“Cascini e Salvi, smentite o dimettetevi”

Il fronte s’è aperto ieri con una lettera che conta 34 firmatari – in gran parte legati al movimento Articolo 101 e destinati ad aumentare nelle prossime ore – e indirizzata al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al togato del Csm Giuseppe Cascini. Il clima è da resa dei conti, dopo le dichiarazioni di Luca Palamara al direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, pubblicate nel libro Il Sistema edito da Rizzoli. L’ex segretario dell’Anm – imputato a Perugia per corruzione e radiato dalla magistratura per le sue conversazioni intercettate nel 2019 con i parlamentari Luca e Lotti e Cosimo Ferri per la nomina del futuro procuratore di Roma – nelle 288 pagine del volume ha raccontato la sua verità su molti episodi e, tra questi, anche sui suoi rapporti con Salvi e Cascini. “Secondo quanto riportato nel libro – si legge nel documento firmato dai trenta magistrati – Salvi, in almeno due occasioni avrebbe incontrato in privato e su sua richiesta Palamara, all’epoca componente del Csm, per caldeggiare la propria nomina a un importantissimo incarico pubblico. I fatti riferiti da Palamara sono narrati in maniera molto dettagliata e ribaditi nella nota trasmissione ‘Porta a Porta’”.

E quindi: “Questi fatti, ove veri, gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore Generale che ‘assolve’ per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta”. Per quanto riguarda Cascini, invece, i trenta magistrati scrivono: “Nello stesso libro, si attribuisce all’attuale componente del Csm, Giuseppe Cascini, una indebita e pesante interferenza in un procedimento disciplinare a carico di un collega (il riferimento e alla pratica che riguardava il pm di Napoli Henry John Woodcock, ndr), compiuta quando il primo svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma”. E quindi: “La gravità delle accuse rivolte pubblicamente e ora note a tutti e la rilevanza dei ruoli ricoperti nell’assetto costituzionale” da Salvi e Cascini “impongono loro di smentire in maniera convincente i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte”. Cascini, ricordando quanto anticipato già al Fatto, ha replicato alle agenzie Ansa e AdnKronos: “Come ho già dichiarato alla stampa, quanto riportato nel libro-intervista di Sallusti a Palamara in merito a una mia presunta interferenza nel procedimento disciplinare a carico di Woodcock è del tutto falso. Per questa falsità, e per le altre contenute nel citato libro, ho già dato mandato al mio legale di agire in giudizio a tutela della mia onorabilità”.

Interpellato dal Fatto, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, al quale abbiamo chiesto se intenda querelare Palamara per le sue affermazioni, ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione.

Fra i firmatari si contano anche il gip di Roma Clementina Forleo, il giudice del Riesame di Napoli Gabriella Nuzzi, il sostituto procuratore generale di Messina Felice Lima, il pm di Bari Francesco Bretone, i gip di Palermo e Ragusa, Giuliano Castiglia e Andrea Reale.

Sentenza Appendino, il coro dei sindaci: “Siamo con lei”

Il giorno dopo la condanna, al fianco di Chiara Appendino si schierano sindaci di mezza Italia, da nord a sud. La prima cittadina di Torino è stata condannata per la tragedia del 3 giugno 2017, quando tra la folla che assisteva alla finale di Champions League in piazza San Carlo si scatenò il panico per colpa di alcuni rapinatori che usavano spray urticanti. Due donne persero la vita, i feriti furono oltre 1600. Per Appendino mercoledì è arrivata una condanna a un anno e sei mesi in primo grado (con rito abbreviato) per omicidio, lesioni e disastro colposi.

La sindaca ha reagito chiedendo “una sana riflessione sul difficile ruolo dei sindaci, sui rischi e sulle responsabilità a cui sono esposti”. Un ragionamento che è stato condiviso e rilanciato dai primi cittadini delle principali città italiane. La prima a farlo è stata la collega 5Stelle Virginia Raggi (“Chiara, ne uscirai a testa alta. Serve una riflessione sulle responsabilità degli amministratori pubblici”), ma il tema è stato sollevato in modo trasversale a partiti e movimenti.

