Farrell in grotta e Gal indecisa tra “Cleopatra” e “Biancaneve”

Matteo Garrone tornerà sul set prima dell’estate per dirigere Io capitano, il suo undicesimo lungometraggio, annunciato come un’avventurosa storia di formazione ambientata tra Italia e Africa, di cui il regista romano è anche sceneggiatore – con Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini – e produttore con Archimede, Tarantula e Rai Cinema.

Diventata ormai una star planetaria dopo gli exploit di Wonder Woman e Justice League, consolidati dal recente Assassinio sul Nilo, l’israeliana Gal Gadot sarà la protagonista di un remake di Cleopatra della regista Kari Skogland e del nuovo live-action Disney di Marc Webb Biancaneve, in cui interpreterà la regina cattiva accanto a Rachel Zegler, la rivelazione di West Side Story di Spielberg.

“Disclaimer” è il titolo di una nuova serie thriller diretta da Alfonso Cuarón dall’omonimo romanzo di Renée Knight, che ha come interpreti principali Cate Blanchett e Kevin Kline. Racconterà le vicende di Catherine, una giornalista di documentari televisivi di grande successo che ha costruito la sua carriera rivelando le trasgressioni più nascoste delle istituzioni. Quando però si imbatterà in un romanzo scritto da un vedovo tutte le sue certezze cominceranno a vacillare.

Colin Farrell,Viggo Mortensen e Joel Edgerton sono gli interpreti di Tredici vite di Ron Howard, film tratto da una storia vera di cronaca, incentrato su una missione di salvataggio in Thailandia, dove un gruppo di ragazzini e il loro allenatore di calcio sono rimasti intrappolati in un sistema di grotte sotterranee che si sta allagando.

Dopo aver allestito con successo a Broadway Lehman Trilogy di Stefano Massini, Sam Mendes torna al cinema per dirigere Olivia Colman in Empire of light, una storia d’amore ambientata negli anni Ottanta sulla costa sud dell’Inghilterra.

Attrice, cantautrice, figlia d’arte: dalla cameretta al palco di Sanremo, dai “Cesaroni” ad Allen

“Era come vedere un fumetto che prende vita, a due passi da me”. Margherita Vicario sgranava gli occhi, sul set di To Rome with love. Dieci anni fa: il fumetto era Woody Allen. “Faticavo a non ridere guardandolo, ho rischiato di fargli ripetere i ciak. Così mi nascondevo sullo sfondo. Anche perché Woody non si rivolgeva a me, bensì alla co-protagonista Judy Davis. Io recitavo nello stesso episodio”.

Fa curriculum l’apparizione in un titolo hollywoodiano, ma per la Vicario è tradizione di famiglia. Sua nonna era Rossana Podestà, il nonno Marco Vicario, papà Francesco e zio Stefano sono due registi televisivi di punta. Gli spettatori l’amarono senza riserve, quando nel 2014 fu la rivelazione dell’ultima stagione dei Cesaroni. “Giorni fa è stato realizzato un prototipo del Bar dei Cesaroni di Lego, con tanto di pupazzetti. Votando sul sito Lego se ne può far varare la produzione. Beh, i turisti visitano ancora oggi la mitica vineria alla Garbatella ma restano delusi: gli interni sono diversi, si giravano in uno studio di Cinecittà. Anch’io sono tornata al Bar in pellegrinaggio: la Lego ci pensi, è storia della nostra tv”.

Per Margherita recitare è stato uno step genealogico, cantare una vocazione. Ma se hai due talenti potrebbero non prenderti sul serio. “Agli inizi qualcuno borbottava: ‘Questa fa di tutto ma…’. Ora non sento più i maligni, sul lavoro mi sdoppio. Sono sul set di un nuovo film, e tra poco uscirà la terza stagione del poliziesco Rai Nero a metà. Ad aprile andrò in tour nei club con la band per proporre il mio secondo album Bingo e alcune canzoni nuove. Concerti veri, alla vecchia”. Messaggio per Amadeus: a Sanremo 2023 le riservi un posto. E in gara, non più da ospite. “Dovrei scrivere il pezzo della vita! Però mi sono divertita all’Ariston per la serata cover con La Rappresentante di Lista, Cosmo e Ginevra. Abbiamo costruito con minuziosità teatrale la performance di Be my baby, trasformandola in una festa pop”.

Una cantautrice con i fiocchi, la Vicario. Nel giro di un album ti fa attraversare mille percorsi, con brani che virano verso direzioni inaspettate e temi che vanno dal razzismo (l’immigrato Mandela braccato dai “cazzi in divisa”) alla tenacia che serve ai trentenni nel momento chiave della vita (La meglio gioventù) o i cliché dei rapporti nell’irresistibile Giubbottino (frase cult: “e non è come in un porno, porco mondo è molto meglio”). “Faccio pezzi pieni di parole ma riesco a non impicciarmi mentre canto, ho la lingua sciolta”. Ha scoperto in due fasi di essere eclettica. Per la scrittura recitativa “a 11 anni: ero in terza media e la prof di italiano chiese chi volesse aiutarla a trasporre in un copione un libro per ragazzi. Dopo il saggio mi fece i complimenti: capii che era magico dare vita ai dialoghi”. Per la musica, invece, “al tempo in cui occupavamo il Teatro Valle di Roma. Ero sul palco con la chitarra, vedevo i palchetti pieni, eseguivo cose già strimpellate nella mia cameretta e mi dicevo: anche questo mi appartiene”.

