Fatto il contratto, si crea la sigla che firma

Tramontato l’accordo con la Cisl sul contratto degli shopper, c’è già un nuovo sindacato di comodo nato pochi giorni fa per prestare soccorso alle aziende che consegnano la spesa a domicilio. Si chiama Unione shopper Italia ed è pronto ad accettare il modello imposto dalle imprese: senza assunzioni né stipendi orari, basato sul lavoro autonomo super precario e pagato a cottimo.

In sostanza, è disposto a ricopiare nero su bianco il sistema finora adottato da Everli (ex Supermercato 24) e dalle altre società del settore. Solo a certe condizioni, quindi non per tutti, scatteranno alcuni diritti legati a maternità e malattia. Sul documento c’era stata l’intesa con la Fisascat Cisl il 30 dicembre ma solo il 30% degli shopper interpellati lo aveva approvato. Così la sigla Cisl del commercio aveva chiesto di riaprire le trattative. Nel frattempo, è arrivata l’Unione shopper Italia, che si è costituita pochi giorni fa durante un’assemblea con 55 iscritti col solo scopo di accettare il volere delle imprese.

La stessa Everli sta in questi giorni sponsorizzando il neonato sindacato tra gli shopper: ha inviato il link del sito web a tutti gli account, chiedendo di compilare il form per aderire. In oggetto, la scritta “importante” in maiuscolo e in allegato un video in cui Federico Sargenti, ad di Everli e presidente dell’associazione datoriale Assogrocery, insiste sull’urgenza di dare mandato di firmare all’Unione shopper Italia: “Noi di Everli oggi non produciamo ancora un utile: finora abbiamo fatto ricorso a finanziamento esterno. A breve se non troviamo una soluzione saremo costretti a ridurre la nostra presenza sul mercato”. In sostanza, preannuncia tagli di posti di lavoro in caso di mancata accettazione.

Il mestiere dello shopper funziona così: riceve l’ordine online, riempie il carrello della spesa e lo porta fino a casa del cliente. La domanda di questi servizi è cresciuta durante il lockdown, ma i lavoratori non sono dipendenti delle aziende, ma occasionali o partite Iva. Per loro valgono le stesse regole applicate ai rider del cibo a domicilio: guadagnano solo in base a quante consegne effettuano. Con il contratto, sarà mantenuto questo sistema, con alcune concessioni. La malattia retribuita in caso di ricoveri e prognosi superiori a 15 giorni; maternità per chi ha fatto almeno 500 consegne. Inoltre si permette alle aziende di dare priorità nei turni a chi ha dato più disponibilità e incarichi portati a termine, un meccanismo identico a quello di Deliveroo, giudicato “discriminatorio” dal Tribunale di Bologna. In primavera, Everli aveva provato a far firmare, inutilmente, il contratto alle sigle degli atipici Nidil Cgil, Felsa Cisl e UilTemp. A dicembre era riuscita a convincere solo la Fisascat Cisl che, come accennato, non ha ricevuto l’appoggio degli shopper .

Come per i rider, però, ora c’è una sigla costituita appositamente per dire sì alle imprese.

“Pagò i sindacalisti Usa”. Fca si dichiara colpevole

La fu Fca, che poi sarebbe la fu Fiat, ha corrotto i vertici di un sindacato americano (la UAW) per rendere più agevole il suo sbarco nel gruppo statunitense Chrysler, avvenuto formalmente con una quota di minoranza nel 2009 e col pieno controllo dal 2011. Stiamo parlando, in sostanza, dell’operazione che Sergio Marchionne realizzò con l’appoggio dell’Amministrazione di Barack Obama e quella dei sindacati, uno dei quali – si scopre oggi – unto alla bisogna. È quanto è affermato in un documento datato 27 gennaio e pubblicato dall’ufficio del procuratore federale del distretto orientale del Michigan (lo Stato in cui Chrysler ha sede negli Stati Uniti): “Fiat Chrysler Automobiles, una delle tre più grandi case automobilistiche americane, ha accettato di dichiararsi colpevole di aver cospirato per violare il Labor Management Relations Act, effettuando pagamenti illegali a funzionari del sindacato United Auto Workers”. Fca, oggi fusa nella neonata Stellantis, dovrà pagare 30 milioni di dollari di sanzioni e ha accettato di stare tre anni sotto “la supervisione di un osservatore di conformità indipendente per garantire che rispetti le leggi federali sul lavoro”. Perché l’accordo sia operativo resta solo la ratifica da parte della Corte federale del Michigan.