Anche i dem Beppe Sala e Giorgio Gori, non tacciabili di simpatie grilline, si sono espressi in termini molto simili. Il sindaco di Milano condivide il bisogno di ripensare le tutele per i decisori pubblici. La solidarietà l’ha inviata via twitter: “Non ho strumenti per entrare nel merito della sentenza di condanna. Mi spiace però per una persona di cui sono collega e amico. Ed è corretto il suo stimolo a una riflessione sul ruolo del Sindaco e sui rischi a cui si va incontro”.

Gori, primo cittadino di Bergamo, ha mandato un messaggio ancora più netto: “Piazza S. Carlo fu un grande dolore, ma la condanna di Chiara Appendino per i fatti di quella notte dimostra l’assurdità di una legge che scarica sui sindaci responsabilità cui non possono far fronte. Ha tutta la mia solidarietà”. Il tema è molto sentito dagli amministratori. L’ha rilanciato anche il sindaco di Bari, Antonio Decaro, interpellato anche nel suo ruolo di presidente di Anci (l’associazione dei comuni italiani): “Mi sembra che il sindaco sia il capro espiatorio – ha detto in un’intervista alla Stampa–. Qualcuno ha spruzzato uno spray per derubare le persone che erano in piazza, non capisco che responsabilità può avere un amministratore visto che non ha competenze sull’ordine pubblico. Sono convinto che tra qualche anno non troveremo nessuno disposto a candidarsi, nei piccoli centri è già così”. Parole cui si aggiungono quelle di Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio Calabria, anche lui del Pd: “Siamo tutti sconvolti per questa sentenza. Serve una seria modifica del Testo unico Enti locali rispetto alle responsabilità dei primi cittadini. Non può essere sempre il sindaco a pagare per tutti, altrimenti davvero non si vorrà candidare più nessuno. Come Anci stiamo pensando a un’iniziativa in tal senso”.

Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, da magistrato ha conosciuto anche l’altro lato della trincea. Anticipa il suo ragionamento con una premessa “doverosa”: “Per esprimere un parere su una sentenza bisogna conoscere gli atti giudiziari, in particolare per una vicenda dolorosissima come questa”.

Poi spiega: “Io pongo un tema generale, dopo 10 anni di esperienza a Napoli. Il sindaco si trova in una situazione ai limiti della responsabilità oggettiva. Viene chiamato a rispondere di qualsiasi incidente, quasi fosse un demiurgo. La distinzione tra livello amministrativo e politico non sempre è lineare. Così rischiamo che ci venga attribuita qualsiasi responsabilità, anche se cade un cornicione o un ramo da un albero. Considerata anche la situazione economica delle metropoli che dobbiamo governare, credo serva davvero una riflessione su questo tema”.

Reddito di cittadinanza a 120 camorristi. Maxi-blitz a Napoli: sequestrati 1,1 milioni

Tra i 120 condannati per camorra, o per altri gravi reati, tra Napoli e provincia, che hanno indebitamente percepito il Reddito di cittadinanza, c’era anche L. C., un pluripregiudicato vicino al clan Gallo-Pisielli. Dopo essere stato arrestato nel 2014, nell’operazione ‘Mano Nera’, conclusa con più di 80 condanne per associazione mafiosa, spaccio, estorsione, riciclaggio, detenzione di armi, L. C. è di nuovo in carcere dal 25 settembre con l’accusa di far parte del ‘Quarto Sistema’, un nuovo clan che voleva impadronirsi della gestione del racket a Torre Annunziata, e per imporsi sul territorio, aveva fatto esplodere una bomba carta contro una concessionaria d’auto. In galera, il reddito gli era stato sospeso, ma aveva fatto in tempo a intascare circa 3.000 euro.

