Vitali cambia idea, Letta ci prova. L’ultimo valzer di Forza Italia

La stima è reciproca e di lunga data (ma sempre con le dovute formalità: “Presidente”, “Dottore”), la strategia una conseguenza diretta. Gianni Letta non è il classico “pontiere” di Giuseppe Conte, ma quasi. Non è né Goffredo Bettini, né Dario Franceschini. È un di più, l’asso nella manica per aprire varchi, trattare col nemico (Forza Italia), disegnare geometrie variabili. Ergo: “Allargare” la maggioranza. E allora – oltre ai convenevoli di rito democristiano – c’è di più: un piano preciso. “Il cavallo di Troia di Conte in Forza Italia non è Berlusconi, ma Gianni Letta” spiffera un big forzista nei corridoi di Palazzo Madama. Veleni, scorie pregresse, certo, ma un fondo di verità: Letta e Conte si sentono spesso in queste ore e non è un caso che i forzisti indecisi al Senato abbiano ricevuto la telefonata diretta del “Dottore” – governista da sempre – per essere convinti non a rimanere nel centrodestra compatto ma, sorpresa, ad “aiutare” il premier tanto più ora che da Chigi è arrivato l’appello alle forze “liberali, popolari ed europeiste”. “Sono da sempre i nostri valori…” ci prova il Richelieu di Arcore con il solito tono ossequioso.

Finora non ci è riuscito, sicuramente non con i due senatori campani Mimmo De Siano e Luigi Cesaro (che si vanta di poterne portare almeno altri due) che gli hanno opposto un gran rifiuto. Ma non è escluso che nelle prossime ore non ne possano arrivare altri. E la fuoriuscita durata il tempo di una notte del senatore Luigi Vitali, convinto a tornare sui suoi passi solo dalle chiamate di Silvio Berlusconi (“Sei iscritto dal 1995”) e Matteo Salvini (“Mi sono piaciuti i tuoi interventi sulla giustizia”) e da un “blitz” dei senatori leghisti sotto casa, è solo una spia.

Basti pensare che nelle chat forziste mercoledì sera girava con insistenza il messaggio di Vitali ai colleghi: “Sono stato maltrattato e preso a calci in bocca da Antonio Tajani” diceva il senatore pugliese. E quindi gli ordinari malumori nei confronti dei vertici “troppo appiattiti sulla Lega” (Tajani-Ronzulli-Bernini), ora sono diventati tormenti, considerando che – in caso di elezioni anticipate – Forza Italia riporterebbe in Parlamento al massimo 40 deputati sui 145 attuali. E non è un caso che ieri Antonio Tajani abbia allontanato le elezioni parlando di “governo dei migliori”. Ma chi sa già che la sua strada è segnata, si è iniziato a guardare intorno. Si parla di almeno 4-5 senatori e di 15 deputati, quelli vicini a Mara Carfagna che, al termine della crisi, lascerà Forza Italia. Tutti gli occhi sono puntati su Maria Tiraboschi, Sandro Biasotti, Barbara Masini e Anna Carmela Minuto.

Proprio Minuto, secondo un pontiere, viene data molto vicina a passare con la maggioranza. Il perché è presto detto: il seggio della senatrice di Molfetta, alla prima esperienza parlamentare, è in bilico dopo che la giunta ha contestato la legittimità del suo ingresso a Palazzo Madama ritenendo fondato il ricorso del forzista Michele Boccardi. Minuto accusa il partito di non averla sostenuta (il presidente della giunta è Maurizio Gasparri) e passare nelle file della maggioranza l’aiuterebbe a mantenere il seggio.

La stessa situazione riguarda il renziano Vincenzo Carbone, ex FI eletto in Campania il cui scranno è insediato dal presidente della Lazio, Claudio Lotito. Ora che Italia Viva è passata all’opposizione, Carbone rischia grosso e per questo un sostegno ai giallorosa potrebbe farlo stare tranquillo.

Ma gli sherpa dem lavorano anche sugli ex renziani che potrebbero tornare nel Pd. C’è Mauro Marino, in silenzio da giorni, il cui ritorno nei dem viene dato per certo ma anche i senatori Leonardo Grimani ed Eugenio Comincini che giovedì notte, nella riunione dei parlamentari, invitavano Renzi alla cautela, a deporre l’ascia di guerra. Il leader di Iv sa che quei tre sono già persi, ma li ha convinti a rimanere almeno fino alla fine delle consultazioni per vedere cosa succede e continuare a negoziare da una posizione di forza.

Se oggi il M5S mette il veto su Iv, resta solo il “governo del Colle”

La consolidata maieutica demo-socratica di Sergio Mattarella è chiamata ancora una volta a un compito impervio. Far partorire, cioè dalle condizioni date, un governo anziché la verità come faceva il filosofo greco. E le condizioni sono complesse, come emerso dalla seconda giornata di consultazioni al Quirinale nella crisi aperta da Italia Viva.

