Palù (Aifa): “Dopo l’estate, milioni di dosi made in Italy”

Alcuni milioni di dosi del vaccino anti-Covid dell’azienda Reithera di Castel Romano potranno essere somministrate da settembre. Se ne dice certo il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, Giorgio Palù: “Sarà possibile, ma non prima di settembre”, ha osservato nella trasmissione Buongiorno di Sky Tg24.

L’annuncio dell’investimento dello Stato, attraverso Invitalia, nel capitale dell’azienda, ufficializzato martedì, viene definito dal ministro della Salute Roberto Speranza “una scelta giusta e importante”. Dalla crisi pandemica, ha spiegato, “dobbiamo uscire più forti per garantire la salute delle persone oggi e domani”.

“È un vaccino – ha spiegato Palù – che utilizza un virus come vettore da un primate non umano, uno scimpanzé o gorilla, la stessa piattaforma che utilizza AstraZeneca”. È stata appena conclusa la fase 1, dunque il vaccino, ha concluso Palù, “non sarà utile in questa fase critica, ma sicuramente più avanti”.

Invitalia finanzia un investimento industriale e di ricerca da 81 milioni di euro. Gran parte dell’investimento, 69,3 milioni, sarà destinato alle attività di ricerca e sviluppo per la validazione e produzione del vaccino. La restante quota (11,7 milioni) sarà utilizzata per ampliare lo stabilimento di Castel Romano, dove sarà prodotto. La preparazione della fase 2 dei test è partita martedì: nel giro di due settimane sarà conclusa e potranno partire i test. Se tutto procederà senza intoppi e la fase 3 porterà agli esiti sperati, a giugno potrebbe essere presentata la richiesta di autorizzazione.

“Accordi con le aziende: la Commissione s’è fatta fregare così”

“Che AstraZeneca stia vendendo le dosi prefinanziate dall’Europa ad altri Paesi, come l’Arabia Saudita, bisogna provarlo. Ma Ryad sta comprando vaccini che la compagnia produce in India: sarebbe interessante sapere se questa una è violazione del contratto firmato con la Commissione europea”. Marc Botenga, belga, europarlamentare del gruppo “La Sinistra”, è il promotore di un emendamento per rendere pubblici i brevetti dei vaccini anti Covid. Emendamento bocciato a Bruxelles con l’appoggio di buona parte di Pd e di tutta Forza Italia.

Lei è tra i pochi parlamentari europei ad aver visto i contratti tra Commissione e aziende produttrici dei vaccini.

Solo quello con CureVac. Abbiamo chiesto anche quello firmato con Pfizer, ma la Commissaria Stella Kyriakides prima ha promesso di farlo, poi ha cambiato idea.

Che cosa l’ha colpita del contratto con CureVac?

Il prezzo non c’era, e c’erano omissis anche su quantità e tempistica delle consegne. Mi ha colpito leggere che, nonostante i Paesi europei abbiano finanziato la ricerca del vaccino, i brevetti restano di proprietà unica della compagnia e sarà la Commissione a doversi assumere il rischio finanziario in caso di vizi segreti e di reazioni avverse. C’è anche una clausola che prevede il divieto di esportare, o anche donare, i vaccini ad altri Paesi o a organizzazioni umanitarie.

L’amministratore delegato di AstraZeneca ha detto che nel contratto “non c’è alcun obbligo verso l’Ue” nelle consegne, che c’è scritto ‘faremo il meglio possibile’”. Abbiamo degli strumenti per vincere una eventuale causa con le società?

L’intervista a Pascal Soriot rischia di diventare un boomerang. Dopo aver imposto la segretezza, così facendo ha svelato una clausola del contratto a suo favore, e infatti adesso la Commissione gli chiede di pubblicarlo per intero. Bisognerà vedere se le dosi vendute altrove non c’entrino con quelle del contratto siglato con l’Ue.

Pensa che i ritardi dipendono dal fatto che alcuni Paesi hanno pattuito un prezzo d’acquisto maggiore rispetto a noi?

Va provato. La Commissione ha tanti sospetti, come quello sull’Arabia Saudita, e AstraZeneca non è riuscita a risolverli. Anche noi in Belgio abbiamo una situazione strana con la Pfizer. La compagnia ha comunicato che questo mese consegnerà solo metà delle dosi promesse. Nel frattempo sappiamo che Israele sta ricevendo molte dosi, sappiamo che paga il doppio e fornisce anche i dati medici.

Anche se fosse così, non ci sarebbe nulla di illegale, no?