Il suo è un caso emblematico. Ma è solo uno dei tantissimi finiti al setaccio di un’indagine condotta dal comando provinciale della Finanza di Napoli, agli ordini del generale Gabriele Failla, e coordinata da quattro Procure – Napoli, Napoli nord, Torre Annunziata e Nola – che hanno deciso di colpire compatte nello stesso momento. Ieri, all’alba, le perquisizioni e i decreti di sequestro d’urgenza nei confronti dei 120 indagati di violazione del primo comma dell’articolo 7 del decreto legge che istituisce il Rdc. In pratica, per aver dichiarato il falso nell’autocertificazione allegata alla domanda, omettendo i precedenti penali ostativi alla concessione del beneficio. Ovvero: una condanna negli ultimi dieci anni per associazione mafiosa, per un reato con aggravante mafiosa, per truffa ai danni dello stato o per terrorismo. Ben 93 dei 120 sono condannati per associazione camorristica. Fanno parte dei principali clan del napoletano: il clan Liccardi, il clan Contini, il clan Di Lauro, il clan Lo Russo, il clan Vollaro, il clan Ascione Mallardo, il clan D’Alessandro, il clan Mazzarella, il clan Gionta, il clan Cesarano, il clan Gallo-Cavaliere, il clan Limelli-Vangone. E altri. “Reddito di criminalità organizzata”, commenta un investigatore napoletano. I 120 indagati sono stati scovati incrociando i moduli dei richiedenti il Rdc con la banca dati delle condanne fornita dalla Corte d’Appello di Napoli. I sequestri, a cominciare dalle carte prepagate usate per l’accredito dei Rdc, puntano a riavere indietro un milione e 180 mila euro, il danno ricevuto dallo Stato. Nel frattempo è stata bloccata l’imminente rata di febbraio, così da non incrementarlo.

De Vito, imputato, presiede Consiglio dal tribunale

Marcello De Vito ieri ha presieduto la riunione dell’Assemblea capitolina dal cortile del Tribunale di Roma in piazzale Clodio. Auricolari e smartphone alla mano, il pentastellato ha assicurato la sua presenza ai lavori del Consiglio comunale di Roma, dove si discuteva il bilancio di previsione, e non è mancato alla prima udienza del processo sullo stadio della Roma, che vede il presidente dell’Aula Giulio Cesare imputato per corruzione. Con lui, alla sbarra, il costruttore Luca Parnasi, l’ex presidente Acea Luca Lanzalone, consigliere della Lega, Daniele Bordoni, i consiglieri regionali Adriano Palozzi (Cambiamo) e Michele Civita (Pd) e l’ex direttore della Soprintendenza di Roma, Francesco Prosperetti, accusati a vario titolo di associazione per delinquere, corruzione e finanziamento illecito. Stralciata la posizione di Daniele Leoni, funzionario capitolino. Tra i testimoni ci saranno la sindaca di Roma, Virginia Raggi, e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Entrambi compaiono nella lista testi della difesa di De Vito.

Brindisi, 6 arresti in tribunale: anche giudice. “Estorse soldi a genitori di un bimbo disabile”

“Io conosco tutti, giudici, avvocati, assistenti sociali e anche i delinquenti, io conosco i buoni e i cattivi. Non discutete sulla cifra che vi ho chiesto”. E che cifra: 150mila euro. Il giudice della Fallimentare del Tribunale di Brindisi, Gianmarco Galiano, l’avrebbe estorta usando queste parole e questi toni, ai genitori di un bambino nato nel 2011 e reso disabile da errori medici durante il parto. Il magistrato sarebbe riuscito a ottenerla attraverso quattro assegni fatti intestare alla suocera, tramite la minaccia che siccome il bambino viveva “in una casa modesta, umida e senza riscaldamento”, si sarebbe adoperato per far revocare la patria potestà.

E’ la ricostruzione delle vittime, e dovrà essere vagliata nei successivi step del procedimento. Ma il Gip di Potenza, accogliendo la richiesta di arresto in carcere di Galiano avanzata dalla procura guidata da Francesco Curcio, la ritiene attendibile. Citando la relazione di servizio di un maresciallo poco dopo la deposizione del padre del bambino. Lo ha visto abbracciare, piangendo, la moglie che di lì a poco avrebbe ribadito quelle circostanze: “Di’ tutto! Devi dire la verità! Loro (rivolgendosi col viso al maresciallo, ndr) stanno con noi”.

