Ok a Astrazeneca, ma Moderna taglia le dosi. L’Oms contro l’Ue

E tre. L’agenzia europea del farmaco Ema autorizza anche il vaccino Oxford Astrazeneca, dopo Pfizer e Moderna, per le “persone a partire dai 18 anni di età”. E succede proprio mentre Astrazeneca si trova al centro del contenzioso con l’Unione europea sulle forniture: “Mi aspetto che Astrazeneca fornisca le 400 milioni di dosi concordate”, ha affermato la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen. (l’approfondimento sul contratto reso pubblico ieri dall’Ue a pagina 9).

Ma per il vaccino realizzato anche con la collaborazione dell’Irbm di Pomezia le questioni non finiscono qui. Il presidente francese Emmanuel Macron ieri lo ha definito “quasi inefficace sugli anziani”. Provocando la secca replica del professor Andrew Pollard, direttore dell’Oxford Vaccine Group e capo ricercatore per gli studi sui vaccini: “Forse si è verificato un malinteso nella lettura dei dati, ci sono prove” a supporto dell’efficacia, “inclusa una forte risposta immunitaria negli anziani”. Eppure la stessa Ema precisa che sull’efficacia nella fascia di popolazione con più di 55 anni “non ci sono ancora abbastanza risultati nei partecipanti per fornire una cifra su quanto bene funzionerà il vaccino in questo gruppo” anche se “è prevista protezione, dato che una risposta immunitaria è stata osservata”. Ad ogni modo la Germania è tornata a raccomandare l’uso dell’antidoto di Astrazeneca solo sotto i 65 anni, come già fatto trapelare da fonti di governo alcuni giorni fa. Oggi in Italia si pronuncerà l’Aifa e per il direttore generale della prevenzione del ministro della Salute, Gianni Rezza, “anche se può avere un’efficacia stimata inferiore ha invece il vantaggio della maneggevolezza”: il vaccino di Astrazeneca si può trasportare e conservare a temperature da frigorifero (2-8 gradi).

Ieri notizie sono arrivate anche dall’americana Johnson&Johnson, che ha annunciato come il vaccino monodose della Janssen, azienda del gruppo, abbia un’efficacia nel complesso del 66% nel prevenire forme di malattia da moderate a gravi, mentre arriva all’85% contro i sintomi più gravi, con alcune differenze geografiche: il farmaco ha funzionato meglio negli Stati Uniti (dove l’azienda chiederà l’autorizzazione alla Fda entro una settimana), con un’efficacia del 72% contro il Covid-19 da moderato a grave, rispetto al 57% in Sudafrica, contro la variante del coronavirus più contagiosa. In ogni caso, si tratta di risultati preliminari di uno studio su 44mila volontari che non è ancora stato completato. E dal Regno Unito arriva una risposta positiva sul vaccino della statunitense Novavax ritenuto “altamente efficace” e “da aggiungere alle contromisure mediche al Covid-19”, secondo il capo degli esperti, Chris Whitty. Dai primi risultati segnalati dall’agenzia del farmaco britannica, Novavax “è efficace all’89,3% nel prevenire il Covid-19” oltre a proteggere dalla variante inglese.

Ed è stata la giornata dell’amarezza del Commissario Domenico Arcuri: “Anche Moderna ha avvisato che non rispetterà i patti. Ci ha informato che per la settimana dell’8 febbraio delle previste 166mila dosi di vaccino destinate all’Italia ne consegnerà 132mila, il 20% in meno: ogni giorno c’è una notizia purtroppo peggiore di quella del giorno prima. I vaccini per l’Italia sono stati ridotti unilateralmente e senza preavviso, ci mancano 300mila dosi che avremmo dovuto ricevere. Abbiamo avviato tutte le azioni possibili a tutela degli italiani, perché i vaccini non sono bibite o merendine”.

L’Unione europea nel frattempo ha istituito un meccanismo di controllo sull’export dei vaccini, ricevendo dure accuse da parte dell’Oms: “Tendenza molto preoccupante che potrebbe mettere a repentaglio la catena di approvvigionamento globale dei vaccini. Non è utile che alcun Paese in questa fase imponga divieti o barriere all’esportazione che non consentano la libera circolazione degli ingredienti necessari che renderanno disponibili in tutto il mondo vaccini, strumenti diagnostici e altri medicinali”.

Riyad ed Emirati, l’Italia ora cancella la fornitura di armi

L’Italia non rifornirà più Arabia Saudita ed Emirati Arabi delle bombe prodotte dalla Rwm di Domusnovas, in Sardegna. La firma di Uama (l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) ha sancito ieri la decisione del governo di revocare, dopo una sospensione che durava ormai dall’estate 2019, l’esportazione degli ordigni verso i due Paesi che guidano la coalizione impegnata nella guerra contro i ribelli Houthi in Yemen. Bombe, quelle Made in Italy, che avevano avuto il via libera all’esportazione nel 2016, quando alla guida del governo c’era Matteo Renzi, e che inchieste giornalistiche hanno accertato essere state usate per colpire anche la popolazione civile. Secondo un rapporto del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite consegnato al Consiglio di Sicurezza nel gennaio del 2017 questi bombardamenti “possono costituire crimini di guerra”.

