Il sondaggio Ipsos: Conte al 58%, “ter” al 43 (ma senza Iv)

In attesa di capire chi uscirà vincitore da questa crisi politica, fuori dal palazzo il responso degli italiani è già arrivato: tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi, la maggioranza dei cittadini sostiene il presidente del Consiglio dimissionario. E non c’è solo l’altissimo gradimento del fu Avvocato del popolo che arriva a sfiorare il 60% ma, secondo gli ultimi sondaggi, quasi un italiano su due vorrebbe che Conte restasse a Palazzo Chigi al termine della crisi. In altre parole, gli elettori sono favorevoli a un Conte ter che dovrebbe lasciar fuori Renzi e Italia Viva.

Secondo un sondaggio commissionato dalla Presidenza del Consiglio a Ipsos, tra il premier dimissionario e il leader di Iv non c’è partita: il gradimento di Conte è al 58%, seguito dal ministro della Sanità Roberto Speranza (39%) e Giorgia Meloni (33%), mentre Renzi è fanalino di coda tra i leader politici, apprezzato solo da un italiano su dieci (10%), staccato di ben 12 punti dal capo politico reggente del M5S Vito Crimi (22%).

Conte, secondo il Global Leader Approval Rating Tracker della società Morning consult, ha anche il primato di essere insieme ad Angela Merkel il leader più apprezzato in Europa: a ogni capo di governo, ogni settimana, viene assegnato un punteggio calcolato come quota di residenti che esprimono approvazione. Secondo questa rilevazione, la leader più apprezzata dell’Ue è Angela Merkel con 22 punti e subito dietro il premier italiano con 20 (59% di pareri positivi). Sotto zero invece il primo ministro britannico Boris Johnson (-15), il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron (-24) e il premier spagnolo Pedro Sanchez (-30).

Nel sondaggio dell’istituto di Nando Pagnoncelli, viene chiesto agli elettori anche quale dovrebbe essere il migliore sbocco della crisi e i risultati sono tutti a favore del premier: il 43% degli intervistati pensa che Conte dovrebbe rimanere Presidente del Consiglio contro un 36% di chi spera in un cambio a Palazzo Chigi. Ma a pesare è soprattutto un altro dato: il 60% degli elettori ritiene che se dovesse nascere un nuovo governo Conte, Matteo Renzi e Italia Viva dovrebbero stare all’opposizione contro un 16% secondo cui il piccolo partito del senatore di Scandicci dovrebbe rientrare nell’esecutivo. Come dire: se Iv torna in maggioranza, tra qualche settimana torneranno ricatti, veti e nuove fibrillazioni nel governo. Gli altri scenari della crisi non piacciono molto agli italiani: il 46% dice no a un governo di unità nazionale e un altro 47% non vuole le elezioni nel bel mezzo della pandemia.

Anche le intenzioni di voto sorridono a Conte e ai giallorosa (Pd e M5S), mentre va molto male al piccolo partito di Renzi: se la Lega resta primo partito al 22%, il Pd cade al 19,3% (-1,2%) ma in compenso cresce il M5S al 18,1 (+1,2%), mentre IV non riesce nemmeno a raggiungere il 3%, soglia di sbarramento dell’Italicum, con il 2,3% (+0,1%). Intenzioni di voto simili al sondaggio WinPoll di Roberto D’Alimonte pubblicato ieri dal Sole 24 Ore: il Pd è al 19,6%, il M5S al 13,7% mentre IV al 2,4%. Ma l’istituto demoscopico ha anche testato una “lista Conte” in caso di voto: quello del premier sarebbe il primo partito di centrosinistra con il 16,5%, pescando nell’elettorato di Pd (-6%) e M5S (-5%).

In caso di corsa elettorale, una “lista Conte” toglierebbe consensi a ogni partito: ogni 100 voti, 56 arriverebbero da Pd e M5S, 24 da indecisi, 5 dalla sinistra e 15 dal centrodestra. Ma la “lista Conte” favorirebbe la coalizione giallorosa in una corsa elettorale: se oggi – senza la lista del premier – i rapporti di forza sono 51 a 38 per il centrodestra, con Conte in campo la partita sarebbe più aperta (48 a 44%). Durante la crisi, Conte vince la sfida contro Renzi anche sui social. L’indagine della società Spin Factor sui commenti delle pagine Facebook, Twitter e Instagram di Conte, Zingaretti, Di Maio e Renzi, il premier è il leader che ha il “sentiment social” più alto con il 31% dei commenti positivi, mentre il senatore di Firenze è ultimo al 19%.

