Benalla sarà processato, giocava a fare il “diplomatico”

Arriva davanti ai giudici il caso Benalla, almeno per uno dei capi di imputazione che pesano sull’ex uomo di fiducia di Emmanuel Macron, finito al centro di sei inchieste. Benalla, 30 anni, deve rendere conto di “falso e uso di falso” per aver utilizzato illegalmente i passaporti diplomatici dopo essere stato licenziato dall’Eliseo. Lo scandalo è scoppiato nel luglio 2018 quando Le Monde ha pubblicato un video in cui si vedeva l’allora consigliere per la sicurezza di Macron colpire dei manifestanti durante il corteo del primo maggio, a Parigi. Benalla accompagnava degli agenti e portava il casco da poliziotto, pur non essendo della polizia. L’uomo di Macron era stato posto in stato di fermo e incriminato per violenze. A quel punto si è saputo che l’Eliseo, al corrente dei fatti sin da maggio, aveva simbolicamente sospeso Benalla dai suoi incarichi per un breve periodo. Una sanzione giudicata troppo lieve. Solo quando il caso è diventato imbarazzante per l’Eliseo, il giovane braccio destro di Macron è stato licenziato. L’inchiesta sui passaporti è stata aperta nel dicembre 2018: Benalla è sospettato di aver utilizzato una ventina di volte, tra agosto e dicembre 2018, cioè dopo aver lasciato l’Eliseo, i suoi due documenti diplomatici per viaggi d’affari in Israele e in Africa, in particolare nel Ciad, dove aveva incontrato il presidente Idriss Déby, appena qualche settimana prima di un viaggio ufficiale di Macron ne paese africano. È stato incriminato per “falso” nel gennaio 2019. Alcuni collaboratori molti vicini a Macron sono stati a loro volta convocati dai giudici. Patrick Strzoda, direttore di gabinetto dell’Eliseo, ha rivelato che Benalla aveva prodotto un documento falso pur di ottenere il rinnovo dei passaporti. Benalla è anche indagato per “falsa testimonianza” dopo aver mentito in un primo tempo, davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare, dichiarando che aveva restituito i passaporti. Un’altra inchiesta è aperta per “dissimulazione” dopo la scomparsa di due casseforti, dove Benalla riponeva le sue armi di servizio.

Yemen, sciacalli di guerra. Due fazioni: chi può ruba

All’orizzonte la popolazione yemenita, sia sunnita che sciita, non vede schiarite. Nubi nere come la pece si addensano ancora su questo Paese tra i più poveri del mondo, diventato una distesa di macerie sotto cui rimangono ancora sepolti i cadaveri di migliaia di civili. Dalla bozza del nuovo rapporto delle Nazioni Unite visionato dall’Associated Press, l’inizio del settimo anno di guerra civile tra l’esercito del governo ufficiale sunnita, sostenuto dall’Arabia Saudita, e i ribelli sciiti Houthi finanziati e armati dall’Iran, non promette nulla di buono. Secondo il rapporto non ancora ufficializzato, gli Houthi non hanno alcuna intenzione di trovare un accordo con il governo del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, riconosciuto dall’Onu.

I ribelli sciiti, che dal 2014 controllano la capitale Sa’naa, riuscendo l’anno successivo a rovesciare definitivamente il governo del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi costringendolo a rifugiarsi nella città portuale di Aden, stanno gonfiando le proprie tasche e quelle del proprio entourage con milioni di dollari. Ma per il resto della comunità sciita, che ha sperato di trovare negli Houthi una rappresentanza maggiore a livello istituzionale, essendo in minoranza rispetto a quella sunnita, la situazione rimane quella di sempre: carestia, colera, Covid e bombe. Gli esperti Onu stimano che i ribelli Houthi abbiano dirottato almeno 1,8 miliardi di dollari nel 2019 che sarebbero dovuti andare al governo per pagare gli stipendi e fornire servizi di base ai cittadini. Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite tuttavia sottolinea che anche il governo di Sa’naa ha messo a punto uno schema per dirottare illegalmente ai commercianti 423 milioni di dollari di denaro saudita destinato ad acquistare riso e altre merci per la popolazione. In realtà la somma di 423 milioni di dollari, ufficialmente stanziata dal governo per la popolazione, non è stata trasferita in modo equo tra i commercianti dato che il 48% è stato assegnato a una singola holding, Hayel Saeed Anam Group. Dal rapporto emerge dunque un deterioramento della situazione nello Yemen: “Gli Houthi e il governo sembrano essere indifferenti all’impatto devastante dello spaventoso tracollo della già debole economia sulla popolazione, continuando a deviare le attività economiche e finanziarie del paese”. Uno degli estensori del gruppo di lavoro ha inoltre spiegato che ci sono prove crescenti che individui ed entità in Iran continuano a fornire volumi significativi di armi e componenti agli Houthi.