I partigiani del rugby, sport “maschio” che liberò l’Italia

Aldo Battaggion, bergamasco, classe 1922, disputò la sua ultima gara di “palla ovale”, l’autarchico nome dato al rugby nel Ventennio nero, il 7 marzo del 1943. Con la maglia del Guf Milano, la squadra dei Gruppi universitari fascisti, nel ruolo di mediano d’apertura giocò la finale scudetto contro l’Amatori Milano, che vinse. Allievo ufficiale della Regia Aeronautica, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 non ebbe dubbi: divenne partigiano fra le valli Serina e Brembana. I tedeschi lo catturarono il 15 gennaio del 1944, finì nel lager di Dachau. Liberato dagli americani, tornò in patria nel luglio del 1945. Appena fu possibile, riprese a fare quello che sognava da tempo: giocare a rugby. Militò questa volta negli Amatori, fu convocato due volte in Nazionale nel 1948.

La vicenda esemplare di Battaggion è una delle tante che Marco Ruzzi, storico, archivista dell’Istituto della Resistenza in provincia di Cuneo, nonché giocatore di rugby, ha salvato dall’oblio, restituendole alla memoria e alla storia, non soltanto a quella dello sport. Storia e storie, dunque, dell’Italia e di un’attività agonistica celebrata dal fascismo perché “maschio sport di combattimento”, sebbene fosse nata nelle scuole britanniche, ma che ebbe, infine, non pochi caduti per la libertà: come Filippo de Grenet e Manlio Gelsomini, uccisi alle Fosse Ardeatine, e Giovanni Torcellan, assassinato durante un rastrellamento nazifascista.

Con il suo ponderoso libro Generazione Littoriali. Rugby e fascismo in Italia dal 1928 al 1945 (Primalpe-Istituto storico della Resistenza), Ruzzi disegna un grande e minuzioso affresco dello sport nell’Italia di Mussolini, raccontato ovviamente attraverso il mondo particolare del rugby, poi ribattezzato “palla ovale” o anche “rugbi”, che in Italia, almeno fino agli anni Venti, era ancora pressoché sconosciuto. Il regime fascista puntò molto sullo sport tanto che un altro cuneese, il comandante partigiano Nuto Revelli, il cantore del Mondo dei vinti, scrisse che “il fascismo e lo sport sono la stessa cosa”. Eppure i “valori fondanti questa disciplina”, che ebbe un gerarca quale Augusto Turati tra i suoi sostenitori appassionati – annota Vittorio Sommacal nella presentazione del volume –, erano “opposti a quelli cui si ispirano i regimi totalitari”. Valori innervati dal rispetto dell’avversario e per le decisioni dell’arbitro. Uno sport, insomma, che ha attraversato “senza contaminazioni i periodi di buio per la democrazia: giocatori e dirigenti dei vari club, sia pur con inevitabili eccezioni, hanno saputo organizzare e proseguire nell’attività conservando regole comportamentali e tradizioni del mondo della palla ovale”.

Furono quei valori, allora, che indussero Francesco Vinci, detto Vinci III, campione del rugby capitolino, tra i fondatori della Rugby Roma, capo di uno squadrone del reggimento Genova, a sparare sui tedeschi il 12 e 13 settembre del 1943 a Bastia, in Corsica. Vinci, narra Ruzzi, “non solo riesce a evitare l’aggiramento, ma cattura anche un nutrito numero di prigionieri”. Ritornato nella Capitale finalmente liberata, nel luglio del 1944, l’ex giocatore della Nazionale goliardica, che nel 1939 aveva vinto a Vienna il titolo mondiale studentesco, si attivò subito “per contribuire alla rinascita del rugby cittadino come giocatore e allenatore, assumendo anche il ruolo di capitano della rinata Rugby Roma”.

“Sui set di Brass ho fatto ‘cilecca’: lì l’eros si perdeva. E che sbronze con Bene”

Un pomeriggio catanese di Franco Branciaroli: “Dormo, rotolo nel letto, mi sveglio, prendo un caffè, ridormo, leggo, vado a correre, mangio. E aspetto”.

Aspetta di salire sul palco, come accade da oltre cinquant’anni; cinquant’anni di tournée, grandi maestri, da Luca Ronconi a Carmelo Bene (“che sbronze con lui. Che nottate”) e con qualche intoppo (“ho lavorato pure con dei registi-cani”); cinquant’anni di teatro, eppure la fama (“ma no, fama è eccessivo”) è giunta come attore feticcio di Tinto Brass: La chiave, Miranda, Così fan tutte, L’uomo che guarda e Senso ’45 hanno lui, i suoi ricci (“Antonioni li detestava”) i suoi occhi e soprattutto “il mio uccello” come denominatore comune.

Ora ha pubblicato il suo primo romanzo, La carne profonda, scritto con una prosa spesso raffinata, a volte roboante, sicuramente non comune, dove alterna scene di vita comune a descrizioni di sesso talmente dettagliate da accarezzare la pornografia.

Quindi aspetta il “su il sipario” senza tensione.

Forse un tempo, ma da vecchio sparisce; (sorride) l’unica tensione è sulla memoria: magari temo di non ricordare una battuta.

Davvero si sente vecchio?

Io sono vecchio: ho 74 anni.

Il romanzo non è da vecchio.

C’è uno scrittore, Theodor Fontane, che per tutta la vita non ha realizzato niente di particolare, poi a settant’anni ha sparato fuori Effi Briest, un libro eccezionale. Quindi può succedere, ma la mia forza è la lingua: sono stato un attore di (Giovanni) Testori e ho vissuto da vicino cos’è la creazione.

Cosa le ha insegnato?

Secondo lui il futuro della letteratura era quella erotica perché tiene conto del teatro; anche il mio libro è una pièce.

Quanto ha impiegato a scriverlo?