Dipende da cosa c’è scritto nel contratto. Di sicuro la Commissione europea finora è stata molto accomodante, diciamo così, con le compagnie farmaceutiche, invece adesso sembra stia cambiando atteggiamento.

Perché secondo lei la Commissione ha scelto finora di non essere trasparente sull’economia dei vaccini?

Penso che abbia avuto paura della reazione dell’opinione pubblica. I contratti sono stati fatti velocemente, alcune clausole potevano scatenare critiche e complicazioni. Quella sui vizi segreti è nuova in Europa. E sul brevetto siamo stati più generosi persino degli Stati Uniti. Lì il brevetto del vaccino di Moderna, dato che è stato finanziato quasi totalmente dal governo, è per metà pubblico. Da noi sono tutti privati. Penso che sia stato cruciale quando è stato firmato il primo contratto. Il 9 novembre Pfizer annuncia che il suo vaccino è efficace al 90%, il giorno dopo la Commissione firma l’accordo. È lecito chiedersi se in quelle 24 ore, per assicurarsi subito abbastanza vaccini, la Commissione non abbia ceduto su tutti i punti del negoziato che era in corso.

Vaccini: L’Ue ha firmato contratti “capestro”

AstraZeneca taglia le consegne, ma l’Italia e gli altri Stati Ue non avranno sconti, restando forse con le mani legate anche dal punto di vista legale. I governi devono in principio pagare un acconto sul totale delle dosi di vaccino loro assegnate. Ricordiamo che AstraZeneca si è impegnata a fornire all’Ue 330 milioni di dosi (più un’opzione per altre 100). Una “caparra” dovuta nonostante la casa farmaceutica anglo-svedese abbia annunciato – prima ancora di ottenere l’autorizzazione dall’Ema – che nel primo trimestre fornirà solo il 40% delle dosi pattuite (3,4 anziché 8 milioni per l’Italia). I contribuenti italiani si vedono cioé costretti ad anticipare comunque una quota del costo dei 40,38 milioni di dosi complessivamente spettanti al nostro Paese, sebbene nei primi tre mesi dell’anno saranno molte meno le persone che potranno essere vaccinate (a meno che la società non riesca a recuperare il ritardo, dovuto – si dice – a difficoltà tecniche di produzione).

Ieri la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, ha intavolato un braccio di ferro a porte chiuse con la vicepresidente per Europa e Canada di AstraZeneca, Iskra Reic. Ma è l’esecutivo di Bruxelles ad essersi fatto autogol già ad agosto 2020, firmando con la multinazionale uno svantaggioso contratto “prendere o lasciare” (è lo stesso modello usato per Pfizer).

“I governi avevano cinque giorni per aderire all’accordo: tutti l’hanno fatto, i rinunciatari avrebbero preso l’accesso al vaccino”, spiega una fonte della Commissione che chiede l’anonimato. “Il testo prevede che, appena avrà ricevuto una raccomandazione positiva dall’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, e l’autorizzazione all’immissione sul mercato della Commissione, il vaccino di AstraZeneca potrà essere acquistato”. In realtà sembrerebbe che i Paesi non avranno la facoltà ma l’obbligo di acquistarlo alle condizioni pattuite, senza possibilità di rinegoziare. E tra le condizioni, come ha ammesso due giorni fa l’ad di AstraZeneca Pascal Soriot, c’è la possibilità per le aziende di allungare tempi di consegna. Mentre le scadenze di pagamento i governi devono rispettarle eccome.

Questo emerge – come già raccontato dal Fatto – dalla lettura del contratto firmato con l’azienda tedesca CureVac, l’unico finora reso pubblico, che presumibilmente ricalca nelle sue linee generali quelli stipulati con le altre aziende. È previsto un pagamento in tre fasi: un primo anticipo da parte della Commissione addebitato al bilancio comunitario; un secondo versato dal singolo Stato in base alle dosi assegnate (proporzionate alla popolazione); e un saldo commisurato alle dosi via via consegnate. La rata iniziale è stata versata a tutte le aziende dopo la conclusione dei contratti: AstraZeneca ha ricevuto 336 milioni di euro. Il 12 gennaio ha depositato la sua richiesta all’Ema che, insieme alla Commissione, dovrebbe pronunciarsi favorevolmente forse già oggi. A quel punto avrebbe il diritto di incassare anche la seconda rata, cioé quella sborsata dalle casse statali secondo formulari d’ordine sottoscritti da ciascun Paese successivamente al contratto.