Ovviamente il capo dello Stato ha ascoltato con attenzione la delegazione di Iv, capeggiata da Matteo Renzi. Ma ha segnato sul suo quaderno anche frasi e impressioni raccolte nei colloqui con Leu, altra forza di governo, e con il Pd di Nicola Zingaretti. E il quadro tratteggiato a fine giornata non sbiadisce il nero del buio di questa crisi. Al momento, in attesa di ricevere oggi gli esponenti del M5S, le opzioni del presidente sono due. La prima conduce alla maggioranza giallorossa uscente. Questo perché, nella valutazione del Quirinale, ormai non si dà più credito all’operazione dei Costruttori o Responsabili che siano, dopo la sceneggiata consumata dallo scafato berlusconiano Luigi Vitali. Ergo le basi teoriche per un Conte ter fanno conto su 5S, Pd, Iv e Leu.

Si parte dunque dall’atteso incontro con Renzi e i renziani. Per il Colle non ci sono stati i toni dirompenti dettati dalle veline degli italo-viventi. Sono stati meno netti, meno assertivi. Questione di sfumature. Ché il presidente riassume così la sostanza delle parole di Renzi: non siamo ancora pronti per il Conte ter, quindi chiediamo una fase esplorativa. Naturalmente ad avere un mandato da esploratore non sarebbe Conte, in quanto parte in causa, diciamo così, ma una figura istituzionale come quella del presidente della Camera, Roberto Fico, grillino dall’anima di sinistra. Il mandato servirebbe anche a chiarire altre ombre. Per esempio, i rappresentanti di Leu hanno detto sì ai renziani ma no a Renzi nel governo. Non solo. Finanche il Pd deve sciogliere la sua ambiguità su Italia Viva: nessun veto in merito, ma tanta freddezza e diffidenza.

Il nodo principale riguarda però i 5S e di riflesso lo stesso premier. Cosa diranno oggi a Mattarella? Manterranno il loro slogan “o Conte o morte” oppure cederanno riaprendo agli odiati italo-viventi?

Questa è la cruna dell’ago, strettissima, del primo giro di consultazioni che si concluderà oggi.

Se dai Cinque Stelle arriverà un sì di massima, allora il presidente potrà pensare a un esploratore per rimettere insieme i pezzi della maggioranza, vista la latitanza dei Costruttori.

Viceversa se i pentastellati manterranno la posizione anti-renziana non ci sarà nulla da esplorare. A quel punto Mattarella stesso condurrà un secondo giro di colloqui. E sullo sfondo c’è un classico delle crisi al buio: il governo del presidente e poi le elezioni anticipate. Insomma, ancora poco e il capo dello Stato potrebbe mettere sul tavolo l’arma dello scioglimento anticipato del Parlamento. Solo così si riusciranno a stanare i “giocatori” di questo primo giro che potrebbe andare a vuoto.

L’unica variabile in grado di ribaltare tutto è una riuscita in extremis dell’operazione Responsabili. Al di là però della farsa Vitali, anche qui si sta mettendo in scena un teatrino grottesco e opportunista allo stesso tempo. Alcuni infatti aspettano di capire dove porteranno le mosse di Renzi, per poi muoversi. Ma il rischio è che la situazione sfugga di mano e si arrivi troppo tardi a salvare Conte.

L’ultima di Matteo: chiede “esploratori” per spaccare il Pd

Abito scuro, cravatta scura ed espressione ancora più scura, Matteo Renzi, uscendo dalle consultazioni al Quirinale, fa l’ennesimo strappo. Ventisette minuti di comizio nella Sala alla Vetrata con un tono nervoso che cresce di decibel e la dice lunga sulla portata dell’azzardo per ribadire innanzitutto un punto: “La caccia al singolo parlamentare fino a oggi non ha prodotto un’altra maggioranza. Attendiamo di capire nelle prossime ore se la valutazione è voler coinvolgere Iv e nel caso discutere delle idee”. Senza Italia Viva, è il messaggio, non esiste maggioranza. Più o meno in contemporanea, fonti Iv fanno sapere che l’ex premier è andato a dire a Sergio Mattarella che non è ancora disponibile all’incarico a Conte. “Ancora”, non in assoluto. Una posizione attendista, nell’ennesima partita a poker. Perché, “prima di tutto c’è da chiarire politicamente se c’è la maggioranza”. Nel caso non ci sia “a noi va bene un governo del Presidente”. Per cui, “no a incarico a Conte ora, sì a un mandato esplorativo”.

Gioca su due o tre tavoli, l’ex premier: un Conte ter, con il premier umiliato; un governo politico, guidato da un ticket Gentiloni premier e Draghi all’economia (o Sassoli premier); un governo del presidente.

Vuole un riconoscimento politico, ma non solo. Vuole andare fino in fondo, vuole cacciare da Palazzo Chigi Giuseppe Conte, ma in un colpo solo affondare anche il Pd di Nicola Zingaretti, che sull’amalgama “giallorosso” ha puntato praticamente tutte le sue fiches. E per farlo si gioca anche la carta del governo istituzionale, che si dice disposto ad appoggiare, pure se come seconda opzione rispetto a un governo politico. Non a caso davanti alle telecamere fa più volte il nome di Draghi. Lo stesso che piace al leghista Giancarlo Giorgetti, proprio mentre il Carroccio fa intravedere spiragli rispetto alla possibilità di un esecutivo come questo. Che, peraltro, sarebbe per il Pd l’operazione peggiore e darebbe il via alla spaccatura finale, tra chi (Zingaretti, Bettini Orlando) se l’opzione Conte naufraga vuole andare al voto, e tutti gli altri, in variegate posizioni.

