È il nuovo Nazareno, B. s’allinea a Iv: “Un governo senza Conte”

Raccontano che in questi giorni Mara Carfagna stia ricevendo il triplo delle telefonate. “Hai visto Mara, abbiamo fatto bene a combattere da dentro, a non spaccare. Grazie a noi finalmente Forza Italia ha una linea! E adesso la Lega è costretta a inseguirci!”, è il tono delle chiamate. Carfagna si gode il momento, anche rispetto a chi ha scelto altre strade (come Renata Polverini), ma sa che tutto potrebbe precipitare da un momento all’altro. La spaccatura nel partito è dietro l’angolo.

Domani pomeriggio la delegazione del centrodestra salirà al Quirinale per le consultazioni col presidente Mattarella. La linea di FI è: no al Conte-ter, poi discutiamo, siamo aperti a un governo di unità nazionale. Il problema è che questa, nonostante un avvicinamento di Matteo Salvini, non è la linea di Lega e FdI. Come si è visto nel burrascoso vertice di martedì sera. I tre alleati saliranno al Colle a dire cose diverse. “FI andrà alle consultazioni con il centrodestra, ma le differenze ci sono. Noi non abbiamo mai chiesto il voto, ma un esecutivo dei migliori, di unità nazionale”, ribadisce Mariastella Gelmini. La capogruppo è intervenuta, martedì sera, in una surreale riunione di gruppo a Montecitorio dove non volava una mosca: hanno parlato solo lei e Renato Brunetta. “Era meglio salire al Quirinale da soli. Siamo un’alleanza plurale. Se Salvini non condividesse la nostra linea, gli chiederemmo di avere la stessa generosità che ebbe Berlusconi nel 2018 sull’alleanza gialloverde”, afferma l’ex ministro.

Insomma, il ragionamento forzista è lineare: all’unità nazionale Meloni ha già detto no per motivi meramente elettorali. A quel punto dirà no anche la Lega, perché Salvini non può permettersi di lasciare a FdI una prateria elettorale. “Quindi rimarremmo solo noi e a quel punto ci spaccheremo: quelli pronti a dare una mano al governo partecipando a una simil-maggioranza Ursula (M5S-Pd-FI più altri), e che quelli che resteranno ancorati a Salvini”, racconta una fonte. Mentre qualcun altro fa notare che la posizione berlusconiana in questo momento è uguale a quella di Matteo Renzi: no al Conte-ter, sì a una nuova maggioranza più ampia. “Sembra di essere tornati all’epoca del patto del Nazareno, ma senza Denis Verdini. Si vede che Berlusconi e Renzi sono fatti per intendersi”, la butta sul ridere Osvaldo Napoli. Ma in effetti è così: Renzi e Berlusconi in questo passaggio viaggiano in parallelo.

L’assemblea dei senatori, invece, è stata un po’ più movimentata. “Qui arrivano messaggi terrorizzanti dal vertice, i candidati li decideranno tutti Ronzulli e Ghedini. Se è così, ci sarà una fuga generale”, confida un senatore.

Dove tutto questo porterà è difficile dirlo. Berlusconi, dicono, è molto tentato di scendere a Roma per le consultazioni. A trattenerlo, però, è soprattutto il fatto che non si sta presentando alle udienze del Ruby-ter adducendo legittimo impedimento e motivi di salute. Ed è chiaro che un viaggio a Roma avrebbe il sapore della beffa nei confronti dei giudici di Milano. Dove, tra i 28 imputati, ci sarà pure la “traditrice” Mariarosaria Rossi, accusata di falsa testimonianza sulle olgettine.

Matteo: “Non mi telefona nessuno”. Dem in soccorso

“Metterò il veto a Conte? No. La verità è che non mi ‘cagano’”. Nelle conversazioni di Renzi con i parlamentari a lui più vicini, torna questa considerazione. Niente affatto secondaria: oggi il leader di Iv andrà a fare le consultazioni al Quirinale mentre gli altri protagonisti della crisi stanno lavorando per neutralizzarlo il più possibile. Per questo, non lo cercano. L’idea di Renzi resta quella di non fare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il nome del premier uscente, ma neanche di mettere il veto o indicare già da subito un’altra figura. Il rischio per il fu Rottamatore è troppo alto: potrebbe perdere i gruppi parlamentari, e anche la possibilità di rientrare in gioco. Anche se la tentazione di buttare nella mischia qualche altra opzione cresce. “Se non arriva un segnale da Conte, io lo dico al Presidente che non lo voglio”, si spingeva a dire. Chi ci ha parlato lo ha sentito dubbioso su Luigi Di Maio, ma desideroso di spingere Stefano Patuanelli. Un pensiero velenoso, visto che il ministro dello Sviluppo economico è tra i più vicini al premier. Mentre vagheggiava di una sorta di scambio Conte-Gentiloni: il premier dovrebbe andare a fare il Commissario agli Affari economici a Bruxelles, l’altro rientrare a Palazzo Chigi. Idea che non tiene conto né del fatto che la sostituzione nella Commissione Ue non è automatica, né che l’ex premier potrebbe non avere alcuna intenzione di tornare. Ma ci pensa Maria Elena Boschi a chiedersi pubblicamente perché non va bene Gentiloni. Insomma, quel “non c’è solo Conte” ripetuto da Teresa Bellanova dissemina dubbi sul comportamento di Renzi.