“Indipendentemente dal fatto che uno Stato membro firmi o meno il suo modulo d’ordine, sarà comunque tenuto a pagare la quantità di dosi di vaccino assegnate, compreso l’importo da anticipare”, spiega Clive Douglas, giurista commerciale specializzato nel comparto farmaceutico allo studio Nexa, che ha letto le clausole del contratto CureVac. Queste si limitano a stabilire un piano indicativo di forniture, scaglionando le quantità dovute per trimestri. Il contraente deve garantire almeno una prima consegna, ma è libero di recapitare le successive dosi se e quando i lotti si rendano disponibili e non necessariamente alla fine di ogni trimestre.

In caso di ritardi, al produttore basta informare la Commissione e gli Stati membri entro un tempo ragionevole e presentare un nuovo calendario di distribuzione. È esattamente ciò che ha fatto la settimana scorsa AstraZeneca, scatenando le ire dell’Europa. Se fosse confermato che gli ampi margini di manovra offerti a CureVac si ripetono nei contratti firmati con AstraZeneca e le altre aziende, di fatto i governi si ritroveranno a dover pagare milioni di euro in caparre, senza alcuna garanzia di poter immunizzare una fetta relativamente ampia della popolazione in tempi rapidi. Inoltre, i ricorsi per inadempienza annunciati da Commissione e governi potrebbero cadere nel vuoto vista l’assenza di obblighi precisi in campo alle aziende. Nonostante gli inviti, annunciati a più riprese, dai rappresentati dell’Ue, Stella Kyriakides, Commissaria alla Salute, in testa.

“È difficile dire se i termini offerti a CureVac, che è una società relativamente piccola, riflettano quelli pattuiti con le società farmaceutiche più grandi come AstraZeneca e Pfizer, ma è concepibile che flessibilità simili siano previste anche negli altri contratti per mitigare i rischi delle aziende, date le incertezze inerenti all’enorme sforzo di produzione richiesto dall’eccezionalità della pandemia”, commenta Colin McCall, specialista in contratti nel settore biotech allo studio internazionale Taylor Wessing.

Proprio in considerazione dell’eccezionalità della crisi sanitaria, la Commissione e gli Stati membri partecipanti hanno deciso di contribuire al finanziamento dei costi sostenuti dalle case farmaceutiche per produrre rapidamente il vaccino. Cosa ci ha fatto AstraZeneca con la prima caparra della Commissione? Sapeva già prima di intascarsela, o di firmare il contratto, o di non poter produrre e distribuire il vaccino al ritmo promesso? Gliel’abbiamo chiesto, ma non ci ha risposto. Non resta che pubblicare il contratto, come ha minacciato di fare la stessa Ursula Von Der Leyen.

 

“Le mascherine Fca non filtrano”

Le mascherine chirurgiche 2R destinate alle scuole che Fca produce per il Governo italiano “hanno un potere filtrante dell’89-90%”, contro “il 98% previsto dalla norma”. L’accusa arriva dai sindacati Usb e Osa e la onlus Rete Iside, i cui rappresentanti legali hanno formalizzato una denuncia alla Procura di Roma e alla procura della Corte dei Conti del Lazio. Il reato ipotizzato è quello di frode in pubbliche forniture. Il documento destinato ai pm romani è piuttosto circostanziato e corredato da un’istanza “per l’adozione di misure cautelari” al fine “di garantire l’incolumità’ dei cittadini e dei lavoratori coinvolti”. Al centro dell’esposto, la fornitura concordata in estate dalla ex Fiat di 11 milioni di mascherine al giorno per le scuole. Fra novembre e dicembre scorsi, Usb Scuola e Rete Iside, si legge “hanno individuato alcune criticità relative alle mascherine fornite da Fca Italy”, in relazione “ai parametri di vestibilità”.

In seguito ai dubbi sollevati dalle sezioni scuola, le sigle sindacali hanno commissionato al laboratorio Archa srl le verifica del “potere filtrante” di due lotti di mascherine, quello pediatrico di settembre e quello per adulti di novembre. Il rapporto, datato 18 gennaio, è allegato alla denuncia e contiene il risultato di cinque provini sulla filtrazione batterica, tutti compresi fra l’83,53% e l’85,90%. “Si chiede all’autorità ricevente – si legge nell’esposto – di valutare se nei fatti descritti siano da ravvisarsi ipotesi di reato ed in particolare se siano ravvisabili gli estremi del reato di frode in pubbliche forniture ed ogni altra ipotesi delittuosa in relazione al pericolo cagionato alla incolumità pubblica”, anche “con riguardo agli omessi controlli dei dispositivi in questione”. Il coinvolgimento della Corte dei Conti avviene, invece, “al fine di verificare se dai fatti descritti sia derivato un fanno per l’erario e di individuarne i responsabili”.