La storia di mazzette comunque resta e i dettagli sono elencati con puntigliosità nel comunicato del procuratore federale che annuncia il patteggiamento: si tratta di pagamenti per almeno 3,5 milioni di dollari nell’arco di tempo che va dal 2009 al 2016 sotto varie forme: sontuosi banchetti e feste per i funzionari di vertice dell’UAW, partite di golf, un fucile da caccia fabbricato in Italia, abbigliamento, scarpe firmate “e altri oggetti pagati con carte di credito emesse dal centro di formazione congiunto” tra il sindacato e Chrysler (l’NTC). I dirigenti di Fca hanno anche saldato 262mila dollari del mutuo sulla casa dell’ex vicepresidente di UAW General Holiefield (è il nome, non il titolo): lui, scomparso nel 2014, e la sua vedova hanno anche ricevuto centinaia di migliaia di dollari diretti attraverso “una presunta organizzazione di beneficenza di Holiefield” e società riferibili alla coppia “che avevano contratti col NTC”.

“Fca ha cospirato per effettuare pagamenti impropri a funzionari di alto rango dell’UAW. Invece di cercare di negoziare in buona fede, Fca ha minato il processo di contrattazione collettiva e il diritto dei membri della UAW (400mila iscritti, ndr) a un’equa rappresentanza”, ha sostenuto Irene Lindow del Dipartimento federale del lavoro. Non è chiaro? “FCA ha fornito denaro e altri oggetti di valore nel tentativo di creare un’atmosfera più favorevole per i negoziati”, spiega Timothy Waters dell’Fbi. Ancor più netta Sarah Kull, che al ministero della Giustizia si occupa dei crimini finanziari e fiscali: “Fca ha cospirato coi suoi dirigenti e altri per dirottare fondi dal centro di formazione NTC e riempire le tasche di numerosi funzionari dell’UAW”.

Fiat Chrysler, come detto, ha accettato di dichiararsi colpevole e pagare una sanzione chiudendo la vicenda. I singoli dirigenti, però, non sono stati così fortunati: “Finora, nell’ambito di questa indagine sui pagamenti illegali di Fca, nonché sulla frode e sull’appropriazione indebita da parte di dirigenti dell’UAW, 15 persone sono state condannate per crimini federali, tra cui tre ex dirigenti di Fca Usa”. Si tratta dell’ex vicepresidente per le Relazioni industriali Alphons Iacobelli (condannato a 66 mesi in prigione), dell’ex analista finanziario Jerome Durden (15 mesi) e dell’ex direttore delle Relazioni coi dipendenti Michael Brown (12 mesi). Anche il sindacato pagherà una sanzione (15 milioni) e sarà sotto osservazione per sei anni (su UAW c’è un’indagine simile anche riguardo Ford).

Quella che segue è invece l’anodina nota dell’azienda: “Fca Usa ha raggiunto un accordo con l’ufficio del procuratore degli Stati Uniti per il distretto orientale del Michigan che conclude l’inchiesta su passate condotte illecite di alcuni ex-dipendenti di Fca riguardo allo Uaw-Chrysler National Training Center (NTC)”. L’accordo, oltre alla sanzione e alla messa in prova per tre anni, “prevede un’ammissione di colpevolezza in relazione a una singola contestazione di accordo inteso a violare il Labor management relations act”. Riassunto: la Fca di Sergio Marchionne corruppe un grosso sindacato per facilitarsi la vita dentro le fabbriche di Chrysler.