Difficile un altro nome: italo-vivi senza sponde

C’è pure il Ponte sullo Stretto nel documento che Matteo Renzi porta alle consultazioni con l’“esploratore” Roberto Fico. E anche la Giustizia, intesa come “svolta contro il giustizialismo” e il tema delle nomine. Un elenco di questioni tali da mettere sul tavolo come punti di partenza, che paiono fatti apposta per rovesciarlo, il tavolo.

Ma poi, uscendo dal colloquio con la delegazione di Iv, il senatore di Scandicci afferma di “essere pronto” a cercare “un punto di caduta comune”. E persino sul Mes si dice “disponibile a discutere” se lo sono anche i Cinque Stelle. È l’unico a rispondere alle domande dei giornalisti, ieri, e mantiene un piglio aggressivo, senza però arrivare agli eccessi di giovedì al Quirinale. Dentro la stanza di Fico con Maria Elena Boschi, Teresa Bellanova e Davide Faraone c’è stato quasi un’ora e mezza. Un tempo tale da far capire sia che i problemi ci sono, sia che non sono ancora diventati insolubili.

Non è ancora arrivata a un tornante decisivo la strada tortuosa intrapresa dall’ex premier nella speranza di fare fuori Giuseppe Conte, insomma. Nel senso che Renzi non ha ancora rinunciato a giocare questa partita fino in fondo. Ma più va avanti, più gli diventa chiaro che non ha trovato alleati: il Pd, almeno quello ufficiale, sulla strada del governo istituzionale non lo segue. E i ribelli non si sono palesati con sufficiente forza. Mentre appare chiusa la strada a un altro governo politico, se non forse una sorta di esecutivo a trazione europea (lo schema Paolo Gentiloni premier, per capirsi).

E dunque Renzi parla della necessità di costruire un cronoprogramma, e anche scritto, parla di temi “divisivi”, ma non pone veti. Addirittura si spinge a dire di preferire un governo politico a uno istituzionale. Ribadendo che “prima vengono i contenuti e poi i nomi”. Insomma, accetta di sedersi e di trattare con l’orizzonte del Conte ter. Sempre tenendosi aperte due strade: quella di contribuire alla rinascita del governo Conte e quella di approfittare delle difficoltà nel chiudere un documento comune per far saltare tutto. Di partenza, vorrebbe fuori Roberto Gualtieri (Mef) e Alfonso Bonafede (Giustizia), oltre al Commissario Domenico Arcuri e magari al portavoce Rocco Casalino e dentro Maria Elena Boschi. Se e quanto è disposto ad abbassare l’asticella, si vedrà.

Ieri sera ha riunito i gruppi, come d’altra parte aveva fatto anche la sera prima. All’anticipazione del documento, l’assemblea virtuale aveva manifestato perplessità e dubbi. Con il senatore Eugenio Comincini in prima linea a denunciare il valore pretestuoso di alcune richieste eccessive.

Tanto è vero che ieri sera in casa Iv non si sbilanciavano, dando al 50% un governo politico (e mettendo in mezzo, oltre a Conte, Fico e Patuanelli) e al 50% un governo istituzionale (Draghi o Cartabia). Ma Renzi ancora provava a spingere con gli amici le sue preferenze: “Il Conte ter è molto in salita. Più vicino il governo istituzionale”.

Scudo dem-5S per l’Avvocato Renzi ora vuole il “contratto”

La prima reazione, quando sentono l’ultimatum di Matteo Renzi per un “documento scritto” è assai indicativa: “Per scrivere quello con la Lega ci abbiamo messo due mesi!”. Non considerano nemmeno l’ipotesi che qui, con la maggioranza giallorosa che non cambia, il lavoro possa essere facilitato, se non già fatto. Al contrario – ragionano ai piani alti del Movimento – “se l’avessimo fatto un anno e mezzo fa, non saremmo a questo punto: ma allora il Pd ci disse che il ‘contratto’ ricordava troppo il governo gialloverde..”.