Che però, ottenuto già di fatto un indebolimento del premier, cercherà prima di tutto di alzare il prezzo, presentando intanto tutta una serie di proposte in termini di programma. E preparandosi a trattare in caso di formazione del governo. Magari provando a chiedere la testa di Alfonso Bonafede, a favore di quella di Maria Elena Boschi. Conte, Pd, M5S lo sanno: non a caso in questo momento strategicamente non lo cercano. Per renderlo meno centrale, aspettando il giorno in cui il gruppo dei Costruttori passerà da un’operazione matematica a qualcosa di più consistente. Secondo le previsioni del Pd questo dovrebbe accadere dopo il reincarico al premier uscente. E dunque quella che si sta giocando è una partita a scacchi piuttosto complessa. Soprattutto vista dal Nazareno: Renzi serve in maggioranza, ma deve essere neutralizzato il più possibile; le porte ai senatori di Iv devono essere aperte, ma il gruppo va tenuto unito perché faccia pressione sul suo leader; l’ex premier deve sapere che il Pd lo vuole in gioco, ma essere consapevole che non lo tiene in pugno.

Ieri Nicola Zingaretti, in una direzione del Pd convocata per blindare la linea, prima di tutto ha chiesto e ottenuto il mandato di fare il nome di Conte. E poi ha chiarito una posizione che ormai era nei fatti: “Nessun veto nei confronti di Italia viva”. Pur se con qualche distinguo: “Il tema del rapporto con Iv non ha nulla a che vedere con un aspetto di risentimento per il passato, ma di legittimi fondati dubbi sulla affidabilità per il futuro”. A ruota lo seguono i big del Pd. Da segnalare Andrea Marcucci, capogruppo in Senato, che ribadisce di nuovo l’importanza di ricucire con l’ex premier. In queste giornate in cui i senatori renziani sono particolarmente attenzionati, si racconta che proprio Marcucci stia facendo blocco per evitare che alcuni di loro rientrino nei dem. Nella partita che si sta giocando, non è secondario per il potere contrattuale di Renzi, che lui non perda pezzi: Marcucci, che continua a giocare di sponda con il senatore di Scandicci, sembra monitorare la situazione.

A ogni modo, occhi puntati sul Quirinale oggi. Con una variabile in più: Eugenio Comincini, senatore di Iv, è risultato positivo al Covid. Tutta la delegazione farà il tampone questa mattina, prima di salire al Colle.

I Costruttori al lavoro: arriva il forzista Vitali

Gli sherpa governativi, più che elencare i nomi dei “costruttori” che dovrebbero rimpolpare la maggioranza e aiutare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a ottenere l’incarico, sono prodighi di citazioni letterarie. E non esattamente positive. C’è chi parla di un momento da Aspettando Godot e chi paragona il fantomatico gruppo di responsabili al Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, anche se in questo caso non c’è nessuna Fortezza Bastiani da difendere dal nemico. Ma il risultato non cambia: i “costruttori”, al momento, non si vedono o arrivano alla spicciolata. L’ultimo ieri sera tardi: il forzista ipergarantista Luigi Vitali, fondamentale ai giallorosa perché componente totiano della commissione Affari Costituzionali. Gli altri attendono un possibile incarico a Conte e solo dopo che Matteo Renzi sarà rientrato nei giochi della maggioranza: a quel punto, fanno sapere fonti del centrodestra, sì che si potrà puntellare il nuovo governo.

E quindi, nelle prossime ore resta da sbrogliare la matassa: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella darà l’incarico a Conte solo se avrà i numeri, ma il premier è convinto che potrà avere i numeri solo una volta ottenuto l’incarico. Un cortocircuito. E allora si torna sempre a Renzi che, con i suoi 18 senatori, resta centrale. Solo dopo un accordo politico, il premier spera di poter allargare la maggioranza durante le consultazioni con i partiti di centro. Per esempio con l’Udc, tant’è che Paola Binetti al Fatto lo dice dritto: “Noi per ora stiamo nel centrodestra – spiega – ma se Conte vorrà fare un accordo, ci siamo”. Più sfumato “Cambiamo!”, gruppo di Giovanni Toti che ha tre senatori tra cui Paolo Romani e Gaetano Quagliariello. Ieri il governatore della Liguria ha riunito i suoi ma la linea non è cambiata: “No a un Conte-ter – ha detto Toti durante la riunione – e sì a una maggioranza Ursula o di salvezza nazionale”. Ergo: “Aspettiamo le mosse di Renzi e di Berlusconi”. I totiani però daranno sostegno (esterno) a un possibile governo Conte su legge elettorale proporzionale e una riforma costituzionale con la sfiducia costruttiva.

E poi c’è il gruppo “Europeisti”, nato ieri al Senato, che non è partito sotto i migliori auspici. Nella notte si è sfilata Sandra Lonardo per una lite con Mariarosaria Rossi e Bruno Tabacci sul simbolo del nuovo gruppo: lady Mastella avrebbe voluto anche il nome di “Noi Campani” nel logo se ci fosse stato anche quello di “Centro Democratico” di Tabacci. Antiche ruggini democristiane.