 

Non si ferma l’onda dei “pirati” che fanno volare GameStop (+75%): i fondi tremano

Inarrestabile. Ieri è stata un’altra giornata di gloria nell’affaire “GameStop” nonostante i tentativi di sedare il luna park sui mercati: le azioni della catena americana dei negozi di videogame sono salite oltre il 75 per cento riportando il titolo ai livelli di mercoledì, quando in poche ore aveva raggiunto il record storico di 347 dollari per azione (partito da 6 dollari qualche mese fa) grazie al boom di acquisti alimentato da investitori retail che si sono coordinati attraverso il forum online Reddit (riuniti in un gruppo intitolato “WallStreetBets”) per contrastare le posizioni short dei grandi fondi speculativi. “Sono soddisfatto: stiamo battendo gli hedge fund, la gente sta prendendo il controllo di quello che vuole e lo fa divertendosi”, dice Jamie Rogozinski, il fondatore di “WallStreetBets”.

Le piattaforme di trading online, tra cui Robinhood e InterActive Brokers, hanno provato a imporre restrizioni, bloccando gli scambi, ma in pochissime ore si è sollevata la protesta e alcuni investitori hanno anche fatto causa per le perdite subìte per lo stop. Così, dopo il tentativo di spiegare che l’operazione era stata fatta per soddisfare i requisiti di capitale imposti dalla Sec per i broker dealer e dopo aver raccolto più di un miliardo di dollari – in parte dai suoi investitori, in parte da linee di credito bancarie – per soddisfare le richieste di collaterali delle autorità, il blocco è stato rimosso: l’apertura ha visto un rialzo superiore al 100 per cento, le contrattazioni sono però state fermate a + 83 per cento. Il titolo si è poi mantenuto in rialzo, con guadagni tra il 70 e l’80 per cento. Intanto la Sec – l’autorità americana di vigilanza sulla Borsa – non interviene ma comunica che sta “monitorando attentamente” l’estrema volatilità dei prezzi e le decisioni dei broker per “proteggere gli investitori dalle manipolazioni di mercato”. Nessun commento dalla società protagonista di tanto caos: almeno su carta, secondo le stime, i top manager di Gamestop hanno guadagnato circa 1,3 miliardi dollari e la capitalizzazione di mercato è arrivata da 1,3 a oltre 20 miliardi di dollari.

GameStop si porta dietro poi anche altri asset “corsari”: da un lato c’è stata la risalita del valore dei Bitcoin (+15,7), dall’altro è cresciuto dell’800% il cosiddetto Dogecoin, frutto dell’entusiasmo del gruppo Reddit “SatoshiStreetBets”. La criptovaluta era nata come una parodia di Doge, termine slang che storpia la parola “dog” (cane in inglese) ed era una sorta di “valuta parodia”. A catalizzare l’attenzione sia su GameStop che su Bitcoin e Dogecoin, l’imprenditore e patron di Tesla, Elon Musk, attraverso il suo account Twitter.

Mail Box

 

Vacciniamo i diabetici, molto suscettibili al virus

Nell’attuale condizione di pandemia da SarsCov2, acquista un significato particolarmente rilevante l’evidenza ben documentata di un’aumentata suscettibilità delle persone con diabete nei confronti delle infezioni in generale, e alla maggiore severità e/o frequenza di complicanze correlate alle infezioni nelle persone con diabete. In riferimento all’infezione da nuovo Coronavirus, i dati osservazionali indicano che la malattia da Covid-19 presenta una prognosi peggiore e maggiore mortalità nelle persone con diabete. Inoltre, gli outcome peggiori sono direttamente associati allo scompenso glico-metabolico.

Per quanto riguarda i vaccini attualmente disponibili in Italia per il SarsCov2, le popolazioni reclutate nei trial randomizzati e controllati includevano anche persone con diabete sia nel gruppo di intervento, sia nel gruppo di controllo, in percentuale paragonabile a quella della popolazione generale (8% per il vaccino Pfizer, 9,5% per il vaccino Moderna). Pertanto, le associazioni scientifiche Amd (Associazione Medici Diabetologi), Sid (Società Italiana di Diabetologia) e Sie (Società Italiana di Endocrinologia) chiedono alle autorità sanitarie di inserire le persone con diabete tra i cittadini da sottoporre prioritariamente alla vaccinazione per SarsCov2 e invitano tutte le persone con diabete a sottoporsi con fiducia alla vaccinazione per SarsCov2.