Quei 150mila euro provenivano da un risarcimento di 2 milioni di euro disposto dall’Asl di Brindisi dopo una causa civile definita con una transazione. Tra gli avvocati che si erano avvicendati alla difesa della famiglia del bimbo, per un paio di udienze, anche la moglie di Galiano, Federica Spina, finita ai domiciliari. Il giudice la accompagnò a casa degli ex clienti che volevano regolare la sua parcella. In quell’occasione avrebbe preteso l’extra.

L’episodio è raccontato nell’ordinanza di arresto di sei persone con accuse di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari intorno a spartizoni di incarichi e fallimenti pilotati, 21 gli indagati. In carcere l’imprenditore Massimo Bianco e il commercialista Francesco Pepe Milizia. Ai domiciliari l’imprenditore Francesco Bianco, e la presidente dell’ordine degli ingegneri di Brindisi, Annalisa Formosi. Altri due magistrati sono indagati, Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia, di Bari. In un altro caso, Galiano avrebbe incassato 300mila euro, parte di un risarcimento per una causa sulla morte di una ragazza di 23 anni. Anche qui la somma sarebbe passata attraverso il conto della suocera.

Piano pandemico, anche i pm di Roma indagano

Il piano pandemico del 2006 non è stato applicato perché “era per l’influenza e non per il Covid-19”, ma il ministro della Salute ritiene che sia stato fatto tutto il possibile, fin dai primi allarmi dell’Organizzazione mondiale della sanità, per prevenire l’epidemia che a partire da febbraio ha poi travolto le Regioni settentrionali del Paese. Roberto Speranza è stato sentito per cinque ore ieri nel suo ufficio, come persona informata sui fatti, dal procuratore aggiunto di Bergamo, Maria Cristina Rota, che conduce le indagini sui presunti ritardi nella gestione della prima fase dell’emergenza. Ma non è l’unica Procura che sta indagando. Sullo stesso tema del piano pandemico, del suo mancato aggiornamento per 14 anni e della sua mancata attivazione, anche a Roma è stato aperto un fascicolo, per adesso senza ipotesi di reato né indagati. L’indagine nasce da alcuni esposti che sono stati presentati nei mesi scorsi.

Ma torniamo a Bergamo. Speranza, con la dottoressa Rota, ieri ha ripercorso le settimane di inizio 2020, dal primo avviso dell’Oms sulle polmoniti di eziologia sconosciuta a Wuhan che risale al 5 gennaio e dal quale, secondo l’ipotesi dei pm di Bergamo, derivava l’esigenza di attivare la fase d’allerta prevista dal vecchio piano. L’istituzione della task force al ministero il 22, le circolari, i controlli negli aeroporti, il blocco dei voli dalla Cina disposto solo dall’Italia il 30 e la dichiarazione dello stato d’emergenza il 31. E poi le verifiche sul servizio sanitario nazionale, gli scenari presentati all’Istituto superiore di sanità fin dal 5 febbraio che ipotizzavano decine di migliaia di morti e di malati in terapia intensiva, la scelta di affidare al Comitato tecnico scientifico l’elaborazione di un nuovo piano che però arriverà solo dopo l’esplosione dei contagi emersa il 21 febbraio a Codogno (Lodi) e Vo’ Euganeo (Padova) quando l’epidemia era già in fase avanzata.

I pm Paolo Mandurino e Guido Schininà e gli investigatori della Finanza di Bergamo ieri hanno sentito a Roma, sempre come persone informate sui fatti, il coordinatore del Cts Agostino Miozzo, il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, il direttore della Prevenzione del ministero Gianni Rezza che però all’inizio del 2020 era ancora all’Iss, il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito che era stato l’unico a parlare del piano pandemico secondo gli appunti della task force pubblicati dal Fatto, e poi l’epidemiologo Donato Greco che scrisse il piano del 2006. Diversi dirigenti del ministero, sentiti a Bergamo, hanno dichiarato che il piano non era stato mai aggiornato, né è stato applicato nel 2020. Nessuno di loro è indagato. La Procura potrebbe sentire le ex ministre della Salute Beatrice Lorenzin e Giulia Grillo sul mancato aggiornamento.