Sulla strada di un progetto che punta ad annichilire anche l’influenza di Massimo D’Alema sul ministero dell’Economia, come su quello della Salute, c’è però il gruppo di Iv. In uscita, dal giorno del ritiro delle ministre di Iv, se ne danno almeno 5, oltre a Riccardo Nencini: Mauro Maria Marino, Eugenio Comincini, Leonardo Grimani, Annamaria Parente, Nadia Ginetti. Ieri hanno reagito con rabbia davanti alla performance di Renzi. Ma per ora nessuno si muove. Anche perché lui ancora li stuzzica con l’idea di un altro governo e una soluzione “alta”. Fatto sta che se si sfalda il gruppo di Iv, il senatore di Rignano perde la sua partita, se continua a rimanere compatto, allo stato un’altra maggioranza non c’è.

Va detto che mentre Renzi parla al Colle – scortato da Teresa Bellanova, Davide Faraone e Maria Elena Boschi – i big del Pd ascoltano furibondi. “Se parla un altro po’, anche noi mettiamo il veto su di lui”, è la battuta piuttosto illuminante di un ministro. Dopo la telefonata di Conte, il segnale che Renzi aspettava, l’attacco al governo, l’evocazione del Mes sembrano l’ennesima sconfessione della linea del Nazareno, con tanto di porte aperte, per quanto a malincuore, al figliol prodigo.

Non a caso, la delegazione dem è più mesta del solito. Il segretario interviene davanti alle telecamere solo per dire che il Pd rinnova il suo appoggio a Conte e punta a una maggioranza allargata (dunque comprensiva di Italia Viva). Non accetta domande, non alza praticamente mai lo sguardo. Il rebus è di difficile soluzione, Renzi si rivela ancora una volta un pericoloso nemico, più che un alleato affidabile. Per questo, Andrea Orlando a Otto e mezzo si dà a una sorta di contorsionismo interpretativo: “Per riprendere Renzi in maggioranza bisogna capire se Renzi pone un veto su Conte o no, cioè se è vero quello che ha detto al Quirinale o se è vero quello che ha fatto uscire dopo sulle agenzie”.

Conte lo chiama, Renzi rifiuta: fallisce l’ultimo segnale al Rottamatore

Di sera l’avvocato si chiude nel suo studio a Palazzo Chigi con alcuni ministri dei Cinque Stelle. Discute e riflette sulla linea, Giuseppe Conte, perché la sua strada si è fatta strettissima, proprio come quella del Movimento che vorrebbe disperatamente tenerlo lì, a Chigi. Vuole ancora provarci, giurano, tornare al governo per la terza volta. E a questo punto riflette seriamente se riprendersi così com’è l’avversario, Matteo Renzi, senza Responsabili a neutralizzarlo. Di certo non gli darà più “segnali” pubblici, come raccontano da ambienti di governo. Perché ieri pomeriggio Renzi dal Quirinale ha agitato la sua testa come un trofeo, scandendo il suo no a un incarico a Conte. “Meglio un mandato esplorativo a un’altra personalità” ha detto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’incontro che potrebbe essere lo snodo delle consultazioni. Uno sfregio voluto all’ex premier, che pure nel pomeriggio gli aveva telefonato, facendo quello che non avrebbe mai voluto fare, almeno non ora. “Il premier non avrebbe mai raccontato di quella telefonata, non è nel suo stile” dicono da ambienti di Chigi. Ma in fondo si aspettava il gesto di Renzi.

L’ennesima provocazione del senatore con cui ieri Conte voleva riaprire un canale: perché non poteva fare diversamente. Di nuovi Responsabili, di altri senatori per allargare la maggioranza e normalizzare Iv, l’avvocato non riesce proprio a trovarne, anzi mercoledì notte ne ha perso anche uno, il forzista Vitali, riportato all’ovile del centrodestra da Matteo Salvini. Sbatte e risbatte contro i numeri, che non ci sono. E allora ha dovuto calare subito una carta che preferiva tenersi in serbo, richiamare al tavolo l’ex capo di Iv. Ma al fu Rottamatore che si nutre di rilanci non poteva bastare. Così nel colloquio Renzi ha spiegato a Conte che, per carità, non ha mica riserve di carattere personali nei suoi confronti, “però c’è un enorme problema politico”, come ha fatto sapere ieri sera dal Quirinale. Il teatro delle consultazioni, dove è andato a dire al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che l’incarico di provare a formare un nuovo governo non va dato a Conte, per lo meno non ora. Nella sera in cui assapora il sapore del sangue altrui non si tiene, il capo di Iv, improvvisando un comizio da dove non se ne dovrebbero fare, dal Colle. Picchia: “C’è stato uno spettacolo indecoroso, la caccia a al singolo parlamentare”.

Pare già storia passata, la ricerca dei Responsabili, e così lui può infierire: “Non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se ce n’è una”. Tradotto, senza di lui a occhio proprio non c’è, per lo meno non quella che serve per navigare in acque tranquille. E da lui dovranno ripassare, “dirci se ci vogliono”. È anche un modo per gettare la palla nel campo dei 5Stelle, per dividerli. Sa che il M5S fino a pochi minuti prima era compatto almeno su un punto, o Conte premier o il voto. Volevano andare a dire questo a Mattarella, nell’incontro fissato per oggi pomeriggio. Ma oggi al Colle dovranno anche dire se hanno veti verso il nemico che li aspetta al varco, Renzi. E sarà difficile indicare l’alternativa delle elezioni al presidente della Repubblica che, lo sanno tutti, di voto non vuole sentire parlare in tempi di pandemia. “La nostra linea non può cambiare” quasi urlano un paio di big. Ma di questo discute lo stato maggiore in nottata con Conte, mentre avanza l’ipotesi di un mandato esplorativo al presidente della Camera, Roberto Fico.