La decisione dell’esecutivo segue la risoluzione del Parlamento dello scorso dicembre, a prima firma delle deputate Yana Chiara Ehm (M5S) e Lia Quartapelle (Pd), che chiedeva il prolungamento della sospensione dell’export verso i due Paesi e, allo stesso tempo, impegnava il governo “ad adottare gli atti necessari per revocare le licenze in essere”. Secondo una stima elaborata da Rete Italiana Pace e Disarmo e Opal, la decisione ufficializzata nella mattinata di venerdì ha bloccato l’invio di circa 12.700 bombe aeree della serie MK sulle quasi 20mila previste dall’accordo, bloccando così la più grande commessa singola di grandi munizionamenti dal Dopoguerra italiano, per un valore complessivo di 411 milioni di euro. Il provvedimento del governo era già stato deciso la settimana scorsa, quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, aveva accolto e girato a Uama il parere del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sulla revoca alle esportazioni. In questi ultimi giorni l’Autorità ha sbrigato le pratiche tecniche e formali che hanno portato alla firma definitiva di ieri mattina. “Questo era fin dal primo momento un nostro obiettivo, per il quale ci siamo impegnati durante la nostra gestione”, ha dichiarato il sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano, mentre il ministro Di Maio ha parlato di “un atto che ritenevamo doveroso, un chiaro messaggio di pace che arriva dal nostro Paese. Il rispetto dei diritti umani è un impegno per noi inderogabile”.

In totale, sono almeno sei le autorizzazioni interessate dalla decisione del governo. Tra queste c’è anche la licenza MAE 45560 decisa verso l’Arabia Saudita nel 2016. Un contratto, quello firmato nel corso del mandato di Renzi alla presidenza del Consiglio, chiuso dopo un’autorizzazione alle trattative che, analizzando il numero di pratica, risaliva al 2014, spiegano dalle organizzazioni.

La pentastellata Chiara Ehm si dice entusiasta per il risultato ottenuto come prima firmataria della risoluzione e spera che questo possa essere solo il primo passo per una rivalutazione dell’export di armi verso altri Paesi che violano i diritti umani: “Già a dicembre in commissione Esteri ci siamo battuti per far approvare una risoluzione per prolungare lo stop alla vendita di bombe d’aereo e missili verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi – ha detto al Fatto – Ma oggi è arrivata la decisione che volevamo. Si tratta di un messaggio politico importante dall’Italia: no alla guerra, sì alla pace. È una vittoria nostra e delle associazioni pacifiste che in questi anni tanto hanno spinto per giungere a tale obiettivo. È una bella giornata per chi si batte contro ogni guerra. Inoltre, è un segnale di discontinuità con il passato. Siamo di fronte a un’opportunità, affinché l’export di armi possa essere rivalutato e fermato anche in altri Paesi palesemente contro i diritti umani”.

Rinascimento arabo, scandalo Renzi nell’Ue

La provocazione più forte, a proposito del “Renzi d’Arabia”, la fa l’eurodeputato socialista belga Marc Tarabella, che invia una email ai suoi colleghi, che il Fatto ha potuto leggere, chiedendo “chi è il politico più stupido della settimana?”. La risposta è scontata “The winner is… Matteo Renzi”.

 

I messaggi che girano tra gli eurodeputati

Il Parlamento europeo è un po’ in subbuglio per l’ennesima prova internazionale compiuta dal leader di Italia Viva. Il suo viaggio in Arabia Saudita, il video del suo faccia a faccia con il principe Mohamed bin Salman, accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi e comunque a capo di un governo repressivo e antidemocratico, l’affermazione che l’Arabia possa essere “il luogo di un nuovo Rinascimento” se da un lato fanno ridere, dall’altro fanno ribrezzo.

Tarabella, che viene giudicato a Bruxelles uno dei deputati più influenti, aggiunge alla sua lettera anche il tweet del professor Gennaro Carotenuto il quale, dopo aver riportato la frase di Renzi sul rinascimento saudita, aggiunge: “Lapidando le adultere, sciogliendo nell’acido i giornalisti e pagando sontuosi cachet”. Secondo l’eurodeputato 5Stelle Mario Furore, la lettera ha fatto il giro di tutto il Parlamento dove, tra l’altro, vige un preciso Codice di condotta che prescrive che i comportamenti dei parlamentari siano ispirati a “condotta disinteressata, integrità, trasparenza, diligenza, onestà, responsabilità e tutela del buon nome del Parlamento europeo”. Inoltre i parlamentari europei “agiscono unicamente nell’interesse generale e non ottengono né cercano di ottenere alcun vantaggio finanziario diretto o indiretto o altre gratifiche”.