Paolo Di Bartolo, pres. AMD
Agostino Consoli, pres. Sid
Francesco Giorgino, pres. Sie

 

Provano a far fuori Conte “per il bene del Paese”

L’ancien régime farà di tutto per rimuovere Conte: troppo popolare, onesto, leale, umile e competente; una spina nel fianco della vecchia politica. Alla fine della fiera, Lega, Iv, Pd e FI troveranno un pinco pallino qualsiasi sul quale far convergere i rispettivi voti. Poi, giustificheranno la squallida operazione con il solito mantra “per il bene del Paese”.

Maurizio Burattini

 

I complessi infantili dei nostri politici

Friedrich Nietzsche sosteneva che un uomo raggiunge la maturità quando ritrova la serenità che metteva nei giochi che faceva da bambino. Guardando lo spettacolo ripugnante che offrono in questi giorni alcuni dei nostri politici irresponsabili, sorge il dubbio che abbiano avuto un’infanzia veramente difficile.

Diego Merigo

 

Conferenze qua e là, ma in Senato chi ci sta?

Un senatore del nostro Parlamento può andare in giro per il mondo a fare conferenze in proprio? E se sì, paradossalmente tutti i senatori lo possono fare, ma questi sono stati eletti per stare in Parlamento a legiferare per il nostro Paese o no?

Roberto Mascherini

 

Caro Roberto, certi senatori sarebbe meglio se andassero all’estero e ci restassero.

M. Trav.

 

“B. come capo di Stato”: mi si è gelato il sangue…

Egregio Direttore, mi consenta quel “purtroppo no” in risposta alla richiesta di Stefano Giannini. Mi ha inquietato e ha incrinato la mia convinzione che al Colle potessero essere elette solo persone degne e probe. Si può mai pensare di affidare l’incarico di garante della legalità e della Costituzione a un pregiudicato? Perché chi dovrebbe rappresentare lo Stato è caduto così in basso?

Alfredo Bertamini

 

Caro Alfredo, spetterebbe ai partiti eleggere presidente una persona degna e proba.

M. Trav.

 

Propongono Di Maio solo per dividere i 5S

Caro Direttore, non ritiene puerile il tentativo da parte di qualche forza politica di dividere il M5S? Proporre alla Presidenza del Consiglio il nome di Luigi Di Maio in sostituzione di Giuseppe Conte non è forse un tentativo di spaccare il M5S, che è quella forza che ha espresso a suo tempo proprio Conte alla carica di presidente del Consiglio e che lo ritengono degno di occupare quel ruolo che brillantemente ha svolto anche in Europa?

Pasquale Mirante

 

Caro Pasquale, mi pare che quel trucchetto da magliaro sia già stato smontato da Di Maio.

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, a pagina 13, abbiamo confuso il sindaco di Cogoleto, Paolo Bruzzone, con Francesco Biamonti, il consigliere leghista che, con altri, ha insozzato il Giorno della Memoria col saluto romano. Bruzzone, peraltro, è stato il primo a denunciare l’orrendo gesto. Ci scusiamo con l’interessato e i lettori.

FQ

Covid. “Io, malato da novembre, sto sopravvivendo all’inferno”

Gentile redazione, rivolgo questo mio appello a tutti per ribadire che il Covid-19 è un’arma letale e priva di ogni logica. Sono ricoverato dallo scorso 23 novembre a Trigoria e ancora oggi sono in un letto d’ospedale per polmonite. A condividere le mie sofferenze tante altre persone con la mia stessa volontà di non voler morire. Alcuni purtroppo li ho visti sparire dentro un telo di plastica. Chissà, pensavo, quando sarebbe toccato a me. A volte ero cosciente, a volte no. Questa malattia ti porta a uno smarrimento totale, non sai più dove sei, chi sei, cosa ti succederà. Ho vissuto 17 giorni in terapia intensiva con la famosa maschera. Si è trattato del penultimo stadio di ossigeno, poi ti intubano… Sei cosciente che non ce la fai, ma devi adeguarti al ritmo della macchina. Una maschera di plastica con i lacci ti viene spinta sul viso in maniera innaturale mentre pensi: “Non voglio morire, ma non ce la faccio”, e piangi, cercando pietà nell’infermiere, chiedendogli aiuto. Poi crolli psicologicamente, se non muori… Il tempo passava: ero certo che non ce l’avrei fatta. L’ambiente era dei più tragici. Mangiavo, facevo i bisogni ogni cinque/sei giorni con dolori e vergogna enormi.