Poi il procuratore Antonio Chiappani tirerà le somme, valuterà se c’erano obblighi di aggiornamento e attivazione dei piani nazionali e lombardi e misurerà l’impatto delle eventuali omissioni su contagi e decessi avvenuti nel circondario di Bergamo, anche sulla base della consulenza del professor Andrea Crisanti. Nel fascicolo hanno raccolto centinaia di denunce, molte delle quali si incentrano sulla mancanza di dispositivi di protezione e apparecchi di ventilazione. Sono indagati in cinque tra responsabili delle aziende sanitarie bergamasche e l’ex direttore generale della sanità della Lombardia, Luigi Cajazzo, per la riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo trasformato in focolaio. C’è un altro filone sulla zona rossa mai fatta nella Bergamasca.

AstraZeneca, Berlino: “No a over 65”. Oggi l’Ema sulla stessa linea

Oggi l’Agenzia del farmaco europea (Ema) dovrebbe decidere se dare il via libera alla commercializzazione del vaccino prodotto da Astrazeneca. Le cose non si mettono bene per il colosso farmaceutico anglo-svedese. Ieri la Commissione per i vaccini della Germania ha detto che il prodotto verrà somministrato solo a chi ha più di 65 anni. Il perché lo spiega Silvio Garattini, farmacologo, fondatore e presidente dell’Istituto Mario Negri: “A meno che Astrazeneca non abbia presentato recentemente dei nuovi dati, quelli finora disponibili non sono sufficienti: il vaccino è stato testato fondamentalmente su persone tra i 18 e i 55 anni, solo un centinaio di casi avevano più di 55 anni. È molto difficile che l’Ema dia quindi l’autorizzazione, e per l’Italia sarebbe un grande svantaggio”, dice al Fatto Garattini.

Il progetto di Astrazeneca è quello su cui il governo italiano ha puntato di più: 40,1 milioni di dosi acquistate, 30 delle quali in consegna prevista tra gennaio e giugno, dice il ministro della Sanità. Se insomma il vaccino della casa farmaceutica non venisse approvato nell’Unione europea dall’Ema per gli over 65, ai ritardi nelle consegne di Pfizer e a quelli già annunciati di Astrazeneca si aggiungerebbe per l’Italia un altro grosso problema. Ci sarebbero meno dosi proprio per la fascia di popolazione che dovrebbe immunizzarsi entro l’estate.

L’Italia è solo esposta più di altri al rischio Astrazeneca, ma tra i 28 dell’Unione europea quasi nessuno se la passa bene. Lo scontro fra la compagnia farmaceutica e la Commissione europea continua infatti ad alzarsi di livello. Dopo l’intervista in cui l’amministratore delegato della multinazionale, Pascal Soriot, ha svelato che nel contratto con la Commissione la sua società non ha sottoscritto impegni vincolanti sulla tempistica di consegna (“faremo il meglio possibile”, ha detto), la Commissione ha risposto per le rime. Ha annunciato un’ispezione nello stabilimento belga di Seneffe, in Vallonia.

La fabbrica è quella che avrebbe avuto problemi di produzione delle quantità di adenovirus necessario a realizzare il vaccino anti-Covid: la causa principale, secondo Astrazeneca, del taglio drastico delle consegne di vaccini in Ue: da 80 a 31 milioni di dosi in questo primo trimestre dell’anno. La minaccia più seria ai produttori di vaccini è arrivata però dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Secondo quanto riportato da Reuters, Michel ha scritto una lettera ai primi ministri di Austria, Repubblica Ceca, Danimarca e Grecia per spiegare che l’Ue potrebbe ricorrere all’articolo 122 del Trattato Ue, secondo cui “il Consiglio, su proposta della Commissione, può decidere, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti”. Nella lettera Michel ha scritto: “Questo fornirebbe lo strumento legale per garantirci, adottando misure urgenti, un’efficace produzione e fornitura di vaccini per la nostra popolazione”.