Siamo tornati lì, al punto di partenza. La soluzione della crisi è in alto mare e il leader di Italia Viva, uscendo dalle consultazioni con il presidente della Camera Roberto Fico, ha tutta l’intenzione di farlo capire: non vuole andare troppo lungo coi tempi, per non ripetere le critiche del comizio da 27 minuti che ha tenuto al Quirinale, ma anche in versione short riesce ai infilare i “no vax”, “le primule”, i “banchi a rotelle”, gli “emendamenti di notte” e pure un paio di stoccate a chi mette “al centro i suoi problemi interni” (la rivolta di Di Battista &c. nei Cinque Stelle) e a chi predica lealtà ma non “dice nelle riunioni private le stesse cose che dice fuori” (qui ce l’ha col Pd). Per essere uno che chiede di sedersi al tavolo, non proprio un’accoglienza da re.

Eppure il documento scritto è quello che chiedono un po’ tutti, e va nella direzione che Fico voleva imprimere a queste consultazioni: non parlare di nomi, ma di contenuti. I 5 Stelle lo chiamano “cronoprogramma”, il Pd lo traduce in un elenco di punti, ma la sostanza è quella di un “contratto”, appunto, come si chiamava nel primo governo Conte, poi ammorbidito nel “patto di legislatura” durante la stagione dem: insomma un vincolo formale (ancora tutto da scrivere) a cui i giallorosa possano aggrapparsi nel tentativo di sopravvivere un altro po’.

L’orizzonte dei 24 mesi, come lo inquadra il capo M5S Vito Crimi, sembra difficile da intravedere. Ma secondo l’interpretazione di alcune fonti di governo, le condizioni dettate ieri da Renzi – che pure, sottolineano le fonti, “non ha messo veti, nemmeno sul Mes” – possono anche essere un modo per camuffare il fatto che alla fine dovrà cedere sul nome di Giuseppe Conte, visto che il Pd si dice indisponibile a seguirlo in altre avventure.

Ma è chiaro che le carte, Conte o non Conte, in questo momento continua a darle lui. Per questo quando chiedono “lealtà”, quando invitano a “accantonare temi divisivi”, quando si appellano allo “spirito costruttivo”, quando chiedono che l’impegno di governo venga “sottoscritto solennemente e pubblicamente”, Vito Crimi e Nicola Zingaretti hanno un solo interlocutore, decisamente più ingombrante del 2 per cento che lo sostiene nel Paese. E quando nominano – entrambi – il patto del 5 novembre, come fosse la conferenza di Yalta, forse hanno qualche difetto di memoria. Fu la sera in cui Conte invitò, per la prima volta dalla nascita del suo secondo governo, i leader dei partiti di maggioranza per siglare il patto di legislatura. Il premier riunì Zingaretti, Crimi, Renzi e Speranza nel suo appartamento privato, si congedarono dopo un paio d’ore. I capi del Pd e dei Cinque Stelle uscirono in piazza Colonna per comunicare solennemente ai giornalisti il “salto di qualità positivo” (Zingaretti) che consentiva di togliere “ogni dubbio sul fatto che questo governo concluderà il suo lavoro nel 2023” (Crimi). Matteo Renzi, invece, aveva deciso di lasciare Palazzo Chigi dall’uscita sul retro: “Si capirà se ci sono i presupposti, se son rose fioriranno…”, aveva commentato. Tre mesi dopo, siamo fermi ancora lì.