Nei piani alti dell’Europarlamento si è convinti che con queste regole un comportamento come quello di Renzi sarebbe stato chiamato immediatamente a risponderne al Comitato di Consulta sul Codice di Condotta.

 

Palazzo madama senza codice di condotta

Procedura analoga, del resto, si applica in Italia alla Camera dei deputati dove, come ha ricostruito ilfattoquotidiano.it “esiste un codice di condotta”. A Palazzo Madama, però, una legge simile non esiste. Il vulnus normativo delle Camere italiane, del resto, è cosa nota e lo si vede, ad esempio, nella mancata regolazione dell’attività di lobbying per gli ex parlamentari che invece, a Strasburgo, qualora siano impegnati “in attività di lobbying” direttamente connesse al processo decisionale, non possono, “per l’intera durata di detto impegno, beneficiare delle agevolazioni concesse agli ex deputati”.

Matteo Renzi ieri ha capito che la trasferta araba gli si era rivoltata contro e in un video ha offerto un confronto pubblico con la stampa, “ma non ora che c’è la crisi da risolvere”.

Non è chiaro se si renda conto che a fare scandalo è la naturalezza con cui non solo ha accettato di far parte di una struttura finanziaria che fa capo alla monarchia saudita, ma i suoi disinvolti riferimenti alla “grandezza” del principe Bin Salman e addirittura mostrare invidia per “il costo del lavoro a Riyad”.

 

L’ong per i diritti e il costo del lavoro

Questo è quello che scrive Amnesty International dell’Arabia Saudita: “Le autorità hanno intensificato la repressione dei diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione. Hanno vessato, detenuto arbitrariamente e perseguito penalmente decine di persone critiche nei confronti del governo, difensori dei diritti umani, compresi attivisti per i diritti delle donne, membri della minoranza sciita e familiari di attivisti. Sono proseguiti i processi davanti a un tribunale antiterrorismo contro attivisti sciiti ed esponenti religiosi, a causa del loro dissenso”. La monarchia saudita applica “in maniera estensiva la pena di morte, effettuando decine di esecuzioni per una vasta gamma di reati”. Sulle donne, nonostante recenti innovazioni che, tra l’altro, hanno concesso loro “di ottenere il passaporto, viaggiare senza il permesso di un tutore maschile e assumere il ruolo di capofamiglia” le donne hanno continuato a subire sistematiche discriminazioni nella legge e nella prassi in altre sfere della vita e a non essere adeguatamente protette dalla violenza sessuale e di altro tipo”.

Netto il giudizio sul lavoro migrante, con 4,1 milioni di persone che, negli ultimi due anni, sono state “arrestate e almeno un altro milione espulso” per aver violato le norme sul permesso di soggiorno. Inoltre, gli 11 milioni di lavoratori migranti residenti in Arabia Saudita hanno continuato a essere regolamentati dal sistema di lavoro tramite sponsor, conosciuto come kafala, che conferiva ai datori di lavoro ampi poteri su di loro.

La manovalanza straniera occupa il 76% del settore privato in un Paese in cui è vietata non solo l’attività sindacale ma anche quella associativa. Il gap salariale tra uomini e donne è tra il 30 e il 40% con solo una donna su quattro che riesce a lavorare.

Gli stipendi, tra l’altro, non sono nemmeno così bassi, anche se si passa dai circa 1.300 dollari al mese per il settore agricolo e i 2.000 dollari per il settore industriale fino ai 5.000 dollari per i ruoli dirigenziali e professionali, lo scorso maggio è stata varata una legge che consente agli imprenditori di tagliare unilateralmente gli stipendi fino al 40%. Forse era questo che aveva in mente quando ha varato il Jobs Act.

Quell’escamotage del “gruppetto” renziano per fare le liste in Toscana

“In Parlamento stiamo assistendo a un autentico scandalo con la creazione di gruppi improvvisati”. Matteo Renzi martedì pomeriggio in una diretta Facebook non usava parole concilianti per descrivere il tentativo della maggioranza di reclutare responsabili per neutralizzare i 18 senatori renziani decisivi per le sorti del governo. Renzi ha attaccato quell’operazione dal primo giorno, parlando di governo “Conte-Mastella”. Peccato che un anno e mezzo fa, dopo la scissione di Italia Viva, sia stato proprio lui ad aver creato un “gruppo improvvisato” nella sua Regione, la Toscana, per poter correre alle regionali dell’anno successivo (andate piuttosto male: 4,5%). La legge elettorale toscana ribattezzata “Verdinellum”, perché frutto di un accordo tra Renzi e Verdini e approvata nel 2014, infatti favorisce i piccoli “ cespugli” che possono non presentare le firme nelle 13 circoscrizioni toscane (da un minimo di 9mila a un massimo di 13mila) nel caso in cui, a sei mesi dalle elezioni, i piccoli partiti abbiano almeno il gruppo in consiglio regionale. E visto che Iv non sarebbe stata in grado, appena nata, di raccogliere così tante firme e considerando che le elezioni si sarebbero dovute tenere a maggio 2020, Renzi nel novembre 2019 doveva far presto a formare il gruppo in consiglio.