Gli esperti ritengono che il governo ha perso territorio strategico sia a causa degli Houthi sia per il Consiglio di transizione meridionale, un gruppo separatista sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, già parte della coalizione a guida saudita. Lo scorso dicembre, la coalizione ha annunciato un governo per la condivisione del potere che include i separatisti meridionali. “La mancanza di una strategia coerente tra le forze anti-Houthi, dimostrata da lotte intestine al loro interno, e disaccordi tra i loro sostenitori regionali, è servita a rafforzare gli Houthi”, hanno detto i funzionari dell’Onu. Il rapporto afferma che gli Houthi svolgono da Sa’naa funzioni governative tra cui la riscossione delle tasse e altre entrate statali, gran parte delle quali viene utilizzata per finanziare il proprio sforzo bellico, non per aiutare il popolo yemenita. “Il governo dello Yemen è, in alcuni casi, impegnato in pratiche di riciclaggio di denaro e corruzione che influenzano negativamente l’accesso alle scorte alimentari adeguate per gli yemeniti, in violazione del diritto al cibo”, si legge nel rapporto. Sette anni di guerra hanno causato ben 112.000 vittime, creando la peggiore crisi umanitaria del mondo, portando il paese sull’orlo della carestia e distruggendo le infrastrutture, ospedali e scuole comprese. Decine di medici e pazienti sono morti sotto le bombe e persino gli scolari sono stati bersagliati dai missili mentre si trovavano sugli scuolabus o in classe. È, ancora una volta, terribile dover constatare che tutto questo dolore sia stato inflitto per quello che Papa Francesco chiama “lo sterco del diavolo”. In realtà, le guerre nascono o diventano pozzi senza fondo per attingere illegalmente enormi somme di denaro. Anche le ricostruzioni post-guerra si sono sempre trasformate in un mezzo per arricchire gli attori che vi partecipano.

I Nuer, democrazia senza farsa

Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Neker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Noi diamo invece la cosa per pacifica, scontata e non ci pensiamo più. Ma farebbe sbellicare dalle risa un Nuer.

I Nuer sono un popolo nilotico che vive nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “È impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza… Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l’antropologo inglese E. E. Evans Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò (I Nuer: un’anarchia ordinata).

Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Fino a un certo punto: si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista. Quella dei Nuer è quindi una società di “liberi e uguali” basata sulla violenza. Perché se si offende un Nuer, o anche solo la sua mucca, ci si becca un colpo di zagaglia, questo è certo. I Nuer e le comunità a essi consimili erano quindi riusciti a coniugare uguaglianza e libertà, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Una bella lezioncina per la democrazia liberale, la socialdemocrazia e la cosiddetta “democrazia popolare” o socialista, che non sono mai state in grado di coniugare libertà e uguaglianza, riuscendo piuttosto, quasi sempre, nell’impresa di mortificare entrambe.

Ma quella dei Nuer è, come osserva ancora Evans Pritchard, “una democrazia basata sulla violenza”. E questo è intollerabile non solo per la coscienza ma per la struttura stessa di una società moderna, dove è lo Stato ad avere il monopolio della violenza con le sue Istituzioni, il suo esercito, le sue mille polizie (la pula, i caramba, la Guardia di finanza), i servizi segreti, la magistratura. “Lo Stato? Il più freddo di tutti i mostri” lo definisce Nietzsche. Ma su questo punto torneremo più avanti. Per il momento ci piace raccontare ancora qualcosa dei Nuer, a uso e consumo degli esteti della “cultura superiore”, di coloro che avallano Guantanamo, Abu Ghraib e il rapimento di Abu Omar (do you remember presidente D’Alema? Do you remember Matteo Renzi?). I Nuer hanno avuto rapporti con una sola altra comunità, quella dei Dinka, loro vicini, perché tutto il resto del territorio è infestato dalla mosca tze-tze che non garba né agli uni né agli altri. I Nuer, popolo bellicoso, razziavano i Dinka e questi, più subdoli, rubavano il bestiame ai Nuer. In queste razzie i Nuer uccidevano molti Dinka, ma altri ne facevano prigionieri. Chi li aveva in custodia non poteva ordinare a un prigioniero Dinka nemmeno di portargli un bicchier d’acqua: è un ospite e va trattato come tale. Consuetudine che si è conservata fino a oggi presso alcuni popoli che definiamo “tradizionali”.