L’accordo con Fca Italy è stato stipulato ad agosto e il caso fu sollevato quasi subito da Striscia La Notizia. Dalla struttura commissariale per l’emergenza Covid, sottolineano che dopo alcune criticità iniziali, le mascherine rispondono a tutti i requisiti di legge. L’azienda, dal canto suo, ha ribadito in varie occasioni che “numerose certificazioni di laboratori accreditati attestano la conformità dei materiali e del prodotto” e che “controlli della qualità delle mascherine prodotte vengono fatti quotidianamente”. Per produrre le mascherine, ha precisato recentemente Fca Italy, |sono utilizzate macchine prodotte da terzi fornite dal Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19”, Domenico Arcuri e “materie prime stabilite dalle autorità nazionali”. Alla data di ieri, la denuncia non era ancora arrivata all’attenzione dei pm, i quali decideranno se archiviare o aprire un fascicolo d’indagine con l’ipotesi di reato indicata dai querelanti.

Caccia alle varianti Covid: nasce il Consorzio italiano

Per ora non ci sono soldi, dovrà metterceli il ministero della Salute. È presto per parlare di un vero e proprio consorzio con personalità giuridica, al ministero per il momento dicono che “è meglio parlare di rete”, non si sa ancora quali laboratori ne faranno parte oltre a quelli di riferimento regionali e agli Istituti zooprofilattici. L’obiettivo è ambizioso, il modello è quello del Covid-19 Genomics Consortium (Cog-Uk) britannico avviato con 20 milioni di sterline. Lì ora su un’unica piattaforma hanno a disposizione oltre 200 mila sequenze di Sars-Cov2, l’Italia è ferma a 2.500 e si sta attrezzando. Il nascente Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenonotipizzazione del virus servirà a intercettare il prima possibile la circolazione di varianti del virus e a verificare l’efficacia dei vaccini e delle terapie a disposizione.

Ieri il progetto è stato illustrato al ministero della Salute dal direttore della Prevenzione Gianni Rezza, dal presidente dell’Aifa Giorgio Palù, dal viceministro Pierpaolo Sileri, dal presidente della Società di virologia Arnaldo Caruso, dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e da Paola Stefanelli sempre dell’Iss. “L’Istituto sorveglierà il virus, ce lo chiede l’Europa, ma bisogna anche essere coordinati e questo coordinamento non può che farlo l’Istituto superiore di sanità”, ha spiegato Palù. Si tratta di mettere in rete le sequenze il prima possibile, evitando che ciascuno le tenga per sé e per le proprie ricerche. Finora non erano stati coinvolti alcuni importanti laboratori di genetica che nei mesi scorsi si erano messi a disposizione con le loro macchine per il sequenziamento del virus. Da Udine, da Firenze, da Bari. Come il Fatto ha scritto a dicembre, non avevano avuto risposte. Ora probabilmente ci sarà bisogno anche di loro: “Siamo in contatto con l’Istituto superiore”, conferma il professor Michele Morgante ordinario di Genetica a Udine. L’iniziativa è stata del resto sollecitata a inizio dell’anno da una lettera al ministro Roberto Speranza firmata da decine di specialisti tra cui Massimo Galli del Sacco di Milano, Massimo Clementi del San Raffaele di Milano, Massimo Andreoni di Tor Vergata (Roma), Andrea Crisanti dell’Università di Padova e lo stesso Caruso dell’Università di Brescia che l’ha presentata ieri.

Sul tema specifico delle varianti, l’allarme maggiore riguarda quella brasiliana, mentre i primi studi su quella inglese e quella sudafricana rassicurano sull’efficacia dei vaccini. Rezza ha confermato una nuova circolare in arrivo per le Regioni che saranno invitate a monitorare non solo gli arrivi dall’estero, ma anche cluster anomali, reinfezioni e infezioni di persone vaccinate, potenziando il sequenziamento come in parte almeno alcune stanno già facendo. “Per il resto, anche contro le varianti, bisogna proteggersi: distanziamento, mascherine, lavaggio mani”, ripete, tra gli altri, il professore Massimo Ciccozzi del Campus Biomedico di Roma, promotore dell’iniziativa.

