La notte del 26 gennaio 2011 eravamo solo due passeggeri sul Boeing della Royal Jordan Airlines delle 20.30 in volo da Amman al Cairo, io e una collega del New Yorker basata a Gerusalemme come me. Giorni prima da Mahalla – il grande distretto del cotone nel delta del Nilo – il malcontento contro un mancato (ma promesso) aumento dei salari aveva innescato le prime proteste che erano poi dilagate al Cairo. La decisione di Hosni Mubarak – l’ultimo Faraone d’Egitto – di aver designato qualche mese prima il suo primogenito Gamal come suo successore aveva tenuto calde le braci. L’aeroporto del Cairo sembrava lo scalo di Kabul durante la guerra. Grande, immobile, deserto, solo una pista illuminata, echi di spari in lontananza.
Lungo le arterie che portano verso il centro, per una volta deserte, i resti delle prime battaglie: cassonetti rovesciati, carcasse di auto, qualche barricata. Ardevano bracieri agli angoli delle strade nei bidoni esausti di olio, milizie di autodifesa di quartiere armate di bastoni pattugliavano le strade per evitare i saccheggi che nel centro cittadino erano già iniziati nel pomeriggio.
Dal giorno prima una jacquerie aveva travolto tutto, negozi, centri commerciali, alberghi, ristoranti. Le carceri erano state assaltate e migliaia di criminali erano liberi per la metropoli deserta. I militari – l’anima dell’Egitto moderno – erano chiusi in caserma in attesa di ordini che per giorni non sarebbero arrivati. Lungo la 6 Ottobre, la grande arteria che porta dall’aeroporto verso il Nilo, verso l’isola di Zamalek, lingue di fuoco si levavano agli incroci animati da ombre spettrali che si rifrangevano sulle facciate dei palazzi. La città – venti milioni di abitanti – era precipitata nell’inchiostro.
Le proteste in città erano animate dai ragazzi del “Movimento 6 aprile” per la libertà e la democrazia, ai quali si erano uniti gli studenti universitari e quelli delle scuole di specializzazione. Marce brevi, spontanee che finivano avvolte dai gas lacrimogeni di fabbricazione Usa che venivano sparati senza risparmio insieme ai colpi veri: il 29 gennaio i morti erano già oltre 100 e 1.500 gli arrestati. Nel Palazzo presidenziale di Heliopolis presidiato dai carri armati si consumava il crepuscolo di Hosni Mubarak, il satrapo mediorientale che era il migliore amico di Stati Uniti e Europa. C’erano invece solo quattro soldati a presidiare il Grande Museo Egizio che venne assaltato dalla folla e 70 mila reperti furono trafugati.
Mentre la polizia perdeva giorno dopo giorno il controllo della situazione al Cairo – e le proteste dilagavano a Ismailia, Suez, Alessandria –, crescevano le richieste della piazza. Il 2 febbraio la marcia di un milione di persone annunciata in Piazza Tahrir – nel cuore del Cairo, è a un passo dal Parlamento, dall’Ambasciata Usa e britannica, dall’Università americana – doveva dare la spallata al regime. Piazza Tahrir venne pacificamente occupata e diventò così il proscenio di questa rivoluzione, le lacrime e la rabbia, il sangue, la vita e la morte. L’11 febbraio, Mubarak in elicottero fuggì dal Cairo verso la sua residenza di Sharm el Sheik, nel Sinai egiziano. In quei giorni la Fratellanza Musulmana (il principale gruppo politico-religioso che aveva il suo braccio politico fuorilegge ma quello sociale invece molto attivo) uscì dalle cantine dove teneva le sue riunioni e si unì alle proteste, prendendone presto il controllo. Il potere da Mubarak passò a una giunta militare di marescialli ultrasettantenni per la transizione, poi ci fu il voto presidenziale e quello politico che pose il potere nelle mani della Fratellanza e del nuovo presidente Mohammed Morsi, il primo non-militare nella storia dell’Egitto moderno.
In quel caos di trasformazioni e sliding doors si fece largo un giovane generale, diplomato anche alla War School di Carlisle in Pennsylvania, che allora guidava i servizi segreti militari, Mohammed Abdel Fatah Al Sisi divenne ministro della Difesa.
Un anno dopo, nel 2013, ordinò ai suoi tank di tornare nelle strade e stavolta sostenere le proteste in tutto l’Egitto contro la disastrosa presidenza Morsi. Come tutti i suoi predecessori con le stellette – Gamal Abdel Nasser, Anwar el Sadat, Hosni Mubarak – anche al Sisi è un raìs, la sua gestione del potere è molto personale, Parlamento e ministri sono un accessorio necessario alla scena. Ha confermato i legami internazionali dell’Egitto per tenere a galla l’economia, ma in politica interna vuole la mano libera e “pesante”.
Dieci anni dopo quei giorni poco sembra esser cambiato in Egitto: un ex generale è presidente, Hosni Mubarak è tornato libero, i militari restano gli arbitri della situazione, gli oppositori restano in cella o sotto una lapide.