Un grillino stimato dal Pd e, dicono, non inviso a Iv. “Potrebbe essere lui l’alternativa a Conte” dicono fonti trasversali. Cioè trasformarsi da esploratore a premier. Ma è presto. Prima ci sono ore che potrebbero essere un’eternità. E di certo c’è la rabbia dei big di governo del M5S. Una fonte qualificata la racconta così: “A Renzi erano stati mandati segnali negli ultimi giorni, soprattutto dal Pd. Lo avevano invitato a smettere con la tattica e a trattare davvero, a discutere”. Invece no, “è arrivato a diffondere una telefonata con Conte, ha voluto bruciare i ponti”. Perché lui è così, “ha rilanciato e rilancerà sempre”. Una terza resurrezione politica dell’avvocato, un Conte ter, sembra ormai più una speranza che un’ipotesi. Dipende anche da quanto l’avvocato sarà disposto sopportare. “Ma la situazione è molto critica” sussurra un ministro a notte inoltrata.

Oronzo e Coerenzi

Che esistessero i responsabili incoerenti (dall’opposizione alla maggioranza, o viceversa) e quelli coerenti (dalla maggioranza all’opposizione alla maggioranza, o viceversa), si sapeva. Ora però, con Giggetto Vitali, s’avanza una terza specie: quella dei responsabili coerenti-incoerenti-coerenti (o viceversa), detti anche voltagabbana di andata e ritorno, eletti con l’opposizione, passati alla maggioranza e rientrati in sei ore all’opposizione dopo le telefonate di B. e Salvini. Perché oggi, sul mercato, un chilo di senatore apolide costa più del caviale albino di storione bianco. E non tutti se lo possono permettere. Ci si contenta di una coscia da fare arrosto, una lingua in salsa verde, un’ala in salmì, una frattaglia in soffritto, un rognone trifolato, una zampetta in bianco, un piedino bollito. Per orientarsi nella crisi più pazza del mondo, ci vorrebbe Oronzo Canà, cioè Lino Banfi allenatore nel pallone, detto anche la Iena del Tavoliere e il Vate della Daunia, immortale profeta della “bizona” col modulo tattico del 5-5-5: “Mentre i cinque della difesa vanno avanti, i cinque attaccanti retrocedono, e viceversa. Allora la gente pensa: ‘Ma quelli che c’hanno cinque giocatori in più?’. Invece no, perché mentre i cinque vanno avanti, gli altri cinque vanno indietro e durante questa confusione generale le squadre avversarie si diranno: ‘Ah! Ah! Che cosa sta succedendo?’. E non ci capiscono niente”.

Lui sì che, alla Longobarda, sapeva fare le campagne acquisti: “Sono riuscito ad avere i tre quarti di Gentile e i sette ottavi di Collovati, più la metà di Mike Bongiorno. In conclusione, noi abbiamo ottenuto la comproprietà di Maradona in cambio di Falchetti e Mengoni”. Anzi no: “Attraverso le cessioni di Falchetti e Mengoni riusciamo ad avere la metà di Giordano, da girare all’Udinese per un quarto di Zico e tre quarti di Edinho…”. Ora, dinanzi all’immondo mercato di tre quarti di Vitali, sette ottavi di Ciampolillo più la metà della Rossi e le comproprietà di Rossi e Polverini, era naturale che la coscienza dell’anima più pura della politica italiana, quella che “abbiamo rinunciato alle poltrone di Teresa, Elena e Ivan perché per noi contano le idee”, quella che sopra la firma appone sempre “un sorriso”, insomma l’Iscariota di Rignano ribollisse di sacro sdegno (aggravato dal fatto che noi del Fatto andiamo troppo in tv per rimediare ai suoi flop d’ascolto, mentre lui è bandito da tutti i media nazionali): “La creazione di gruppi improvvisati è un autentico scandalo!”. Giusto, vergogna. Sarebbe come se un ex premier ed ex segretario del Pd annunciasse il ritiro dalla politica, poi ci restasse, si ricandidasse e si facesse rieleggere sempre nel Pd.

Dicesse no a un governo col M5S, poi rompesse le palle al Pd per fare il Conte-2 coi M5S e due mesi dopo se ne andasse per fondare un partito detto comicamente Italia Viva, creando “gruppi improvvisati” che sono “un autentico scandalo” e poi, non contento, promettesse agli sventurati di “arrivare a fine legislatura ed eleggere il presidente della Repubblica”, “chi vuole scendere prima può farlo, noi non stacchiamo la spina, vogliamo attaccare la corrente” e subito dopo picconasse il governo, rinviasse la crisi causa Covid e ricominciasse un anno dopo, desse a Conte del “vulnus per la democrazia” col contorno di insulti, calunnie e minacce, ritirasse le sue ministre dal governo come pedalini dalla tintoria e infine, scatenata la crisi in piena pandemia, dicesse: “Dopo il fango è tutto chiaro: la crisi non l’ha aperta Iv”. E non arrivasse l’ambulanza a portarlo via. Poi salisse al Colle, lo facessero entrare e uscisse accusando gli altri di insultarlo e “dare la caccia al singolo parlamentare”, essendo il leader di un partito formato da una trentina di singoli parlamentari eletti nel Pd più due ex M5S (tra cui uno espulso perché massone), tre ex FI, due ex LeU, un ex montian-verdiniano ecc.