La Norvegia, intanto, chiuderà le frontiere a tutti i non residenti, eccetto a chi viaggia per motivi ritenuti essenziali, a partire dalla mezzanotte di venerdì, mentre il governo tedesco ha discusso ieri il tema di ulteriori limitazioni ai viaggi per limitare la diffusione delle mutazioni del coronavirus.

I numeri del bollettino quotidiano confermano la relativa stabilità dell’epidemia: 15.204 nuovi contagi notificati dalle Regioni con 293.770 tamponi di cui 125.665 antigenici rapidi (indice di positività al 5,18%, più alto del 4,4% di martedì). Ancora 467 morti contro i 541 dell’altroieri. I ricoverati sono diminuiti di 194 unità – ieri -69 (-125) –, 20 capienza Ti – ieri -49 (+29) – istantanei ieri 131.979 (-6.314).

Povero Salvini, legge i giornaloni e pensa di sapere cos’è il piano Ue

A Giovanni Floris che gli chiede conto del piano-Recovery alternativo presentato dalla Lega, Matteo Salvini, ospite martedì sera negli studi di Di Martedì, si presenta con un mucchio di fogli, neanche ben raccolto, quasi un novello Berlusconi. Vuole offrire l’immagine del leader preparato e che ha studiato, anche se le costrizioni populiste gli impongono di cambiare postura di tanto in tanto facendo l’occhiolino al “popolo” in attesa che “quelli là” liberino le poltrone.

Ma dove dà il meglio di sé, e offre uno spaccato dell’attuale dibattito pubblico, è quando si scaglia contro il piano del governo: “Già bocciato dall’Europa”, afferma senza timore di smentite. E invece Floris lo smentisce: “No, non è vero”. Non c’è stata nessuna consegna, nessuna risposta ufficiale, nessuna trattativa. E allora Salvini ammette che la fonte dell’informazione non è ufficiale, non sono i suoi europarlamentari o magari il suo abile responsabile Esteri, Giancarlo Giorgetti. No, la fonte è l’informazione italiana: “Chiami qualunque corrispondente da Bruxelles e glielo confermerà” risponde il Nostro al giornalista di La7. Salvini, in effetti, non ha torto. Nei giorni scorsi diversi quotidiani hanno dato ampio risalto ai presunti “ritardi” italiani e alle “bocciature” europee del piano senza indicare alcuna fonte ufficiale, ma nemmeno fonti informali.

Secondo le migliori ricostruzioni, la notizia andava individuata “tra le righe” delle parole di Christine Lagarde o in una perifrasi di Paolo Gentiloni. Il quale sta facendo un lavoro informale di pressione sui vari Stati, come spieghiamo nell’articolo a fianco, perché non sia abbandonato il cammino dell’austerità e delle riforme di sistema. Alla Spagna o, addirittura, alla Germania si chiede quella delle pensioni, ad altri la riforma del mercato del lavoro, all’Italia la riforma della Giustizia o della Pubblica amministrazione (in barba a Matteo Renzi che invece negava che queste fossero delle priorità). Ma è cosa diversa dall’aver bocciato il piano o dall’averlo giudicato irricevibile.

La partita è complessa e la stessa Commissione non sembra svolgere un ruolo trasparente, a cominciare da Paolo Gentiloni che forse dovrebbe parlare più chiaramente. Speriamo lo faccia nel corso delle audizioni parlamentari previste per la prossima settimana. In modo da non dover leggere “tra le righe”.

Recovery, la Francia accusa: “I ritardi vengono da Bruxelles”

Alla fine il vero ritardo sul Next Generation Eu è quello europeo. Gli ostacoli stanno a Bruxelles, non certo nelle decisioni degli Stati che hanno ancora del tempo, fino al 30 aprile, per presentare i loro piani. E gli ostacoli non sono meramente tecnici o burocratici, perché esprimono invece una volontà politica della Commissione di controllare il meccanismo di formazione dei piani nazionali.

Il punto sugli ostacoli è stato sollevato ieri dal ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, che in un’intervista al Financial Times ha invitato la Ue a superare “i blocchi” per garantire un esborso più rapido agli Stati membri.

“Vedo che ci sono blocchi e che tutto questo è troppo lento”, ha detto Le Maire riferendosi all’asse franco-tedesco come a un “capitale politico” che non può oggi essere sprecato da ritardi “per ragioni tecnocratiche”, e ha ribadito: “È tutto troppo lento e troppo complicato. Dobbiamo accelerare”.