Per questo convinse l’assessore alla Sanità Stefania Saccardi, Stefano Scaramelli, Elisabetta Meucci e Massimo Baldi (il minimo era di tre consiglieri) a passare con lui per formare il nuovo gruppo in Regione e non dover raccogliere le firme. Magari, dicono dal Pd, prospettando un incarico nella futura giunta. Oggi, sfumata la candidatura a governatore, Saccardi è vicepresidente e assessore all’Agricoltura della giunta Giani, Scaramelli vicepresidente del consiglio. Mentre Meucci, dopo le ultime elezioni, è diventata assessore all’Istruzione del Comune di Firenze guidato dall’(ex) renziano Dario Nardella.

“Così si va a sbattere”: dentro Iv si teme ancora lo strappo

Martedì notte, nella riunione dei gruppi parlamentari in vista delle consultazioni del giorno dopo, gli avevano chiesto “cautela”, di “non esagerare” coi toni e soprattutto di “non mettere veti”. Su nessuno, tantomeno sul presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte a cui loro hanno votato la fiducia – seppur talvolta, con qualche perplessità – per 18 mesi. Certo c’era anche chi, invece, gli chiedeva di dare la mazzata finale al premier (come Roberto Giachetti), ma era in minoranza. Epperò Matteo Renzi i suoi parlamentari più in bilico, da sempre critici sull’apertura della crisi e con un piede già verso la vecchia casa Pd, non li ha certo ascoltati. Durante la riunione, per tenerli “uniti e compatti”, li aveva rassicurati: “Non metteremo veti, andremo al Quirinale a portare le nostre ragioni e i nostri temi”.

Poi però, qualche ora dopo, e nonostante una telefonata di pacificazione di Conte, davanti alle telecamere del Quirinale ci è andato giù durissimo: lo “spettacolo indecoroso” dei responsabili, verificare “se esiste una maggioranza”, i riferimenti al Grande Fratello (Rocco Casalino). Nel frattempo il leader di Italia Viva faceva filtrare veline alle agenzie per raccontare quel che aveva detto a Sergio Mattarella – “Per il momento no a un Conte ter, meglio un mandato esplorativo a un’altra persona” – e dettare retroscena durissimi sulla sua telefonata con Conte. In quel momento le chat sotterranee di Italia Viva sono esplose. I senatori furiosi erano sempre i soliti, dall’ex Ds Leonardo Grimani a Eugenio Comincini (che nel frattempo si è preso il Covid) passando per Annamaria Parente e Donatella Conzatti, per non parlare dei pesantissimi silenzi di Daniela Sbrollini, Nadia Ginetti e del solito Mauro Marino, dato già per perso. “Questo è pazzo”, è stato uno dei primi commenti al combinato disposto tra diretta televisiva e flusso di agenzie.

Le critiche al capo sono state sul merito (“Così Matteo ci fa andare a sbattere”) ma anche sul metodo: “Ieri sera ci aveva detto che avrebbe fatto esattamente il contrario”, è la voce di uno dei renziani dissidenti. E allora c’è stato anche chi, nella chat ufficiale, quella con tutti i parlamentari, ha chiesto a Renzi il motivo della sua giravolta sul veto al premier dimissionario. Risposta lapidaria: “Questo è un no a Conte, adesso. Non un no a Conte. Per ora vorrei un mandato esplorativo”. Una replica – per quanto irritata – che comunque serve a tenere buoni i suoi, che da settimane ribollono di rabbia. Alcuni si sono tranquillizzati, altri non si sono fidati.

Perché se è vero che alcuni hanno deciso di non criticare più pubblicamente il capo dopo il tentativo maldestro della maggioranza di reclutare responsabili per sostituirli, adesso che un Conte ter sembra possibile i 5-6 senatori renziani più critici proprio non vogliono che a bloccare tutto sia il proprio leader. In caso di strappo – e a raccontarlo non sono più solo i pontieri dem ma anche fonti dentro Iv – almeno 3 senatori sono già pronti a lasciare e aprire una faglia dentro il partito: quelli più indiziati sono Grimani, Comincini e Marino. E in questo quadro non sono passate inosservate le parole di giovedì sera del vicesegretario Pd Andrea Orlando: “Renzi è stato astuto, la strategia dell’ambiguità è servita per tenere unita IV”. Come dire: se il senatore di Scandicci dirà no a Conte, il suo partito si spaccherà. E allora ancora ieri Comincini, ex sindaco di Cernusco sul Naviglio, andava perorando la causa del Conte ter, in contrasto con la posizione del suo partito: “Non ci sono veti da parte nostra, se ci sediamo a un tavolo e troviamo le soluzioni ai problemi che poniamo da settembre, direi di sì. Io sono sempre stato per la ricucitura”. Un messaggio soprattutto al proprio leader.