Ma torniamo alla Democrazia. La Democrazia esisteva quando non sapeva d’esser tale. Nei “secoli bui”, buissimi del Medioevo, l’assemblea del villaggio formata dai capifamiglia, quasi sempre uomini, ma anche donne se il marito era assente, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio: votava le spese e procedeva alle nomine, decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti, riscuoteva au pied de la taille i canoni che alimentavano il bilancio comunale, poteva contrarre debiti e iniziare processi, nominava, oltre ai sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani di messi, i riscossori di taglia… L’assemblea interveniva nei minimi dettagli della vita pubblica, in tutti i minuti problemi dell’esistenza campagnola (A. Soboul, La società francese nella seconda metà del Settecento). Questo sistema funzionò benissimo fino al 1787, due anni prima della Rivoluzione, quando, sotto la spinta razionalizzatrice della borghesia e dei suoi interessi avviene un mutamento radicale: non è più l’assemblea del villaggio a decidere direttamente, ma nomina dei suoi rappresentanti. Era cominciata la tragedia, direi la farsa, della democrazia rappresentativa.

Le democrazie rappresentative non sono delle vere democrazie, ma piuttosto, come ammettono Bobbio e Sartori, delle poliarchie, cioè delle aristocrazie mascherate. Fra le oligarchie democratiche e le aristocrazie storiche c’è però una differenza sostanziale. Gli appartenenti alle aristocrazie vere e proprie si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità. Nel feudalesimo, occidentale e orientale, i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell’antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità oppure l’autorità era conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori del sapere. Come dicevamo nei precedenti articoli dedicati alla Democrazia (Il Fatto, 17 e 21.01.2021), chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine. L’oligarca democratico è un uomo senza qualità. La sua sola qualità è di non averne alcuna. Il che gli consente una straordinaria adattabilità e duttilità. Insomma il trasformismo, tabe storica della democrazia, specialmente di quella italiana, di cui oggi abbiamo sotto gli occhi abbondanti esempi. Ci possono essere anche ottime, oneste, persone che ci governano, quale io considero, per esempio, Giuseppe Conte, ma anche lui è costretto a sporcarsi le mani con manovre sudice. Il problema, a questo punto, non è degli uomini ma di un sistema che costringe a corrompersi anche chi, per sua natura, non vi sarebbe portato. Questo sistema si chiama Democrazia rappresentativa.

 

25.255 ragioni per non esagerare

A rischio di sembrare ossessionati, e magari è vero, dobbiamo tornare sul tema “lavoro e media”. Su giornali e/o testate giornalistiche online capita sempre più spesso nelle ultime settimane di imbattersi in due serie di notizie: i furbetti del Reddito di cittadinanza e i rider felici. Premessa epistemologica: i media – tutti, compreso Il Fatto – non raccontano “la realtà”, ma se va bene quel pezzo di realtà che vedono e che interessa ai loro giornalisti (questo caso è, ovviamente, il best case scenario, visto che non prevede editori spuri, cointeressenze d’affari o politiche, etc). Che realtà vedono dunque quelli che insistono su furbetti del Rdc e rider felici? Una in cui la povertà è sostanzialmente una colpa o un delitto: i furbetti sono degli zozzoni, ovvio, e gli altri sono gente che non ha voglia di rimboccarsi le maniche. A colpevolizzare la vittima (della povertà) ci pensa appunto il rider felice: gioiellieri, commercialisti, piloti d’aereo oggi fattorini realizzati. In attesa degli ex giornalisti oggi rider felici, dobbiamo avvisare i colleghi di non esagerare. Ieri, per dire, abbiamo letto sul Corriere della Sera di “Francesco, il campione dei rider”. È felice? Certo: “Racconta la sua storia e la intercala con risate spontanee”. Palermitano, 38enne, pare sia il recordman mondiale di consegne: per Glovo ne ha fatte 25.255 in tre anni facendo “su e giù in motorino, dieci ore al giorno da mezzogiorno alle 10 di sera, senza domeniche e festivi”. Stipendio: “Lavoro con la partita Iva. Tra contributi, tasse e benzina riesco a guadagnare 1.400-1.500 euro netti al mese”. Ecco, vorremmo soffermarci sui numeri. Pare non ne faccia, ma calcolando almeno un giorno di riposo ogni due settimane, diciamo che Francesco lavora 28 giorni al mese, 336 all’anno e ha fatto dunque una media di oltre 2,5 consegne all’ora per dieci ore ogni volta. Il guadagno: 1.500 euro netti fa 5,3 euro netti all’ora per il più produttivo rider al mondo (com’è noto il numero delle consegne conta assai), il quale passa il 40% del suo tempo, notti comprese, a lavorare. Forse è il caso che nelle redazioni sempre più piene di precari e cottimisti si tenga maggior conto del noto consiglio di Stephen King: attento a quello che desideri, perché potresti ottenerlo.