E si scordasse ciò che disse il 14.01.2010 a Porta a Porta a Paola Binetti, che aveva osato lasciare il Pd per l’Udc con Enzo Carra: “La tua posizione, di Carra e altri è rispettabile, ma dovevate avere il coraggio di dimettervi dal Pd e dal Parlamento, perché non si sta in Parlamento coi voti presi dal Pd per andare contro il Pd. È ora di finirla con chi viene eletto con qualcuno e poi passa di là. Vale per tutti. Se c’è l’astensionismo è anche perché se io decido di mollare con i miei, mollo con i miei – è legittimo – però rispetto chi mi ha votato e non ha cambiato idea”. E il 22.02.2011 ribadì: “Se uno smette di credere in un progetto politico, non deve certo essere costretto con la catena a stare in un partito. Ma, quando se ne va, deve fare il favore di lasciare anche il seggiolino”. Purtroppo non lo ripeté ad Alfano quando prese un pezzo di FI e fondò Ncd per tener in piedi il governo Letta e poi il suo. Né a Verdini quando prese un altro pezzo di FI e fondò Ala per puntellare il suo governo. Né a se stesso nel 2019 quando fondò Iv per “svuotare il Pd”, ma anche FI: “Porte aperte a chi vorrà venire in questo progetto, non da ospite ma da dirigente. Vale per Mara Carfagna e altri dirigenti FI. Iv è un approdo naturale per tutti, è questione di tempo”, “C’è un mercato politico che guarda con interesse a noi. Parlamentari di FI molto seri stanno riflettendo e speso che già dai prossimi giorni possano valutare l’adesione a Iv”. Oronzo, pensaci tu: “Oh, mi avete preso per un coglione! E mi fa male!”.

Rocky e i suoi fratelli: Balboa compie 45 anni. E Stallone 75

Il destino nel nome: Rocky. Il 2021 è un anno capitale per Balboa, che festeggia i quarantacinque anni dall’epifania sul ring cinematografico, e per il suo alter ego, Sylvester Stallone, che il prossimo 6 luglio ne fa settantacinque.

Prima di spegnere le candeline, l’etimo: “Anche Rocky Balboa, a dimostrazione che tutto si tiene, è un ‘Rocky’ come Rocky Barbella, Rocky Graziano e Rocky Marciano”. La memoria storica, e cinefila, è di Diego Gabutti, che oggi porta in libreria Il grande Sly – Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario (Milieu), un ipertesto eterodosso e appassionato, zeppo di citazioni, divagazioni, estroversioni.

Mai peregrino: Barbella’s recita l’insegna della palestra che la mamma separata di Sly, Jacqueline Labofish, gestisce a Philadelphia, e “Barbella è il cognome di Paul Newman in un classico film di pugilato, Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956)”. Per scansare la Corte marziale quel Barbella si farà chiamare Graziano, ispirandosi a Rocky Marciano, campione del mondo dei pesi massimi dal 1952 al 1956. Già, Rocky e i suoi fratelli.

Pugni pesanti: ventotto giorni appena di riprese, la miseria di un milione di dollari di budget, un incasso, il primo dell’anno, di duecentoventicinque milioni e tre Oscar, per regia (il prestanome John G. Avildsen), sceneggiatura e attore protagonista, doppietta riuscita prima di Sly solo a Charlie Chaplin e Orson Welles.

Ha trent’anni e dal quartiere di Hell’s Kitchen ne ha fatta di strada, accettando tutto o quasi, porno compreso, fino a divenire della sua città natale, come vuole New York, New York, “top of the list, king of the hill”.

Scarpe grosse, cervello fino e cuore proletario, perché Gabutti dribbla le icone, Rocky e Rambo, e trova il fotogramma rivelatore: in copertina campeggia F.I.S.T., diretto da Norman Jewison, riscritto dall’attore, ispirato a Jimmy Hoffa e i Teamsters, con il nostro che guida un novello Quarto Stato in camicia, bretelle, cravatta (nascosta) e randello.

Nessuno stupore, Stallone incarna “in via definitiva l’eroe proletario, il warrior, il reduce, il sindacalista, lo street fighter, il pugile, il portiere antinazista di football, l’evaso e il mercenario, il giustiziere sociale: l’intera specie in una sola star. È dai lombi di Furore – il grande film di John Ford, il grande romanzo sociale di John Steinbeck, scrittore rooseveltiano e anticomunista – che rampolla e prende forma il suo personaggio”.

Pugni pensanti: al tappeto dovremmo mandare i pregiudizi, e ritrovare il cineasta Stallone, levandogli i muscoli di troppo, le ciofeche cui s’è prestato e il successo che ne ha sconfessato la considerazione critica. Con nostro sommo sbigottimento, “avrebbe potuto essere un riverito regista-attore, come Allen e Eastwood, che erano forse meno grezzi e più esperti di lui, ma non tanto più talentuosi. Taverna paradiso, F.I.S.T. e il primo Rocky ne sono l’incontestabile testimonianza.

