire le tipologie di persone che ricevono la dose, quindi non c’è modo di estrarre i dati, profilando i destinatari”. Infatti, aggiunge, “giovedì notte Ats Milano ha inviato un’email con un file Excel allegato a tutte le Rsa, ordinando loro di inserire manualmente le categorie dei vaccinati”. Per Mammì, “la Regione ha contestato i dati di Gimbe con dei dati estratti da un file Excel”.

Del resto, Aria ha già dimostrato tutti i suoi limiti, essendo la responsabile dell’ormai noto “Cruscotto”, il sistema di biosorveglianza che da settimane aggiunge e sottrae positivi senza alcuna logica… Ma i problemi software non si fermano qui. “Da ogni singola fiala si possono estrarre sei dosi – spiega Mammì – quindi a ogni fiala, che è numerata, devono essere collegati solo sei nominativi. Ma il sistema non pone un limite ai codici fiscali collegabili a ciascuna boccetta, così è possibile che la fiala x risulti essere stata somministrata a 8, 10 o più pazienti…”. E, adesso, ritorna anche Bertolaso.

Renzi, neppure il disonore smuove Italia (poco) Viva

Ma se i senatori e i deputati di Italia Viva restituissero Matteo Renzi a Mohammed bin Salman e ai suoi saloni insanguinati, non avremmo risolto con un solo colpo la crisi di governo, liberandoci del suo artefice?

Matteo Renzi, prigioniero del suo disturbante delirio di onnipotenza, fa finta di non saperlo, ma per gli standard appena decenti delle persone libere e perbene che abitano nelle democrazie occidentali (delle persone, non dei governi) inchinarsi davanti al principe saudita Bin Salman, accreditarlo come il titolare di un Rinascimento tirato a lucido col sangue dei detenuti sepolti nelle carceri speciali e con il sudore dei servi della gleba, è colpa grave.

Oltre che grottesca, ridicola, umiliante, forse più grave (più ridicola e più umiliante) della ornamentale sconcezza compiuta dal suo amico Macron, quando ha appuntato la Legion d’onore sul cuore nero del presidente egiziano Al Sisi, onorandone il regime che imprigiona, tortura, uccide. Macron lo ha fatto per la Ragion di Stato, che è tanto alta quanto i delitti che copre. Matteo Renzi per 80 mila dollari, cifra modesta persino per il figlio di un modesto trafficante d’affari di provincia toscana.

I dollari e i soldati di Bin Salman tengono l’Arabia Saudita in un Medioevo di cristallo, oscurantismo e crudeltà, dove la pena di morte avviene per decapitazione o crocifissione (ne hanno fatti fuori 187 nel 2019), mentre le donne, sigillate nel velo dell’obbedienza, sono così tanto protagoniste del rinascimento arabo, da avere appena acquisito lo straordinario diritto, dopo i 21 anni, di viaggiare senza il permesso del maschio padrone, cosa ancora interdetta ai muratori imprigionati sulle impalcature dei grattacieli, e persino ai preziosi cammelli. Il tutto mentre l’aviazione Saudita, dal 2015, bombarda la popolazione civile dello Yemen, 230 mila i morti stimati dall’Onu fino a oggi, in una delle guerre più insensate e più dimenticate del nuovo secolo.

Dopo lo spettacolo parigino dell’onorificenza al dittatore egiziano, un sacco di gente libera e perbene, ha restituito la Legion d’onore a Macron per non condividerne più il disonore. Specialmente in Italia, dove nessuno ancora si rassegna allo scempio compiuto sul corpo di Giulio Regeni, mandato allo sbaraglio dai silenziosi docenti dell’Università di Cambridge e inghiottito dalla polizia segreta di Al Sisi, in tutto equivalente a quella di Bin Salman, che fece a pezzi il corpo del giornalista Jamal Khashoggi, per poi scioglierlo nell’acido.

