Renzi: è ora di chiedersi per chi lavora davvero

Questa sciagura che affligge l’Italia dal 2014 produce oggi i suoi effetti più esiziali. Il calibro dell’uomo è tale che non ha trovato momento migliore per esercitare la sua volontà di prepotenza dell’apice di una pandemia che ha provato il Paese allo stremo. Aveva solo l’arma di far cadere il governo, distruggere l’alleanza che lo reggeva, disarcionare il presidente del Consiglio che ha dieci volte il suo consenso, e l’ha usata.

Ora, incattivito dal sapersi odiato dalla maggioranza degli italiani da cui pretendeva di essere adorato (è la definizione di personalità narcisistica secondo Lasch: una formazione psichica in cui “l’amore rifiutato ritorna a sé sotto forma di odio”), dopo aver prodotto il disastro se ne va bel bello in Arabia Saudita a curare i suoi affari economici e ad adulare un regime efferato e liberticida; come un bambino che dopo aver distrutto un giocattolo si dirige verso un’altra distrazione senza alcun senso di colpa e responsabilità.

Il video che testimonia della sua gita è sconcertante. Nonostante sembri leggerla da un gobbo o recitarla a memoria, la prolusione in inglese grottesco è un’agghiacciante mistura di piaggeria e banalità. “È un grande piacere e onore essere qui con il grande principe Mohammad bin Salman. Per me è un privilegio poter parlare con te di Rinascimento… Credo che l’Arabia Saudita possa essere il luogo per un nuovo Rinascimento futuro”. E come no. Nascesse oggi a Riyad, l’omosessuale Michelangelo sarebbe arrestato, frustato, internato in clinica psichiatrica, amputato e ammazzato con esecuzione pubblica.

È di qualche rilevanza che il grande principe Mohammad bin Salman, chiamato con deferenza Vostra Altezza, sia ritenuto dall’Onu il mandante dell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Ora viene magnificato come un principe rinascimentale da colui che ha definito Conte un “vulnus per la democrazia”. (A proposito: chissà se dopo l’ospitata ancora se lo litigano l’Onu e la Nato).

Habitué dei regimi del Golfo, dove da tempo piazza discorsi (anzi: speech) lautamente remunerati (a lasciare interdetti è che nel mondo ci sia chi è disposto a pagare per starlo a sentire, quando la maggioranza degli italiani pagherebbe per non sentirlo più), si dice geloso del “costo del lavoro” locale, ignorando o fregandosene del fatto che in Arabia Saudita esistono forme di lavoro neo-schiavistico e milioni di immigrati lavorano alla crescita economica del regime in condizioni disumane. Le donne, che lui si vanta di “valorizzare” in patria (togliendo loro la parola, facendole dimettere a comando), non hanno alcun diritto e sono sottoposte alla tutela maschile, e se si ribellano alla legge vengono torturate. (Ma forse si riferiva al costo del suo lavoro: 80 mila euro sauditi l’anno).

Il discorso prosegue con le banalità che ci si aspetta da lui, già sentite nel documentario kitsch di cui fu autore: dopo la peste viene il Rinascimento, Firenze piena di soldi, “tanti soldi, così buoni finanziamenti, per creare un buon cittadino con un grande investimento nell’istruzione, nell’intelligenza umana” (traduzione di Fabio Chiusi). Baggianate da marketing, con spreco di quella “bellezza” da depliant turistico in albergo, che prima scriveva nei suoi “libri” e ora va a dire nelle petromonarchie più sordide del mondo. Lì dove partono le bombe per lo Yemen lui vede un nuovo Rinascimento. Lo sberluccichio dei soldi lo acceca, gli erode la eventuale moralità residua.

Da Riyad muove pedine in Italia per bocca delle vestali del suo partito-setta: spediamo Conte in Europa e mettiamo Gentiloni a capo del governo, anzi Sassoli, anzi Di Maio, anzi mettiamo Draghi all’economia e promettiamogli il Quirinale.