Destre in ordine sparso: elezioni subito, ma anche unità nazionale

“Con l’apertura al governo di unità nazionale abbiamo offerto un paracadute a Mattarella. Se dovesse fallire la strada del Conte-ter, il Quirinale avrà un piano B su cui lavorare. Ma ora i riflettori stanno dall’altra parte…”. Gaetano Quagliariello alle 8 di sera dà la sua lettura politica della giornata appena trascorsa, con le consultazioni al Colle che hanno visto protagonisti prima il centrodestra e poi il M5S, che ha riaperto a Italia Viva. Non era affatto scontato che il centrodestra si presentasse unito al Quirinale. E invece così è stato. Addirittura in 13. Con un certo sconcerto da parte del capo dello Stato quando se li è trovati davanti. Oltre a Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani coi rispettivi capigruppo, erano presenti anche Maurizio Lupi, Giovanni Toti, Antonio De Poli (quest’ultimo per l’Udc) e, appunto, Quagliariello. Mancava invece, per la prima volta, Silvio Berlusconi, rimasto in Francia.

E nel colloquio col capo dello Stato sono emerse le diverse linee della coalizione. Forza Italia più esposta nel chiedere un esecutivo di unità nazionale e FdI schierata pancia a terra per le elezioni. In mezzo tutti gli altri, più verso FI. Con un Salvini che ha dovuto fare la sintesi. E che, a detta anche dei forzisti, “per la prima volta si è comportato da leader della coalizione, riuscendo a tenere unite forze con sensibilità diverse”.

Un Salvini “più inclusivo” e politicamente “più maturo” della Meloni. La quale era reduce da una sorta di processo da parte dei suoi, che le hanno chiesto il motivo per cui “mentre noi chiediamo il voto”, gli altri “chiedono un governo di larghe intese”. Anche per questo, la leader di FdI aveva preteso un vertice prima di salire al Quirinale. Ed è lì che è stata messa a punto la nota condivisa.

Nel comunicato, viene spiegato come la destra, escluso un Conte-ter, abbia chiesto a Mattarella “una soluzione rapida della crisi che porti alla formazione di un governo coeso con un programma comune condiviso dagli elettori e con una maggioranza forte”. Chiarendo che la via “è quella del voto anticipato e nessuno di noi sosterrà mai un governo riedizione della maggioranza uscente”. Lasciando però aperta la porta ad altro. “Nel caso in cui non si arrivasse al voto, tutti i componenti della coalizione si riservano di valutare le decisioni che prenderà il capo dello Stato”.

Quest’ultimo passaggio è stato chiesto espressamente da Berlusconi, insieme alla richiesta di non attaccare direttamente Conte. Mentre Salvini ha preteso un passaggio sui “singoli voltagabbana”. Alla fine c’è scappata anche una risata, quando Meloni ha detto “no a un governo zoppo”, mentre arrancava con le stampelle a causa di uno stiramento: “Volevo fare sport, ma ormai non ho più l’età”.

“Via Bonafede e Gualtieri”: Renzi già detta le condizioni

“In forma smagliante”: lo raccontano così Matteo Renzi in quello che è per antonomasia un delicato frangente per il Paese. Dopo aver terremotato il quadro politico italiano, tra una conferenza strapagata in Arabia Saudita e l’altra, l’ex premier a questo punto ragiona su come capitalizzare meglio il risultato ottenuto. Lavorando per costruire un Conte ter o per farlo fallire? È questa la domanda cruciale.

Per ora, Renzi sarebbe intenzionato a provare a vedere se gli conviene appoggiare di nuovo il premier. Che poi è esattamente quello che dovrà verificare l’esploratore Roberto Fico. Il leader di Iv, dopo la telefonata con Conte di giovedì, si è convinto che il premier dimissionario è pronto ad accettare ogni tipo di richiesta. Qualche dubbio in più ce l’ha sui Cinque Stelle. Ma intanto alza il tiro. Quanto porterà le sue condizioni fino al limite della rottura dipenderà anche dall’andamento del gioco. Intanto, ecco come si vanno delineando. Primo. “Mi devono dire che Italia Viva è un partner e smettere di cercare Responsabili”, spiega agli amici. Secondo. “Conte non può avere tutto: se resta lui, deve saltare Alfonso Bonafede. E non solo”. E si spinge a ipotizzare per il posto di Guardasigilli il procuratore di Milano, Francesco Greco. Per inciso, quello che sta facendo le indagini sulla Lega di Salvini. Un nome forse più ipotetico che effettivamente possibile, ma che dimostra anche la volontà di trattare con certi ambienti. Terzo. “Non mi è piaciuto Roberto Gualtieri”. Per l’Economia getta nella mischia il nome di Roberto Cingolani, ora nel board di Leonardo, nominato da Profumo (scelto dallo stesso Renzi). Ci sono da gestire le nomine delle società partecipate in primavera: una motivazione più che sufficiente per provare a decidere il titolare del Tesoro. Da notare che nella lettera con le sue richieste inviate a Conte in dicembre, Renzi parlava di un documento chiesto a Cingolani da Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico sul digitale. Ancora una volta, nomina la “cybersecurity” tra i suoi oggetti. Quarto. “Se Maria Elena vuole entrare, deve poterlo fare”. Renzi in questi giorni riflette sul fatto che essendo lei indagata nell’inchiesta Open, potrebbe non avere voglia di esporsi alle critiche costanti che avrebbe se fosse al governo. In realtà, sa benissimo che si tratta di un nome quasi indigeribile per i 5Stelle. E dunque, si tiene aperta la possibilità di forzare su di lei. Perché poi circola pure la voce che la vorrebbe desiderosa di tornare a fare il Sottosegretario a Palazzo Chigi, come nel governo Gentiloni, forte di rapporti con Conte che si raccontano buoni.