MailBox

 

Varianti, più restrizioni per chi torna dall’estero

Un mio amico, rientrato dalla Thailandia durante la prima ondata della pandemia, non ha giustamente potuto salire sui mezzi pubblici per tornare a casa e fare la quarantena prescritta, così ha fatto il tragitto da Roma a Livorno in taxi. Da un po’ girano nuove varianti del virus più pericolose, cosa aspettano il ministro della Salute e suoi aiutanti a rimettere in funzione queste elementari norme di prudenza?

Vareno Boreatti

 

Casini, cattivo maestro: predica bene, ma…

Caro Fatto Quotidiano, l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, è molto severo con Giuseppe Conte: “Finora ha sbagliato tutto, politicamente e tecnicamente”. Lui, invece, l’ex democristiano Pier Ferdinando, è un’altra pasta di stratega, non ha mai sbagliato nulla: infatti, s’è saputo sempre riciclare, alleandosi, negli anni, prima con Berlusconi, poi con i governi guidati da Monti, Letta e Renzi. Con profonda stima.

Marcello Buttazzo

 

I pregiudicati possono diventare capi di Stato

Le nostre leggi e la nostra Costituzione possono impedire la nomina a presidente della Repubblica di un pregiudicato con processi pendenti ancora in corso?

Stefano Giannini

Caro Stefano, purtroppo no.

M. Trav.

 

Ci scrive Romano del Pd: “Demonizzate il partito”

Caro Direttore, secondo il vostro Lorenzo Giarelli (“Delrio, Marcucci, Guerini&C.: le quinte colonne di Italia Viva”, sul Fatto del 26 gennaio) il Partito democratico sarebbe un covo di doppiogiochisti, sabotatori e lingue biforcute che lavorano per affossare ogni prospettiva di ripartenza del governo Conte.

Peccato che tanto sforzo di demonizzazione si scontri con una mole enorme di prove dell’esatto contrario, dall’impegno con cui stiamo provando a ricucire una ferita incomprensibile e irresponsabile voluta da Italia Viva allo sforzo con cui ribadiamo in ogni dove che Giuseppe Conte rappresenta il punto di equilibrio più solido di una maggioranza da ricostruire e consolidare. Peccato soprattutto che le abitudini del Fatto siano così dure a morire, e che la pulsione a cannoneggiare il Pd sia più forte di qualsiasi responsabilità a contribuire tutti insieme a restituire all’Italia un governo europeista. Ma si sa che di fronte alla nostalgia canaglia di tornare alle origini (e in questo caso alla tenace vocazione anti Pd del Fatto) ogni richiamo alla realtà sia velleitario.

Andrea Romano

Ringrazio l’onorevole Romano dell’attenzione, ma la sua lettera somiglia più a una replica a se stesso che al nostro articolo. Nessuno ha mai detto che tutto il Pd sia un “covo di doppiogiochisti, sabotatori e lingue biforcute”, ma piuttosto che decine di esponenti dem, negli ultimi giorni, hanno tirato l’acqua al mulino di Renzi, legittimando un suo nuovo coinvolgimento in maggioranza. E mi sembra difficilmente smentibile, soprattutto se gli argomenti sono la “nostalgia canaglia” e la “pulsione a cannoneggiare il Pd”.

L. Giar.

 

Il patrimonio naturale maremmano va tutelato

Illustrissimo Settis, leggendo il suo articolo riguardo al caso virtuoso del sistema dei parchi archeologici e naturalistici della Val di Cornia (Toscana), concordo con quanto da lei sostenuto quando afferma che i comuni che hanno concorso attivamente alla sua realizzazione, sono gli stessi che da molto tempo concorrono al suo ridimensionamento. La vera causa che ha determinato questa triste situazione è strettamente correlata alla capacità della Società Parchi Spa di guadagnarsi una totale capacità di autofinanziamento, quindi di totale autonomia dai comuni fondatori.

I Comuni fondatori della Parchi Val di Cornia Spa, previo accordo con la Regione Toscana, sono sempre stati particolarmente sensibili alle istanze delle Società Solvay, Sales, e Cave di Campiglia, che male si conciliano con la tutela del patrimonio archeologico e naturalistico dell’intero sistema collinare costiero della Maremma livornese. Stiamo assistendo a un danno ambientale irrecuperabile. Il dato ancora più sconfortante è che questa tragedia si sta consumando anche per l’indifferenza dell’opinione pubblica locale. L’unica entità sul territorio che si sta battendo è il Comitato per Campiglia.