La Francia ha presentato un piano, il France Relance, da 100 miliardi in cui i fondi europei contano solo per il 40%, il resto sono risorse nazionali. Questa è la prima importante differenza con il Piano di Ripresa e Resilienza italiano. Parigi pensava di poter spendere queste risorse già entro la fine del 2021 anche perché, spiega Le Maire al Ft, “questo è forse il momento più difficile della crisi perché ci sono nuove varianti del virus molto contagiose, le vaccinazioni non sono state ancora completamente avviate e c’è un forte esaurimento dei nostri cittadini, in particolare nell’economia”.

Ma si tratta solo di problemi tecnici? In realtà, in questi giorni, si assiste a un continuo movimento che coinvolge il ruolo della Commissione europea a partire da Paolo Gentiloni: da Bruxelles, anche facendo filtrare la spiegazione dei “ritardi” nazionali, è partita un’offensiva contro i vari Paesi che non risparmia nessuno.

È successo all’Italia ed è successo, incredibilmente, anche alla Germania dove il quotidiano Handelsblatt, citando fonti vicino al governo di Berlino, ha scritto che la Commissione Ue giudica “carente sul fronte delle riforme” il piano tedesco che, quindi, andrebbe migliorato.

In una sorta di nemesi storica, Bruxelles sembra chiedere alla Germania di “migliorare il sistema pensionistico”, come per anni è stato richiesto all’Italia. E secondo El Paìs la stessa richiesta è stata mossa al governo spagnolo, il secondo Paese per ampiezza di risorse ricevute dopo l’Italia. La Commissione, quindi, sta esercitando pienamente il suo ruolo di “guardiano” delle politiche standard, quelle che poi sono evidenziate dalle raccomandazioni del semestre europeo, non a caso inserito nell’accordo siglato attorno al Next Generation Eu.

La settimana scorsa, infatti, la Commissione ha aggiornato le Linee guida per la realizzazione dei vari Recovery plan rafforzando l’indicazioni delle “riforme” necessarie a sostanziare gli interventi di ricostruzione e confermando quindi la volontà di controllo politico delle azioni nazionali. Un controllo che però va oltre la giusta sorveglianza sulle modalità in cui i fondi verranno spesi, ma che mira a ottenere risultati politici sull’onda delle solite e vecchie discriminanti euro-rigoriste.

Assumono così particolare rilievo due fattori simultanei e che riguardano i due Paesi-chiave della Ue. Le Maire, infatti, ribadisce nell’intervista al Ft la richiesta di rivedere il Patto di stabilità e crescita e quindi le regole che fissano al 3% e al 60% del Pil rispettivamente i livelli di deficit e debito pubblico tollerabili dalle regole europee. La Francia, quest’anno dovrebbe arrivare a una percentuale del 120% del debito sul Pil, elemento che spinge Le Maire a dire che le regole “dovrebbero essere rivalutate per tenere conto della realtà” fatta di tre cose: “I livelli di debito più alti nella nostra storia, i tassi di interesse più bassi nella nostra storia e maggiori esigenze di investimento nella nostra storia”.

Il quotidiano londinese riporta che anche il “falco” tedesco Wolfgang Schäuble, ex ministro delle Finanze, che ha sempre sostenuto l’applicazione rigorosa del Patto di stabilità e crescita, ha espresso simpatia per coloro che affermano che le regole dovrebbero essere riformate prima di essere reimposte.

La posizione è in linea con quanto scritto il giorno prima da Helge Braun, capo di gabinetto del governo Merkel in un contributo apparso sul quotidiano Handelsblatt: “Il freno al debito non potrà essere rispettato nei prossimi anni, anche con una disciplina di spesa rigorosa”. I movimenti di fondo sono questi, le battute e le polemiche sui ritardi rischiano di non essere al passo.

Social: il premier straccia Matteo

Ai social, per carità, è sempre bene fare la tara. Quando però i commenti online sfiorano l’unanimità mettendo d’accordo migliaia di utenti, allora forse c’è qualcosa di più concreto dello sfogo di qualche anonimo.

Equello che sta succedendo in queste ore lo dimostra, con i profili social di Matteo Renzi invasi dai commenti negativi di chi ancora non si capacita della crisi e, dall’altra parte, un Giuseppe Conte molto apprezzato.