Il senatore di Scandicci, poi, continua a mettere in mezzo il nome di Patuanelli come possibile premier. E a pensare a un governo del presidente, composto interamente da tecnici.

Ieri, intanto, ha accolto con soddisfazione la scelta di Sergio Mattarella di dare l’incarico di esploratore a Fico. È passata la sua linea. Tanto che in una e-news scritta a tambur battente, enuncia: la decisione del presidente della Repubblica “è una scelta saggia che Italia Viva onorerà lavorando sui contenuti: vaccini, scuola, lavoro e ovviamente Recovery Plan sono le priorità su cui il Paese si gioca il futuro.”. Non inserisce il Mes, ma insiste sui vaccini (che poi vuol dire contro Domenico Arcuri).

Al Nazareno osservano le sue mosse con una inevitabile preoccupazione. I rapporti li tiene il capo delegazione, Dario Franceschini. Che tende a pensare che per ora abbia ottenuto l’ottenibile e che non esagererà ancora, ma lascerà che nasca il Conte ter. Perché la linea tra i dem resta quella: blindare l’Avvocato. Ma, come commenta qualche ministro, “quattro giorni sono tanti”. E non a caso nella nota serale il Pd si “augura” che tutte le forze che si sono dette disponibili a un governo di legislatura “siano conseguenti”. Del doman non c’è certezza.

5Stelle, la grande paura: “Giuseppe o non teniamo”

Dopo la loro notte più lunga, un rosario di riunioni e sfoghi incrociati, hanno fatto quello che chiedevano da lassù, dal Quirinale. Da soldati prima che da grillini, nelle consultazioni al Colle i Cinque Stelle non spingono il bottone rosso, quello del no a Matteo Renzi, perché “questa non è l’epoca dei veti, ma della responsabilità”, teorizza il reggente Vito Crimi.

Quindi si riparte “dalle forze di maggioranza che hanno lavorato in questo ultimo anno e mezzo insieme”, ossia anche e perfino da Italia Viva. Crimi e i vertici parlamentari, d’accordo con Palazzo Chigi e con l’ex capo ma leader di fatto Luigi Di Maio, hanno bevuto il calice peggiore per provare ancora a salvare Giuseppe Conte. E per non farsi accusare dal fu rottamatore di aver fatto saltare il tavolo. Ma nella sera del sacrificio già pagano dazio, con Alessandro Di Battista che saluta e se ne va, e diversi eletti che protestano. Con quella parola come una nube, scissione, che riaffiora. Ma soprattutto sanno che da qui ai prossimi giorni del mandato esplorativo si giocano presente e futuro. “Se dopo tutto questo non riusciremo ad avere il Conte ter, per noi sarà un dramma”, spiegano un paio di big a sera inoltrata. Tradotto: “Senza Conte non terremo e sarà molto peggio di aver accettato di nuovo Renzi”. Una partita che ora poggia innanzitutto sulle spalle del veterano Roberto Fico. Sarà lui a dover vedere le carte di Renzi, “ma se quello tira fuori il Mes e chissà che pretese, come si fa?”. Cosa succederà se il Renzi fresco reduce dai viaggi in Arabia Saudita, quindi ancora più indigeribile, alzerà davvero la voce per dicasteri pesanti come il Mise e il Mit, come dicono già ora i grillini? “Renzi vuole cambiare tre quarti delle caselle” è l’accusa. Per questo, nel silenzio del Garante Beppe Grillo, il M5S lo dice in una nota: “Concentriamoci sui temi che ci accomunano e togliamo tutti i temi divisivi”. E l’appello, raccontano, è anche al Pd, da cui il Movimento si aspetta una sponda. Nell’attesa, ecco lo strappo di Di Battista. “Prendo atto che oggi la linea è cambiata – scrive su Facebook – ma io non ho cambiato opinione. Tornare a sedersi con Renzi significa commettere un grande errore politico e storico”, Ergo, “se il M5S dovesse tornare alla linea precedente ci sono, altrimenti arrivederci e grazie”. Parlamentari e ministri si mandano a vicenda il post e qualcuno accusa: “Così uccide Conte e la trattativa”. Di Battista nei colloqui nega, “non voglio certo questo”. Piuttosto ripete: “Al posto di Conte non tornerei mai con Renzi, non ci si può fidare, rifarà presto quello che ha fatto in queste settimane”.