Rossi invece aveva promesso due nuovi arrivi da FI che invece ancora ieri non si sono palesati: quindi, per formare un gruppo, i centristi al Senato si sono dovuti far prestare Gianni Marilotti dalle Autonomie e Tatiana Rojic dal Pd. Non un bel segnale. Oggi il gruppo guidato da Tabacci-Fantetti-Causin si presenterà al Quirinale e farà il nome di Conte. Il pallottoliere conta 158 voti, uno in più della fiducia di martedì scorso (156 più un M5S malato), compresi i tre senatori a vita. Mancano ancora tre voti per arrivare a quella maggioranza assoluta che farebbe pendere il borsino per un reincarico al premier. A meno che Mattarella non decida di chiudere un occhio e dia un “aiutino” a Conte.

Il premier non cerca Renzi: tenta ancora il “ter” senza Iv

L’avvocato Giuseppe Conte ha un primo obiettivo che tutti sanno, tornare a Palazzo Chigi. Ma anche un obiettivo massimo che invece non può confessare, riuscirci senza riprendersi nel governo Matteo Renzi, l’avversario che alla fine lo ha costretto alle dimissioni, e che adesso vorrebbe tentare il colpo grosso, cioè impedirgli la terza resurrezione in tre anni.

Conte non vorrebbe più vederlo, e lo ha ripetuto in vari colloqui anche ieri, nel giorno in cui sono iniziate le consultazioni: “Dobbiamo riuscire a fare una maggioranza senza di lui”. Se potesse lo urlerebbe, ma il Quirinale è stato chiaro, non sono più possibili veti, neanche verso il fu rottamatore. Così il premier e i colonnelli del M5S devono provarci in silenzio. E la strategia è chiara: per ora nessun contatto con Italia Viva, neanche tramite interposti intermediari, né per Conte né per i grillini. “Per ora proprio no” giura uno sherpa del Movimento. Prima bisogna trovare altri Responsabili, e in fretta. Perché se ne entrano a sufficienza, daranno alla nuova coalizione l’autonomia, quella che si raggiunge con 161 voti di maggioranza in Senato. E così magari spingeranno qualche renziano a lasciare Iv, tornando nel Pd e blindando i giallorosa. Al punto che Renzi non servirà più. In caso contrario, “se proprio ce lo dovremo riprendere non dovrà essere più decisivo”, spiegano dai 5Stelle.

Convinti che in ogni caso non si possa prescindere da Conte premier. E nella pancia del Senato a ribadirlo al Fatto è Paola Taverna: “Conte è il nostro punto fermo, e se c’è lui da lì in poi si può fare tutto”. Cioè anche una nuova maggioranza. Con dentro perfino Renzi? “Noi qui in Senato lo viviamo, e non ne possiamo più. Su questo siamo duri”. Tradotto, per reggere un nuovo allargamento anche ai renziani, il M5S deve riportare a Chigi Conte. Nell’attesa, il percorso è pieno di ostacoli. E il primo nodo sono sempre i numeri. Alla caccia ai Responsabili sta lavorando anche lo stesso Conte, in collaborazione costante con Luigi Di Maio. “Ma la ricerca resta difficile” ammettono ambienti di governo. E poi c’è un problema, grosso, dentro il M5S, perché nell’assemblea congiunta di martedì notte tutti hanno ribadito sostegno all’ex premier. Ma diversi deputati hanno aperto al rientro di Renzi. Non era quello che voleva Conte, che prima dell’assemblea aveva chiesto ai vertici di diffondere dalla riunione un forte messaggio contro il fu rottamatore. Anche per motivi tattici, cioè per alzare il prezzo in un’eventuale trattativa con Iv. Ma è andata diversamente, per l’ira dei senatori. Per questo Barbara Lezzi lo scrive su Facebook: “Renzi deve restare fuori dal nuovo governo che deve essere presieduto da Conte. Confesso il mio disagio nell’ascoltare colleghi che senza pudore, aprono a Renzi come se niente fosse successo”. E Alessandro Di Battista va a sostegno: “Chapeau”. In serata parla ad Accordi&Disaccordi sul Nove, e precisa: “Conte e 5Stelle portano avanti una linea, parlando a tutto il Paese. Io mi rivolgo ai parlamentari di Iv e non a Renzi, rappresentante delle lobby. Fare di nuovo un governo con lui dentro sarebbe pericoloso”. Ma da oggi entra nel vivo la partita delle consultazioni. E dai partiti danno già come probabile un secondo giro al Colle.

Non il massimo per Conte, che potrebbe finire “bruciato” nel gioco incrociato, con Iv che domani pomeriggio non farà alcun nome. Per questo si sussurra di un possibile mandato esplorativo al presidente della Camera, Roberto Fico, che ieri è stato ricevuto da Mattarella assieme alla presidente del Senato Casellati. Ripartire da Fico sarebbe un modo per non esporre subito l’avvocato. Ma si è fatta difficile, per Conte. E in serata il M5S, irritato per gli attacchi di ieri via tv di Italia Viva, esplode: “Renzi è tornato ad avere lo stesso atteggiamento che ha portato a una crisi scellerata, evidentemente non è interessato alle sorti del Paese”.