Eastwood, in quegli anni, non aveva fatto di meglio: Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) o L’uomo nel mirino (1977) sono modeste varianti dei film di Sergio Leone e Don Siegel… Allen è di un’altra classe, d’accordo. Ma come la mettiamo con Interiors (1978) e Stardust Memories (1980)? Qualcuno può seriamente dichiarare questi due film alleniani superiori al primo Rocky?”.

Già, e se Stallone fosse (stato) bravo, addirittura (il) più bravo? Non solo originale, ma risonante e modellizzante, capace di fare del primo John Rambo un Jack Kerouac guerriero, dei Mercenari il De profundis di un’epoca, e un genere (action), di Philadelphia – ci perdoni Matteo Salvini che ha piazzato la celebre scalinata a Washington – un locus ipercinematografico, di Rambo, ancora, e Rocky cartine al tornasole della geopolitica americana.

Dopo cinquant’anni al tavolo di scrittura, dietro e davanti la macchina da presa – ne Il grande match e Cop Land regge il confronto con “Eleonoro Duse” Robert De Niro – “Sly meriterebbe una maggiore considerazione, ma non l’avrà: il cinema è crudele, e i suoi giudizi a caldo inappellabili, anche quando si rivelano infondati, oltre che avventati”.

 

“Gli scrittori mi fanno vomitare: la vita ha senso solo se si ha l’orgoglio del fallimento”

Mio caro Arsavir, grazie per la tua gentile e, credo, sentita lettera. Il mio libro non è stato assolutamente un “successo” (che parola sciocca!). Credimi, non ne sono amareggiato. Comunque, ho rotto con la scena letteraria di qui, molto tempo fa, e il solo vedere uno “scrittore” mi fa venire voglia di vomitare. Detto ciò, il mio tempo è divorato da seccatori e anche da amici. Sfortunatamente, tutti vengono a Parigi. Sono settimane che non ho una serata libera. Vado a letto tardi, stanco, esausto, e mi sveglio il giorno dopo disgustato da me stesso, dagli altri, da tutte le chiacchiere, che a volte sono interessanti, lo ammetto, ma il più delle volte vane, sciocche, ridicole. Da molte settimane, inoltre, non ho scritto una sola pagina. Per fortuna, da buon valacco, mi dico che non ha alcuna importanza. Le mie origini mi saranno servite a qualcosa. Grazie a esse, il mio scetticismo si rinnova e si rafforza.

Mi sono piaciute le poesie di Emil Botta, soprattutto Un vis. Hai letto la sua În luna lui Mai apparsa in România Literara? Sono molto sensibile al suo profondo sconforto, al suo angelismo funebre. La nostra generazione ha conosciuto tutte le forme di sconfitta: come non esserne orgogliosi? Inoltre, detto tra noi, senza l’orgoglio del fallimento, la vita sarebbe a stento tollerabile.

Parigi, 11 giugno 1969

 

Mio caro Arsavir, condivido le tue opinioni disilluse sulle vacanze, su questa nuova religione, perché proprio di questo si tratta! – la peggiore. Negli ultimi anni non si può più viaggiare d’estate. È impossibile trovare una stanza da qualche parte. Milioni di persone in movimento. Una cosa del genere non accadeva dai tempi delle invasioni barbariche. Prima potevo visitare l’Inghilterra, la Spagna, l’Italia cambiando posto ogni giorno; ora non posso. Così ho concluso la mia carriera da turista. Sono qui, in riva al mare, in un luogo dove c’è poca gente, poiché fa freddo e la spiaggia è priva di sabbia… Meglio così! Vivere senza telefono, senza visite, senza connazionali, senza appuntamenti di qualsiasi tipo: è questo il paradiso. Non puoi immaginare il tempo che spreco a Parigi in chiacchiere. Gente di tutto il mondo viene lì, e io non vado da nessuna parte.

Le ore che ho passato negli ultimi anni in conversazioni insipide, avrei potuto usarle per imparare il cinese o il sanscrito. Spesso mi dico che, se potessi ricominciare la mia vita, mi occuperei di filosofia orientale, più precisamente induista. Bisogna avere dei rimpianti, preferibilmente nobili…

Dieppe, 28 agosto 1972

Il dracula dei filosofi. Cioran

È l’idea del suicidio – dice – ad averlo tenuto in vita. E ha funzionato: a dispetto dei nervi e della gastrite, Emil Cioran è campato quasi 90 anni, 84 per la precisione (1911-1995). Ora, a un secolo e due lustri dalla sua nascita, Mimesis licenzia L’orgoglio del fallimento. Lettere ad Arsavir e Jeni Acterian, una corrispondenza finora inedita in Italia, curata da Antonio Di Gennaro. Il carteggio va così a nutrire il carnet dell’intellettuale romeno, allegrissimo: Sommario di decomposizione; Sillogismi dell’amarezza; La tentazione di esistere; L’inconveniente di essere nati; Vacillamenti; Lettere al culmine della disperazione eccetera…

Il più divertente tra i pessimisti e il più tragico tra i comici, Cioran è un transilvano insonne e sardonico, avido di sapere come il suo conterraneo Dracula lo era di sangue e, come lui, dotato di irresistibile humour nero: “Quelli che sono morti prima di noi non sanno che buon affare hanno fatto”. Il suo estro saturnino non è, però, una posa – come per certi esistenzialisti à la Sartre, “il simbolo della decadenza occidentale –, ma una postura mentale, quasi una malattia nervosa, viscerale, carnale, molto più radicata di tutte le paturnie e fandonie psicoanalitiche.