Però l’ex deputato lo fa trapelare: “Non capeggio correnti e scissioni”. Non vuole intestarsi crepe. Ma parla di addio anche il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra: “Se ci trasformiamo in dorotei ne prenderò atto e tornerò a casa”. Un’altra veterana come Barbara Lezzi ha già detto più volte che non voterebbe la fiducia a un governo con Renzi di nuovo dentro. Ieri rilancia così: “Facciamo votare gli iscritti sulla piattaforma Rousseau”. Può essere una strada concreta, spiegano dai piani alti, anche per tenere con gli iscritti e reggere la mossa di Di Battista. Ma senza il Conte ter, sarà bufera. Definitiva.

Conte e 5S: il veto caduto per salvare l’alleanza col Pd

I tempi lunghi, va detto subito, non erano il suo sogno. Più giorni Matteo Renzi avrà a disposizione, più il rischio di dover abbassare l’asticella della condizioni si alza. E da qui a martedì, quattro lunghissimi giorni, il mercato di cui Giuseppe Conte è il bottino più ambito ha modo e forza per far crescere esponenzialmente le contrattazioni. A Palazzo Chigi ancora credono che, alla fine, il due volte premier riuscirà a portare a casa il suo terzo governo. È vero, non ha avuto il re-incarico che voleva, nonostante giovedì abbia compiuto il faticosissimo passo di telefonare al leader di Italia Viva (suggerito da Roberto Fico, pare), per sentirsi rispondere che no, il suo nome al Quirinale non lo avrebbe fatto. “Ma a questo punto va bene così, il mandato esplorativo a Fico ci protegge” spiegano da ambienti di governo. E d’altronde se lo aspettavano ieri, convinti che il Colle voglia davvero salvare l’avvocato.

Fosse per Giuseppe Conte, raccontano, avrebbe già salutato tutti e se ne sarebbe tornato ai suoi impegni da professore e ai suoi affari da avvocato. Ma tutto vuole tranne che passare per quello che “ha sfasciato tutto”. Non solo il governo, ma l’intera esperienza dell’alleanza giallorosa. Nei ragionamenti di queste ore – condivisi insieme ai ministri, nell’ultimo Cdm prima delle dimissioni – c’è la consapevolezza che la posta in gioco vada ben oltre le sorti dell’esecutivo appena entrato in crisi. Perché Conte, è la linea anche di Nicola Zingaretti e Dario Franceschini, è il punto di equilibrio che il Pd e i Cinque Stelle hanno trovato, seppur per caso. Un’alleanza tenuta faticosamente in piedi, considerando le storiche divergenze tra i due partiti, che ha trovato una sua forma di sopravvivenza: tutti sanno che basta poco a riaprire le ostilità. Un governo istituzionale, ragionano, sarebbe più che sufficiente a tornare ai vecchi tempi, quando i dem erano quelli del partito di Bibbiano. Pochi mesi di lontananza – i 5 Stelle sarebbero all’opposizione, il senso di “responsabilità” del Nazareno potrebbe più facilmente portare a un appoggio esterno – finirebbero per “buttare via il lavoro di quasi due anni”, è il senso dei discorsi che fa il presidente del Consiglio. Così, la caduta del veto contro Renzi diventa il sacrificio necessario – o almeno così la raccontano – per accompagnare la coalizione giallorosa che non sa ancora camminare da sola.

Certo, il boccone da mandare giù non è una cosa da poco. Lo sanno i Cinque Stelle che – lo spieghiamo qui sotto – in nome della fedeltà a Conte devono rimangiarsi gli hashtag di una settimana fa. E lo sa Conte, che infatti confida – se dovesse riprendere le redini dell’esecutivo – di approfittare delle caselle che si rimescolano per coinvolgere più parlamentari di quanto sia riuscito a fare finora. Per non parlare dei famosi “temi” che ora saranno al centro della discussione con l’esploratore Roberto Fico: “Mattarella ci ha fatto un appello – scrive Vito Crimi in chat – che i gruppi parlamentari lavorino 23 ore al giorno per trovare temi su cui costruire le condizioni per un nuovo governo”. Ventitré ore al giorno, dà il senso dell’impresa: ovvero dotarsi di uno scudo per respingere l’offensiva in arrivo dal fronte renziano, a cominciare dal solito Mes.