Arabia Viva

Deluso dagli italiani, che si ostinavano a non amarlo perché in fondo non lo meritavano, l’Innominabile si trasferì a Riyad con i fedelissimi di Italia Viva, ribattezzata per l’occasione Arabia Viva. “Eccoci nel Nuovo Rinascimento!”, scandì scendendo dal jet del principe Mohammad bin Salman, per gli amici MBS, e baciando la terra promessa. Al principe che l’accoglieva a braccia aperte, presentò subito la Boschi: “Caro MBS, lei è MEB”. Un mutawwi’a, agente della polizia religiosa, la prese in consegna, contrariato per la vertiginosa minigonna. “Dove la portano?”. “Niente, se la caverà con 87 scudisciate per abbigliamento blasfemo. Ma, se preferisce, c’è la lapidazione o la crocifissione”. “Scioakkk bicaoeuuuse”, disse lui. Ma l’altro non raccolse. Il Nostro mandò avanti la Bellanova, avvolta nella consueta tenda per doccia: “È la splendida Teresa, la bracciante che abbiamo fatto ministra”. MBS l’affidò a una guardia agricola: “Qui non abbiamo ministre, e manco ministri. Però, essendo straniera, potrà lavorare nei campi e, siccome è amica tua, guadagnerà ben un dollaro l’anno. È il costo del lavoro che giustamente ci invidi”. “Scioakkk bicaoeuuuse”, ripeté lui, ma nessuno capì. Vista la mala parata, tentò di coprire col suo corpo Ivan Scalfarotto, che però venne notato da un ufficiale dello Squadrone della Tigre: “Mi sa che è un gay, come dite voi, o un sodomita infedele, come diciamo noi. Prendetegli le misure per la solita valigia modello Khashoggi. Ma forse qui basta una 24 ore. E non scordate i seghetti per ossa, sennò è il solito pulp”. “Shissh”, proruppe l’Innominabile fra lo stupore e l’ilarità generali.

Presentare l’ex ministra Elena Bonetti parve oltremodo rischioso, per la difficoltà di spiegare il concetto di Pari opportunità. La donna venne spacciata per la schiava del capo, incontrando l’approvazione del principe. Che riunì l’amico Matteo e il capogruppo di Arabia Viva Ettore Rosato a parlare di politica. “Noi – esordì il primo – apriamo la crisi di governo: non poltrone, ma idee. Siamo garantisti, rivogliamo la prescrizione. Bin stai sereno. Un sorriso”. Alle parole crisi e idee, ma soprattutto garantisti e prescrizione, l’interprete diede di matto. Rosato chiarì: “Siccome, senz’offesa, c’è un vulnus per la democrazia, vorremmo i servizi e un governo Dragh…”. Ma non finì la frase: un agente della Mukhabarat, la polizia politica, roteò la scimitarra. “Il governo – spiegò MBS scrollandosi gli schizzi di sangue dalla kefiah – sono io. E i servizi ve li fa il mio amico. Matteo, se non erro sei indagato per fondi illeciti. Quindi prima ti mozziamo mani e piedi. Poi, per tutto il resto, la testa. Tanto non ti serve. Ma stai sereno. Scioakkk bicaoeuuuse shissh. Un sorriso”.

Nell’incerta politica dopo il 2018, l’Italia scopre due Conte e due Mattarella

Ci sono due Conte e due Mattarella. Una possibile sintesi del volume di Paolo Armaroli, già docente di Diritto pubblico e anche deputato per Alleanza nazionale nella XIII legislatura, potrebbe essere questa. Premettendo però che il sottotitolo del libro è ampiamente confermato nelle pagine interne: “Un racconto delle istituzioni”. Con il pretesto di guardare da vicino i due protagonisti, l’autore non solo ricostruisce nei dettagli i passaggi politici e istituzionali che hanno segnato la crisi italiana dalle elezioni del 2018 (ma che in realtà risalgono al 2013), ma si incunea nei tanti passaggi della storia italiana del Dopoguerra.

Ma il punto nevralgico è l’analisi sui due presidenti che proprio in queste ore stanno attraversando la loro terza difficilissima partita. Conte è un leader per caso come quegli attori improvvisati del “Neorealismo italiano”. E Mattarella ne fa la conoscenza nella burrasca che porta al primo governo giallo-verde. Entrambi “a sangue ghiaccio”, uniti dalla “grammatica giuridica”, sia pure costituzionale nel primo caso e civile nell’altro. Uno parla molto poco, l’altro è prolisso, il primo si disimpegna nella politica evitando l’interventismo, ma non essendo mai notarile. L’altro fa il suo debutto sotto la protezione dei due capi politici, ma anche grazie a una dimensione internazionale si emancipa da loro. Fino alla “metamorfosi” del 20 agosto 2019, quando in Senato bastona Salvini e omaggia proprio il capo dello Stato, il Parlamento e tutta la grammatica costituzionale di cui è capace. Se c’è un Conte che piace, e si piace, ce n’è però uno che non convince, lo si vede con la montagna di critiche che gli piovono nel corso della pandemia (in larga parte ingiustificate, a nostro giudizio) che lo portano alla crisi di questi giorni. Un Conte “senzaterra” che non ha una forza politica propria e che forse dovrà darsela. Armaroli non può sapere come finirà, ma nel libro offre tutti gli elementi per capirlo.