Enrico Spinelli

 

Una “Mamma Rai” libera per dare maggior qualità

Vi scrivo riguardo a un problema di cui non si parla più ormai da tempo: l’uso e il controllo partitico della Rai. Se i cittadini pagano un canone avranno ben il diritto di aver voce sulla scelta dei programmi e della loro qualità. Una televisione pubblica deve essere necessariamente libera per una ragione molto semplice: i giornalisti e i conduttori dei vari programmi non subirebbero più l’influenza e le pressioni di politici o di eventuali lobby. Un altro vantaggio sarebbe una maggior rotazione del personale, con il vantaggio di dar la possibilità a più persone nella conduzione dei notiziari e dei programmi culturali e scientifici. Sarebbe una cosa non solo democratica, ma anche vantaggiosa sul piano della qualità grazie a una sana competizione tra gli aspiranti.

Mario Varriano

Amanda Gorman. La sua poesia esempio di impegno democratico

 

Gentile redazione, come quotidiano lettore del Fatto mi permetto di chiedervi un favore: pubblichereste sul giornale il testo completo della poesia che Amanda Gorman ha recitato al giuramento del presidente Biden? È un momento così alto di democrazia e di spirito civile, questo poema di una poetessa di soli 22 anni, che riporterebbe (forse!) verso livelli più decenti anche il nostro dibattito politico.

Italo Borini

 

Caro Italo, eccone un ampio stralcio, compatibilmente con il nostro spazio.

Fq

 

“Quando arriva il giorno noi ci chiediamo dove trovare/ una luce in quest’ombra senza fine./ La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare./ Abbiamo sfidato il ventre della bestia./ Abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,/ e le norme e le nozioni di quel che “semplicemente” è non sono sempre giuste./ Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene./ In qualche modo ce l’abbiamo fatta./ In qualche modo abbiamo resistito e siamo testimoni di una nazione non spezzata ma, semplicemente, incompiuta./ Eredi di un Paese e di un’epoca in cui/ una ragazzina afroamericana discendente di schiavi e cresciuta da madre single, può sognare di diventare presidente, e poi sorprendersi a recitare all’insediamento di un presidente… Ci stiamo sforzando di forgiare un’unione che abbia scopo./ Di dar vita a un Paese devoto a ogni cultura, colore, carattere e condizione sociale./ E così alziamo lo sguardo a cercare non quel che c’è tra noi, ma quel che c’è davanti a noi… Lasciamo che sia il mondo, se non lo fanno altri, a dirci che è vero: che anche nel lutto siamo cresciuti./ Che anche nel dolore abbiamo sperato…/ Se aggiungiamo misericordia alla forza, e forza al diritto, l’amore è il nostro testamento e il cambiamento un diritto di nascita per i nostri figli./ Perciò, fateci vivere in un Paese migliore di quello che abbiamo lasciato… Quando verrà il giorno faremo un passo fuori dall’ombra, ardenti e senza paura./ Sorgerà una nuova alba e noi la renderemo libera./ Perché c’è sempre luce,/ se abbiamo il coraggio di guardarla./ Se abbiamo il coraggio di esser noi la luce”.

Amanda Gorman

Chi siederà ora al posto degli onesti di Basilio Rizzo?

Come faremo a capire i giochi sotterranei di Palazzo Marino, senza Basilio Rizzo dentro il Consiglio comunale di Milano? Ha annunciato che non si ricandiderà, dopo 38 anni di ininterrotta presenza sui banchi consiliari, sempre all’opposizione, sempre a controllare con passione e con puntiglio ogni delibera, ogni decisione, ogni scelta dei sindaci e degli assessori che si sono via via succeduti. Lo ha ricordato, su queste pagine, Nando dalla Chiesa, che con lui ha condiviso tante battaglie. Entrò in Consiglio nel 1983, eletto sotto il simbolo di Democrazia proletaria. Nei quasi quattro decenni seguenti, i simboli e le sigle sono cambiate tante volte (Verdi Arcobaleno, Lista Dario Fo, Sinistra per Pisapia, Milano in Comune…), ma Basilio è sempre restato Basilio, più forte delle sigle con cui veniva eletto, sempre il punto di riferimento per chi voleva capire che cosa stessero combinando nei retrobottega della politica, nei meandri dell’amministrazione.

Arrivava prima dei magistrati a scoprire scandali e ruberie. Facendo una cosa semplice e difficile che politici e amministratori ormai fanno malvolentieri: passare più tempo a controllare atti e documenti che a stare in tv e sui social, schivo, modesto, competente, l’esatto opposto dell’uomo politico narcisista e tronfio che oggi conquista i talk show.

Negli anni Ottanta del craxismo e della Milano da bere produce denunce che anticipano Mani pulite e rivelano quella che sarà poi chiamata Tangentopoli. È tra i pochi a segnalare l’ascesa di Salvatore Ligresti, che in quegli anni, con il sostegno della giunta di centrosinistra, diventa uno dei padroni di Milano. Non molla mai l’osso. Controlla le scelte di tutti i sindaci, si chiamino Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, socialisti, o Gabriele Albertini e Letizia Moratti, berlusconiani.