Tutto può succedere

Nella crisi più demenziale del mondo, càpita che l’analisi più azzeccata la faccia Toninelli: “L’alternativa a Conte è un gran casino”. Ora che ha in mano il pallinod ella crisi, Mattarella deve trovare una maggioranza certa (non i famosi 161 senatori, ma almeno 158-159, visto che 4 dei 6 a vita e Bossi non si vedono quasi mai, dunque il plenum effettivo è 316-317). E, per farlo, deve intimare a chiunque incarichi di non porre veti per non precludersi i numeri che gli servono. Siccome poi siamo in piena pandemia e le Regionali in Calabria sono slittate da febbraio ad aprile, fa capire che le elezioni non sono un’opzione: se tutto va bene si può pensare a maggio-giugno, anche perché subito dopo parte il semestre bianco e sino a gennaio non si vota più. Inoltre non esiste una maggioranza per fare un governo, ma neppure per andare al voto. Le elezioni non le vuole nessun gruppo parlamentare, tranne forse quello di Fratelli d’Italia, che in tre anni ha quadruplicato i consensi ed è l’unico a poter garantire la rielezione a tutti i suoi, malgrado il taglio di un terzo dei posti. Oltre alla Meloni, il leader che ha tutto da guadagnare e nulla da perdere dal voto è Conte, forte di una popolarità già alta da due anni e ancora cresciuta dopo l’imboscata renziana.

Anche i 5Stelle, sventolando la bandiera di Conte, potrebbero aspirare a un buon risultato elettorale: ma l’altroieri i gruppi parlamentari hanno bocciato a maggioranza la linea (sacrosanta) del vertice “o Conte o elezioni”, pronti a un Conte-ter con Iv pur di restare dove sono. Poi c’è il Pd, che non è un partito, ma un coacervo di tribù tipo Libia: Zingaretti e i suoi ministri sarebbero ben lieti di andare alle urne, per tenersi stretto Conte, consolidare l’alleanza coi 5Stelle, liberarsi dei renziani di Iv e di quelli interni (i capigruppo Marcucci e Delrio giocano per il rignanese); ma non controllano le altre tribù, disposte a tutto, anche a un governissimo col centrodestra, pur di liberarsi di Conte e del M5S e restare lì altri due anni. Nemmeno Zinga, se fallisse il Conte-ter, potrebbe dire di no a Mattarella se questi chiedesse l’estremo sacrificio di appoggiare un governo istituzionale con i soliti Cottarelli o Cartabia. Perché quello, e non le elezioni, sarebbe lo sbocco di un naufragio del Conte-ter. Se Conte va a casa, i 5Stelle che l’Innominabile aveva miracolosamente ricompattato (Di Battista e Di Maio si riparlano addirittura) perderebbero il loro premier e per giunta finirebbero in mille pezzi. Ma andrebbe in frantumi anche l’alleanza giallorosa: il Pd e forse LeU in maggioranza e il M5S a sparare sugli attuali alleati dall’opposizione, probabilmente insieme alla Meloni e ai duri e puri della Lega.

Cosa resta, per evitare il “casino”? Due opzioni, una auspicabile e l’altra terrificante. Quella auspicabile è la più improbabile: il neonato gruppo “Europeisti” trova abbastanza senatori per sostenere il Conte-ter rendendo ininfluente Iv anche per un solo voto; da Iv si stacca qualche italomorente che non ha condiviso la crisi e finora si è fidato della promessa dell’Innominabile e delle sue quinte colonne pidine (Marcucci, Delrio, Guerini & C.) di una pronta resurrezione al governo come se nulla fosse accaduto; e il Conte-ter guadagna un margine accettabile per restare in piedi e governare. L’opzione terrificante è la più probabile: i centristi non bastano e Iv resta determinante. In quel caso si vedrà se oggi, al Quirinale, Iv porrà il veto su Conte o no. Se lo porrà, magari provocando i 5Stelle con trucchetti da magliari su Patuanelli o Di Maio o Fico, Conte non avrà il reincarico e Mattarella chiamerà qualcun altro per rappattumare i giallorosa; ma con scarse chance, perché i 5Stelle non voterebbero un governo senza il loro premier (a meno che non siano totalmente idioti). Dunque il passo seguente sarebbe il governissimo con chi ci sta. Se invece Renzi non porrà veti, Conte verrà reincaricato, ma col mandato di consultare l’intera maggioranza giallorosa, inclusa Iv, altrimenti non avrebbe più i numeri su cui ha riavuto l’incarico. E lì non vorremmo essere nei panni di Conte che, piuttosto che parlare con l’Innominabile e con la Boschi dopo mesi di insulti, calunnie e ricatti, si convertirebbe alla Lazio.