È singolare che i nostri addetti alla politologia di giornata, così abituati a maneggiare le bilance di precisione con cui misurano i grammi di ogni parola, ogni gesto, spesi in questa paradossale crisi politica, non si occupino dei clamorosi e pesantissimi comportamenti del loro giocatore preferito. Li eccita il dettaglio della telefonata di Conte al senatore semplice di Rignano (“E Giuseppe telefonò a Matteo: primo round per Renzi!”) non li smuove lo scandalo che un ex presidente del Consiglio, membro della commissione Esteri, capace di sequestrare l’intero governo per chiedere il suo personale riscatto, si trasformi in un patetico lacché sdraiato ai piedi profumati del principe saudita. Né che anteponga la sceneggiata araba alla crisi in cui ha precipitato il suo Paese. E che lo faccia viaggiando sul jet privato della Future Investiment Initiative, il Fondo di investimento saudita.

Daniela Ranieri, ieri, su queste colonne, si è chiesta in cambio di cosa. Questione principale dello scandalo.

Ma giusto per portarci avanti, potremmo anche chiedere alle ex ministre di Italia Viva, Elena Bonetti e Teresa Bellanova, imbavagliate in pubblico dal 13 gennaio, di farci sapere se sono ancora abbastanza vive per ribellarsi al loro padrone maschio e rispedirlo ai sauditi per non condividere le legioni del suo disonore.

Matteo D’Arabia, le 10 cose che non tornano

I giornali che lo criticano lo farebbero per creare un “diversivo”. Così Matteo Renzi ha commentato le polemiche – poche per la verità – seguite al suo viaggio saudita per partecipare alla Future Investment Initiative. “Prendo l’impegno a discutere con tutti i giornalisti dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia saudita, di tutto”, ha dichiarato Renzi. Ma non ora, perché c’è la crisi di governo da risolvere.

E allora proviamo a riassumere quello che di questa vicenda dovrebbe far vergognare e a porre alcune domande.

1. Il diversivo Matteo Renzi non ha avuto remore a recarsi a Riyad per la conferenza della Fii, istituto finanziato dal governo saudita, nel bel mezzo di una crisi provocata da lui. Per tornare ha utilizzato il beneficio di un volo privato garantito dal Fii stesso. Aveva avvertito il presidente Sergio Mattarella che in quei giorni così intensi si sarebbe assentato?

2. Condotta immorale Nel Parlamento europeo esiste un Codice di condotta in base al quale, assicurano autorevoli esponenti di Strasburgo, una situazione come quella renziana sarebbe stata censurata. Renzi si è fatto pagare, nel pieno di un mandato parlamentare, da una istituzione che dipende da uno Stato straniero. Possibile che un politico che ama “il coraggio e la nobiltà d’animo” non sappia definire un proprio, accettabile, codice di condotta?

3. I diritti di Amnesty L’elencazione delle violazioni dei diritti umani da parte saudita, stilato da Amnesty è esplicito. Ieri, sul manifesto, il portavoce italiano, Riccardo Noury, citava tra i casi più eclatanti quello di Raif Badawi, blogger, fondatore di Liberali sauditi: “Viene fatto scendere da un pulmino, in catene. La piazza di fronte alla moschea di Gedda è piena di gente. Arriva il funzionario addetto all’esecuzione delle pene e lì, al centro della piazza, inizia ad agitare la frusta. Una, due, dieci, 50 volte. Dopo 15 minuti, lo ‘spettacolo’ è terminato. Il pulmino riparte”. Che ne pensa Renzi?

4. Khashoggi e la Supercoppa Il caso più agghiacciante è ovviamente quello del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso, seviziato “smembrato con una sega”, dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul. Bin Salman, indicato come il mandante dell’omicidio, non ha mai risposto di nulla e Agnes Callamard, responsabile Onu per le esecuzioni extragiudiziali, ha definito il processo allestito dai sauditi come privo di “legittimità legale o morale”. Il 26 ottobre 2018, il deputato Luciano Nobili, che di Italia Viva sembra guidare il servizio d’ordine, dichiarava su Twitter: “Dopo la morte di Khashoggi la comunità internazionale non può restare indifferente. La Supercoppa non può giocarsi in Arabia Saudita”. La Supercoppa no, la conferenza sì?