Ma l’alternativa – è il monito che aleggia – è il passaggio per le forche caudine di un governo elettorale, che dividerebbe le strade di Pd e M5S e consegnerebbe il Paese al centrodestra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ancora prima che il presidente Mattarella parlasse della pandemia da affrontare e del Recovery da gestire, era chiaro a tutti che le elezioni subito – quelle sull’onda emotiva della crisi, con il partito di Conte – non ci sarebbero state. E più il tempo passa, più vengono al pettine i nodi irrisolti dell’alleanza che è al governo dall’estate del 2019. Come in queste consultazioni, lunghe, troppo lunghe, per poter dormire sonni tranquilli a Palazzo Chigi.

M5S non dice no a Iv: Mattarella incarica Fico di esplorare Renzi

I grillini, incarnati dalla tonda figura del reggente Vito Crimi, bevono l’amaro calice renziano alle cinque della sera. È a quell’ora che la delegazione del M5S sale al Quirinale per l’ultimo colloquio di queste consultazioni. Con Crimi ci sono i capigruppo parlamentari Ettore Licheri (Senato) e Davide Crippa (Camera). Davanti a sé, Sergio Mattarella ha il quaderno degli appunti di giovedì scorso. Spicca, ovviamente, il nome di Matteo Renzi, che ha detto sì a un nuovo governo giallorosso a patto che ci sia un esploratore per verificare un eventuale Conte ter. Tocca quindi ai Cinque Stelle dire al capo dello Stato se il veto su Italia Viva rimane o meno.

Soprattutto adesso che i Costruttori-Responsabili-Volenterosi non ci sono più. Meglio, non sono decisivi per un esecutivo senza gli odiati – odiati per Conte e i 5S – italo-viventi del Demolitore di Rignano. E così alla fine dell’incontro con Crimi e i due capigruppo, Mattarella può tracciare il perimetro di una maggioranza sul quaderno. Il sì pentastellato rende il compito meno complicato del previsto. L’alternativa era la prosecuzione di una crisi al buio con lo sbocco ipotetico di un governo del presidente prima delle urne in primavera.

Al contrario adesso c’è la disponibilità dei partiti e delle forze politiche del Conte due. Solo che il nodo per Iv è il nome del premier e il Colle non può fare altro che affidarsi alla prassi costituzionale e optare per un mandato esplorativo. Lo decide, il capo dello Stato, nel corso di una riunione con i suoi consiglieri prima delle sette di sera. È una scelta che protegge anche il premier uscente e non lo espone. Ma la metafora che circola al Quirinale riassume efficacemente un altro aspetto della questione: “Se devi risolvere una lite tra moglie e marito (cioè, Conte e Renzi, ndr) ti devi affidare a un terzo non rivolgerti a una delle parti in causa”. Al presidente non sfugge nemmeno il quadro delle fragilità della maggioranza: la freddezza, se non il gelo del Pd, e il “bombardamento”, dentro i 5S, di Alessandro Di Battista sulla rimozione del veto a Iv. Una somma di debolezze che avrebbe messo a rischio un reincarico immediato a Conte. Anche per questo, il nome cui viene dato il mandato esplorativo è un grillino doc, con l’anima dichiarata di sinistra: il presidente della Camera Roberto Fico.

La liturgia presidenziale di questa scelta si svolge in due atti. Dapprima è lo stesso Mattarella, poco dopo le diciannove, ad apparire pubblicamente per annunciare “un’iniziativa a breve”. Non senza precisare che l’Italia, come tutti i Paesi del mondo, sta combattendo una drammatica battaglia contro il Coronavirus. Ergo, bisogna fare presto perché ci sono tre emergenze: sanitaria, sociale ed economica. Il riferimento, esplicito, è ai soldi del Recovery Plan.

Il presidente finisce e dopo una manciata di minuti esce il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti. È lui che comunica la scelta di Fico, che dovrà presentarsi di lì a venti minuti, alle diciannove e trenta. Tre giorni il tempo concesso al presidente della Camera: da oggi a lunedì prossimo per poi riferire al Colle martedì.

Tre giorni per far risorgere il governo Conte in una nuova versione e disinnescare le mine renziane, dal Mes alla gestione pandemica del commissario Domenico Arcuri. Non esclusa, poi, dopo i singoli colloqui a Montecitorio, una sessione plenaria con tutti i gruppi per siglare solennemente il patto per durare fino al 2023, scadenza naturale della legislatura.

Ma il mandato di Fico sarà soprattutto quello di “esplorare” Renzi e i suoi tatticismi, che non mancheranno. Il nodo dei nodi sarà quello del presidente del Consiglio. E a quel punto il Demolitore non potrà sottrarsi all’interrogativo finale che gli porrà la terza carica dello Stato: Italia Viva sosterrà un esecutivo guidato dall’Avvocato?

La partita comincia oggi. Dal Colle a Montecitorio.