Avendo detto “mai più con Iv”, potrebbe rifiutare l’incarico per coerenza e ritirarsi in attesa di tempi migliori. Così salverebbe la faccia. Ma perderebbe l’alleanza che con tanta fatica aveva costruito. E si esporrebbe all’accusa di anteporre le questioni personali al bene comune. Oppure Conte, per lealtà istituzionale, spirito di servizio e vocazione masochistica, potrebbe accettare l’incarico e risedersi al tavolo con chi l’ha rovesciato chiamandolo “vulnus per la democrazia”. Magari a patto che nel suo terzo governo non entri chi ha messo in crisi il precedente (l’Innominabile, la Boschi e le due ex ministre). E nella speranza che intanto arrivi qualche centrista a rendere ininfluente Iv. Ma sempre col rischio che il rignanese ricominci coi veti e i ricatti su Mes, affari, giustizia e ributti tutto all’aria in qualche settimana. A questo punto, cari lettori, voi vi aspettereste una conclusione. Che cosa è meglio? Anzi, che cosa è peggio? Scusatemi, ma non so rispondere. L’unica certezza, per ora, è che l’Innominabile è talmente accecato dal suo ego che pensa di aver vinto lui. E non vede che hanno vinto Salvini, Meloni e B.. Sempreché non lavori già per loro.

Quel colore viola di Anne Frank e la tragedia vissuta nel “retrocasa”

È il diario più famoso al mondo: pubblicato la prima volta nel 1947 con il titolo Il retrocasa: annotazioni al diario dal 12 giugno 1942 al 1 agosto 1944 e conosciuto più semplicemente come Il diario di Anne Frank, arriva dalla Francia in forma di fumetto.

La storia è nota: Anne, giovane tedesca rifugiata in Olanda, resta nascosta per due anni insieme alla sua famiglia e altri clandestini in un appartamento segreto (il “retrocasa”, appunto) ad Amsterdam per sfuggire alle persecuzioni naziste. Morirà in un campo di sterminio ma il diario, scritto nel retrocasa e ritrovato dopo la liberazione, renderà immortale la sua storia: tradotto in quasi 70 lingue, diventa soggetto per film, cartoni animati e addirittura un musical (la povera Anne – impegnata a nascondersi dai nazisti evitando ogni rumore – che canta e balla negli spazi angusti di un nascondiglio?). Nel 2016 la Escape bunker, una sala giochi olandese, ha inaugurato una escape room a tema Anne Frank: il gioco consisteva nel farsi rinchiudere nella riproduzione del nascondiglio della famiglia Frank per poi guadagnarsi la libertà risolvendo indovinelli e rebus avendo a disposizione un’ora di tempo.

Ecco, a parte alcune bizzarrie di questo tipo, ogni trasposizione del diario ha ridato vigore alle parole di Anna Frank, ma il fumetto rimane il mezzo che meglio permette di trasformare con precisione il testo scritto in immagini. Nel 2017 Ari Folman (il regista israeliano di Valzer con Banshir) ha adattato il Diario in un graphic novel con le matite di David Polonsky e il libro ha ottenuto una nomination agli Eisner Award, gli Oscar della nona arte. Un adattamento minuzioso, teso a riprodurre fedelmente il diario mostrando panorami, ambientazioni, abiti, utensili e gli utilissimi schemi per comprendere la struttura del nascondiglio. Il fumetto permette questo, certo. Ma il fumetto può fare anche di più.

Il “diario” a firma di Ozanam e Nadji (il primo alla sceneggiatura, il secondo ai disegni), tradotto e pubblicato in Italia dalle edizioni Star Comics, abbandona il didascalismo e preferisce destrutturare il testo. I due autori francesi non si preoccupano di ricostruire visivamente l’ambiente in cui Anne si muove: non c’è Amsterdam, non ci sono sfondi, tutto è ridotto all’essenziale con poche linee nervose. Anche la Storia, quella con i nazisti e i campi di sterminio, è fuori e lontana. L’edizione di Star Comics comprende un’appendice con molte informazioni e dettagli, ma l’obiettivo del fumetto è puntato su un altro fuoco: è dentro Anne. Le parole si fanno da parte, spesso l’unico riferimento al diario è la data in cima a una tavola. I visi dei personaggi sono pochi tratti accennati per restituire le emozioni e non i tratti somatici, gli sfondi sono campiture di colore che raccontano la storia in modo semplice, quasi primordiale.

Il bianco compare poco, all’inizio e in (pochi) altri momenti sereni: il resto sono alternanze di viola, magenta e seppia sempre più scure fino all’ultima pagina del diario che è completamente nera. Sul nero il lettore si ferma e ci si specchia. E, infine, un’ultima tavola dopo il nero. La vera tavola finale: tutta bianca, mostra il ritrovamento del diario. E la speranza che finché questa storia sarà raccontata, il nero sarà solo una battuta d’arresto e mai la conclusione.

La memoria rischia l’oblio. Che accade senza testimoni?

“Nit’l” disse papà sorridendo, quando entrò nella mia camera. Io come al solito, appena sentito suonare alla porta, avevo afferrato un volume del Talmud – la raccolta delle discussioni sui testi sacri della tradizione ebraica – e l’avevo poggiato aperto sulla mia piccola scrivania. Facevo sempre così, per non farmi trovare mentre leggevo l’ultimo Tex.

“Nit’l, non si studia, Haimele. Prepara la scacchiera”. Era Natale.

Il divieto di studiare questi testi sacri a Natale, a lungo mi è sembrato un’evidenza, ossia l’assoluta incompatibilità tra il significato della festività cristiana e l’essenza stessa dell’ebraismo. Soltanto un po’ di anni fa ho letto che questo divieto rabbinico era nato nel Medioevo per salvare vite ebree. Siccome i libri di studio, rari e preziosi, erano custoditi nei templi dei borghi e delle città, gli ebrei uscivano di sera per andare a studiare. Uscire la notte di Natale significava rischiare la vita, perché era un giorno propizio ai pogrom, con il pretesto di vendicare l’uccisione di Gesù.