 

Conte e Mattarella

Paolo Armaroli

Pagine: 252

Prezzo: 20

Editore: La Vela

Donne sull’orlo di una crisi glicemica

Simbolo l’unione sobria, vagamente vaginale, di due parentesi, come un paio di ciglia che si guardano, obiettivo rivendicare più spazio, affermarsi occupandolo soprattutto col corpo. Vederlo dilatarsi, ingrassare, assecondando la fame. Farlo come atto liberatorio, sovversivo, contro un sistema patriarcale e una società basata sull’immagine che spinge le donne a farsi piccole, in ogni senso, in baccanali segreti, a tema, sotto il nome di Supper Club, banchettando avidamente in luoghi privati, occupati anche illegalmente, col cibo recuperato dai cassonetti dei supermercati.

Tra un salmone speziato e una bouillabaisse, tra una cheesecake e una fiorentina strappata coi denti e brandita con le mani, mentre fuori il mondo parla solo di wellness, le donne che partecipano ai Supper Club s’ingozzano fino a vomitare, ballano e si sballano, urlano, vanno a letto con chi capita, tornano a casa all’alba sfatte. Sono millennials ferite, segnate da tradimenti, violenze, aborti. “Ho iniziato a scrivere Le divoratrici”, spiega Lara Williams, il cui esordio è stato per Time, Vogue e The Guardian, che l’ha definita “una voce che ha molto in comune con Sally Rooney, incerta sul proprio posto nel mondo, ma al tempo stesso determinata a trovarlo”, il libro culto del 2019, una sorta di Fight Club femminista, “dopo essermi iscritta a un corso d’improvvisazione teatrale per combattere una persistente timidezza. Volevo umiliarmi in una classe piena di sconosciuti, facendo qualcosa di estroverso per definizione, come terapia d’urto. Ambivo a scrivere una storia che consentisse di abbandonarsi all’ansia come cura”.

Classe 85, di Manchester, già autrice della raccolta di short stories Treats (istantanee influenzate dalla lettura di Lorrie Moore, Amy Hempel, Grace Paley su criticità, fragilità e dilemmi del diventare adulte oggi), Williams spiega di aver molto riflettuto sul “tacito accordo secondo cui dobbiamo sempre dimostrarci compiacenti, gradevoli, rose dal dubbio di non essere mai abbastanza”.

L’appetito, inteso come desiderio verso il cibo o l’esser nutrite, le è così sembrato il migliore strumento d’indagine per esplorare che cosa succede “se invece le donne decidono consapevolmente di guadagnare spazio, e voce, dicendo sì a quello che il corpo chiede in dose maggiore”. Incontriamo la protagonista, Roberta, alla soglia dei trenta, macerata dai tormenti come un kimchi. Lavora per un sito web di moda, compilando schede prodotto, è alienata, odia il suo corpo, lo considera “una barzelletta”. Non molto è cambiato dai tempi dell’università. Gli anni che aveva immaginato “una festa danzante” li ha trascorsi guardando fuori dalla finestra di camera sua mentre il cuore “spiegava i suoi tentacoli per la città, sferrando colpi alla cieca nell’oscurità”, divorata dal senso d’inadeguatezza. Cucinare, per sé o gli altri, scandiva così le sue giornate e si rivelava cura e passatempo (anche Lara ama i fornelli, “cucinare nutre e pacifica e dirlo non è antifemminista!”). Con un passato segnato da un padre che l’ha abbandonata a sette anni, uno stupro quando era ancora vergine e una relazione sminuente con un professore più anziano di lei, Roberta si sente perennemente squassata da una “fame senza fondo e ardente”. Ha un vuoto da riempire ma anche un gran bisogno di capire chi è. A darle una scossa è l’incontro con Stevie, eccentrica studentessa d’arte, con cui fa lievitare, come un soufflé, un rapporto simbiotico basato sulla passione per il cibo, le molestie subite, l’odio verso gli uomini. Sono loro le fondatrici del Supper Club.

