2011: vivere e morire in piazza Tahrir

La notte del 26 gennaio 2011 eravamo solo due passeggeri sul Boeing della Royal Jordan Airlines delle 20.30 in volo da Amman al Cairo, io e una collega del New Yorker basata a Gerusalemme come me. Giorni prima da Mahalla – il grande distretto del cotone nel delta del Nilo – il malcontento contro un mancato (ma promesso) aumento dei salari aveva innescato le prime proteste che erano poi dilagate al Cairo. La decisione di Hosni Mubarak – l’ultimo Faraone d’Egitto – di aver designato qualche mese prima il suo primogenito Gamal come suo successore aveva tenuto calde le braci. L’aeroporto del Cairo sembrava lo scalo di Kabul durante la guerra. Grande, immobile, deserto, solo una pista illuminata, echi di spari in lontananza.

Lungo le arterie che portano verso il centro, per una volta deserte, i resti delle prime battaglie: cassonetti rovesciati, carcasse di auto, qualche barricata. Ardevano bracieri agli angoli delle strade nei bidoni esausti di olio, milizie di autodifesa di quartiere armate di bastoni pattugliavano le strade per evitare i saccheggi che nel centro cittadino erano già iniziati nel pomeriggio.

Dal giorno prima una jacquerie aveva travolto tutto, negozi, centri commerciali, alberghi, ristoranti. Le carceri erano state assaltate e migliaia di criminali erano liberi per la metropoli deserta. I militari – l’anima dell’Egitto moderno – erano chiusi in caserma in attesa di ordini che per giorni non sarebbero arrivati. Lungo la 6 Ottobre, la grande arteria che porta dall’aeroporto verso il Nilo, verso l’isola di Zamalek, lingue di fuoco si levavano agli incroci animati da ombre spettrali che si rifrangevano sulle facciate dei palazzi. La città – venti milioni di abitanti – era precipitata nell’inchiostro.

Le proteste in città erano animate dai ragazzi del “Movimento 6 aprile” per la libertà e la democrazia, ai quali si erano uniti gli studenti universitari e quelli delle scuole di specializzazione. Marce brevi, spontanee che finivano avvolte dai gas lacrimogeni di fabbricazione Usa che venivano sparati senza risparmio insieme ai colpi veri: il 29 gennaio i morti erano già oltre 100 e 1.500 gli arrestati. Nel Palazzo presidenziale di Heliopolis presidiato dai carri armati si consumava il crepuscolo di Hosni Mubarak, il satrapo mediorientale che era il migliore amico di Stati Uniti e Europa. C’erano invece solo quattro soldati a presidiare il Grande Museo Egizio che venne assaltato dalla folla e 70 mila reperti furono trafugati.

Mentre la polizia perdeva giorno dopo giorno il controllo della situazione al Cairo – e le proteste dilagavano a Ismailia, Suez, Alessandria –, crescevano le richieste della piazza. Il 2 febbraio la marcia di un milione di persone annunciata in Piazza Tahrir – nel cuore del Cairo, è a un passo dal Parlamento, dall’Ambasciata Usa e britannica, dall’Università americana – doveva dare la spallata al regime. Piazza Tahrir venne pacificamente occupata e diventò così il proscenio di questa rivoluzione, le lacrime e la rabbia, il sangue, la vita e la morte. L’11 febbraio, Mubarak in elicottero fuggì dal Cairo verso la sua residenza di Sharm el Sheik, nel Sinai egiziano. In quei giorni la Fratellanza Musulmana (il principale gruppo politico-religioso che aveva il suo braccio politico fuorilegge ma quello sociale invece molto attivo) uscì dalle cantine dove teneva le sue riunioni e si unì alle proteste, prendendone presto il controllo. Il potere da Mubarak passò a una giunta militare di marescialli ultrasettantenni per la transizione, poi ci fu il voto presidenziale e quello politico che pose il potere nelle mani della Fratellanza e del nuovo presidente Mohammed Morsi, il primo non-militare nella storia dell’Egitto moderno.