Non sono un professionista alla Thomas Mann, con orari e liturgie: sono un attore, quindi ho utilizzato i momenti di ispirazione, quelli di pausa dalla scena e il lockdown.

Quindi?

Circa quattro anni; (pausa) lo so, avrebbe bisogno dell’occhio di un editor, perché ha degli scompensi.

Chi lo ha letto cosa le dice?

Ovviamente molti mentono.

E poi?

Prima di trovare un editore, il mio errore è stato quello di affidarlo a un celebre scrittore: “Tranquillo, ci penso io”. E invece due mesi di silenzio.

Lì cosa ha capito?

Che gli ha dato un po’ fastidio, e allora poteva essere interessante.

Le parti erotiche sono molto forti.

Fortissime! (pausa) Molti scrittori, tipo Roth, utilizzano l’erotismo e la figa per narrare altro, e visti i tempi dove il porno è ovunque, non mi sembra nulla di scandaloso. Altro che settant’anni fa.

Cosa?

Per sapere com’era l’organo femminile…

Ora siamo all’organo femminile.

Ha ragione, ricominciamo: negli anni Cinquanta per sapere com’era la figa non c’era mezzo. Niente film. Foto. Internet. Al massimo dovevi ricordarti di com’erano le bambine quando giocavi con loro.

La soluzione?

Ho aspettato paziente; sono nato in mezzo alle risaie, da noi c’era una ragazza chiamata la “Mora del bosco”, e una mattina mi ha chiamato in casa e l’ha mostrata a mo’ di provocazione: “Guarda qua”; (cambia tono, abbassa la voce) poi nella vita non è mancata occasione, visto il ruolo con Tinto Brass.

Cinque film…

In un certo senso mi sono specializzato.

Com’è nato il binomio?

Tinto frequentava i teatri di posa e a fine anni Settanta mi ha visto mentre giravo un film con Michelangelo Antonioni: “Vieni da me, ti faccio un provino”. Era perLa chiave.

Che tipo di provino?

Dovevo parlare in inglese, e non lo conosco, così inventai una lingua alla Alberto Sordi. Preso. E siccome La chiave ha incassato una valanga di soldi, allora Tinto mi ha elevato a portafortuna.

Lei si mortifica.

No, è la verità, perché nei film di Brass gli uomini non contano molto; (ride) comunque mi ha sempre voluto.

Per qualche anno è stato un uomo molto invidiato.

In qualche modo sì; me ne accorgevo in particolare al Sud: un giorno prendo un taxi, l’autista inizia a fissarmi dallo specchietto retrovisore, fino a quando con un brandello di coraggio, misto ad ammirazione, esplicita le sue riflessioni: “Scusi, lei è… lei è… lei è quello”. “Chi?” “Eh, quello che… eh eh eh… ho visto, li ho visti tutti!”

Appunto, eroe…

Il bello è che i film di Brass non viaggiavano solo al cinema, ma venivano celebrati dalle videocassette: quello con Claudia Koll (Così fan tutte) è stato primo in classifica per tanto tempo.

La Koll è diventata una suora laica. È stupito?

La vita è straordinaria per questo: allora nessuno avrebbe scommesso su questa conversione, però nel Vangelo c’è anche la Maddalena, quindi è una sorta di topos.

Sul set di Brass si è mai imbarazzato?

Non secondo quello che si può immaginare.

Tradotto?

Il problema non era la nudità, ma sbagliare il colpo.

Traduciamo ancora?

Certe volte, durante le riprese, sotto le coperte avrei voluto tentare un reale approccio sessuale, però l’arma non funzionava; (silenzio) insomma, non mi tirava l’uccello.

Si faceva realmente sesso…

(Tono addolorato) A me non funzionava.

Troppa gente sul set.

Non era quello, forse il contesto generale: ci infilavamo nel letto e quel letto si tramutava in una piazza dove si viveva la quotidianità, compreso ricevere il cestino del pranzo, mangiare e ritrovarsi le briciole sparse

Sempre a letto.

Sì, e proprio l’assenza di imbarazzo, il rendere tutto così fruibile, mi disinnescava.

La partner con la quale si è trovato meglio?

Stefania Sandrelli e Claudia Koll; la Sandrelli era una quarantenne perfetta; era come il sole al tramonto: avvolta da quella luce magnetica.

Da lì è ripartita la sua carriera.

Possedeva la capacità rara di passare dalla vita al set senza discontinuità, con grande naturalezza; lei non cadeva nell’errore di osservarsi, errore deleterio per l’attore di cinema; (pausa) per questo non sono un granché davanti alla macchina da presa.

Cioè?

Non ho mai girato grandi film, non è il mio mezzo e alla fine ho mantenuto meno di quello che promettevo al regista e per questo difetto; (cambia tono) Antonioni sosteneva: “Gli attori anglosassoni non recitano, vivono. Ci vuole una certa ingenuità, anche stupidità per risultare grandi interpreti del cinema”.

È vero?

Ha una sua logica: gli attori statunitensi non hanno alcun complesso, mentre i latini hanno spesso una sorta di coscienza sporca che auto-controllano.

Mentre in teatro?

Sono un re. Sono a mio agio. E non ho paura di niente.

Le dispiace venir inquadrato per il cinema?

Oramai non mi riconosce nessuno, è capitato giusto per un periodo degli anni Ottanta.

Le piaceva?

No, sorridevo pensando al motivo della mia fama; non mi fermavano per l’interpretazione, ma perché davo al cinema la parte migliore di me.

Qual è?

L’uccello.

Brass quasi non la cita nella sua biografia.

È normale, con lui i maschi erano accessori.

Su Senso ’45 Brass racconta degli intoppi con la Galiena.