Nel frattempo andavo avanti con l’ossigeno, le cure mediche e le trasfusioni di sangue. Nonostante tutto, nessun risultato. E a un certo punto mi sono ritrovato solo in sala di rianimazione. Ancora con quella maledetta maschera, ma ero vivo: sfinito, senza sapere dov’ero, avevo perso il contatto con la realtà e cercavo riferimenti del tipo come mi chiamavo, chi ero, come si chiamavano i miei genitori, spesso non riuscendo a trovare una risposta. La mattina aspettavo l’eucarestia, il riferimento principale della giornata, dopo ore di veglia. Il tempo non passava mai, avevo solo piccoli ma significativi riscontri negativi da parte degli infermieri. Così, mentre pregavo, a un certo punto arriva il prete per darmi l’unzione degli infermi. Avevo aspettato molto quel momento: avevo costruito un punto ideale di accoglimento di Gesù, che invocavo per sopravvivere. Nello stesso tempo ero cosciente di quello che accadeva. Vedevo tutto, tanti morti, troppi. Dopo 17 giorni con la maschera di “ferro” il mio corpo non aveva più forza. Ero smagrito e senza energie, rapato a zero per tenere meglio la maschera. Ho fatto amicizia con alcune persone. Tra queste c’era Orlando, che ora è uscito ma lo sento ancora. Sta facendo riabilitazione. Ha la mia età e fa il barista, pieno di debiti e preoccupato per i suoi cari. Era pugile, peso mosca, ha vinto molti match ma è rimasto povero. Un uomo al quale voglio molto bene.

Mentre continuavo a pensare ai due mesi trascorsi qui. Se non sono morto, riflettevo, è soprattutto perché il prof. Agrò non si è arreso: i parametri dicevano che ero spacciato e lui in sette secondi ha rivoltato l’esito della sentenza. Grazie a lui ho ripreso a respirare. Così ho deciso che dopo questo mio drammatico viaggio parlerò delle molte cose vissute, del comportamento assurdo degli italiani e dell’ambiguità dei nostri governanti… L’Italia non deve morire di pandemia: serve un piano di sviluppo per un turismo di sicurezza, una sanità di qualità, un’industria forte e politiche a sostegno di chi oggi sta morendo di fame.

Roberto Mezzaroma

Sia la cultura a decidere caso per caso non i politici

Non esiste una spada che possa tagliare una volta per tutte il nodo intricatissimo delle restituzioni delle opere d’arte. Ogni dominazione coloniale, anzi ogni opera, fa caso a sé: e sono infinite le varianti giuridiche, storiche, politiche in base alle quali decidere. Le opere africane portate in Italia dal fascismo non possono essere trattate come la corona di Montezuma portata da Cortès a Carlo V nel 1519 (e oggi chiesta indietro dal Messico all’Austria): se non altro perché la Convenzione internazionale dell’Aja (primo trattato internazionale a interdire il saccheggio di guerra) entra in vigore solo nell’anno 1900.

Ma la vera domanda è se abbia senso rimediare a una esecrabile storia di decontestualizzazioni dettate dalla volontà di potenza occidentale con una ondata di restituzioni dettate da un nazionalismo poco meno cieco. Ancora: se queste opere oggi non possano servire finalmente alla conoscenza, e alla liberazione delle coscienze, e non sempre e ancora alla propaganda e alle manovre dei governi. E specie di quelli più autoritari.

L’ottimo sarebbe che fossero gli autogoverni culturali, e non i governi politici, a decidere: a parlarsi, a trattare, a trovare soluzioni innovative e condivise dovrebbero essere musei, archivi e biblioteche, e non ministri e capi di governo, o di Stato. Il risultato sarebbe contraddittorio: ma è comunque inevitabile che sia così.