5. Scusi, dov’è lo Yemen? Tra i crimini sauditi riconosciuti internazionalmente ci sono i centomila morti nello Yemen, gettato in una guerra interna ormai decennale e in cui Riyad ha giocato sporco anche grazie alle bombe occidentali. Tra cui quelle prodotte in Italia e approvate, guarda caso, proprio dal governo Renzi. Ora, finalmente, il governo ha bloccato l’export di quelle bombe, applicando la legge 185 e in virtù di una risoluzione firmata sia dal M5S che dal Pd. Quanti morti servono per non parlare con un regime?

6. Se mi fossi ritirato Nel colloquio-intervista con Bin Salman, Renzi si è presentato “soprattutto come ex sindaco di Firenze”. In realtà, è soprattutto un senatore in carica, membro della Commissione Difesa. L’Arabia Saudita è tra i Paesi al mondo che più spendono in armamenti. Possibile che non si colga il tema del conflitto di interessi? Inutile ricorrere a casi come quello di Gerhard Schröder, Tony Blair o Bill Clinton, tutti impegnati in iniziative “private”, ma dopo aver dismesso qualsiasi incarico pubblico. Renzi lo avrebbe potuto fare se avesse dato seguito a quanto dichiarato in occasione del Referendum 2016, ma la politica non l’ha lasciata.

7. La quarantena dei furbi Grazie alla carica di senatore, Renzi non ha dovuto sottoporsi alla quarantena per coloro che rientrano dagli Stati contenuti nell’elenco E del Dpcm 14 gennaio. Sulla base di quell’elenco, “gli agenti diplomatici” sono esentati dall’obbligo di quarantena e, secondo quanto confermato dall’Ufficio questori del Senato, i senatori vengono coperti dalla norma. Che, però, non dovrebbe riguardare chi viaggia per interessi personali soprattutto se retribuiti. Abbiamo anche i “furbetti della quarantena”?

8. Rinascimento medievale Renzi ha dato prova di un nitido provincialismo rivolgendosi “al grande principe” con il sorriso emozionato dello scolaretto di fronte al maestro. La gag del Rinascimento l’aveva già usata più volte, ma in questo caso sembra davvero imbarazzante. Per quanto si voglia giocare a paragonare i “prìncipi” del Cinquecento a quelli che governano nel Golfo Persico, di mezzo c’è la Storia. Il Rinascimento è un simbolo dell’Italia chiamato in causa per definire una fase di progresso culturale. In Arabia Saudita si è data la possibilità alle donne di guidare solo nel 2018 e di entrare in uno stadio nel 2019. Più che Rinascimento siamo in pieno Medioevo (con tante scuse al Medioevo).

9. Un Jobs act saudita “Sono geloso del costo del lavoro a Riyad” ha detto Renzi a Bin Salman. Geloso: perché sono alti o perché sono bassi? Perché i salari sauditi sono piuttosto buoni per i sauditi doc, ma il sistema si regge su 11 milioni di lavoratori migranti sottoposti a un regime semi-schiavistico. Con un ruolo assolutistico delle imprese (che possono anche ridurre unilateralmente i salari). Pensava a questo sistema quando ideava il Jobs act?

10. Il silenzio della stampa A differenza di altri casi, Matteo Renzi ha goduto della sostanziale impunità dal resto delle forze politiche. Ma ancora di più dalla stampa. Tranne Domani che ha dato la notizia, il manifesto, la Verità e, ovviamente, il Fatto la vicenda non ha avuto il risalto che merita sul resto della stampa nazionale né nei telegiornali.