Influenzato dal pensiero di Nietzsche e Valery, Leopardi e Schopenhauer – la buona compagnia di tutti gli allegroni –, Cioran è tuttavia un pensatore atipico, irregolare, apolide, incostante. Basti ricordare la sua fugace infatuazione per Heidegger, compulsato negli anni di studi universitari a Bucarest e poi presto disarcionato dal pantheon in quanto “manipolatore senza pari… Ho avuto l’impressione che cercasse di abbindolarmi con le parole. Ma devo ringraziarlo perché è riuscito ad aprirmi gli occhi. Ho capito che cosa si doveva assolutamente evitare”. La filosofia, che rimarrà, dopo e nonostante lo scotto, croce e delizia per tutta la vita.

Trasferitosi a Berlino nel 1933 grazie a una borsa di studio, Emil inizia a disprezzare pure l’ambiente accademico: “L’università mi interessa meno di una vecchia matrona: non ha senso”. Cerca allora rifugio nella letteratura – anche se trova gli scrittori “vomitevoli” (si leggano le due strepitose lettere qui accanto, ndr) – e poi nella poesia, ma persino questa gli riserva cocenti fregature: “Quando si è disgustati dalla vita, non bisogna ricorrere a Baudelaire, ma a uno studio di Leibniz”.

Spocchia e disgusto a parte, Cioran è tra gli intellettuali più corrosivi e acuti del Novecento, appartenente a quella brillante “Giovane generazione” della Romania degli anni Trenta: suoi sodali e amici sono, appunto, il giornalista Arsavir Acterian e sua sorella Jeni, oltre ai grandissimi Mircea Eliade, Constantin Noica, Eugen Ionesco… Sono loro, sempre, i suoi primi riferimenti, anche sentimentali, nonostante la fuga dalla patria e l’esilio a Parigi come apolide, dove rinnegherà persino la sua lingua passando a scrivere in francese.

Si sente un uomo malato, un uomo cattivo, Emil simil Dostoevskij: “Sterile”, scrive lui, “esperto solo di agonie”, afflitto dalla gastrite, dai nervi, dall’“orrore di pensare” e dalla paura degli incipienti capelli bianchi, vanitoso e consumato “come un Don Giovanni di periferia e un santo… Ma ho fatto notevoli progressi quanto alla rassegnazione, e questo è l’unico successo serio di cui possa vantarmi”. Spesso e volentieri abulico, scrive poco ma legge “fino all’imbecillità”: Cioran, dalla luna inquieta e vagabonda, non si trova a casa da nessuna parte; né negli odiati Balcani, né nel rifugio francese. Anche la città, ben presto, è costretta a subire i suoi strali: “A Parigi si conduce una vita idiota: si vedono e si incontrano solo persone da cui si vorrebbe fuggire… Qui non si può più vivere. Tanto valeva trasferirsi in un garage… Non ha senso stare in Occidente”, ma forse forse sarebbe bello chiudersi in “Svizzera, dove funziona tutto perfettamente; per questo nessuno vuole imitarla. La gente prende a modello la Cina o Cuba, e persino la Valacchia”.

Se gli Antichi maestri della letteratura e dell’arte non lo consolano, figuriamoci quelli della filosofia e della religione: “Il cristianesimo non offre nulla: prosa divina… Tutto ciò che non è religione è gonorrea”. E alla fine, l’esasperato ed esasperante Cioran abbandona pure i vagheggiati eremiti e gli amati monaci buddisti: d’altronde tra “il Nirvana e l’elettroshock” che differenza c’è?

 

Stop alle armi a sauditi ed emirati

Biden nella prima settimana da presidente va di gran carriera a smontare i fondamenti dell’Amministrazione Trump. Uno di questi è il rapporto preferenziale con Ryad, la petro-monarchia regina del Golfo Persico, pilastro dell’Accordo Abramo, l’intesa favorita dagli Usa per l’apertura di relazioni diplomatiche di amicizia tra i Paesi del Golfo e Israele. Perciò ieri pomeriggio la Casa Bianca ha temporaneamente sospeso la vendita di armi all’Arabia Saudita e di caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti per “riesaminare le decisioni prese sotto la presidenza di Donald Trump”. Lo ha reso noto una fonte del Dipartimento di Stato, riportata per prima dal quotidiano israeliano Haaretz.

L’impressione mediatica è quella di un cambio di paradigma nei rapporti con i Paesi arabi, benché la fonte abbia assicurato si tratta di “una misura di routine amministrativa tipica di molto processi di transizione”, precisando che il congelamento punta a fare in modo che “la vendita di armi statunitensi risponda ai nostri obiettivi strategici di costruire alleanze di sicurezza più forti, intercambiabili ed efficaci”, ovvero la possibilità di rivedere i rapporti di forza con i regimi petroliferi così amici della precedente amministrazione (degli accordi con i Paesi del Golfo si è occupato il genero di Trump, Jared Kushner, ndr).

I funzionari statunitensi hanno spiegato che tra gli accordi messi in stand by c’è un massiccio trasferimento di 23 miliardi di dollari per caccia F-35 (gli stessi jet forniti anche all’Italia) agli Emirati Arabi Uniti (primo paese a firmare la “pace” con Israele, che proprio ieri ha aperto l’ambasciata ad Abu Dhabi, ndr).