In quel caos di trasformazioni e sliding doors si fece largo un giovane generale, diplomato anche alla War School di Carlisle in Pennsylvania, che allora guidava i servizi segreti militari, Mohammed Abdel Fatah Al Sisi divenne ministro della Difesa.

Un anno dopo, nel 2013, ordinò ai suoi tank di tornare nelle strade e stavolta sostenere le proteste in tutto l’Egitto contro la disastrosa presidenza Morsi. Come tutti i suoi predecessori con le stellette – Gamal Abdel Nasser, Anwar el Sadat, Hosni Mubarak – anche al Sisi è un raìs, la sua gestione del potere è molto personale, Parlamento e ministri sono un accessorio necessario alla scena. Ha confermato i legami internazionali dell’Egitto per tenere a galla l’economia, ma in politica interna vuole la mano libera e “pesante”.

Dieci anni dopo quei giorni poco sembra esser cambiato in Egitto: un ex generale è presidente, Hosni Mubarak è tornato libero, i militari restano gli arbitri della situazione, gli oppositori restano in cella o sotto una lapide.

Gli Ebrei e il compito di rivivere l’orrore

Se un libro è sempre prezioso, un libro in cui si racconta in prima persona cosa fu davvero la Shoah è prezioso due volte. Perché, per una maledizione della storia, gli ebrei sopravvissuti al genocidio nazista sono costretti al ruolo di unici testimoni di quell’orrore assoluto. Tutti gli altri che avrebbero potuto a loro volta raccontarlo hanno sempre taciuto o negato, fino alla morte. Eppure parliamo della più ciclopica operazione di rastrellamento, deportazione e sterminio della storia. La Endlösung, la Soluzione Finale della questione giudaica, fu messa in atto in tutta l’Europa occupata da centinaia di migliaia di uomini delle forze hitleriane, con la complicità di milioni di cittadini di quei Paesi, complici della svastica tedesca. Ma le poche ammissioni sono arrivate solo nelle aule di tribunale, quasi sempre allo scopo di circoscrivere le proprie responsabilità. Dopo i conti sommari fatti dai vincitori sui vinti col falò giudiziario del processo di Norimberga, fu quindici anni dopo un altro storico processo, quello israeliano a Adolf Eichmann, a mostrare al mondo quella che proprio in quell’occasione Hannah Arendt definì la banalità del Male, e cioè la pianificazione ragionieristica dello sterminio di sei milioni di persone che in comune avevano solo la fede religiosa, l’appartenenza a un popolo, pur bollata come “razza ebraica”. Da allora, giusto sessant’anni fa, nascondere o mettere in secondo piano l’Olocausto non fu più possibile. Eppure il compito di raccontarlo fu di lì in poi affidato a una sola minoritaria categoria, i deportati superstiti: come se in quei terrificanti anni della Seconda guerra mondiale si fosse consumato unicamente il conflitto tra un popolo alieno, i nazisti, e un altro popolo, quello ebraico, e a essere estinti fossero stati gli sterminatori. Anche per questo il dovere di continuare a testimoniare l’orrore di Auschwitz rischia di schiacciare gli ormai pochi sopravvissuti a una nuova coercizione, di raccontare sempre la stessa vicenda, davanti a spettatori ormai lontani da quel momento storico, a rischio perfino di essere ascoltati con scetticismo, perché appunto “parte” di quella persecuzione. È come se toccasse a loro di dover documentare quel che accadde, in una diabolica inversione dell’onere della prova. Conoscete del resto documenti scritti o visivi di militari o dirigenti nazisti che descrivano e raccontino quella macchina pianificata di sterminio? Oppure, quel che è peggio per noi, conoscete registrazioni o deposizioni di anche uno solo dei funzionari italiani che si prestarono ad aiutare i nazisti nell’opera di individuazione, rastrellamento, internamento e deportazione degli ebrei del nostro Paese? E lo stesso per i francesi, gli olandesi, i belgi, gli ungheresi, i polacchi e tutti gli altri popoli d’Europa. Nessun nazista, nessun collaborazionista, nessuno degli zelanti cittadini che si misero a disposizione degli eserciti di occupazione, nessuno dei “volonterosi carnefici di Hitler”, nessun delatore pentito. L’omertà post-bellica di un continente che si voleva lasciare subito l’orrore alle spalle, ridando dignità anche alle nazioni sconfitte, ha lasciato soli gli ebrei scampati dai campi di sterminio nel compito storico di tramandare ciò che fu. E questo solo dopo molto tempo, perché la stessa Italia stanca di guerra lasciò sugli scaffali delle librerie praticamente tutte le copie di Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato due anni dopo la liberazione di Auschwitz da una piccola casa editrice, perché le più grandi e impegnate l’avevano rifiutato. Le ferite erano ancora aperte, e troppe coscienze erano ancora sporche. Perché negli anni dell’occupazione gli ufficiali nazisti erano potuti andare a colpo sicuro: elenchi, residenze, beni e ruoli degli ebrei italiani erano inventariati da molti anni, “grazie” alle infami leggi razziali. Quelle leggi, certo, erano state volute da Mussolini e scritte dai gerarchi del regime fascista, e ignominiosamente controfirmate dal re, ma furono messe in atto con zelo da tutte le amministrazioni centrali e periferiche del Paese, a cominciare da quelle scolastiche, infami più di tutti, per cacciare i minori da ogni istituto.