Quel che davvero importa è che, ovunque le opere alla fine vengano collocate, siano al sicuro e visibili a tutti. E che la loro esposizione e la loro narrazione facciano i conti fino in fondo con la storia, decolonizzando l’immaginario collettivo e dicendo la verità. Per scomoda, imbarazzante o provvisoria che sia.

No, per carità, l’hanno presa bene

Sì, è vero,sono plebaglia, parvenu, gente in pigiama che in piccoli appartamenti male arredati si gioca i soldi lasciatigli dalla nonna. Certo, bisogna stare attenti: in questa vicenda che pare falsa, i soldi sono veri e c’è il grosso rischio che qualcuno si faccia male. Sicuro, nei mercati finanziari c’è un tale livello di liquidità che il rischio bolla è alto. Si parla del caso GameStop (ieri Il Fatto gli ha dedicato un bellissimo “Focus”, gli aggiornamenti sono qui accanto) in cui – riassunto grossolanamente – migliaia di piccoli investitori stanno mettendo alla frusta alcuni fondi speculativi: questi ultimi avevano scommesso al ribasso su aziende decotte come GameStop (una rete di negozi di videogiochi), i primi – organizzati su “WallStreetBets”, canale di Reddit da 4,5 milioni di utenti – hanno iniziato a comprare azioni, facendo salire il prezzo e infliggendo perdite miliardarie agli hedge fund. Neanche lo stop agli acquisti di alcune piattaforme è riuscito finora a bloccare l’onda. Risultato: molti investitori professionali hanno iniziato a essere nervosi, hanno perso l’abituale sprezzatura. “La follia s’è fatta romanzo con una nuova classe guerriera di investitori al dettaglio che vagano per la savana azionaria. Questa marmaglia disorganizzata guadagna forza, nutrendosi di ogni uccisione di hedge fund. Inebriati dal successo, cercheranno prede più grandi e potenti. Questa farsa è una creazione della Fed (la banca centrale Usa) che dovrebbe vergognarsi”. Ecco, questo – un esempio tra tanti – è l’abstract di un’analisi di Société Général improntata all’immortale “signora mia, dove andremo a finire?”, arricchito dall’inusuale e violento attacco alla Fed. Prudenza, juicio, per carità, ma certi toni con quelli che davano la tripla A alla fallenda Lehman non li ricordiamo. E nemmeno parole così dure sulle condanne per manipolazioni del mercato, riciclaggio, eccetera: eppure la lista delle cose per cui primarie istituzioni finanziarie hanno pagato multe (410 miliardi in 10 anni è stato calcolato) è impressionante. E che dire di speculazioni simili a quella su Gamestop fatte da banche, aziende o fondi? È questo, in definitiva, il motivo per cui sì, certo, bisogna stare attenti, ma vederli rosicare non ha prezzo. Quasi quasi i sordi de nonna…

Non trascuriamo la ricerca di base

Non c’è futuro senza “ricerca”, senza giovani che ci credano. In Italia siamo da tempo in crisi sia nel campo della ricerca sia in quello del reclutamento dei giovani ricercatori. Non basta l’essere agli ultimi posti delle classifiche Ocse in Europa per sensibilizzare i politici. Nell’animato dibattito sui fondi europei c’è attenzione alle infrastrutture, alla digitalizzazione, all’innovazione (fondamentali per reagire alla crisi che stiamo affrontando), ma poco o nulla sulla ricerca di base, che poco attrae i finanziamenti privati essendo finalizzata all’aumento delle conoscenze senza diretti fini applicativi, basata sulla pura curiosità intellettuale e sulla volontà di scoprire le leggi fondamentali che spiegano i fenomeni della natura. Esplora ciò che è sconosciuto, ampliando il campo del possibile, e produce conoscenza per lo più generale e teorica. È poco conciliabile con la necessità degli imprenditori di avere ricadute economiche immediate. Ma senza ricerca di base, non può esserci ricerca applicata. L’unica speranza è che venga sostenuta dalle istituzioni pubbliche. I fondi in arrivo saranno forse l’ultima opportunità per uscire dal baratro e invertire la tendenza al depauperamento del capitale inestimabile delle nostre menti e dei nostri giovani. L’Italia continua a formare ottimi ricercatori che poi sono obbligati a migrare. Siamo al ventisettesimo posto per investimenti in ricerca e sviluppo (1,4%), la Corea al primo (4,6%) Israele al secondo (4,5). I nostri giovani non frequentano più le università (13mo posto in Europa per laureati). La competitività sul piano economico va di pari passo alla competitività sul piano della ricerca. “L’investimento di 15 miliardi di euro in 5 anni, pari al 7% della cifra stimata per l’Italia nel piano Next Generation EU, ci permetterebbe di propiziare e accelerare la rinascita che verrà” è l’appello a Conte di diversi scienziati italiani. Chiedono che non si sprechi questa opportunità. Repetita iuvant!