Questo divieto rabbinico si è poi trasformato in una usanza folcloristica, molto apprezzata dagli studenti delle scuole talmudiche che per la maggior parte non ne conoscono l’origine e quindi non ne capiscono l’attuale significato. L’usanza, in realtà, dovrebbe servire da barriera alla rimozione.

Siamo nel mese della memoria e siamo preoccupati dal ridursi del numero dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Chi andrà nelle scuole a parlare alle ragazze e ai ragazzi con infinita pazienza e dolorosa umiltà, con sorprendente intuito pedagogico? Chi accenderà le candeline della memoria, versando le lacrime a loro tempo impedite? Chi mai potrà sostituirsi a Primo Levi?

La memoria che pratichiamo confina pericolosamente con la memoria celebrativa e rischia di diventarlo del tutto, con l’estinzione dell’ultimo sopravvissuto. Come evitare tale disastro e trasformare la memoria incarnata in pensiero arricchente?

Lo sapete ormai, è una mia abitudine rivolgere alla Torah – la prima parte dei testi sacri della tradizione ebraica – le domande scomode che trasformano le mie notti in ore di insonnia. Scopro che fondandosi su una parola del testo dai molteplici significati, il Midrash (l’oralità della Torah consegnata alla scrittura), una dozzina di secoli fa, scriveva di una Shoah successa in Egitto durante il penultimo flagello, quello della tenebra. Vi perirono, precisa il Midrash, i quattro quinti del popolo degli schiavi, esattamente le proporzioni degli ebrei europei trucidati durante la Shoah moderna.

Il testo prosegue narrando vari episodi di ribellione del popolo appena liberato contro Mosè, la loro guida. “In Egitto avevamo acqua a volontà, cibo prelibato, e quanto meno sepolcri”. Sento risuonare nella mia memoria una battuta di papà: “Certo, la baguette è speciale, ma vuoi mettere il pane di Lodz? Il pane del Paese considerato il granaio d’Europa!”. Mi sembrava allora che in questo modo, venissero rimossi tutti i pogrom perpetuati durante oltre dieci secoli di presenza ebrea in Polonia.

Certamente ero poco tollerante, ma intellettualmente e psicologicamente allerta.

Tornando al testo della Torah, scopriamo che l’ultima pretesa avanzata dagli anziani del popolo è la conferma della presenza divina nel loro seno. A questo punto, gli occhi si alzano verso le alture e, colto dal terrore, il popolo scopre le orde di Amaleq, contro le quali andrà poi a combattere.

Chi erano gli amaleciti? I nazisti di allora, presentati come discendenti di Esaù, fratello del terzo patriarca Giacobbe. Notiamo sin d’ora la preoccupazione della Torah di non descrivere il nazismo e i nazisti come mostri, bensì come il volto del fratello, il volto alterato dell’umano.

Di rimozione in rimozione, ci si crea un passato quanto meno accettabile, quindi dignitoso e così si ignorano i segnali seppur chiari ed evidenti della catastrofe che si sta annunciando. Pensiamo al vero e proprio pogrom verificatosi nella Polonia dell’immediato dopoguerra, a Kielce, nel 1946.

La senatrice Liliana Segre diceva che la Shoah occuperà meno di dieci righe nei libri di storia del futuro prossimo. Come abbiamo visto, la Torah è ancora più parsimoniosa d’inchiostro e vi dedica una sola parola che significa, nello stesso tempo, “un quinto” e “armato”. Vogliamo pensare che essa intenda ribadire, a tutto l’Occidente, la necessità di rimanere vigili, armati, sia intellettualmente che militarmente, per affrontare qualsiasi deriva d’intolleranza, qualsiasi invettiva, anche quelle così flagranti e caricaturali da sembrare trascurabili?

Bisogna pensare sin d’ora che quando l’ultimo reduce avrà acceso l’ultima candela della memoria, dovremo già aver cessato di rimuovere le ferite inflitte all’ego individuale e collettivo dell’Occidente, in ogni circostanza e in qualsiasi modo. Volendo fare due esempi a rischio, mi lascerei interpellare dalla demonizzazione di Israele da parte di una certa classe politica dell’Europa democratica e dall’impreparazione di tutta l’Europa di fronte a un Covid ampiamente preannunciato.