Già sul set non era molto contento e infatti è il film che ha chiuso la carriera di Tinto; ricordo che quando la Galiena prese una brutta storta alla caviglia, lui era tutto felice alla sola idea di poter interrompere le riprese. E invece l’assicurazione coprì tutto e gli toccò concludere.

Lei ha recitato con la Vitti e per Antonioni.

Il mistero di Oberwald è stata una toppa tremenda, con un incasso pessimo; in realtà, lì, Antonioni ha tentato un esperimento tecnico: è il primo film girato in video e poi riversato su pellicola, tanto da mettersi contro la Kodak.

Lei e Antonioni.

Non gli piacevano i miei ricci, li definiva “retorici”; giravamo in Tirolo e ogni tre giorni, da Roma, arrivava in aereo un parrucchiere solo per stirarmi i capelli; per questo la notte dormivo alla egizia, con il collo sollevato, in modo da non poggiare la testa; lavorare con lui è stato eccezionale e dopo le riprese, a cena, sparava delle massime sensazionali.

Tipo?

Una sera definì Kubrick “bravino”: per lui il vero grande regista doveva essere anche autore della sceneggiatura originale.

La Vitti?

Aveva un suo mondo, dotata di un carattere forte, non dolce e con Antonioni giocava alla pari, tanto da imporre i costumi che desiderava anche se non erano perfetti per il periodo storico; (pausa) a cinquant’anni ne dimostrava 35 e da vicino aveva un viso bellissimo.

Secondo alcuni suoi colleghi il palcoscenico è una droga…

Per me no; (ci pensa) può anche risultare un luogo di dannazione, basta infilarsi dentro uno spettacolo di merda ed essere costretto a portarlo in giro per 120 sere, e magari doversi sbronzare per dimenticare.

Le è capitato spesso?

Può succedere, perché in Italia lo spettacolo si vende prima della messa in scena; per fortuna ora sono in giro con Umberto Orsini e con un bellissimo lavoro.

Si è mai tirato indietro?

Giammai, e se il regista è un cretino, come può capitare, è bello eseguire le sue indicazioni: è comunque un impegno. È una prova. E l’obbedienza ha un lato erotico.

È stato megalomane?

Quello mai.

Comunista?

Neanche, però sono cresciuto con un nonno socialista e suo fratello comunista e becchino di cimitero che lo voleva uccidere e girava con un’accetta infilata nei pantaloni.

Liti per questioni politiche?

Un po’, ma soprattutto perché mio zio ricomponeva i cadaveri dei tedeschi e invece di utilizzare l’alcol per non rischiare epidemie, lo rivendeva sottobanco. È diventato ricco. E mio nonno non era suo complice.

Torniamo a teatro: ha lavorato con Carmelo Bene…

(Inizia a parlare come Bene e lo imita in maniera magistrale. È nella sua testa) Non ci ho mai litigato, anzi non ho mai litigato con nessun teatrante.

Caso raro.

Era come un fratello maggiore; sosteneva che ho avuto la faccia da culo di salire sul palco insieme a lui.

Lui che è apparso alla Madonna.

Con Carmelo mi sono veramente divertito e quanto ho bevuto… Che sbronze.

Anche in scena?

Proprio lo spettacolo lo prevedeva: era il Faust prodotto dallo Stabile di Torino e in scena c’era un piccolo bar dove ogni sera aprivamo due bottiglie di champagne Krug; non solo: prima del sipario, in camerino, Carmelo stappava una bottiglia di vino da associare al miele.

Da star male.

Secondo lui era fondamentale per la gola, così alternava un bicchiere a un cucchiaino: salivamo in scena alticci, sul palco altra botta e tutto si concludeva con la cena alcolica. (sorride) Carmelo era capace di far aprire apposta il ristorante e pagare cifre folli.

Folli perché andavate avanti a Krug…

No, se il ristorante era chiuso, chiamava il proprietario: “Di quanti coperti garantiti avete bisogno? Dieci? Va bene” Allora pagava per tot persone quando in realtà eravamo solo in due; finita la cena andavamo in giro con la sua (Citroën) DS 21, guidata da me, e fino alle 5 del mattino.

Ci vuole il fisico.

Infatti ero diventato grassottello come Renato Pozzetto e dormivamo fino alle cinque del pomeriggio.

Quanto si è divertito?

Uno se ne accorge o lo capisce sempre dopo e oggi posso dire che è stato bello.

Lei chi è?

Mah, non c’è risposta; sono come un mare piatto con molti pesci sotto.

Com’era mani pulite, tradita dai partiti

“Un giorno in pretura”, un programma che andava su Rai3, era nato nel 1988. Dava in diretta i processi di competenza pretorile, cioè per reati la cui pena massima non superasse i quattro anni. Insomma reati quasi bagatellari.