Qualche numero. L’ultimo post su Facebook del premier è quello di due giorni fa, quando ha auspicato la formazione di un governo “di salvezza nazionale”. Il messaggio ha raccolto mezzo milione di “reazioni” e 113 mila commenti, numeri lontanissimi dalla media, se si pensa che l’annuncio delle dimissioni di Conte sulla pagina di Matteo Salvini ha messo insieme 68 mila Mi piace e 18 mila commenti, mentre uno analogo di Giorgia Meloni si è fermato a 50 mila like e 11 mila commenti. In più, le reazioni al post di Conte sono quasi tutte positive. Basta leggere i commenti con più apprezzamenti: quello di Michele Sodano, deputato M5S (15 mila reazioni), ma anche Giorgio (“Lei è stato 10 spanne sopra tutti”, più di 25 mila like) e Margherita (“Lei resta quanto di meglio la legislatura abbia avuto”, oltre 4 mila Mi piace).

Viceversa, sul profilo di Renzi è una Caporetto. Neanche sotto il post per la Giornata della Memoria c’è tregua. Mohamed, 171 like, ironizza sul viaggio a Ryad: “Oh, eccoti di ritorno! Com’è andata in Arabia Saudita?“; Federico, 274 Mi piace, affonda: “Sei la persona meno credibile per parlare di memoria”. Così anche Mary (“Taci che è meglio”) e Valentino, anche lui tra i commentatori più apprezzati: “Senatore, se ci riesce pensi agli italiani”.

Non era andata meglio martedì, quando l’ex rottamatore aveva postato la consueta enews. Poche reazioni, praticamente tutte negative. Tra i 9mila commenti, il più cliccato è quello di Carmen: “L’Italia nel baratro a causa del tuo egocentrismo.” Per fortuna, si fa per dire, sul web c’è anche modo di sdrammatizzare, con alcune immagini satiriche che rendono l’idea della percezione della crisi. Se Churchill fosse ancora vivo, per esempio, dimenticherebbe parte del suo celebre discorso: “Per lacrime e sudore facciamo dopo, cominciamo dal sangue. Portatemi Renzi!”.

Renzi, conferenze&benefit. Ryad-Roma sul jet privato

L’aereo è atterrato intorno alle 3 di notte a Fiumicino. A bordo un solo passeggero: Matteo Renzi. Grazie a quel volo ‘executive’ operato da una compagnia privata Matteo Renzi ha potuto presentarsi rapidamente a Roma per andare oggi all’incontro con Mattarella. Per evitare polemiche sulla mancata quarantena e sui rischi per il capo dello Stato che lo riceverà, Renzi si sottoporrà stamattina al tampone. Polemiche più forti potrebbero essere sollevate dal soggetto che ha pagato il volo: il FII, Future Investment Initiative Institute, una Fondazione saudita creata all’inizio del 2020 per decreto dal Re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abd al-Aziz Al Saud.

La questione ‘volo gratis’ va inserita nei rapporti che Matteo Renzi definisce senza imbarazzo di ‘amicizia personale’ con il vero leader saudita, il 35enne principe ereditario Mohammad bin Salman, per tutti “The Crown Prince” o MBS. Teoricamente il vicepremier. Di fatto è il figlio del re premier a comandare. Ed è MBS che ha ideato le conferenze del FII Future Investments Initiative.

Matteo Renzi era in Arabia, come svelato dal Domani, per partecipare alla quarta conferenza annuale FII, la cosiddetta Davos nel deserto, dal nome della città svizzera teatro del forum mondiali dell’economia. Tutto parte nel 2018 con un debutto funestato dalle defezioni per l’omicidio efferato di Jamal Khashoggi, il 2 ottobre 2018. Il corpo dell’opinionista saudita che scriveva anche sul Washington Post non fu mai trovato. Khashoggi fu attratto in una trappola, sequestrato ucciso e – secondo le cronache dell’epoca – sezionato, cioè tagliato a pezzi, nell’ambasciata saudita di Instanbul. La fidanzata Hatice Cengiz nel dicembre 2019 venne a Roma per chiedere all’Italia di prendere una posizione più netta. Quando, nel maggio 2020 i figli di Jamal Khashoggi hanno perdonato gli assassini, Hatice Cengiz ha twittato: “Jamal è stato ucciso all’interno del consolato del suo Paese mentre prendeva dei documenti per il nostro matrimonio. Gli assassini sono venuti dall’Arabia Saudita con l’obiettivo premeditato di adescarlo, tendergli una trappola e ucciderlo. Noi non perdoneremo gli assassini né quelli che hanno ordinato l’omicidio”. Poi ha presentato una denuncia alle autorità Usa contro il principe MBS e altri funzionari a lui vicini per chiedere i danni. Il processo saudita chiuso con cinque condanne a morte poi commutate in pene detentive di 20 anni per molti è stato una farsa.