Io, Joy: battere la strada è la mia seconda Libia

Erano trascorsi quattro giorni dall’aborto, la madame mi disse che l’indomani avrei dovuto iniziare a lavorare. Risposi che avevo male dappertutto, perdevo sangue, non riuscivo a stare in piedi. Mi guardò con rabbia: “Mi hai fatto perdere fin troppo tempo, ho già speso per te un mucchio di denaro. Una delle ragazze ti accompagnerà per insegnarti che cosa devi fare con i clienti. Se tenti di scappare, se ti rifiuti di lavorare, ricordati il voodoo che hai fatto prima di partire dalla Nigeria. La sua maledizione ti perseguiterà e ti ucciderà, ricadrà anche sulla tua famiglia. A Benin City, ho molte conoscenze, ordinerò che facciano del male a tua madre e alle tue sorelle”. Poi, fissandomi negli occhi con disprezzo e cattiveria: “Da oggi ti chiamerai Jessica, farai soltanto quello che dico io. Non cercare di ingannarmi o di fare la furba. Ho amici che, qualsiasi cosa tu faccia, me lo verranno a dire”. Anche il nome mi avevano rubato e distrutto, non soltanto il corpo e l’anima. La mattina dopo arrivò, alle cinque, una macchina con la ragazza di cui mi aveva parlato la madam. Si chiamava Ola. L’autista ci fece scendere poco dopo Francolise, un comune della provincia di Caserta, nei pressi di un bosco con cespugli e alberi. Ho dovuto indossare i vestiti che avevo nella borsa, comprati dalla madam. Ero seminuda. Mi vergognavo, cercavo istintivamente di coprirmi con le mani. Mi chiedevo: “Chi è quella ragazza che, su una strada sconosciuta, lontano dal suo Paese e dalla sua famiglia, il volto truccato in modo volgare, il corpo seminudo per provocare, si offre per fare sesso?”. Mi rispondevo: “Non sono io. Quella ragazza non la conosco. Io non sono Jessica. Io sono Joy”. Iniziai a piangere e corsi a nascondermi dietro a un cespuglio. Ola venne a prendermi e mi spinse sul ciglio della strada: “Se piangi, nessun cliente ti vorrà e ritornerai a casa a mani vuote! Ricordati che la madam si arrabbierà e passerai dei guai. I primi giorni sono un po’ difficili, spaventano, ma poi ci fai l’abitudine. Guarda le altre ragazze, che stanno già lavorando, vedi come sono allegre con i clienti, li chiamano con frasi gentili: ‘Il mio amore deve venire qua, vedrai come sono brava a farti felice… Tu sei il mio tesoruccio, non andare via, sono qui che ti aspetto…’. Devi subito imparare queste frasi in italiano, io non verrò tutti i giorni con te. Non coprirti con le mani: più ti fai notare, più clienti avrai. Non nasconderti nel bosco. Fallo soltanto se vedi una macchina della polizia o dei carabinieri”. Arrivò un uomo anziano, Ola si appartò con lui agli inizi del bosco e volle che io assistessi. Quando il cliente se ne fu andato, ripresi a piangere: “Io non posso fare questo lavoro, mi viene da vomitare”. Ola con voce dura mi rispose: “E come credi di poter restituire i soldi alla madam? Ti devi rassegnare, questo è l’unico lavoro che ti dà la possibilità di pagare il tuo debito. Se fai tante storie, allunghi soltanto i tempi. Non hai altre vie di uscita. Ci siamo passate tutte, ci passerai anche tu”. In quel momento si è avvicinato un altro cliente, ci guardava incerto: “Chi delle due?”. Ola ha risposto per me: “Lei, Jessica” e mi ha spinta verso il bosco. L’uomo mi ha seguita. Ho cercato di fare quello che avevo visto prima. Ma lui si è accorto delle mie condizioni e mi ha respinto con un gesto volgare. Mi ha detto di chiamare Ola. Quando la madam ha saputo com’era andata, è diventata una furia, io a dirle che avevo dolori alla pancia e che continuavo a perdere sangue. “Tu mi stai prendendo in giro, dopo tutto quello che ho fatto per te. Domani devi ritornare con i soldi, altrimenti le cose andranno male e dovrò prendere dei provvedimenti”. La sua voce era minacciosa, fui scossa da un brivido di paura, pensai al voodoo… E se mi avesse uccisa? L’indomani ritornai nel bosco di Francolise, cercai di tamponare il sangue e, con l’aiuto di Ola, incontrai cinque clienti, guadagnando 70 euro. Quando al ritorno li consegnai alla madam, diventò allegra: “Hai visto che ce l’hai fatta!”. Continuavo ad avere male in tutto il corpo, ma ero così sfinita che, quella notte, riuscii a dormire come da giorni non mi accadeva più. Decisi che avrei cercato di guadagnare il più possibile per uscire da quell’inferno. Era l’unica strada di salvezza. Da allora, ogni mattina, quando alle cinque arrivava la macchina, lasciavo Joy a casa, in quel letto, dove dormivo troppo poco e dal quale mi alzavo troppo presto, sempre più stanca. Diventavo Jessica, una macchina del sesso, una ragazza che si prostituiva sulla Domiziana. Quella ragazza non era Joy, ma una sconosciuta che doveva pagare un debito di 35mila euro. Fu quello sdoppiamento ad aiutarmi a sopravvivere all’inferno. Alla mia seconda Libia.

Tweet pro Biden costa il posto: è il New York Times, bellezza

Biden sta atterrando a Washington per partecipare all’inaugurazione della sua presidenza e la giornalista Lauren Wolfe, commossa da quell’immagine in tv, scrive su Twitter: “Ho i brividi”. Per aver espresso opinioni personali e non aver rispettato la regola di imparzialità imposta dal New York Times ai suoi giornalisti, Wolfe il 21 gennaio scorso è stata licenziata: senza nemmeno essere mai stata assunta. Il quotidiano, sommerso poi da una valanga di critiche, ha messo fine alla collaborazione con la freelance chiosando: “Non concludiamo una collaborazione per un solo tweet, per ragioni di privacy non diamo ulteriori informazioni”. Molti editoriali in sua difesa sono stati pubblicati dalla stampa americana, solidarietà digitale e momentanea di colleghi e membri del sindacato non è mancata alla reporter dall’aspetto curato e occhiali tartarugati, ritratta però dai paparazzi del New York Post – quotidiano conservatore della Grande Mela – mentre, accovacciata per terra nelle strade di New York, accarezza trasandata il suo cane. Si è schierato perfino Wesley Lowery, del programma 60 Minutes: “I giornalisti vanno giudicati dal loro lavoro e non da un tweet casuale”.