Fine febbraio 1992. Io lavoravo all’Indipendente di Feltri, ma in quei giorni ero in vacanza nella casa di proprietà dei genitori della mia fidanzata. Una sera il padre di lei, che come tutti gli anziani passava ore davanti al piccolo schermo, mi venne a cercare e mi disse: “Vieni a vedere la tv, c’è una trasmissione interessante, curiosa”. Andai e vidi qualcosa che allora aveva dell’incredibile. Un noto politico democristiano alla sbarra, messo sotto il torchio da un tipo massiccio, atticciato, dall’aria contadina, il Pubblico ministero. Era Antonio Di Pietro. Fu una trovata geniale quella di Francesco Saverio Borrelli, che dirigeva la Procura di Milano e il gruppo di magistrati che sarebbe stato poi chiamato “il Pool di Mani Pulite” – che allora comprendeva solo Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro (Ilda Boccassini, Davigo, Greco si aggiunsero dopo) –, di affidare gli interrogatori in aula, tutti quelli che potemmo vedere in tv, proprio a Di Pietro. Agli indagati che cercavano di difendersi col solito, fumoso, politichese, Di Pietro opponeva il suo buonsenso contadino e a quel politichese totalmente fuori dalla materia del contendere replicava col suo famoso: “che c’azzecca”? Vedemmo sfilare una serie di intoccabili con tutta la loro miseria. A me colpì molto l’interrogatorio di Claudio Martelli, uscito dalla casa di Carlo Sama con 500 milioni in contanti nascosti in un giornale. Claudio era stato mio compagno di banco al liceo classico Carducci. Ma come, dicevo fra me, noi siamo stati educati nei migliori licei di Milano per diventare classe dirigente e tu sgattaioli con 500 milioni in tasca come un malandrino qualunque. Ricordo lo sguardo di Martelli rivolto a Di Pietro. Era di ghiaccio. Se avesse potuto ucciderlo, almeno col pensiero, l’avrebbe fatto. Martelli aggravò la sua posizione affermando che pensava che quei 500 milioni non fossero della Montedison ma personali di Sama. Martelli ne uscirà con un “patteggiamento”, restituendo quei 500 milioni.

Mani Pulite ebbe all’inizio un grande consenso da parte della popolazione, stufa dell’arroganza impunita della classe dirigente, e anche della grande stampa che aveva la coda di paglia per aver taciuto e assecondato il regime. Ma ebbe anche un eco internazionale. Si plaudiva all’Italia che aveva il coraggio di ripulire in pubblico i propri panni sporchi.

Certamente ci furono degli eccessi in quei due anni. Ma non da parte della Magistratura. Bensì da parte di una popolazione inferocita presa dalla sindrome ben descritta da Buzzati in Non aspettavano altro (le monetine lanciate a Craxi davanti al Raphael, l’inseguimento del ministro degli Esteri Gianni De Michelis fra le calli di Venezia). Per accanimento forcaiolo si distinse proprio Feltri (diventerà “ipergarantista” quando passerà alla corte di Berlusconi): la foto di Enzo Carra in manette sbattuta in prima pagina, l’appellativo di “cinghialone” affibbiato a Bettino Craxi trasformando così una legittima inchiesta della magistratura in una “caccia sadica”, il coinvolgimento dei figli di Craxi. Toccò a me, sempre sull’Indipendente difendere loro (“Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi” – L’Indipendente, 11-5-1992 ) e in qualche modo lo stesso Craxi nel momento della sua caduta, quando improvvisati fiocinatori, fra cui eccellevano alcuni suoi amici, si accanivano sulla balena ferita a sangue (“Vi racconto il lato buono di Bettino” – L’Indipendente, 17-12-1992).

Uno dei tanti errori di Craxi fu definire Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante il 17 febbraio 1992 mentre buttava una mazzetta nel cesso, un “mariuolo”, come se si trattasse di una mela bacata in un cesto di mele immacolate. Se avesse fatto in quel momento la chiamata di correità di tutti i partiti avrebbe avuto un valore, farla in Parlamento cinque mesi dopo nel luglio del 1992, quando era stato pescato lui stesso con le mani sul tagliere, era troppo comodo. Passata la prima buriana, la classe politica cercò di reagire, col famoso decreto “salvaladri” del ministro della Giustizia Biondi (primo governo Berlusconi) che metteva in libertà numerosi detenuti di Tangentopoli. Ma era troppo presto. Il decreto fu ritirato per la reazione popolare e perché i quattro magistrati Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in tv affermando che se le cose stavano così avrebbero chiesto di essere assegnati ad altro incarico.

Il più astuto a cercare di approfittare della situazione fu Berlusconi. Prima cercò di lisciare il pelo ai magistrati offrendo a Di Pietro, che la rifiutò, la carica di ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro diverrà poi nel linguaggio berlusconiano “un uomo che mi fa orrore”) poi, inquisito a sua volta, innescherà la reazione attaccando senza soste i magistrati di Mani Pulite e la Magistratura in generale, suonando la grancassa dell’anticomunismo perché a essere spazzati via dalle inchieste furono la Dc, il Psi, il Pli, il Pri, mentre il Pci si era in qualche modo salvato, perché il compagno Primo Greganti arrestato si rifiutò, in perfetto e coerente stile vecchio Pci, di fare qualsiasi nome, di imprenditori e tantomeno di uomini del suo partito. Durante gli anni della reazione berlusconiana il fuoco di fila si concentrò soprattutto su Antonio Di Pietro, messo sette volte sotto processo e sette volte assolto.

Perché fu possibile Mani Pulite? I suoi presupposti vengono da lontano. Col collasso dell’Urss era venuta meno la paura dell’“orso russo” e quindi anche il detto di Montanelli secondo il quale era necessario votare la Dc (“turatevi il naso”). Nel frattempo era nata la Lega di Umberto Bossi, il primo, vero, partito d’opposizione dopo anni di consociativismo, perché il Pci era stato appunto associato al potere. Se quindi prima era possibile innocuizzare i magistrati che cercavano di ficcare il naso nella corruzione politico-imprenditoriale senza che nessuno osasse alzare una voce, adesso questa voce c’era e si chiamava Lega. E al Nord, che era particolarmente colpito dalla corruzione, la Lega prendeva il 40 per cento dei consensi, non solo provenienti dalla Dc, e non si poteva ignorarla. Prima della nascita della Lega, il sistema per paralizzare le inchieste era quello di farle finire alla Procura di Roma, non a caso chiamata “il porto delle nebbie”, che regolarmente le insabbiava.