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Le proposte di Iv sugli atenei fanno rimpiangere la Gelmini

Dopo aver letto e riletto la considerazione n. 42 (Università e ricerca) sul Recovery Plan elaborata da Italia Viva, ho capito che il sistema universitario italiano non solo non ha un presente, ma non ha un futuro. È oggetto di continue quanto strampalate proposte di riforma, volte a imitare altri Paesi, a non tener conto della realtà attuale e della nostra storia, soprattutto di quel che accade e che finisce puntualmente nelle cronache giudiziarie (concorsi truccati e condanne per reati gravi). Eppure un partito di sinistra, fino a ieri nella coalizione di governo, riesce, con un artificio retorico degno della peggiore tradizione politica (tutte le proposte sono in realtà “celate” da finti interrogativi che nascondono una volontà distruttiva dell’Università pubblica) a elencare tali e tante mostruosità politiche e giuridiche da rendere persino più digeribile l’attuale contesto fondato sulla legge Gelmini.

Non vi è un interrogativo che possa essere condiviso e, come ho detto quando si trattò di analizzare la riforma costituzionale che porta il nome del leader di quel partito, registro seri problemi nell’uso della lingua italiana. Infatti ci si domanda se sia opportuno “togliere l’Università dal diritto amministrativo?”, che intuisco voglia significare assecondare la richiesta di molti Rettori di escludere gli Atenei dalla lista delle Amministrazioni pubbliche e rendere inapplicabili tutte le disposizioni (codice degli appalti, selezioni di personale, ecc.) che riguardano, appunto, il settore pubblico (e non il diritto amministrativo in sé). Suona strano che fior di giuristi che dirigono quel partito siano incappati in un errore concettuale così elementare e stona che la soluzione ai problemi della corruzione nel mondo accademico (come le inchieste di Firenze e di Catania dimostrano) passi attraverso la “privatizzazione” e l’esclusione dei responsabili dal novero dei pubblici ufficiali: una sorta di “liberi tutti”.

Vi è poi la proposta, di stampo liberista, di designazione dei Rettori da parte di un Consiglio di amministrazione. La proposta è così grottesca e ridicola, mutuata come è dalle Università private, che non meriterebbe alcun commento, se non quello di rimarcare che l’autonomia costituzionale degli Atenei passa, simbolicamente, per il diritto a darsi non solo ordinamenti autonomi (gli Statuti), ma anche per la capacità di autogoverno (che si traduce nella possibilità di elezione dei propri organi). La finalità di un Ateneo non è il profitto, bisognerebbe ricordare a questi signori, bensì la creazione, libera e consapevole, di cittadini in possesso di conoscenze e competenze di altissimo profilo. L’istruzione, come la sanità, appartiene alla sfera del “diritto”, non a quella del “profitto”.

Vi è poi l’idea, spesso ribadita negli ambienti più conservatori, dell’abolizione del valore legale del titolo, dalla quale consegue un inasprimento della competizione fra Atenei con la semplice conseguenza che vedrà le Università delle zone più ricche del Paese eccellere (per la disponibilità di fondi privati e di commesse del tessuto produttivo locale) e quelle del Sud svuotarsi o trasformarsi in “esamifici” di dubbia utilità.

Ciò che preoccupa è l’assordante silenzio con cui tali proposte sono state accolte nel dibattito accademico, che appare silente o, peggio, complice di una idea sbagliata che rischia di distruggere quel poco che resta di un sistema universitario problematico, fragile, autoreferenziale, ma che garantisce qualità di laureati e competitività della ricerca scientifica.