Sui social network, il cinguettio quotidiano di giornalisti, molto noti, molto liberali e molto antipopulisti, è stato attento nell’accusare, limitandosi ad alzare il sopracciglio. Quella politica giova alla politica? E questo tipo di giornalismo giova al giornalismo?

Cari onorevoli renziani, ora è il momento di lasciarlo solo

Noi, come tanti cittadini italiani, siamo disgustati e spaventati dalla condotta di Matteo Renzi e, con questo appello, ci rivolgiamo ai componenti della Camera e del Senato i quali, eletti nelle liste del Pd, hanno successivamente aderito a Italia Viva.

Renzi ha provocato una crisi di governo del tutto ingiustificata: qualunque valutazione circa l’inadeguatezza dei piani allo studio nel governo avrebbe potuto, e dovuto, essere risolta all’interno del medesimo, posto che Italia Viva ne era parte. È ormai lampante che la crisi che mette a rischio il Recovery Plan e anche la stabilità finanziaria dell’Italia è stata aperta per servire l’interesse personale di Renzi ad acquisire una centralità politica che gli sfuggiva.

Dunque una crisi strumentale a un calcolo politico cinico e baro, provocata da un personaggio senza ancoraggio alcuno nel centrosinistra, che sa di non godere, in quest’area politica, di alcun consenso. Le recenti notizie circa i redditi che gli provengono dai governanti di uno stato autoritario, guerrafondaio e misogino, e le sue dichiarazioni di apprezzamento del lavoro schiavistico non fanno che aggiungersi alla congerie di elementi che rendono insostenibile l’accostamento di Renzi a un contesto politico di centrosinistra.

E dunque ci pare che rendano francamente insostenibile l’appoggio, da parte di parlamentari eletti nelle liste del Pd, all’attacco distruttivo che Renzi ha promosso a danno della sola alleanza, quella tra Pd e M5S, in grado di costruire un governo di centrosinistra in Italia.

Libertà e Giustizia chiede dunque a tutti i parlamentari che hanno aderito a Italia Viva di manifestare il loro dissenso dalla condotta e dalle scelte di Renzi e di rendersi disponibili a ricostruire un governo di centrosinistra in grado di guidare il Paese in una fase tanto rischiosa e complessa come quella attuale.

 

Scende in campo pure Confindustria: vuole Conte fuori

Gli industriali italiani non hanno mai fatto un discorso su se stessi, ma per se stessi. E la crisi del governo Conte-2 non fa eccezione. La Confindustria vuole l’uscita del premier, epilogo di un rapporto mai decollato – a partire dal suo presidente, Carlo Bonomi – e non per feeling personale. Conta la sostanza, un problema, per così dire, di sistema. La crisi da Covid è la peggiore dal Dopoguerra, ma il governo giallorosa non ha potuto, o voluto, assecondare fino in fondo la visione miope di Viale dell’Astronomia: le imprese sono l’economia e hanno la precedenza.

Da giorni i papaveri confindustriali hanno alzato il tiro. Ieri è toccato al presidente degli industriali lombardi, Marco Bonometti, grande sponsor di Bonomi e noto per i modi ruvidi mostrati durante la prima ondata quando si è battuto contro la zona rossa a Bergamo. “Conte – ha detto a La Stampa – si cerchi una nuova occupazione”. L’industriale bergamasco ha sciorinato il repertorio classico: il solito “fare presto” a spendere i fondi del Recovery; l’invocazione del “governo dei competenti”, che poi sarebbe Mario Draghi (“farebbe la differenza”); l’elogio di Matteo Renzi (“ha posto il tema del Recovery, andava ascoltato prima”); e la classica richiesta di finirla con il blocco dei licenziamenti, con invito a Salvini a dare una mano.

Bonometti non è un “professionista” confindustriale, ma riporta la linea dell’associazione espressa qualche giorno fa al Consiglio generale dove, pare, le critiche a Conte e al governo sono state unanimi.