Torna per le consultazioni con aereo privato pagato dal fondo saudita nel cui board siede, si burla della massima Istituzione della Repubblica producendosi in un comizio in cui con voce stridula dice il contrario di quello che intanto fa trapelare dalle agenzie. Pare in preda a un delirio superomistico, uno che non ha più niente da perdere. Nel nostro ordinamento non esiste il reato di apologia di regimi dittatoriali e sanguinari. Ci si può recare in cambio di soldi a rendere omaggio ai loro padroni. Anche il suo idolo Tony Blair, quello che si era inventato armi di distruzione di massa in Iraq, e Obama lavorano come conferenzieri; ma nessuno di loro è ancora attivo in politica, mentre lui è senatore e membro della commissione Difesa: o nell’universo parallelo degli affari si è ritirato dalla politica nel 2016?

Come diceva lui quand’era al governo e si sentiva Nerone: poche chiacchiere. Per chi lavora questo personaggio? Perseguendo quali interessi? La domanda è lecita, visto che le risposte “per gli italiani” e “nell’interesse esclusivo della Nazione” sono a questo punto le meno probabili.

 

Pixel ipnotici, spazzatura, Gesù, “Passato e Presente”. Dirige Ingmar Bergman

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 12.30: Linea Verde Life, documentario. Puntata dedicata a una raffineria di Frosinone che tratta olii esausti, ricavandone combustibili e bitumi. Regia di Ingmar Bergman.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. L’Italia è una delle tante democrazie occidentali dove una larga parte del blocco politico-militare-finanziario-spettacolare è impegnato quotidianamente a produrre consenso ai rapporti sociali e di potere dominanti. Guy Debord, un filosofo/artista che a scuola non ci fanno studiare, chiamava questo blocco “la società dello spettacolo”. Tale assetto comprende molte cose che diamo per scontate, come fossero un dato ambientale, mentre sono volute, con accurato pilotaggio della normalità democratica. Avete presente la cronaca del giovane Bruno Vespa che nel tg delle 20 su Rai 1 attribuiva, in base a fonti “ufficiali”, l’attentato alla Banca dell’Agricoltura a Pietro Valpreda? Ecco, funziona così. Paolo Mieli ne parla con Ernesto Galli della Loggia. Verrà mostrata la clip di quel vergognoso tg Rai del 1969, che trovate anche su Youtube.

Rai 3, 15.00: Tv Talk, attualità. Prima o poi andrà detto che commentare e criticare i programmi televisivi in base ai loro presunti contenuti è una perdita di tempo che serve solo a infinocchiare il pubblico della tv e dei giornali. Come spiegava McLuhan 60 anni fa, infatti, la frammentazione in pixel dell’immagine catodica condiziona il gusto televisivo dello spettatore senza che questi se ne accorga. La tv rende telegenici certi spettacoli e non altri: i polizieschi, gli ospedalieri, le sitcom, e oggi i reality. In tutti questi casi, la vicenda narrata pone il tema dell’integrità di un corpo, fisico o sociale. Il problema di ricostituire l’integrità avvince lo spettatore più del normale proprio grazie alla trasmissione per pixel, che trasforma un bisogno cognitivo (come andrà a finire la storia?) in un bisogno fisico (desidero che l’integrità sia ristabilita). Per questo l’unico vero contenuto dei programmi tv è il televisore (“Il medium è il messaggio”): è un mezzo reazionario che condiziona le masse quando viene comprato e acceso, indipendentemente da ciò che trasmette di volta in volta (di cui pertanto è superfluo parlare: chi lo fa per mestiere sta solo turlupinando il prossimo, in favore del blocco). Al premier canadese che negli anni Settanta era preoccupato dei disordini in Angola, McLuhan propose di riempire quella nazione di apparecchi televisivi: così fu fatto, e la rivoluzione in Angola cessò. Come fare critica a un mezzo del genere? L’unico modo è sottrarsi, limitandosi a fargli da specchio: basta e avanza. Quando mi occupavo di critica televisiva per il quindicinale bolognese Mongolfiera (1988-89), la mia recensione ai programmi tv consisteva nella trascrizione parola per parola di brani audio di un minuto di televisione, che registravo con la novità tecnologica dell’epoca, il videoregistratore a cassette, scanalando di rete in rete a caso. In pratica, ibridavo Blob, altra operazione situazionista di quegli anni (il maestro di tutti è Guy Debord, che queste cose le faceva negli anni 50) col gesto di Warhol quando scattava Polaroid senza inquadrare. Il risultato, nel suo stile metamorfico, a metà fra Joyce e Burroughs, rendeva appieno l’inutilità allucinatoria del mezzo.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, reality. Momenti emozionanti fra eliminazioni a sorpresa (Gesù) e nomination (Barabba).