Come state per leggere, Sami Modiano seppe di essere stato espulso dal suo maestro, nella scuola italiana dell’isola di Rodi: lui, alunno di otto anni, non capì perché succedeva, e fu il padre a doverglielo spiegare.

“Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo”. Sami è coetaneo di un’altra bambina ebrea, come lui già orfana di madre e attaccatissima anche per questo al padre, che nella lontana Milano stava vivendo la stessa progressiva tragedia. Liliana Segre si separerà dal padre nel luogo dell’orrore assoluto, la rampa di Auschwitz, per sempre. Per Sami invece il legame col padre e la sorella si spezzerà più avanti nell’inferno dello stesso campo di sterminio. Accosto le loro esperienze anche per affrontare il tema più duro. Possiamo leggere, e ancora ascoltare dalla loro voce, il racconto di Modiano come quello di Segre perché riuscirono a sopravvivere alla macchina organizzata di morte del Terzo Reich. I bambini di allora sono oggi novantenni. Forse anche la loro stessa missione di testimonianza, iniziata per tutti e due solo con la maturità, quando anche il nostro Paese ha cominciato davvero a voler sapere, ha contribuito a corazzarli contro l’incedere dell’età più anziana. Ma non ci saranno per sempre. Per questo il loro racconto dovrà varcare i decenni col supporto indispensabile della parola scritta. Furono perseguitati con le loro famiglie perché appartenevano a quello che in omaggio alla sua storia plurimillenaria fissata dalla Torah è sempre stato chiamato il Popolo del Libro. E, da quando sarà in poi, saranno solo libri come questo a portare avanti la testimonianza di quell’orrore, perché altri occhi di bambino possano leggere, perché nuove coscienze si formino su questi insegnamenti, perché nessun altro provi ancora a negare, a relativizzare, a nascondere nell’oblio. Ma c’è un altro elemento valido per i nostri giorni che il racconto della vita di Sami Modiano ci fissa con il candore della sua memoria d’infanzia: allora convivevano a Rodi, l’isola delle rose, come in tanti altri luoghi del Mediterraneo, comunità nazionali, etniche e religiose diverse, plasmate da scambi commerciali e migrazioni continue. Un equilibrio che sembrava rappresentare il superamento definitivo di avversioni e odi che nei secoli precedenti erano sfociati in conflitti sanguinosi. Poi arrivarono le leggi razziali e la guerra a spazzare via tutto. Oggi la guerra e il razzismo sono banditi, ma da tempo il vento dell’intolleranza è tornato a soffiare sul nostro mare. Lì è cominciata la nostra civiltà, lì si dovrà lottare per farla rifiorire.