Sembra una proposta elaborata da chi l’Università non l’ha conosciuta, oppure il frutto avvelenato di un percorso universitario traumatico che ha segnato profondamente i proponenti.

*Ordinario di Diritto pubblico comparato Università di Brescia

 

Ripartire dal Sud per far rinascere l’Italia e l’Europa

 

“La principale ricchezza dell’Italia, così come dell’Europa, è la sua diversità interna”

(da Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce – Falso! di Gianfranco Viesti, Laterza, 2013 – pag. 86)

 

Non c’è bisogno di essere meridionali, di essere nati o di vivere al Sud, per capire che l’Italia può ripartire solo se riparte il Mezzogiorno. Questo era vero già prima dell’emergenza sanitaria, economia e sociale provocata dall’epidemia di Coronavirus. Ed è tanto più vero oggi, nell’attesa del Recovery Fund che riserva al nostro Paese il 28 per cento dello stanziamento complessivo: i famosi 209 miliardi di euro, 82 a fondo perduto e 127 di prestiti.

Perché l’Unione europea ha destinato la quota maggiore all’Italia? Perché è stata la prima e la più colpita dalla pandemia, certamente. Ma soprattutto perché il Next Generation Ue, com’è denominato il fondo di 750 miliardi per la ripresa del Vecchio continente, è proiettato sul futuro, quello dei nostri figli e nipoti. Un piano colossale che punta a promuovere la transizione ecologica, a ridurre le differenze territoriali, a sostenere l’innovazione tecnologica e la competitività.

Quanto spetta, dunque, al nostro Sud di tutto questo “pacchetto”? In base ai parametri tradizionali per la ripartizione dei fondi europei, cioè popolazione e reddito pro-capite, s’è parlato all’inizio di “almeno il 34 per cento”: vale a dire circa 70 miliardi. Poi, come in un’asta o in una riffa, siamo arrivati al 40 per cento. Ma evidentemente i criteri oggi non possono essere più gli stessi se il Recovery Fund deve mirare ad abbattere il “gap” economico e sociale fra il Sud e il resto dell’Italia e di conseguenza fra l’Italia e l’Europa.

Il divario infrastrutturale, in termini di strade e autostrade, porti e aeroporti; il ritardo sulla banda larga e ultralarga; la disoccupazione crescente, soprattutto fra i giovani e le donne, richiedono un investimento per mettere il Mezzogiorno alla pari del Centro-Nord. Non si tratta tanto di risolvere l’antica “questione meridionale”, quanto piuttosto di affrontarla in un’ottica nazionale ed europea. Senza il Sud, l’Italia non si salva; e senza l’Italia non si salva l’Europa.

È per queste ragioni che un gruppo di 200 intellettuali ed esperti ha sottoscritto un “Manifesto per il Sud”, con cui si chiede al governo italiano – quale che sia – di destinare alle regioni meridionali 111 dei 209 miliardi, in base ai parametri di coesione, disuguaglianze, sviluppo sostenibile e tecnologico. L’appello è stato promosso, insieme ad altri, da Adriano Giannola, presidente della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno istituita nel 1946. Ora, però, non c’è soltanto un problema di soldi, bensì di progetti, obiettivi e soprattutto capacità di realizzarli: occorre perciò una “cabina di regia” che riunisca tutte le Regioni meridionali, per evitare inutili dispersioni, rivalità o antagonismi. È appena il caso di ricordare che, ai tempi del governo Monti, l’allora ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, riuscì a sbloccare i finanziamenti europei rimasti “incagliati” a causa delle lentezze e delle pastoie burocratiche.

Non sarà certamente con la logica nordista e classista di Letizia Moratti, vicepresidente della Regione Lombardia e assessore al Welfare, che si potranno riunificare le “due Italie”. L’idea di distribuire i vaccini anti-Covid in funzione del reddito prodotto, ancorché poi corretta, la dice lunga sulla mentalità di una classe politica che ha fatto deragliare la “locomotiva d’Italia” in questa epidemia. Ed è la stessa che adesso vorrebbe mettere le mani sui 209 miliardi che s’è procurato il governo Conte bis, prima di essere colpito dal “fuoco amico” di Matteo Renzi.