Di tale attenzione, rumore e clamore riservati a una collaboratrice esterna non sono state investite però due star dello stesso giornale. Un tweet è più grave di baci e palpeggiamenti alle giovani colleghe: Glenn Thrus, fra i più noti reporter del quotidiano, accusato di comportamenti sessuali inappropriati e molestie, dopo soli due mesi di sospensione, è tornato a circolare tra scrivanie e corridoi della redazione. Se una frase su Twitter può costare un licenziamento, un reportage falsificato solo un cambio di settore. Il pluri-premiato podcast Caliphate, della giornalista Rukmini Callimachi, narra la storia di Shehroze Chaydhry, militante dell’Isis, che si è rivelato invece essere solo un mitomane. Callimachi, spostata in un’altra sezione del New York Times senza tante spiegazioni, su Twitter non ha mai cancellato dal profilo la foto del suo documentario, ma è dal 2018 che non pubblica più nemmeno un commento.

Impeachment, il Gop fa quadrato attorno a Trump

Donald Trump fatica a trovare avvocati che lo difendano nel processo d’impeachment, che inizierà l’8 febbraio davanti al Senato. Ma forse non gli serviranno a granché, perché i Repubblicani fanno quadrato intorno a lui: i media Usa contano 27 senatori su 50 contrari a processare l’ex presidente e, comunque, non disposti a condannarlo; solo una manciata sarebbe decisa a sanzionare il magnate per avere sobillato l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Perché il Senato lo condanni, ci vuole una maggioranza dei due terzi: 67 su 100, 17 senatori repubblicani gli devono votare contro.

Il capo d’accusa di Trump, inviato dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, è stato letto in Senato dal deputato Jamie Raskin, che farà da pubblico ministero. L’ex presidente, “una minaccia per la democrazia”, deve rispondere di “istigazione all’insurrezione.” Sempre che il processo di faccia. Dai talk show delle tv Usa all’aula del Senato, la parola d’ordine dei senatori ‘trumpiani’ è che questo processo è “discutibile”, perché l’imputato non è più in carica. Il senatore ‘libertario’ del Kentucky, Rand Paul, che nel 2016 contese la nomination a Trump, vuole fare mettere ai voti “se il Senato può processare un privato cittadino”, qual è ora il magnate.

Ieri, i senatori repubblicani hanno ascoltato pareri fra di loro contrastanti di esperti legali. Paul obietta pure che a presiedere il processo sia il senatore democratico Patrick Leahy, 80 anni, eletto per la prima volta al Congresso nel 1974 e ora presidente pro tempore del Senato. Paul e altri sostengono che il dibattimento debba essere condotto dal presidente della Corte Suprema, giudice John Roberts, come accadde nel primo processo, un anno fa. Giuristi del Senato ritengono, invece, che possa farlo un senatore, se l’impeachment non è contro il presidente in carica.

Trump, che ha ora un ufficio in Florida, a West Palm Beach, non lontano da Mar-a-lago, ha intanto rinunciato a formare un proprio partito, così da mantenere una forte presa sui senatori repubblicani, a cui – riferisce Politico, citando un collaboratore del magnate, Brian Jack – manda messaggi “chiari e forti”: chi gli sarà contro nell’impeachment lo avrà contro nelle primarie del 2022, quando il voto di midterm rinnoverà un terzo dei senatori, e rischia di non essere più candidato. Kevin Cramer, senatore del North Dakota, dice: “Trump vuole fare sapere che qualunque cosa farà in futuro politicamente la farà da repubblicano”; e “il partito è ancora in gran parte dalla sua parte”.

A parte Mitt Romney, che fu l’unico senatore repubblicano a votare per l’impeachment un anno fa, ad ammettere che la condotta di Trump sia passibile di impeachment sono finora stati senatori che non intendono ricandidarsi, come Pat Toomey, Pennsylvania, e Rob Portman, Ohio. Degli altri, alcuni criticano il comportamento del magnate il 6 gennaio, ma non si spingono a dire che gli voteranno contro. Ci sono ancora una decina di giorni per definire tattiche e decidere posizionamenti. Trump cerca chi affiancare a Butch Bowers, l’avvocato della South Carolina che elabora una strategia difensiva, mentre il leader del Repubblicani in Senato, Mitch McConnell, ingaggia schermaglie procedurali, senza però fare la guerra ai ministri proposti dal presidente Joe Biden. Dopo il Segretario alla Difesa Llyoid Austin, sono passati facili Janet Yellen, Tesoro, e Anthony Blinken, Esteri.

Biden alla Cnn, dice che il processo d’impeachment va fatto, ma che non crede che ci siano i numeri per condannare Trump.