L’unica volta che sostiene un sindaco, Giuliano Pisapia, e diventa presidente del Consiglio comunale, lo fa con grande rispetto delle istituzioni e delle opposizioni; e quando non è d’accordo con la maggioranza, lascia lo scranno del presidente e torna a sedersi al suo posto di sempre in Consiglio.

Critico anche con il successore di Pisapia, Giuseppe Sala, che ha sfidato nel 2016 candidandosi al primo turno. Oggi conferma di non capire l’accordo che i Verdi hanno già stretto con Sala: “Non so su che basi sia stato trovato: per quanto il sindaco si dica attento alle tematiche ambientali, quello che ha fatto in questi cinque anni dice il contrario; per quanto riguarda il verde, Sala non ha realizzato quello che ha propagandato”.

Viene dalla periferia del Giambellino, Basilio, come il Cerutti Gino cantato da Giorgio Gaber. Cresce però nella centralissima via San Paolo e frequenta l’asilo di via della Spiga, perché nell’immediato dopoguerra erano le famiglie più povere – la sua era di immigrati arrivati a Milano dalla Calabria – ad abitare le case danneggiate dai bombardamenti nel centro di Milano. Poi torna in periferia, studia e va all’università. Nel 1968 è studente di Fisica, partecipa al Movimento studentesco di Scienze e ai Cub, poi ad Avanguardia operaia e infine a Democrazia proletaria. Per anni insegna elettrotecnica all’Istituto tecnico Ettore Conti di Milano. Ha sempre fatto politica. “Rubando tempo alla mia famiglia”, dice, “mia moglie Marta e i miei figli Lorenzo e Cecilia”. Ora – promette – “è arrivato il momento di lasciare il passo, non sarò più in prima fila, il mio impegno proseguirà in altre forme”. Milano dovrebbe essergli grata: ha contribuito a renderla adamantina nei suoi momenti più luminosi, con la sua opposizione gentile le ha restituito l’onore nei suoi momenti più bui. Chi prende il suo testimone a Palazzo Marino?

 

È possibile un governo forte senza maggioranza assoluta

E se la soluzione della crisi in atto fosse semplicemente di attenersi alla lettera e allo spirito della Costituzione? Essa prescrive un governo, tale in virtù di un voto parlamentare che, a maggioranza – semplice, non assoluta – gli accorda la fiducia. È quanto prescrive l’art. 94 della Costituzione, precisando al comma 4 che “il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni”. Infatti, il secondo governo Conte ha liberamente scelto di sottoporsi a un voto di fiducia, lunedì e martedì scorso, conseguendo 321 voti favorevoli e 259 contrari alla Camera e 156 voti favorevoli, 140 contrari, 16 astenuti al Senato. Ed è quanto potrebbe ripetersi, voto più voto meno se, dopo le dimissioni di Conte, il presidente Mattarella gli conferisse nuovamente l’incarico di formare il governo. Poiché non è pensabile la partecipazione a una rinnovata maggioranza di un partito capeggiato da un signore che, dopo avere aperto una crisi universalmente giudicata pretestuosa, si è fatto consacrare come lobbista internazionale dalla casa regnante dell’Arabia Saudita.

Ne consegue che quanto ci è stato ammannito come dovere istituzionale per settimane dai media e dalle segreterie dei partiti non corrisponde al dettato costituzionale. Nessuno può accamparsi il diritto di imporre al governo una maggioranza assoluta o, addirittura alzare la soglia al Senato a 170 (Franceschini docet), se non attraverso un arbitrio esclusivamente politico. Tale è anche quello di pretendere la configurazione della maggioranza in un patto tra gruppi parlamentari di vecchio o di nuovo conio. Con l’aggravante di spacciarla come pretesa del presidente della Repubblica, il cui silenzio in merito segnala la sua conoscenza dei poteri e dei limiti che gli sono conferiti dagli art. 89 e 90 della Carta. Quanto al gioco del pallottoliere in atto, con relative trattative da cui il presidente del Consiglio giustamente finora si è tenuto lontano, esse ignorano che ogni parlamentare, privo di vincolo di mandato (art. 67) incarna una frazione di sovranità di cui risponde individualmente alla sua coscienza e al Paese.