Oggi, a trent’anni di distanza, si cerca di capovolgere completamente la storia di Mani Pulite. S’inventano tesi molto fantasiose come quella che vede dietro Mani Pulite gli americani. Non si vede proprio perché mai gli americani volessero la distruzione di partiti atlantisti a favore dell’unico partito che atlantista non era, il Pci-Pds. E ci fermiamo qui perché le fake in materia sono innumerevoli. È vero invece che Mani Pulite non ha cambiato l’Italia in meglio, ma in peggio. Ma questa non è responsabilità dei magistrati di Mani Pulite, ma della politica. Mani Pulite, che richiamava anche la classe dirigente al rispetto di quella legge che noi tutti siamo tenuti ad osservare, avrebbe potuto essere una lezione e un’occasione per questa stessa classe dirigente per emendarsi dalla propria corruzione. E invece nel giro di pochi anni, per la politica ma anche per i grandi giornali, i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Non c’è quindi da stupirsi se, con simili esempi, la corruzione discendendo giù per li rami abbia finito per coinvolgere quasi tutti, anche cittadini che per loro natura sarebbero onesti ma che non vogliono passare per “i più cretini del bigoncio”, e insinuarsi in ogni ambito della nostra vita istituzionale e sociale, compresa la stessa Magistratura. E così il cerchio si chiude.

 

All’origine degli stand-up tra Mc, night club e zuppe

Non faccio sesso da così tanto tempo che non ricordo più chi dei due deve essere legato.

(Joan Rivers)

La varietà dell’arte comica (e l’impulso più nobile, quello della conoscenza) impongono all’artista i doveri della ricerca e della riflessione; ma hai voglia a teorizzare: la prova è sempre nel budino. E nessuno lo sa meglio dello stand-up comedian, il comico che, microfono in mano, cerca di far ridere il pubblico con battute (jokes) sui temi più vari.

LA STAND-UP COMEDY

Originata negli Stati Uniti dalla tradizione ottocentesca dei conferenzieri comici itineranti, il più noto dei quali è lo scrittore Mark Twain, nel secolo seguente la stand-up comedy diventò parte del vaudeville, quando artisti come Frankie Fay e Bob Hope si specializzarono nella presentazione divertente delle attrazioni.

Le battute erano convenzionali.

HOPE: Marshall lo conosco. È scozzese. Si è sposato dietro casa così le galline possono beccare il riso.

Il vaudeville, per circa un secolo (1850-1950), fu la forma principale di intrattenimento teatrale negli Stati Uniti. Era uno spettacolo di varietà creato con la successione di esibizioni artistiche indipendenti: cantanti, ballerini, prestigiatori, acrobati, giocolieri, addestratori di animali, mimi, e comici, i cui siparietti erano brevi atti unici, scenette, e dialoghi fra comico e spalla.

Lo stand-up comedian evolve dalla figura del presentatore (MC, Master of Ceremonies) che nel vaudeville introduceva i vari numeri con brevi monologhi (patter) a base di battute. Lo stesso accadeva nel burlesque (spogliarelli musicati, spesso ironici: Lenny Bruce esordì come presentatore di burlesque), nei minstrel show (spettacoli con fantasisti bianchi in blackface che si burlavano degli afro-americani); e nei night club (detti anche cabaret, all’europea. Woody Allen, parlando dei suoi esordi nei night club, dice infatti: “I was a cabaret comedian”, cfr. bit.ly/3opEWVM, a 2’ 08’’). Il declino del vaudeville fu accelerato dalla Depressione del 1929 e dalle nuove tecnologie (radio, cinema, tv).

Negli anni 50, il monologo divertente fu perfezionato dai comici ebrei che si esibivano negli alberghi estivi della cosiddetta Borscht Belt, sui monti Catskill, nello Stato di New York (Borscht Belt, cintura del Borscht, perché i villeggianti appartenevano alla media borghesia ebraica, e il borscht è la zuppa di barbabietole tipica delle regioni europee centro-orientali da cui gli ebrei aschenaziti erano emigrati negli Usa a partire dalla metà del XIX secolo). Fra i comici del circuito, i monologhisti Don Rickles, Joan Rivers, e l’ex rabbino Jackie Mason.

Ho abbastanza soldi per il resto della mia vita, a meno che non compri qualcosa. (Jackie Mason)

Nei night club e nei primi comedy club degli anni 60, Lenny Bruce (bit.ly/3HOkbuk) e Mort Sahl (bit.ly/3GuV6TW) innovano il genere proponendo monologhi satirici che esprimono opinioni personali su politica, religione, sesso, cronaca, cultura e costume.

Nixon. Comprereste da quest’uomo un’auto usata? (Mort Sahl)

Il linguaggio esplicito e i temi spinosi di Bruce gli procurano arresti per oscenità, ma la sua influenza sui nuovi comici è definitiva. La stand-up comedy approda in tv (varietà, talk show), e negli anni 70-80 i comedy club diventano un fenomeno di tendenza.

Preferirei che mia figlia guardasse un film porno piuttosto che un film pulito come “Il Re dei re”. Perché “Il Re dei re” è pieno di omicidi e non voglio che mia figlia uccida Cristo quando tornerà. (Lenny Bruce)

Di Lenny Bruce, in Italia il grosso pubblico conosce la versione edulcorata proposta dalla sit-com La fantastica signora Meisel, dove figura come mentore della protagonista. Trent’anni anni fa, per la seconda edizione italiana dell’autobiografia di Lenny Bruce Come parlare sporco e influenzare la gente, scrissi un’introduzione che ne raccontava arte e vita attraverso luoghi e persone:

Hanson’s. Un piccolo club fra la Settima Avenue e Broadway. Alla fine degli anni 40 era il ritrovo abituale di comici che sarebbero diventati famosi. Fra questi, Buddy Hackett, Jerry Lewis, Lenny Bruce e Joe Ancis.