Una dichiarazione di guerra aperta, che si unisce alla minaccia fatta filtrare da Bruxelles di voler bloccare le esportazioni di vaccini verso il Regno Unito o altri Paesi acquirenti. Gli ammonimenti di Bruxelles sembrano aver fatto indietreggiare Astrazeneca. In una riunione di mercoledì sera, la multinazionale britannica avrebbe offerto di effettuare tre consegne di vaccini Covid-19 all’Ue in febbraio, invece di una sola come era previsto dopo l’annuncio del ritardo. Secondo il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, però, la vera mossa a sorpresa della compagnia sarebbe un’altra: la pubblicazione del contratto con la Commissione europea.

Lombardia, i numeri non tornano. Emilia e Veneto “vedono” il giallo

Un’altra settimana in zona arancione si profila per la Lombardia e probabilmente anche per il Lazio. La certezza arriverà oggi, dopo la riunione del Cts, l’incontro della Cabina di Regia e il confronto col ministero della Salute. Diversi sono i nodi da sciogliere: per il Pirellone, per esempio, già da domani la Lombardia dovrebbe rientrare in fascia gialla, perché avrebbe già “scontato” il periodo di due settimane in zona arancione (la settimana di errata “zona rossa” più quella appena passata). L’orientamento dei tecnici, invece, sembra voler far partire il conteggio dalla settimana scorsa. Altro nodo lombardo è su quali dati il Cts sarà chiamato a decidere. In teoria su quelli inviati ieri e riferiti alla settimana 18-24 gennaio, “epurati” dagli svarioni che avevano acceso lo scontro Roma-Milano, l’ormai noto campo dello “stato clinico” a lungo non compilato. Il vero problema riguarda i dati necessari al calcolo del fattore Rt, che si riferiscono invece alla settimana precedente (dall’11 al 17 gennaio), quando la correzione ancora non era stata fatta. L’Iss fino a ieri sera, non avrebbe richiesto alcuna “rettifica” agli ultimi numeri, ma l’interlocuzione con la Regione continua. Da Palazzo Lombardia si rifiutano di commentare, preferendo “aspettare l’esito della riunione, anche per non disorientare ulteriormente i cittadini”.

Sicuramente disorientati sono i sindaci dell’hinterland milanese che continuano a lamentare il malfunzionamento del “Cruscotto”, il sistema di biosorveglianza che dovrebbe dare in tempo reale la fotografia dei malati e dei guariti. Un sistema in tilt dal 12 gennaio, tutt’ora inaffidabile. “Se fino a una settimana fa il cruscotto non cancellava i guariti, ora fa il contrario, mi spariscono i malati – racconta il sindaco di Vimercate, Francesco Sartini –. Il 21 gennaio avevo 276 cittadini infetti, la settimana successiva 1. Una guarigione generalizzata che ha del miracoloso. In compenso, mi sono spariti una cinquantina di quarantenati”. Dal Pirellone assicurano che i dati del Cruscotto – gestito dalla controllata regionale Aria – non sono gli stessi inviati all’Iss, tuttavia è indubitabile che nelle scorse settimane, a ogni variazione dei primi, si sia registrata una variazione anche dei secondi. Sia in su che in giù. E sempre ieri si sono accese le polemiche a seguito della pubblicazione del monitoraggio dell’associazione Gimbe, secondo cui il 51% dei vaccini in Lombardia sono andati a persone “non di ambito sanitario”. La percentuale più alta d’Italia, che però la Regione contesta: “Il dato corretto è 21%”.

Detto della Lombardia, il nuovo monitoraggio in arrivo oggi non dovrebbe contenere grandi sorprese. Toscana, Campania, P.a. Trento, Basilicata e Molise dovrebbero rimanere zona gialla, mentre un passaggio da arancione a giallo potrebbe aversi in Calabria, Emilia-Romagna e Veneto.