 

La questione. Due vaccini esistono, come si può chiedere di testarne altri?

Se ci fossero contesti in cui fosse possibile mettersi a produrre, su licenza Pfizer-Biontech, il vaccino americano-tedesco si risolverebbero molti problemi, questo mi sembra evidente. Perché un vaccino lo abbiamo e funziona. Due se consideriamo anche quello di Moderna. Dipende, però, dal livello tecnico e dalla capacità produttiva delle aziende in campo: sarebbe necessario attivarsi per cercare di capire quanto prima la praticabilità di questa strada, quanti potrebbero farlo effettivamente? E suggerirei di capirlo rapidamente.

Anche perché il dato di efficacia del vaccino americano Johnson&Johnson appena annunciato, 66%, non è altrettanto buono. E il vaccino di Oxford Astrazeneca, abbiamo visto, ha presentato una serie di criticità non del tutto risolte.

Inoltre è molto difficile pensare di poter puntare sul cosiddetto vaccino italiano Reithera, perché l’arrivo in fase 3 a questo punto pone anche un problema molto serio di natura etica: come sarà possibile chiedere alle persone di accettare da volontari il placebo in un momento in cui due vaccini validi esistono già, Pfizer e Moderna? Sinceramente mi ritroverei in grosso imbarazzo a doverlo fare.

Ricordo che già nei giorni del primo lockdown generalizzato dichiarai più volte che il problema sarebbe stato la produzione e la distribuzione equa e non conflittuale dei vaccini. D’altra parte, un anno fa, eravamo di fronte al disastro del coronavirus SarsCov2, in larga misura ignoto. Oggi il quadro è molto più chiaro, c’è il vaccino, con il quale c’è una concreta speranza di chiudere il problema, quindi se fosse possibile, bisognerebbe davvero fare di tutto per produrre quante più dosi del vaccino che abbiamo.

*direttore Dipartimento malattie infettive Ospedale Luigi Sacco di Milano

La proposta. Basta con le attese, produrre Pfizer e Moderna ovunque

Serve subito uno sforzo europeo, chiamando a raccolta tutte le fabbriche in grado di produrre e riconvertendone altre, per avere più dosi possibili dei vaccini di Pfizer e Moderna, di gran lunga i due migliori fin qui per efficacia e sicurezza. Soltanto in questo modo si potrebbe aumentare la velocità della campagna di vaccinazione e chiudere così la partita contro l’insidioso coronavirus SarsCov2.

Quando sostengo che serve uno sforzo europeo voglio dire che deve essere proprio l’Unione europea a muoversi in questo senso, seguendo l’esempio che l’azienda farmaceutica Sanofi sta percorrendo in Francia, mettendosi a disposizione di Pfizer Biontech per produrre il vaccino americano-tedesco. Peraltro mi spiacerebbe se l’operazione di Sanofi riguardasse solo la Francia, perché, ripeto, è necessario ragionare in ottica europea e quelle dosi non dovrebbero rimanere soltanto Oltralpe, ma rientrare nel computo continentale.

Sarebbe davvero necessario poter contare su una produzione rafforzata, a questo punto, anche perché più attendiamo altre approvazioni e altre produzioni e più crescono le probabilità della circolazione di varianti in grado di sfuggire al vaccino.

L’Ema, agenzia europea del farmaco, ha dato il via libera anche al vaccino di Oxford Astrazeneca, che però ricordo, dai dati pubblicati, non avere evidenza di efficacia per chi ha più di 55 anni. E ieri è stata annunciata anche l’efficacia del vaccino Johnson&Johnson: 66%. Quest’ultimo vaccino ha il vantaggio di essere monodose, ma mi chiedo come si possano convincere le persone a farsi somministrare questo vaccino quando ne esistono, Pfizer e Moderna, due con una percentuale di efficacia vicina al 90 per cento.

*presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”

Il senatore, il principe e il patto di Abramo

Anche la settimana scorsa al Senato, nella sua requisitoria anti-Conte, Matteo Renzi non aveva mancato di esaltare gli “accordi impressionanti nel mondo arabo” conseguiti nel summit di Al-Ula da Mohammed bin Salman. Un omaggio preventivo al “grande principe ereditario” saudita che si apprestava a vezzeggiare di persona a Riyad, con toni apologetici. In effetti quel raduno delle petromonarchie sunnite del Golfo, revocando l’embargo imposto al Qatar, chiudeva felicemente il triangolo delle amicizie mediorientali di Renzi: l’israeliano Netanyahu, l’emiro qatarino Al-Thani e la dinastia regnante sulla Mecca. Un accordo propiziato da Trump demolendo la politica distensiva di Obama, garantito dal riarmo di regimi ferocemente reazionari e fondato sulla supremazia della finanza. Ma questo per Renzi e i suoi consiglieri è solo un dettaglio trascurabile. Conta di più la propensione agli affari sviluppata al tempo del suo governo, spaziando dalle compagnie aeree all’esportazione di armi, dai giacimenti di gas alla cybersecurity in cui gli ha fatto da battistrada il fido Marco Carrai.

“Gli 80 mila euro percepiti per sedere nel board della Future Investment Initiative? Sono spiccioli rispetto a ciò che Renzi potrebbe guadagnare se anteponesse il denaro al potere”, mi spiega un uomo della finanza milanese. Nel cosiddetto Patto di Abramo sottoscritto da Israele con gli Emirati e incoraggiato dall’Arabia Saudita, Renzi aspira a ritagliarsi il suo piccolo spazio. Ci lavora fin da quando era primo ministro e instaurò un solido rapporto col leader della destra israeliana, facendo tesoro delle entrature dell’allora corrispondente de La Stampa

a Gerusalemme, Maurizio Molinari. Una politica estera “in proprio” che lo ha portato sempre più spesso anche nel Golfo, dove cercava ristoro anche per le sorti di Monte dei Paschi e della Roma.

Il record di condanne a morte per decapitazione? La legislazione che sottomette le donne? I diritti umani calpestati? Bazzecole di fronte all’opportunità di sedere tra i vincenti. Meglio Trump di Obama, quando si tratta di investimenti. E del resto, come si è visto, qualche spicciolo in tasca da lì te ne verrà.

Il Demolitore vuole umiliare l’avvocato

Leggere che dal Colle si è pensato di affidare all’esploratore Roberto Fico il compito di trattare le condizioni della pace tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi, “per non bruciare il premier” (Repubblica), ci fornisce l’ennesima conferma di quanto il nostro circo politico sia dominato dall’ipocrisia. Non era sufficiente il grido di “voltagabbana” rivolto ai senatori cosiddetti Responsabili passati con la maggioranza giallorossa quando, da Silvio Berlusconi a Renzi, la pratica della campagna acquisti in Parlamento c’è stata sempre, anche a suon di quattrini. Adesso a tenere banco nelle consultazioni è una doppia balla: a) non ci sono veti; b) non esistono personalismi. Quando lo sanno anche i muri del Quirinale che veti e personalismi rappresentano il sale (e il veleno) non soltanto della politica, ma della umana convivenza. Invece siamo costretti a sorbirci la stucchevole esibizione della doppiezza renziana, che dopo il colloquio con Mattarella nega in pubblico ciò che ha detto in privato, e viceversa. Tanto che giornali e tv hanno continuato a interrogarsi sul come si poteva conciliare il “nessun veto a Conte” con il “per ora è no a Conte”. La verità vera è che Demolition man, Conte lo vuole prima umiliare e poi distruggere. La classica politica del carciofo con cui cucinare il nemico senza fretta, foglia dopo foglia, finché costui, logorato e stremato, non getterà la spugna. E se il Paese aspetta, chissenefrega, del resto non sono quasi due mesi che il capo di un partitino del tre per cento tiene in ostaggio sessanta milioni di italiani?

Strettamente legati ai veti ci sono i personalismi, o meglio i fatti personali, l’antipatia, il disprezzo, le ruggini, l’odio. Che sono il sangue e la merda della politica (per citare il citatissimo Rino Formica), perché di umanissimi uomini stiamo parlando e non certo di puri spiriti. Gli esempi del passato non mancano: Ciriaco De Mita e Bettino Craxi si detestavano, come del resto Romano Prodi e Massimo D’Alema, per non parlare dello scazzo mortale tra l’allora Cavaliere e Gianfranco Fini. Sulla solida inimicizia tra Conte e Renzi si sono scritti volumi e non osiamo immaginare con quale gioia il premier abbia telefonato al leader di Iv, consapevole che un minuto dopo, l’altro lo avrebbe comunicato all’universo mondo come dimostrazione della resa ottenuta. Qualche tempo fa scrivemmo di un sogno: Conte che sfanculava Renzi, prima di subire la stessa sorte. Una speranza forse irresponsabile ma, alla luce dei fatti, non troppo assurda.