La narrazione è intervallata da sezioni decomprimenti dedicate al processo metodico di cottura o preparazione di un alimento (la pasta madre, le cipolle caramellate, gli spaghetti alla puttanesca) “ma io non le considero ricette e basta. È un modo, anche quello, per occupare spazio, sulla pagina. Ci tenevo a scrivere un libro trasgressivo, con al centro figure femminili capaci di rompere i codici di comportamento imposti”. “Volevamo espanderci ed essere sfamate, volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo”, dice a un certo punto Roberta. Contro la dittatura della perfezione non c’è in effetti niente che spacchi di più dell’immagine di una donna che si strafoga perché le va e non chiede scusa a nessuno, in primis a se stessa.

Thriller di governo nel povero Paese che si ritrova Salvini premier

Cosa accade se a un giornalista arriva per sbaglio, via email, uno scoop decisivo per la sopravvivenza politica del presidente del Consiglio? Il cronista in questione, di nome Victor Costa, scappa subito da Milano a Parigi, senza dirlo a nessuno. Si nasconde. Così l’ex moglie Carla, impaurita, avvisa i suoi migliori amici di una volta. Un professore universitario, Walter; un ex estremista volato in Messico, Ruben; un’assistente europarlamentare che vive a Bruxelles, Melissa. E su tutti il loro guru pluriottuagenario ritiratosi in una casa di riposo dopo la morte della moglie: Amleto Coen. I cinque, lustri addietro, hanno coltivato la loro passione per l’impegno culturale sotto l’ombrello del Partito (quello con la maiuscola era uno solo, prima che crollassero le ideologie).

Siamo a Ravenna, anche se la città non viene mai citata. Ché di Ravenna è Alberto Cassani, ex assessore comunale e autore di questo sorprendente Una giostra di duci e paladini, romanzo che va dal thriller politico al memoir, ma anche bilancio esistenziale della generazione dei cinquantenni di oggi. A colpire, in ogni caso, è l’Italia in cui Cassani dà vita alla storia di Costa, venuto in possesso di un audio esplosivo sul premier di destra definito come il Capo. Un cinico leader di pancia che assomiglia tanto al leghista Matteo Salvini. Con lui al governo rabbia e odio dilagano in tutto il Paese e la violenza diventa anche un diversivo per coprire i fallimenti politici. Da far leggere a tutti quelli che pensano che si debba votare subito per dare l’Italia alla peggiore destra occidentale. E quando l’intrigo termina felicemente, con la vittoria dei buoni, ecco il colpo di scena finale che rivela un altro romanzo.

 

Una giostra di duci e paladini

Alberto Cassani

Pagine: 349

Prezzo: 18

Editore: Baldini+Castoldi

 

Teresa vs Ciabatti: sofisticata, spietata, invidiosa

Teresa Ciabatti, con il suo nuovo Sembrava bellezza edito da Mondadori, sfida ancora una volta le convenzioni della letteratura, entrando e uscendo dai suoi confini con la volontà di tenere sospeso il lettore sul filo di una perversa ambiguità.

La scrittrice che dice io in queste duecento pagine (la stessa del fortunato La più amata), pur essendo una Teresa Ciabatti di carta, profilata con un dosaggio di realtà e finzione, risalta con un tale timbro di verità che a sembrare immaginaria è semmai la biografia autentica dell’autrice. Questo cortocircuito di senso brilla perché il trucco dell’autofiction qui non lustra, ma serve a degradare la reputazione della scrittrice che dice io: “La mia vita va letta sotto la luce di un desiderio di rivalsa. Ogni rapporto, dentro e fuori casa, ha preso la forma del torto da vendicare. Cos’è del resto il romanzo che mi ha dato fama se non una vendetta contro i miei genitori morti?”. Un autodafé che sparge quanto più sale possibile sulla ferita: “Prendere coscienza di quanto poco hai costruito, e distrutto, neanche sulla distruzione hai il primato. Il momento di riconoscere la solitudine immensa che è la tua vita, il fallimento, la caduta rovinosa da cui non puoi risalire”.