Lazio, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Marche, Friuli Venezia-Giulia, Abruzzo dovrebbero rimanere arancioni. Tutte queste regioni, da due settimane, fanno registrare performance migliori rispetto al monitoraggio del 14 gennaio che ne ha decretato il colore. Il Dpcm prevede che la nuova classificazione scatti in caso di permanenza in un livello di rischio inferiore a quello che ha determinato le misure restrittive “per 14 giorni”, ma la tendenza del ministero è quella di far decorrere i 14 giorni dalla data delle prima certificazione di miglioramento, dunque dalla settimana successiva dalle restrizioni. Ciò significa che per l’eventuale passaggio in giallo bisognerà aspettare il monitoraggio del 5 febbraio. Lo stesso vale per Puglia, Umbria e Sardegna, Sotto osservazione P.a. Bolzano e Sicilia, a oggi zone rosse.

L’epidemia, intanto, si mantiene su livelli stabili: ieri 14.372 nuovi casi e 492 morti, 275.179 tamponi e tasso di positività al 5,2%. Diminuiscono ancora i ricoveri (-383) e i malati in terapia intensiva (-64).

“Avrò fatto una cazzata o salvato il centrodestra?”

Il protagonista dell’operazione autoimmune (per tre ore è passato col centrosinistra aggredendo gli organi del centrodestra, alla quarta si è ravveduto, alla quinta è tornato al centrodestra, alla sesta e settima ha riconfermato l’opzione immunizzando la coalizione di primitiva appartenenza) si è appena svegliato da una breve, ma ristoratrice pennichella.

Luigi Vitali ha incocciato in quello che gli economisti chiamano stress test.

Giornata inenarrabile, ciclopico mal di testa, enorme indagine nel foro interiore. Domando: ho fatto una cazzata, come dicono, oppure ho messo anch’io un granellino per la soluzione della crisi?

A primissima vista sembrerebbe che lei per un quarto d’ora abbia politicamente perso i sensi.

Dunque capitombolo e cazzata per lei. Invece, al fondo imperscrutabile del mio atto clamoroso, la determinazione di costringere il mio schieramento a contrastare la deriva delle elezioni. Ma con una pandemia in corso, dove vuoi andare?

Il senatore Vitali è avvocato di Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi. Fu chiamato da Berlusconi al governo per cucire un vestito su misura per Cesare Previti. Una norma che lo salvasse dal carcere. Lei fu il sarto ineguagliabile.

La mia storia con FI documenta, al di là di ogni ragionevole dubbio, quale sia la connessione, l’amicizia, l’identità di vedute.

E però per un pomeriggio se n’è andato con Conte.

In punta di principio, può apparire ciò che non è.

Lei comunque non vede con sfavore un Conte ter.

Il governo faccia, non cincischi. Lavori, non passeggi. Dobbiamo battere la pandemia, attuare il Recovery. Ma, e qui c’è il ma, non intravede nella soluzione della crisi anche il mio piccolo dietrofront?

Il centrodestra ha mutato notevolmente posizione.

E crede che sia un risultato da poco?

Prima diceva che era soddisfatto pure per Conte.

Se avrà i numeri il Parlamento dovrà inchinarsi.

Lei ha superato quella che in medicina si chiama prova da sforzo.

Posso dirle: veramente una prova da sforzo.

Quando è tornato a casa, sua moglie Clementina le ha aperto la porta?

Sempre solidale, è stata fantastica.

Una solidarietà attiva o compassionevole?

Be’, m’ha ricordato che mi aveva detto che facevo una cazzata, però benevolmente.

Comunque il suo non era un atto interessato alla poltrona.

A cosa?

Dicevo per dire.

Lei pensa che in una situazione come la mia…

Non ne parliamo proprio.

Chi non mi conosce potrà aver pensato.

Comunque è sia andato che ritornato. E se prima ha accettato, dopo ha rifiutato.

Ora sono fermo.

Renzi al principe: “Invidio il vostro costo del lavoro”

“Buongiorno a tutti, è un grande piacere per me essere qui con il grande principe ereditario Mohammed bin Salman. Grazie davvero per questa opportunità. Per me è un particolare privilegio parlare con te di Rinascimento”. Mentre Matteo Renzi sale i gradini di marmo del Quirinale per le consultazioni di una crisi che lui stesso ha causato, c’è un altro Renzi a migliaia di chilometri di distanza che intervista (eufemismo) l’erede al trono di un regime brutale, accusato tra l’altro della morte di Jamal Khashoggi, il giornalista fatto a pezzi e sciolto nell’acido nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul.