Lega, la corsa a spostare la sede per evitare il sequestro dei soldi

L’interrogatorio di Michele Scillieri del 25 gennaio si apre con una domanda del procuratore aggiunto Eugenio Fusco che assieme al pm Stefano Civardi indaga sui presunti fondi neri della Lega e sul caso della Lombardia Film Commission (Lfc). Il magistrato chiede al commercialista di sue due fatture, la prima di 17mila euro pagata da Pontida Fin e l’altra da 60mila pagata dalla Lega. L’ipotesi della Procura è che i 17mila euro rappresentassero il compenso versato a Scillieri per trasferire il domicilio della nuova Lega di Salvini nel suo studio milanese di via Privata delle Stelline. Scillieri nega e spiega che quella fattura riguardava la vendita di un’auto.

La fattura è dell’ottobre 2017, data vicina alla domiciliazione del 10 ottobre. Un periodo decisivo per la Procura che ora vuole capire il motivo di tanta fretta per spostare il nuovo partito in una sede differente da quella di via Bellerio. Scillieri a verbale spiega di averlo fatto per ottenere favori in futuro. In alcune chat agli atti dell’indagine milanese, i due contabili del partito, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni entrambi indagati come Scillieri, parlano del nuovo domicilio. In una chat dell’estate 2017 scrivono: Scillieri è d’accordo. Davanti ai magistrati, il professionista mette a verbale che la richiesta del nuovo domicilio gli arrivò da Andrea Manzoni, ex contabile del partito vicino al tesoriere Giulio Centemero, e la spiegazione fu: non ricondurre la nuova Lega di Salvini a quella di Bossi. La domanda del dottor Fusco viene posta a Scillieri dopo aver riletto la cronologia dei fatti del 2017. In particolare, il 24 luglio Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito vengono condannati in primo grado per truffa aggravata rispetto ai rimborsi elettorali. Il 4 settembre il tribunale di Genova dispone il sequestro preventivo di 49 milioni. Le chat di quella estate tra Di Rubba e Manzoni testimoniano una certa tensione. Eppure i due non vanno oltre un laconico: “caos Lega”, a cui seguirà la chat sul presunto accordo con Scillieri per la domiciliazione che, secondo la lettura fatta in Procura e in parte confermata a verbale dal commercialista, doveva segnare il passaggio da una sorta di bad company rappresentata dalla Lega di Bossi a una Newco salviniana. L’obiettivo, secondo l’ipotesi investigativa, era spostare le casse del partito e allontanarle dai sequestri. Tutto, poi, doveva essere fatto in fretta perché in quel 2017 altro è sul piatto: il preliminare di vendita del 4 dicembre per il caso Lfc con Di Rubba in scadenza da presidente della fondazione regionale.

Così, il 10 ottobre 2017 viene costituita l’associazione Lega con sede in via Privata delle Stelline 1. I soci fondatori sono i leghisti Matteo Salvini, Roberto Calderoli, Giancarlo Giorgetti, Lorenzo Fontana e Giulio Centemero. Il 2 novembre si riuniscono per trasformare il nome dell’associazione in Lega per Salvini premier. L’11 novembre si cambia ancora lo statuto per permettere “l’iscrizione dell’associazione nel registro nazionale dei partiti politici”. Tutto avviene in un mese e davanti allo stesso notaio di Bergamo, il dottor Alberto Maria Ciambella. In una nota della Finanza si legge che “su nessuna unità immobiliare censita in via Privata delle Stelline 1 è iscritto un diritto reale di proprietà in favore del partito politico Lega per Salvini”. E ancora: gli atti relativi ai rendiconti 2017 del nuovo partito, firmati da Centemero e da Manzoni, risultano “privi del luogo di redazione e di riunione”. Insomma, tutto si fa di fretta e con discrezione, tanto che Sergio Meucci, amministratore del palazzo, alla Finanza spiega di aver saputo del domicilio solo a fine gennaio 2018. A quel punto il figlio chiede spiegazioni in via Bellerio. Sarà ricontattato solo a marzo da un politico del partito di Salvini, il quale conferma il domicilio. Meucci chiede di inviare una lettera scritta che però non arriverà mai. Il custode Enrico Guidali spiega che la posta indirizzata alla Lega proveniva in buona parte dall’istituto bancario del Credito Valtellinese.