Confindustria vuole contare nella gestione dei 209 miliardi del Recovery fund. L’idea incarnata da Bonomi, ma patrimonio da sempre dell’associazione, è che sono le imprese a creare prosperità e quindi sono le imprese a dover beneficiare dei fondi. Nei giorni scorsi, Bonomi ha auspicato che il Parlamento riscriva il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo perché privo di “una visione complessiva di politica industriale”. In audizione alle Camere, la dg Franscesca Mariotti lo ha stroncato. L’unico elogio è arrivato per i fondi del pacchetto “transizione 4.0”, i sussidi alle imprese (un capitolo da quasi 30 miliardi).

Confindustria lamenta l’assenza di un meccanismo di governance dei fondi, anche se quello previsto dal governo, accentrato a Palazzo Chigi, è stato accantonato per lo scontro con Renzi. Bonomi e compagnia vogliono che le parti sociali (cioè Confindustria) vengano “coinvolte lungo tutto il processo di esecuzione dei progetti”: un supporto “strutturale, non episodico”. Poi c’è il tema dei fondi. I sussidi per l’efficienza energetica sono troppo “focalizzati sul settore residenziale e terziario” e vanno dirottati sulle imprese. “Grave” è considerata “l’assenza dell’idrogeno blu”, cioè quello prodotto da gas naturale, quindi non a impatto zero, ma caro ai grandi gruppi (in testa l’Eni, che ha visto svanire i suoi progetti dall’ultima bozza del Pnrr). E ancora: Confindustria si duole per l’assenza di “misure per la patrimonializzazione delle imprese e il loro accesso ai mercati finanziari”. Sul fronte lavoro la richiesta è di puntare sulle mitiche politiche attive “aprendo al coinvolgimento delle Agenzie private”.

Dall’inizio della pandemia l’associazione ha attaccato il governo per gli aiuti emergenziali, considerati a pioggia e non mirati alle aziende. È il “Sussidistan” denunciato da Bonomi, nonostante metà dei fondi (quasi 50 miliardi) siano andati alle imprese. Stesso discorso sul blocco dei licenziamenti. La mega recessione non aveva alternative, ma Confindustria non lo ritiene un suo problema.

Zinga vs. la sinistra pro-Salvini di “Repubblica” (e Veltroni)

Nicola Zingaretti è parecchio sotto pressione. Da segretario del Pd ha scelto il ruolo più ingrato e, in prospettiva, anche più pericoloso: il sostegno a Conte, non proprio “senza se e senza ma”, però con pochissime subordinate. Lui, che era stato perplesso fino all’ultimo momento sulla formazione del governo giallorosso. Lui, che se potesse scegliere indicherebbe le elezioni come strada maestra.

Così, nel mezzo di una crisi di governo ingarbugliatissima, la notizia più importante che riguarda il Nazareno ieri è la critica feroce di Concita De Gregorio su Repubblica alla gestione del partito da parte di Zingaretti. E soprattutto la reazione del segretario. Concita gli dà dell’“ologramma”, parla di un partito egemonizzato dagli ex democristiani, mette a paragone il suo “discorsetto” di 4 minuti con il comizio di Matteo Renzi di 27, discutibile, per carità, ma sempre determinante.

È proprio su questo punto che a Zingaretti saltano i nervi. Così decide che non ne può più e consegna a Facebook un attacco frontale contro la giornalista e contro quello che era tradizionalmente il giornale più vicino al partito, oltre al punto di riferimento dei lettori di centrosinistra. Il partito plaude. “Purtroppo ho visto solo l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo”. Attacco durissimo a quella che viene definita la “sinistra per Salvini”. Neanche tanto in controluce si intravede la preferenza per un altro modo di gestire la politica, il partito e di intendere la leadership. Sotto accusa implicitamente Walter Veltroni (che tra i dem viene considerato il “mandante” del pezzo) e il “veltronismo” della over-comunicazione, degli effetti speciali, dei libri, dei film, dei festival. Quanto di più lontano ci possa essere da Zingaretti, uno che sulla sua tendenza a mimetizzarsi, a mediare, a scivolare tra i problemi e sulla sua assenza di decisionismo (secondo i fan) o di decisione (secondo i detrattori) ci ha costruito una carriera. “Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta”, scrive il segretario.