Arthur Godfrey’s Talent Scouts. Varietà della CBS. Nell’ottobre del 1948 vi debutta Lenny Bruce, con uno sketch intitolato The Bavarian Mimic: Lenny imita James Cagney, Humphrey Bogart ed Edward G. Robinson che parlano in yiddish. Il brano si ispira a una famosa routine di Red Buttons, The Jewish Mimic.

Joe Ancis. I comici di Hanson’s lo consideravano “l’uomo più divertente di New York”. Molto colto, appassionato di jazz, Joe Ancis era uno spritzer: terrorizzato dal palcoscenico, davanti ad altri comici perdeva ogni inibizione, ed era in grado di improvvisare battute per ore con uno stile personalissimo, nuovo, che assemblava a raffica immagini, dialoghi, situazioni, dialetti, oscenità, cultura alta e cultura bassa in un collage dal parossismo esilarante. Nel 1959 Lenny tornò a esibirsi a New York dopo un’assenza di sei anni. Lo spettacolo sconcerta gli amici, che riconoscono all’istante lo stile, il linguaggio, e i monologhi di Joe Ancis.

Dilaudid. A Lenny piaceva drogarsi. Provò di tutto, dall’eroina all’Lsd. La sua endovenosa preferita era uno speedball: 12 pillole di Dilaudid (un oppiaceo) sciolte in 1 cc di Methedrina (metanfetamina cloridrato). Prima di ogni spettacolo, la dose di Methedrina veniva raddop

Sadie Kitchenberg. Vero nome di Sally Marr, ovvero Boots Malloy, ovvero Sally Marsalle: fantasista, comica, ballerina, primo manager di Lenny Bruce, nonché sua madre. Quando Lenny ha 11 anni, Sally lo porta a vedere un burlesque show. “Come ti sembrano quelle donne nude, Lenny?” gli chiede. “Meravigliose”. “Sono contenta che tu lo dica. C’è gente che considera questo tipo di spettacolo qualcosa di sporco. Ma non lo è. Guarda quanti uomini ci sono. Vieni per vedere qualcosa di sporco, e invece cosa vedi? Tuo padre”. (Sally Marr nel programma tv Playboy After Dark, 1969)

Harriet “Honey” Harlow. Spogliarellista. Lenny Bruce la sposa nel 1951. Per qualche tempo lavorano insieme: Lenny si produce in imitazioni di Peter Lorre e Maurice Chevalier, lei gli fa da spalla nelle scenette. Poi le offrono un ingaggio di un anno al Colony Club di Las Vegas, e così torna allo strip-tease. Lenny trova lavoro come annunciatore al club di fronte, lo Strip City, ed è in questo periodo che comincia a improvvisare battute satiriche prendendo spunto dalle notizie dei quotidiani. Nel ’55 i coniugi Bruce hanno una figlia, Kitty. Divorziano nel 1960.

Ecco dove nasce il problema. Tutti vogliamo una moglie che sia un mix fra una maestra di catechismo e una prostituta da 500 dollari a notte. (Lenny Bruce)

(94. Continua)

B. va allo stadio, non in tribunale Bacia Fascina e il Monza perde

Sì allo stadio no ai tribunali. Ormai Silvio Berlusconi sembra aver sposato questa filosofia. L’ex premier non si è presentato in Tribunale a Monza per l’udienza di un processo in cui è parte lesa nel procedimento a un’ex Olgettina per tentata estorsione, presentando un’istanza di rinvio per legittimo impedimento. Ieri invece era allo stadio, sempre a Monza, per seguire la locale squadra di Serie B di cui è proprietario: al gol dei padroni di casa, si è anche lasciato andare ad un bacio da love-cam con la sua fidanzata, la deputata Marta Fascina. Poi il Monza ha perso 1-2.

“Bonci insulta i dipendenti iscritti alla Cgil” Il panettiere star: “Che sindacato di merda”

“Sindacato di merda”, “fascismo sindacale”, “la rovina dell’azienda”. A Gabriele Bonci, amministratore dell’omonimo marchio di panifici molto noto soprattutto a Roma, non sembra andare molto a genio – per usare un eufemismo – la presenza della Flai Cgil nei suoi punti vendita. In particolare quella di un delegato che è in servizio nel laboratorio principale della Capitale, addetto che negli ultimi mesi è spesso stato apostrofato con espressioni di quel tipo. Tra poche settimane si esprimerà su questa vicenda il Tribunale di Roma, che dovrà decidere sul ricorso per condotta anti-sindacale preparato dai legali De Marchis, Bidetti e Circi e firmato dal segretario della Flai di Roma e Lazio Giuseppe Cappucci. Il 3 marzo l’udienza.