Consip, condannato Del Sette. Adesso Lotti rischia davvero

L’inchiesta Consip arriva alla sua prima condanna. Tullio Del Sette, ex comandante generale dei carabinieri, è stato condannato a dieci mesi di reclusione, con pena sospesa, nell’ambito del filone che riguarda la fuga di notizie. Rivelazione di segreto e favoreggiamento sono le accuse mosse dalla Procura di Roma, che per l’ex numero uno dei carabinieri aveva chiesto la condanna a un anno e due mesi. La sentenza di ieri è importante perché sigilla la credibilità di Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip e testimone chiave del processo contro Luca Lotti. Sono state le sue parole, infatti, a mettere nei guai sia Del Sette sia Luca Lotti. Tutto parte dallo stesso verbale. È il 20 dicembre 2016 quando i carabinieri del Noe entrano nella sede della Consip. Interrogano Marroni, allora Ad, e gli chiedono spiegazioni sul perché avesse fatto bonificare dalle cimici il proprio ufficio. Il manager va dritto al punto: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato”. Ferrara, a sua volta, spiega Marroni, lo avrebbe saputo da Del Sette.

Poi Marroni conferma con qualche precisazione le accuse con i pm. Prima di Napoli e poi di Roma. Lotti è accusato direttamente da Marroni mentre Del Sette solo de relato. La condanna a 10 mesi al generale Del Sette, non è quindi una buona notizia per Lotti e i renziani ed ex renziani. Il Fatto pubblicò le notizie “Del Sette indagato” e “Lotti indagato” per le accuse di Marroni il 22 e 23 dicembre del 2016. Il governo Gentiloni nel 2017 dopo la pubblicazione fece due cose: rimosse a giugno il teste Marroni da Consip e prima a gennaio confermò Del Sette alla guida dei carabinieri, che indagavano su di lui e su Lotti. Un doppio sfregio al decoro istituzionale, descritto come tale solo dal Fatto allora. Chissà se anche oggi – dopo la condanna di Del Sette – i grandi giornali continueranno a far finta di nulla. In secondo luogo, la sentenza Del Sette è importante perché considera credibile Luigi Marroni e inoltre configura un favoreggiamento mediante soffiata a un non indagato come Marroni. Un favoreggiamento che la difesa di Lotti ha invece criticato in radice.

Il generale aveva chiesto l’abbreviato e aveva detto in aula: “Ho fatto 47 anni nell’Arma lottando per la legalità, mi ritrovo da 4 anni in questa condizione di estremo disagio e ho voluto che il processo venisse celebrato il prima possibile”.

La sua condanna in abbreviato potrebbe pesare nel processo a Lotti e anche al generale Emanuele Saltalamacchia. Certo il processo principale contro di loro avrà un suo collegio giudicante e una sua storia ma lo stesso teste d’accusa.

Non solo. Dopo l’udienza preliminare, se fosse accolta la richiesta di rinvio a giudizio contro Tiziano Renzi, anche il papà dell’ex premier potrebbe ritrovarsi a processo per traffico di influenze e turbativa d’asta e anche qui le parole di Marroni, a favore o contro Tiziano Renzi, peseranno.