L’evento a cui partecipa Renzi si svolge a Riyad, capitale del Regno. È stato trasmesso il 27 e il 28 gennaio sui canali telematici del Future Investment Initiative, una piattaforma della famiglia reale saudita. Il contributo di Renzi con Bin Salman è stato registrato nei giorni scorsi e mandato in onda ieri, mentre l’ex premier rientrava precipitosamente a Roma (su un volo privato offerto dal Fii) per guidare la delegazione di Italia Viva al Quirinale.

Due Renzi in contemporanea: quello pubblico, senatore e capo di partito, di fronte a Sergio Mattarella per la soluzione di una crisi scatenata per sanare il “vulnus democratico” del governo Conte. L’altro è il personaggio privato, imprenditore di se stesso, conferenziere a libro paga di un regime autoritario che calpesta i diritti umani, a Ryad nel quadro di un accordo da 80mila dollari per far parte del board della Future Investment Initiative.

In video l’ex premier si mostra sorridente e affettuoso. Sfoggia completo e cravatta scuri, una camicia bianca e l’inglese maccheronico che l’ha trasformato in uno dei meme di successo del 2021. Si esprime con ampi gesti, senza timidezze. Si dice particolarmente entusiasta di parlare di Rinascimento, paragona quindi l’epoca storica che ha visto fiorire la sua Firenze e le città italiane con l’eccezionale sviluppo del regime saudita negli ultimi anni: “Io sono l’ex sindaco di Firenze, la città del Rinascimento. Il Rinascimento italiano divenne grande dopo la peste, dopo una pandemia. Credo che l’Arabia Saudita potrebbe essere il luogo di un nuovo Rinascimento per il futuro. Quindi, Vostra altezza, grazie molte e benvenuto”.

L’intervista di Renzi dura poco più di un quarto d’ora. Per l’ammirevole quantità e qualità di complimenti che l’ex premier italiano riesce a pronunciare in un tempo così ridotto, assume la fisionomia di un’intensissima marchetta, molto ben retribuita. “Quando in tutto il mondo parliamo di Arabia Saudita – aggiunge un entusiastico Renzi con prosa quasi carveriana – parliamo dell’importanza del vostro Paese come un attore molto buono nella Regione, nel mondo; ma molte persone ignorano i grandi sforzi nello sviluppo delle città, dalle piccole città alle grandi città come Riyad” (la traduzione è letterale, ndr).

Il principe è in camicia nera, kefiah a trama biancorossa in testa, barba curata e sorriso di gesso. Sembra condividere il buon umore quasi fanciullesco del suo interlocutore.

Le domande di Renzi sono inesorabili: “Qual è, Vostra altezza, il ruolo di Riyad per guidare la trasformazione del Regno? Pensa che questo progetto sia capace di attrarre nuovi talenti? Per me è stato davvero impressionante lavorare con giovani uomini e donne in molti progetti sauditi, siete una delle più incredibilmente giovani popolazioni del mondo”.

Pochi secondi dopo, dal sorriso sussiegoso di Renzi esce la vera perla della giornata, la pietra miliare della sua trasferta saudita: “Non parlatemi del costo del lavoro a Riyad, perché da italiano sono molto geloso”.

L’ha detto davvero: l’ex presidente del Consiglio ha lodato il mercato del lavoro saudita. Quello di un Paese dove non esistono partiti politici, figuriamoci i sindacati. Dove non si sa nemmeno cosa sia uno sciopero. Dove i salari dei lavoratori autoctoni non sono nemmeno così bassi (1.300 dollari di media secondo il governo locale), ma il trattamento degli stranieri è assimilabile allo schiavismo (come denuncia tra gli altri Amnesty International) e le donne guadagnano la metà degli uomini. Renzi ne è “invidioso”: lui si è dovuto accontentare del Jobs Act.