La scrittrice che dice io è una donna risentita e volubile, costretta a fare i conti con un privato in frantumi: moglie adultera e madre ricusata. Quando ha un improvviso successo vi si aggrappa come a uno stigma di immortalità. Ma la ribalta letteraria scorre via con la stessa fugacità della giovinezza. È proprio negli anni arruffati della pubertà che si annidano le ombre che gravano sul suo destino inacidito. È Federica, un’amica del liceo che ricompare dopo trent’anni, a costringere la scrittrice che dice io a calare il secchio dentro il pozzo del passato. Riemerge un’adolescente complessata e rosa dall’invidia sociale. Un’inadeguatezza, la sua, che patisce le ragazze che sanno usare la bellezza per recitare da protagoniste sul palcoscenico del mondo. Come Livia, la sorella maggiore di Federica, reginetta di un liceo dei Parioli negli Anni 80. Per la scrittrice che dice io Livia è un modello inarrivabile che mortifica la sua autostima ma vi resta accanto fintanto che può vivere di luce riflessa. Si sottrae quando Livia, vittima di un incidente, regredisce a una disabilità mentale che la trasforma in una reietta. È l’incontro con Livia adulta, inchiodata a una perdurante coscienza di diciottenne in un corpo invecchiato, che trascina la scrittrice che dice io, “intelligente e anaffettiva”, a guardarsi allo specchio senza più infingimenti. Si scopre cattiva, subdola, codarda, forse responsabile indiretta dell’incidente occorso all’amica. Quando Livia esprime il desiderio di rivedere Massimo, il suo spasimante dell’epoca, la scrittrice che dice io asseconda non già una cinquantenne nostalgica ma proprio la liceale intrappolata nell’ambra. Massimo tuttavia blandisce la scrittrice che dice io, regalandole un’insperata rivincita: “Nel profondo sto accontentando tutte le ragazze non amate, tra le quali c’è la meno amata, la deforme, il fenomeno da baraccone oltre la tenda del camerino, io”. Ecco cos’è “questa storia di scomparsi, di giovinezze spezzate”: un grido di dolore per tutto ciò che finisce, per tutto ciò che, strappato al nostro divenire, rotola inafferrabile nel sacco della memoria.

 

Sembrava bellezza

Teresa Ciabatti

Pagine: 240

Prezzo: 18

Editore Mondadori

L’ironia tagliente di Fran Lebowitz, a spasso per Ny con l’amico Scorsese

“Da dove arriva il mio senso dell’umorismo? Dalla natura, e da dove sennò? Nella mia famiglia era punito. A 12 anni mia madre mi disse che le ragazze spiritose non piacevano ai maschi”.

Per sua e nostra fortuna, Fran Lebowitz ha saggiamente ignorato la mamma, altrimenti non potremmo oggi godere delle perle d’arguzia della più grande scrittrice umoristica americana. Da ringraziare c’è Martin Scorsese, suo amico e fan da una vita (già su di lei aveva girato nel 2010 La parola a Fran Lebowitz), che ha avuto l’idea di portarla su Netflix nella serie tv Fran Lebowitz. Una vita a New York, inventandosi un formato di sette puntate da mezz’ora in cui Fran si racconta, partendo dal rapporto di odio e amore verso la sua città d’elezione, New York.

Con un ritmo jazzy coerente allo spirito di Lebowitz ma anche della Grande Mela, la serie è strutturata su una conversazione fra la scrittrice e il regista inframmezzata da incursioni nella vita e carriera di lei, ma anche nel tempo e negli spazi della metropoli: uno straordinario viaggio del pensiero tra il serio e il faceto rivestito della comicità irresistibile di Fran, personaggio femminile unico nel suo genere sulla scena intellettuale ebreo-americana ma forse anche oltre i confini degli States. Nel magico mondo di Lebowitz le parole traducono una visione di mondo così acuta, lucida e inoppugnabile da smantellare i contraddittori, che pure ci sono (vedi la chiacchierata stracult con Spike Lee) ma sono faticosi da costruire davanti a questa campionessa di arguzia, premiata già da teenager con il class wit.

Il Lebowitz-pensiero tocca vizi e virtù di ogni costume socio-culturale senza mezzi termini, esponendo gli spettatori a verità così ovvie da sfuggire a chiunque, specie quando il mondo funziona al contrario: “Alle aste non si applaude più davanti a un quadro di Picasso, ma al suo prezzo”.