È la rabbia che viene dalla consapevolezza di essere in una posizione di debolezza, stretto tra le gesta del premier dimissionario e gli azzardi ingestibili di Renzi: i suoi occhi bassi al Quirinale giovedì non sono sfuggiti a nessuno, come il rischio che pure la sua segreteria venga travolta dalla possibile fine di Conte appare più che concreto. Quel che però al Pd non va giù è l’atteggiamento di Repubblica. Sono mesi che i dem trovano la linea del quotidiano fondato da Scalfari ostile: con la proprietà degli Elkann e la direzione di Maurizio Molinari, il giornale è di certo più vicino alle lobby che alla sinistra moderata. Da tempo, tra i dem gira la convinzione che il quotidiano agisca per arrivare a un governo che abbia come azionisti di maggioranza Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia, leghisti non barricaderi, e Matteo Renzi, con un Pd guidato da altri. E dietro, l’ombra di Confindustria. L’articolo della De Gregorio – al netto di veleni che lo vogliono dettato dal rancore perché il Pd non si sarebbe fatto carico delle sue cause di quando dirigeva l’Unità – si inserisce in un quadro più ampio. Con il quotidiano che – almeno a tratti – pare tifare per un governo istituzionale. Possibile peraltro solo se Zingaretti mettesse in campo per l’ennesima volta quella grigia responsabilità che si può tradurre anche in un “non aver toccato palla” in questa crisi di governo. Tanto per stare ai paradossi.

Ieri, intanto, la delegazione del Pd non ha tradito la linea: è andata dall’esploratore Roberto Fico a ribadire il suo sostegno per il Conte-ter con Iv. E a chiedere un tavolo programmatico. Se l’operazione non va in porto, c’è da essere certi che le spaccature tra chi vuole le elezioni il più presto possibile (il segretario e Andrea Orlando) e chi è pronto a trovare un piano b (da Dario Franceschini a Lorenzo Guerini) emergeranno tutte. Da vedere se allora Zinga riuscirà a smentire l’esistenza di un’egemonia Dc.

Da Gualtieri a Speranza: il Colle blinda sei ministri

Tocca ora alle forze politiche che il presidente incaricato Roberto Fico sta “esplorando” dimostrare la reale volontà di continuare la legislatura con la stessa maggioranza che ha governato nell’ultimo anno e mezzo, più deputati e senatori che si sono da poco aggiunti. Come ha spiegato Sergio Mattarella nella sua apparizione di venerdì sera, prima di convocare Fico al Quirinale. Ma alle forze di quella maggioranza, nelle 32 ore di consultazioni, il capo dello Stato si è anche raccomandato, se si dovesse continuare, di garantire una continuità in certe caselle di governo. Nello specifico, in quelle posizioni che stanno lavorando sul fronte dell’emergenza economica e sanitaria. Ovvero, quei ministeri che sono in prima linea nell’affrontare la crisi economica e che saranno direttamente coinvolti nella messa a punto prima, e nell’utilizzo poi, del Recovery Plan. Ma anche quei dicasteri protagonisti sul fronte dell’emergenza sanitaria.

E dunque Economia, Interno, Esteri, Difesa, Affari europei e Sanità sono le caselle su cui sarà focalizzata l’attenzione del capo dello Stato. E su cui Mattarella, se dovesse andare avanti la maggioranza giallorosa, con un Conte-ter o altro, porrà estrema attenzione. “Non si cambiano i generali durante la guerra”, si fa sapere con un’eloquente immagine dal Quirinale. E i generali che Mattarella vorrebbe continuare a vedere al loro posto sono Roberto Gualtieri, Luciana Lamorgese, Luigi Di Maio, Lorenzo Guerini ed Enzo Amendola, sulla trincea della battaglia economica, e Roberto Speranza sul fronte di quella sanitaria.