Il clima che viene descritto nell’atto è di una costante avversione al sindacato, nata dopo che nel corso di una riunione erano stati mossi dei rilievi sulle buste paga. Diversi gli episodi segnalati, a partire da un video in cui Bonci – volto conosciuto anche per le sue apparizioni televisive – rimprovera il delegato sindacale impiegato presso il forno per un errore nella produzione del pane. Quelle immagini sono state poi fatte circolare in una chat con altri lavoratori: “Salutami il tuo sindacalista e gli do un bacio”, si sente affermare prima di aggiungere insulti verosimilmente rivolti alla Flai. Ma non è tutto: nel ricorso si parla di un altro episodio, avvenuto durante la notte del 30 dicembre presso il laboratorio. In quell’occasione Bonci avrebbe di nuovo sbeffeggiato il suo dipendente e sindacalista per una lieve disabilità all’anca di cui soffre: “Io voglio che te ne vai via – riporta il documento citando le parole dell’amministratore – m’hai portato i sindacati dentro casa! Io te tengo pe’ carità, me fai pena! Sei n’handicappato, fai pure fatica ad abbassarti e piegarti!”. “Da quando abbiamo sindacalizzato il forno – racconta Guglielmo Agnoni della Flai – e da quando abbiamo iscritto i lavoratori, l’azienda ha sempre avuto atteggiamenti ostili. Non ho mai avuto il piacere di conoscere l’amministratore che alle riunioni ha sempre mandato il consulente del lavoro e sua moglie”. Tra l’altro, sembra che questo comportamento abbia anche avuto l’effetto di disincentivare le adesioni alla Flai: i primi di novembre, tre dei quattro lavoratori che si erano tesserati poco prima hanno chiesto la revoca dell’iscrizione. Il Fatto ha chiesto all’azienda, tramite i suoi indirizzi e-mail, di fornire la propria versione dei fatti, senza ottenere risposta.

Liceo di Cosenza, occupazione finita: lunedì tutti in aula

Con la manifestazione che venerdì ha invaso Cosenza, dopo quasi tre settimane di occupazione tornano in classe gli studenti del liceo “Valentini-Majorana” di Castrolibero, travolto dalla protesta degli studenti che si sono ribellati a episodi di molestie sessuali avvenuti negli ultimi anni. Abusi che sarebbero stati messi in atto da un professore di matematica che adesso è indagato dalla Procura. I pm hanno già interrogato le due ragazze (una studentessa e un’ex) che hanno presentato denuncia a carabinieri e polizia. A una di loro il docente avrebbe chiesto una foto del seno per farle avere la sufficienza.

Con la visita degli ispettori, inviati dal ministero dell’Istruzione, le tre settimane di occupazione del liceo si sono concluse con la notizia di un’imminente cacciata della dirigente Iolanda Maletta alla quale le ragazze si sarebbero rivolte senza ottenere il supporto dovuto: sul sito del ministero è stato pubblicato un avviso di conferimento incarico per un dirigente reggente. È il primo risultato dell’occupazione.

Africa, l’Europa vuole frenare Mosca e Pechino

Non è stata solo la pandemia a bloccare nel 2020 il sesto incontro tra l’Unione europea e l’Unione africana, piuttosto l’irritazione di quest’ultima a causa della politica economica di Bruxelles nei propri confronti. Dopo ben cinque anni, l’Unione europea e l’Unione africana (Ua) si sono riunite a Bruxelles in una due giorni iniziata ieri. L’ultima volta, nel 2017, era l’Unione africana a chiedere più investimenti europei, oggi è l’Europa a volerli fare per numerose ragioni. Tra queste il bisogno di contrastare Cina, Russia e Turchia che stanno espandendo sempre più la propria influenza in questo enorme continente ricchissimo di risorse naturali cruciali anche in vista della transizione energetica mondiale obbligata dal cambiamento climatico. Terre rare, idrogeno verde e un mercato in continua espansione grazie all’ingresso ogni anno a partire dal 2030 di 30 milioni di giovani africani in età lavorativa valgono bene i 150 miliardi di euro in investimenti per le infrastrutture che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha illustrato anticipatamente al presidente senegalese e attuale presidente dell’Ua, Macky Sall, recandosi a Dakar.

“Entrambe le Unioni condividono la stessa visione di un’area comune di stabilità e prosperità. Il vertice di Bruxelles dovrà accertare modi e mezzi concreti per raggiungerlo”, aveva spiegato Von der Leyen dopo aver incontrato Sall. È dunque l’Unione europea ad aver bisogno che l’incontro abbia successo perché l’elenco delle lamentele dei nostri vicini si è allungato negli ultimi anni. Con la sua popolazione che dovrebbe raggiungere i 2,5 miliardi entro il 2050, l’Africa è una forza globale in crescita. Un partenariato più stretto consentirebbe all’Europa e all’Africa insieme di esercitare un’influenza molto maggiore sulla scena mondiale. Ma per avere successo ci sarà bisogno di un’agenda basata su priorità comuni. L’Africa non ha bisogno di beneficenza bensì di una strategia congiunta con la Ue. L’economista Carlos Lopes dell’Università di Cape Town ha sottolineato che “viviamo ancora in un modello coloniale, in cui gli africani sono solo esportatori di merci che non vengono trasformate. C’è molta frustrazione che spinge l’Africa a cercare nuove partnership che contribuiscano all’industrializzazione del continente”. Una necessità che innanzitutto la Cina ha in parte soddisfatto generando, in realtà, un colonialismo alla pechinese basato su prestiti capestro che ora molti Stati non riescono a restituire. La mancanza di vaccini e il loro costo impossibile da sostenere ha esacerbato i rapporti tanto da spingere il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, a denunciare il “vaccino dell’apartheid”. L’Ue finora ha risposto solo con bla bla bla e un sacco di scartoffie. “I paesi africani e l’Ua preferirebbero che le attuali agende fossero implementate e completate. L’Ue si è concentrata maggiormente sullo sviluppo di nuove idee e strategie anziché sul parternariato economico. Ciò a volte ha causato tensioni nelle relazioni”, ha affermato l’analista Keijzer. Secondo Ronak Gopaldas di Singal Risk, una società di gestione del rischio in Africa “quello che vogliono gli africani è la collaborazione, non il paternalismo. Capiamo che dobbiamo integrarci. Vogliamo autofinanziare le nostre istituzioni. Vogliamo sviluppare i nostri mercati dei capitali in modo da dipendere meno da fonti di finanziamento esterne”.