 

Gli agenti dei vip si prendono la scena

Andréa, la capa dell’agenzia artistica ASK, ha almeno quattro grossi problemi da risolvere e pochissimo tempo per farlo. Uno: liberarsi degli attori che non portano profitti. Due: impedire che il collega Mathias porti altrove i suoi clienti. Tre: liberare Charlotte Gainsbourg dal bruttissimo film di fantascienza che sta girando il suo migliore amico. Quattro: trovare un asilo nido per la figlia. Comincia così la quarta e ultima stagione di Chiami il mio agente!, la dramedy francese ambientata nell’indaffaratissimo e tutt’altro che dorato mondo degli agenti delle star.

Trasmessa su France 2 dal 2015, la serie è nata da un’idea di Dominique Besnehard, che dopo vent’anni sul campo ha deciso di provare a raccontare la sua esperienza da agente. Dix pour cent – il titolo originale che fa riferimento alla percentuale versata da ogni attore a chi lo assiste – ha cominciato a girare il mondo quando è finita nel catalogo di Netflix. Tra i fan, oltre a Jennifer Aniston e Nicole Kidman, c’è anche lo scrittore Jonathan Coe che su Twitter l’ha elogiata come il prodotto televisivo più “affilato, leggero e divertente” del momento. Nel frattempo sono arrivati i remake turco e canadese, mentre altri adattamenti sono in lavorazione dall’India alla Cina.

Il segreto del successo della serie? Guardare vizi e virtù delle capricciose star del cinema transalpino dal buco della serratura dei loro agenti. Al centro della scena ci sono loro, gli agenti, impegnati a barcamenarsi fra una vita privata inesistente e una vita lavorativa folle che li vede trasformarsi, a seconda della necessità, in confidenti, psicologi oppure nel punching ball della star di turno. Ma la vera forza di Chiami il mio agente! sono gli attori veri che, con grande autoironia, si prestano a mettere in scena le loro debolezze. E non è un caso se gli episodi che funzionano meglio, per il pubblico italiano, sono quelli che coinvolgono attori conosciuti anche al di fuori della Francia. L’elenco è lungo: Cecile De France e Fabrice Luchini, Juliette Binoche e Jean Dujardin, Isabelle Huppert e Christopher Lambert (sì, è francese). Nella terza stagione compare anche una Monica Bellucci disperata perché non riesce a trovare un fidanzato.

Gli autori hanno raccontato che convincere le star del cinema a partecipare alla serie non è stato semplice e che molti hanno rifiutato l’offerta: “Gli attori sono abituati a essere serviti, qui invece si devono mettere al servizio degli agenti” ha spiegato la creatrice Fanny Herrero. Eppure anche il cast della quarta stagione è ricchissimo e comprende, oltre a Charlotte Gainsbourg nel primo episodio, Jean Reno, la stella del basket Tony Parker e soprattutto Sigourney Weaver, che accetta di girare un film solo a patto di poter scegliere il suo partner amoroso (il giovane e affascinante Gaspard Ulliel al posto del vecchio Bernard Verley).

Oltre a mettere in scena le vite private degli attori, Chiami il mio agente! utilizza i classici meccanismi narrativi delle workplace comedy come The Office: gelosie e amori clandestini, dispetti e piccole vendette, come quelle degli agenti maltrattati dalle star (Andréa, Mathias, Gabriel e Arlette) che si sfogano bullizzando i loro assistenti (Camille, Noémie ed Hervé). Il gioco è collaudato e funziona bene, ma alla lunga rischia di diventare troppo ripetitivo. Dopo la quarta e teoricamente ultima stagione, già si parla di un episodio speciale ambientato a New York e di un quinto capitolo: un’operazione che potrebbe rivelarsi rischiosa.

Di certo Chiami il mio agente!, arrivata dopo Delitti in Paradiso e Les Revenants e nello stesso anno di Le Bureau, ha permesso alla serialità francese di entrare in una nuova fase più coraggiosa e internazionale. Lo conferma anche il recente successo di Lupin, la serie con Omar Sy che secondo le previsioni diffuse da Netflix, supererà le 70 milioni di visualizzazioni nel primo mese dall’uscita, facendo meglio sia de La Casa di Carta che de La Regina degli Scacchi.

 

Chiami il mio agente!

(Dix pour cent)

Netflix