Non per Renzi. L’ex premier deve aver creduto alla versione di MBS che si proclama all’oscuro di tutto. Dopo l’omicidio Khashoggi ha partecipato agli eventi del FII e nel 2020 è entrato nel board della neonata fondazione infischiandosene delle polemiche. Oneri e onori: quando Renzi ha fatto presente la sua esigenza di rientrare velocemente in Italia non ha dovuto cercare un volo anticipato.

In qualità di membro del board ha usufruito di un ‘benefit’ incluso nel suo status. Stando a quel che Renzi stesso ha raccontato a chi gli chiedeva stupito del rientro con volo ‘privato’, non c’è stato un pagamento per il singolo volo. Esisterebbe una sorta di ‘diritto’ del membro del board FII a volare da e verso casa attingendo a questo ‘monte ore’.

Non tutti gli speaker hanno questo privilegio. Solo i membri del board. Le conferenze si svolgono da quattro anni. Però solo un anno fa il regime saudita ha creato la Fondazione.

L’amministratore delegato è il pubblicitario francese Richard Attias, marito di Cecilia, ex moglie dell’ex presidente francese Sarkozy. Attias con Renzi ha scritto anche un saggio pubblicato sulla rivista della Fondazione. Il presidente del board è Yasir Al-Rumayyan, governatore del fondo sovrano saudita PIF Public Investment Fund, un ‘giocattolino’ con un valore netto di 360 miliardi di dollari. Poi ci sono la principessa Reema Bint Bandar Al Saud, Mohamed Alabbar, il Professore Tony Chan, l’imprenditore americano e futurologo Peter H. Diamandis, il professor Adah Almutairi.

Al primo evento, nell’aprile del 2020, in piena pandemia, Renzi ha lanciato l’idea del nuovo rinascimento contro la nuova pandemia. In occidente si è ‘rivenduto’ il Nuovo Rinascimento già con la Merkel nel 2014 con la Pixar nel 2015, con Macron nel 2019 ma Attias e il board hanno battezzato così il quarto convegno FII, il primo della Fondazione. Renzi per fornire le sue visioni e il suo nome al board del think tank saudita è pagato 80 mila dollari all’anno che includono i gettoni di presenza. Sui compensi paga le tasse in Italia e a chi gli parla di conflitto di interesse (FII si occupa per esempio di intelligenza artificiale e altri settori nei quali possono esserci interessi italiani contrastanti con quelli sauditi) Renzi risponde: “Evito di occuparmi di temi simili e resto sulle grandi questioni”. Inoltre l’ex premier è convinto che il rapporto personale con MBS e quello formale con FII siano medaglie da vantare e non relazioni imbarazzanti per un politico. Agli eventi partecipano grandi nomi come l’ex premier australiano Kevin Rudd, il manager di Blackrock Larry Fink e l’ex Ad Ferrari Jean Todt. Però va detto che quasi sempre i manager sono in carica mentre i politici sono usciti davvero dalla scena.

In tvSondaggi maledetti, Salvini in crisi in diretta

A Matteo Salvini non gliene gira bene mezza. Martedì sera, ospite a Di martedì, ci si è messa pure la congiura dei sondaggi in diretta, col risultato del solito armamentario di faccetta già esibito nel celebre Ok Corral in Senato del 20 agosto 2019 contro Giuseppe Conte.

Ma cos’è successo stavolta? Capita che, durante l’intervista, Giovanni Floris dia la parola al sondaggista Nando Pagnoncelli, pieno di rilevazioni utili sulla crisi di governo. La prima: “Vorrebbe che Conte rimanesse presidente del Consiglio?”. I Sì vincono col 47 per cento, i No si fermano al 40 e il resto sono gli indecisi. Salvini abbozza. Il secondo cartello gli dà respiro: il 46 per cento ritiene che la Lega dovrebbe appoggiare un governo di unità nazionale. Sarebbe la ricetta di B. e la Lega da giorni chiede il voto, ma Salvini annuisce felice, forse consapevole che è in arrivo di peggio. Domanda secca: “Oggi sarebbe meglio che alla guida del Paese ci fosse…?”. E qui non c’è storia, col 48 per cento che indica Conte e solo il 29 che si schiera per Matteo. La mestizia cala sul volto del Nostro. Per una volta, era quasi meglio rinunciare all’ospitata tv.