La vendita e molti altri massicci acquisti di armi statunitensi da parte dei Paesi arabi del Golfo erano stati duramente criticati dai democratici al Congresso. Il governo Usa sta esaminando le vendite ma non ha stabilito se andranno effettivamente a buon fine, ha affermato il Dipartimento di Stato. La pausa è “un’azione amministrativa di routine” che la maggior parte dei governi in arrivo accettano sulle vendite di armi su larga scala, ha sottolineato il Dipartimento.

Durante la campagna elettorale l’ex vicepresidente di Obama aveva più volte affermato di volerla “finire con il supporto degli Stati Uniti alla guerra saudita in Yemen” (dichiarazione nella primavera del 2020, riconfermata alla fine di settembre): una posizione per differenziarsi il più possibile dalle scelte di Trump che in quei mesi ordiva e realizzava gli accordi Abramo. Nel 2019, Biden era stato ancora più netto nel definire l’Arabia Saudita “un Paese paria che va rimesso al suo posto”.

“Via Bolsonaro”: dai partiti ai religiosi, tutti contro Jair

Il Covid-19 non l’ha ucciso, ma rischia di mettere fine alla sua vita politica. Sembra Donald Trump, ma è Jair Bolsonaro, l’altro sovranista, presidente del Brasile, “messia” negazionista di un Paese in cui su mille abitanti, uno è già morto di coronavirus. Mancanza di ossigeno, collasso del sistema sanitario già fatiscente e lentezza nella vaccinazione: sono in tutto 60 le richieste di impeachment presentate contro Bolsonaro. Un potere, il suo, che si consuma a ogni bollettino medico, incalzato ora anche dalla variante brasiliana. La settimana scorsa a scendere in piazza in carovane di proteste contro la scellerata gestione di Jair, l’uomo senza mascherina, sono stati movimenti di sinistra, dal Partido de los Trabajadores di Lula da Silva al Psol, ma anche quelli di destra, gli stessi che marciarono per destituire Dilma Rousseff, seppure finora si vedono scarse possibilità che l’incriminazione possa essere seriamente presa in considerazione dalla Camera. I morti, 217 mila su 210 milioni di abitanti chiedono giustizia; il caos delle divisioni statali nelle decisioni – già denunciato alla prima ondata della pandemia dai governatori locali – evidenzia l’assenza totale del governo federale. Ad avere la meglio sono i potentati locali, la malavita che specula su un’ora in più di ossigeno per i malati.

A Manaus, in Amazzonia – il luogo con più decessi da Covid-19 al mondo e punto nevralgico della variante B.1.1.248 che riduce di 10 volte la reazione dell’organismo al virus, le bombole d’ossigeno portano la scritta “Venezuela”. Cinque camion donati dal presidente Nicolas Maduro con 107 mila m3 di ossigeno hanno percorso 1.500 km dal Sud del Venezuela sventolando la bandiera bolivariana. Per il resto, per dare respiro ai propri cari, i familiari dei pazienti portano le bombole vuote fuori dagli ospedali per ricaricarle al mercato nero dell’ossigeno: 60 dollari per un’ora d’aria in più. Il governo, avvisato giorni prima che finissero le scorte, non ha fatto che pensare a sabotare la quarantena e mettere al primo posto l’economia. Sono almeno 50 le morti sospette a Manaus, dove però i decessi si contano troppo in fretta perché la denuncia possa avere un seguito politico. Sulla situazione ospedaliera si è aggiunta la gestione – ritardata e caotica – della campagna vaccinale: l’India ha tardato ha inviare le dosi acquistate da AstraZeneca e la notizia che il governo non abbia neanche risposto all’offerta di Pfizer mesi fa, ha sepolto di indignazione Bolsonaro, che peraltro ha fatto sapere di non avere intenzione di vaccinarsi. Il presidente della Camera, Rodrigo Maia, di centrodestra, ha avvisato che non intende dare seguito all’incriminazione; ma le presidenze delle camere si rinnovano lunedì prossimo. In attesa dei futuri nuovi equilibri parlamentari, i sondaggi dicono che il malcontento nei confronti di Bolsonaro è aumentato di 20 punti nelle ultime settimane, passando dal 40 al 60%, sebbene la sua popolarità resti alta. “Nei prossimi giorni vedremo se il cambiamento di umore nei confronti del presidente è solo momentaneo”, ha commentato l’analista politico, Helio Schwartsman su Folha de S.Paulo. Per lui “è un errore credere che l’appoggio volatile degli indecisi, che si rivoltano contro Bolsonaro, basti a sovvertire l’opinione pubblica”.

Intanto è arrivata la richiesta di impeachment da parte di 379 leader religiosi delle diverse confessioni del Brasile, 17 organizzazioni e movimenti, che in conferenza stampa hanno presentato un documento in cui accusano il presidente di “gestione criminale” della pandemia, smantellamento della sanità pubblica, fake news, demonizzazione della scienza e disuguaglianze di cure sulle popolazioni indigene. Sebbene questo non significhi che l’impeachment è vicino, la storia dimostra che in Brasile le incriminazioni dei presidenti hanno quasi sempre successo: di cinque eletti dal 1985 a oggi, due sono finiti così.