Il resto, secondo quel che trapela dai colloqui intercorsi, potrebbe anche cambiare. Ma il presidente si è fermato un passo prima. Non è nelle sue prerogative intavolare trattative su ministri o altre figure: questo, semmai, sta nella mission del mandato esplorativo conferito a Fico e, poi, al prossimo presidente incaricato, chiunque sarà.

Il capo dello Stato ha però piantato qualche paletto nel segno della continuità sui fronti dell’emergenza sanitaria, sociale ed economica, i temi che ha elencato davanti agli italiani. Emergenze che impongono di “dar vita al più presto a un governo con un adeguato sostegno parlamentare e politico”.

Un modo per indicare una strada e un percorso da seguire anche a chi, come Matteo Renzi, ha chiesto discontinuità rispetto all’esecutivo precedente. Nel mirino dell’ex premier, infatti, sono finiti in primis il ministro Gualtieri, il titolare della Giustizia Alfonso Bonafede e il super commissario Domenico Arcuri. Naturalmente non ci si potrà appendere a un nome, ma per esempio sul fronte sanitario, chiedere continuità con il lavoro (molto apprezzato dal Colle) di Roberto Speranza esclude quello di sottrargli il suo primo generale, Arcuri appunto.

Per il resto, tutto sarà materiale di trattativa, compresa la figura del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, su cui bisognerà vedere quanto il M5S e, nel caso, Giuseppe Conte, siano disposti ad alzare le barricate.

Toccherà appunto a Fico verificare, fino a lunedì, quali sono i punti fermi e le richieste delle forze in campo. Se non ci riuscirà, allora si apriranno altri scenari, con maggioranze diverse o allargate. E tutto diventerà possibile, compresa l’ipotesi del voto anticipato. Se invece si resterà all’interno del perimetro giallorosa, il Quirinale la sua moral suasion l’ha depositata. Preservare quei generali, perché cambiare la catena di comando del fronte principale mentre la guerra è ancora in corso potrebbe essere molto pericoloso.

Cresce la voglia di mettere ai voti su Rousseau l’ok ai renziani

Lo ha chiesto per prima Barbara Lezzi, la senatrice più nota dei cosiddetti dissidenti, ovvero i 5Stelle più vicini ad Alessandro Di Battista. Adesso, però, il voto degli iscritti potrebbe diventare l’arma perfetta per legittimare il nuovo accordo di maggioranza con gli odiati renziani, disinnescando i malumori interni.

Un’eventuale intesa di governo potrebbe allora essere di nuovo sottoposta al voto su Rousseau, come già accadde per il Conte-1 e il Conte-2. Ieri lo ha detto dritto l’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo: “C’è bisogno, una volta individuati i temi su cui costruire l’azione di governo, di chiedere ai nostri attivisti e far scegliere a loro”.

Il passaggioè rischiosissimo, ma non manca la convinzione che alla fine, esponendo in prima persona il premier dimissionario come garanzia di un nuovo accordo con Italia Viva e rimettendo “il programma” al centro della discussione, dagli iscritti non arriveranno sgambetti. Anche perché la sensazione, nei gruppi parlamentari, è che alla fine i malumori di qualcuno – Barbara Lezzi, Nicola Morra, Pino Cabras – non provochino scissioni né particolari scossoni nei numeri alla Camera e al Senato. “Tutti giocano a spaccarci – è la versione del senatore Sergio Romagnoli – e a far emergere le nostre diverse anime, confidando anche sul fatto che siamo molto diretti e impulsivi. A tanti non piaceva il governo con la Lega o quello col Pd, ma poi si è messo il bene comune davanti a tutto”. E anche questa volta potrebbe andare così.