Vi è da chiedersi quali siano le ragioni dell’accanimento nella costruzione di questa bolla di mistificazioni praticata da media e partiti. Dopo un primo importante risultato conseguito con il voto al Senato, Repubblica in prima pagina ha definito quel governo “piccolo piccolo”. Perché? Agli occhi di chi ha formulato quel titolo, il governo, nella persona del suo presidente, avrebbe commesso numerosi peccati nel rispondere alle richieste di Bruxelles, non piegandosi alla spartingaia auspicata dai numerosi aspiranti commensali da cui ha continuato a manifestare un’inedita e preoccupante autonomia. Pur piegandosi a rassegnare le dimissioni, il presidente del Consiglio ha finora resistito alla logica dei rimpasti e delle crisi pilotate che avrebbero dimostrato la sua affidabilità rispetto a un sistema di potere politico ed economico smascherato dall’insipienza del senatore Renzi. Soprattutto, il governo ha commesso un peccato mortale avanzando la pretesa di continuare a esistere, nel pieno rispetto delle regole costituzionali. Non mancano gli ostacoli che un eventuale nuovo governo Conte avrebbe di fronte: non ultimo il tema della giustizia, su cui, invece, potrebbe presentarsi con le carte in regola. I partner europei sono giustamente attenti alla nostra capacità di sfruttare le opportunità dei fondi comuni per affrontare i nodi che ci affliggono (non soltanto noi), dalla lentezza dei processi civili all’inconcludenza frequente di quelli penali, alla corruzione e dalla criminalità organizzata. Ancora una volta, per l’Italia la sfida è quella della sua vocazione europeista, nel pieno rispetto della Costituzione.

 

“Palamara dice il falso su B. e la mia condotta”

Le affermazioni di Luca Palamara contenute nel libro Il Sistema di Alessandro Sallusti, direttore del Giornale di proprietà della famiglia di Silvio Berlusconi condannato per frode fiscale in Cassazione nel 2013, con le quali insinua ombre e sospetti sulla sentenza e sulla decisione della sezione disciplinare che mi assolveva con formula piena in relazione alla mia intervista al Mattino, sono gravissime e si traducono in affermazioni inveritiere, suggestive, allusive che prospettano una falsa rappresentazione della realtà e delle quali Palamara dovrà rispondere davanti ai giudici.

L’affermazione che “non stavamo giudicando il comportamento di un collega ma la storia recente dell’Italia… Era una responsabilità enorme che andava oltre il merito della vicenda” è di estrema gravità perché mette in dubbio la correttezza di giudizio degli altri giudici della sezione e gettano ingiustificato discredito su una sentenza di oltre 40 pagine di motivazione – redatta da un magistrato che lo stesso Palamara, nel libro, descrive come “autentico e genuino” – che esamina la vicenda sotto tutti i profili e perviene alla mia piena assoluzione con l’accertamento della “avvenuta manipolazione” dell’intervista in questione e che “l’alterazione emergeva in tutta la sua gravità” e che “nulla disse il dr. Esposito che non fosse già insito nel contenuto della decisione… Si può in definitiva affermare con certezza che in quella intervista non venne reso pubblico alcun aspetto della decisione che non fosse già contenuto nella lettura in udienza del dispositivo… Ciò che appare, invece, inspiegabile è la ragione per cui una risposta come quella data dall’incolpato possa essere stata tacciata di indebita rivelazione, se non appunto nella prospettiva funzionale a una battaglia condotta in ben altro scenario” .

Altrettanto farneticanti sono le ulteriori affermazioni: “Condannare Esposito sarebbe stata un’opzione corretta ma inevitabilmente avrebbe messo in dubbio la credibilità della sentenza sui diritti Mediaset. Viceversa, assolvere Esposito avrebbe rafforzato quella decisione. Senza voler violare il segreto della Camera di Consiglio, posso testimoniare che questo ragionamento logico aleggiava nell’aria per usare un eufemismo”. La “credibilità” della sentenza sui diritti Mediaset non sarebbe certo stata “messa in dubbio” da una mia condanna disciplinare, così come una mia assoluzione non avrebbe certo “rafforzato quella decisione”. La “credibilità” di una decisione giudiziaria sta nella credibilità delle sue motivazioni. Evidentemente, Palamara non ha letto quelle della sentenza sui diritti Mediaset: se le avesse lette, avrebbe trovato ben 208 pagine di motivazione sottoscritte da tutto il Collegio dopo una Camera di Consiglio di oltre dieci ore. E con le quali i giudici della Cassazione: a) hanno esaminato circa 90 motivi di ricorso degli imputati; b) hanno confermato, dopo rigorosa e accurata valutazione, le sentenze di condanna dei Giudici di merito che avevano diffusamente e congruamente motivato la responsabilità del Berlusconi, pervenendo alla conclusione, fatta propria dalla Cassazione, che “le risultanze processuali dimostrano la pacifica diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest e occulto”. Ancora: “Alla stregua di tali considerazioni, del tutto corretta, la conclusione cui pervengono i Giudici del merito, secondo i quali il contributo causale materiale o morale degli imputati di frode fiscale si desume dagli elementi che provano un loro coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento sopra delineato, meccanismo che consentiva all’autore di avvalersi di documentazione fiscale fittizia.