Stavolta vincono le Regioni: giallo anche per Lazio e Lombardia

I dati lo consentono e il governo allenta le misure: undici Regioni tra cui Lombardia e Lazio lasciano la zona arancione e lunedì (non domenica, come si fa di solito) passano al giallo dopo 14 giorni (il minimo). Tornano le consumazioni in bar e ristoranti fino alle 18, riaprono mostre e musei, ci si potrà muovere nei confini regionali. In arancione restano Umbria e Puglia che hanno dati meno confortanti, la Sardegna che ha fatto solo una settimana, Sicilia e Bolzano che fino a domani sono rosse. Gialla anche la Lombardia, la settimana in zona rossa per errore (suo) vale come prima in arancione. Il ministro Roberto Speranza ha preferito evitare lo scontro con le Regioni in piena crisi di governo. L’indice di trasmissione del virus Rt del resto è sceso da 0,97 a 0,84 nella settimana 18-25 gennaio. Tra il 19 e il 26 gennaio i pazienti nelle terapie intensive sono passati da 2.487 a 2.372, negli altri reparti da 22.699 a 21.355. Scende anche l’incidenza: 289,35 ogni 100.000 abitanti negli ultimi 14 giorni anziché 339,34 (4-17 gennaio). Per quanto l’incidenza sia un dato sempre meno affidabile, anche perché le Regioni fanno un numero molto variabile di test. Perfino i Servizi, l’ha scritto ieri Repubblica, avvertono che i contagiati sono il doppio di quelli rilevati. “È noto a tutti i sistemi di sorveglianza, i casi rilevati sono uno su tre o uno su quattro”, ha detto il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. Ieri 13.574 nuovi casi, ma “dovremmo viaggiare intorno ai 30 mila al giorno, anche considerando i decessi, visto che muoiono l’1,5% degli infetti”, stima Andrea Crisanti. I morti sono sempre troppi: ieri 477, giovedì 492. “All’accumulo di casi corrisponde una lunga coda di terapie intensive e decessi”, sottolinea Gianni Rezza, capo della Prevenzione.

Sarà soltanto l’azienda a decidere se consegnare 100mln di dosi Ue

La battaglia tra Bruxelles e Astrazeneca sul vaccino si combatte ora in campo aperto. E anche se l’ad Pascal Soriot ha detto “lasciamo queste questioni legali per un altro giorno”, ieri le parti hanno deciso di rendere noto il contratto stipulato ad agosto 2020 per difendere le loro contrapposte interpretazioni. Una delle clausole oscurate nella versione apparsa sul sito della Commissione Ue – che il Fatto ha decriptato – desta non poco allarme: Astrazeneca potrà decidere unilateralmente di non consegnare le 100 milioni di dosi aggiuntive che gli Stati membri hanno facoltà di acquistare, se ritenesse che il 1° luglio 2021 la pandemia è finita. Significa che, oltre a vedersi ridurre del 60% le consegne nel primo trimestre, l’Ue potrebbe averne ancor meno per un’eventuale nuova ondata di contagi dopo l’estate.

Il documento desecretato conferma l’asimmetria a svantaggio delle casse pubbliche, anticipato dal Fatto. Ossia un rigoroso obbligo per l’Ue, pena interessi di mora, al pagamento in tre rate (acconto Commissione di 336 milioni di euro, anticipo Stati membri, saldo finale in base alle dosi assegnate a ciascuno), a fronte di tempi di consegna non chiaramente vincolanti. È infatti Astrazeneca che, nella fase di attuazione dell’accordo, deve decidere e comunicare quante saranno le prime dosi disponibili e la scadenza entro cui recapitarle. Solo se non rispetta tale termine, i governi potranno sospendere i pagamenti degli importi dovuti.

Tali clausole confliggono con l’impegno a fornire nel primo trimestre 2021 almeno 8 milioni di dosi che, come raccontato nei giorni scorsi, si ridurranno a 3,4 per le difficoltà di produzione. Dall’azienda ieri hanno rassicurato: ci sono “milioni di dosi” pronte per l’Ue già nei prossimi giorni. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ritiene gli obblighi di Astrazeneca limpidi, nonostante l’appiglio a cui si aggrappa la sua squadra di legali sia esattamente quello invocato qualche giorno fa dall’ad Soriot per confutare qualsiasi inadempienza.

Si tratta di un vago principio nella premessa del contratto, in cui Astrazeneca si impegna a fare il “massimo sforzo possibile” per procurare le dosi all’Ue: best effort. E si riassume nelle “attività che un’azienda tale intraprenderebbe per sviluppo, produzione e commercializzazione, considerando l’urgenza di un vaccino per porre fine a una pandemia”. Un cavillo all’origine di una contesa giuridica che rischia di sfociare in tribunale; vista la difficile valutazione dello sforzo esigibile da un’azienda, in una crisi sanitaria senza precedenti.

*European Data Journalism Network (col supporto di IJ4EU)