Avendo il Palamara parlato di un “sistema” di cui egli “faceva parte”, e che nella magistratura vi era un “clima a cui tutti si adeguavano”, è necessario allora ricordare a questo immemore che nella magistratura vi sono stati e vi sono magistrati che respingono le “pressioni”, che non hanno paura di giudicare imputati eccellenti e li giudicano, assolvendoli o condannandoli, esclusivamente sulla base delle risultanze processuali, si tratta di magistrati che non si curano dei capi-bastone delle correnti e non “trescano” con i politici. Evidentemente, egli non appartiene a questa categoria.

Per le suddette affermazioni contenute nel libro Il Sistema sarà sporta querela precisando che essa sarà estesa anche alle diffamatorie affermazioni che il Palamara assume aver ricevuto dal defunto Amedeo Franco in ordine “sia al modo anomalo con cui si era formato il Collegio giudicante sia per le pressioni che si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna”.

 

Attenti ad amare troppo i gatti: potrebbero conquistare il mondo

Anni fa, una sentenza dei giudici di Cassazione (“Catturare gatti randagi e venderli a istituti di ricerca per scopi scientifici non è reato”) suscitò scalpore fra gli animalisti, specie quelli che sono i primi a farli castrare per evitare il puzzo d’urina nell’appartamento (i gatti, non i giudici). D’altra parte, non si può ignorare quanto, di ciò che si sa del nostro sistema nervoso, si debba allo studio sulla fisiologia dei gatti: dal funzionamento del midollo spinale agli studi sull’opistotono, dall’organizzazione della sostanza reticolare alla localizzazione dei neuromediatori dopaminergici (nozioni indispensabili, se passi il tempo a guardare video di gatti su Instagram). Cerchiamo dunque di non essere troppo dogmatici. Io amo i gatti, ma non per questo penso che dovrebbero dominare la Terra. Questa sì che sarebbe una prospettiva inquietante. Cosa accadrebbe se i gatti diventassero padroni del mondo?

6 aprile. Dopo un’assurda crisi di governo in piena pandemia, il Partito Universale Felino prende il potere. Il gatto Silvestro viene nominato presidente del Consiglio. Il suo primo discorso pubblico rivaluta l’operato dei leoni nelle arene della Roma antica: “Giudicarli in modo complessivamente negativo è molto difficile. Ci sono fasi della storia in cui la bontà non è fra i valori preminenti”.

10 giugno. Il primo governo felino spende tutti i 209 miliardi del Recovery Fund per comprare scatoloni di cartone con un buco laterale, prodotti da Stellantis. Un comma aggiuntivo mette al bando il vegetale del diavolo: il cetriolo verde.

16 giugno. Il Maurizio Costanzo Show dedica un’intera puntata al problema della dipendenza da Whiskas. Ospiti: Morgan, Andrea Roncato, Serena Grandi, il gatto Felix e la gatta della pubblicità Sheba.

18 giugno. Il Parlamento in calore si riunisce per miagolare tutta la notte sotto casa mia.

21 giugno. La Rai trasmette nuovi cartoni animati in cui Silvestro, alla fine, riesce sempre a papparsi il canarino Titti.

25 giugno. Viene promulgata la legge n. 8, che premia con ristori ingenti tutti gli automobilisti sorpresi ad abbandonare cani in autostrada. Crollano in Borsa le azioni della Bialystok, la multinazionale che produce Pal e Ciappi.

28 giugno. Il governo rende obbligatoria la campagna vaccinale contro le palle di pelo promossa dalla Pfizer.

2 luglio. Esce in edicola il primo numero di Playcat, la rivista erotica per il felino moderno. Fra gli articoli: “Non è vero che leccarsi troppo fa diventare ciechi”, “Che fare se ti innamori del tuo veterinario” e “Cina: l’impero del male”.

3 luglio. La Nasa lancia nello spazio “Miao”, una nuova sonda spaziale che, per quanto lontana la mandi, torna sempre a casa.

5 luglio. Un documento dei vescovi felini cattolici dichiara non immorale la castrazione degli umani.

7 luglio. Il ministro delle Poste Jinxy va in tv, ospite di “Pesci in faccia”, il nuovo varietà satirico del Bagaglino che con coraggio mette alla berlina lo strapotere dei topi.

25 luglio. Il gatto Silvestro viene arrestato per mafia. Rin Tin Tin decreta ufficialmente lo scioglimento del PUF. Nasce il Nuovo Governo Mondiale Canino. Gli umani vengono obbligati a salutarsi annusandosi il culo.