(Il testo è tratto dalla prefazione al libro “Per questo ho vissuto”, di Sami Modiano, edito da PaperFirst)

 

L’ultima variante del prof. Burioni

Siamo un popolo di positivi, negazionisti e virologi. Soprattutto di virologi; ma c’è virologo e virologo. Il professor Roberto Burioni è sempre un passo avanti agli altri; abbiamo Picasso nell’arte, abbiamo Einstein nella fisica, e abbiamo Burioni a Che tempo che fa. Quando Pregliasco, Crisanti e Galli sono ancora lì, a collegarsi sugli altri canali H24 e a commentare i dati del giorno, Burioni è già mutato. È stato il primo tele-virologo a lanciarsi in profezie con le sue ultime parole famose (“Al momento il virus in Italia non sta circolando, quindi ci si può preoccupare dei fulmini, delle alluvioni, ma del virus in questo momento no”, 2 febbraio 2020). È stato il primo a litigare con i suoi colleghi (“Niente panico, ma niente bugie”). È stato il primo a fare la pace (“Siamo tutti stanchi, non è il momento di litigare”). È stato il primo a dire che avrebbe taciuto (“Sarò in silenzio stampa fino all’autunno”). È stato il primo a rompere il silenzio stampa dopo appena due giorni. E così via.

L’ultima variante del professor Burioni è andata in onda come sempre su Rai3, al cospetto di Fabio Fazio; uno che di suo varia pochissimo, ma di fronte alla scienza deflette. E così Burioni è stato il primo ad abbandonare le consuete profezie di giornata per prodursi in una Lectio magistralis. Roba che il Consorzio Nettuno non manda in onda prima delle tre di notte, e invece il prof. Burioni in prima serata, bacchetta alla mano. Ma veniamo al sodo. Di fronte alle varianti, per i vaccini ci sono tre scenari: uno, possono funzionare senza problemi; due, possono avere qualche problemino; tre, possono avere problemi seri e dovranno variare anche loro. Abbiamo preso nota, da soli non ci saremmo mai arrivati. Tutto ciò, a fronte di un’ardita metafora: il Covid è come un’automobile. Se va dal carrozziere può cambiare il cofano ma non le ruote. Non fa una piega. Proprio come mia nonna, che se aveva le ruote era un carretto.

Fontana ha ragione: per i lombardi la misura è colma

I lettori ci scusino se continuiamo a parlare di quella telenovela altrimenti nota come “sanità lombarda”. Non si era ancora placata la bufera sulla proposta “del vaccino Dogui” (più dosi alle Regioni ricche) che a Palazzo Lombardia è scoppiato un altro caso vaccini. Stavolta gli antinfluenzali: come si sa la campagna di vaccinazione ha avuto quest’anno ritardi mostruosi, ma si è scoperto pure che circa 900 mila dosi non sono state usate e sono rimaste nei magazzini (valore: 10 milioni di euro). Scrive l’Agi che i dati, anticipati dal tg di La7, “risultano da documenti interni a Palazzo Lombardia dai quali si evince come questi numeri si discostino in modo netto dagli anni passati”. E questo non è ancora nulla. C’è il ben più rilevante caso della settimana trascorsa in “zona rossa” anziché “arancione” (ed era una settimana di saldi) per un errore nel calcolo dell’Rt, l’indice che misura la diffusione del virus. Il valore risultava a 1,4, mentre più o meno per lo stesso periodo l’Rt relativo ai ricoveri in ospedale era sotto la soglia “1” (0,93) e anche gli altri numeri (casi assoluti, contagi ogni 100mila abitanti) erano incongrui rispetto a un Rt così alto. Qualcosa non tornava. Tanto che la Regione ha fatto un ricorso al Tar per farsi de-rossizzare. Bene, alla fine di un tira e molla tra Stato e Regione abbiamo scoperto che erano stati conteggiati più sintomatici – fondamentali per calcolare l’Rt – di quelli che realmente c’erano, perché un buon numero non era uscito dal novero neanche dopo la guarigione. L’inghippo è procedurale: nei report inviati da Regione Lombardia è stata spesso lasciata in bianco la descrizione dello stato clinico e, se manca, il paziente continua a essere considerato sintomatico anche se non lo è più. Perché quel campo non è stato compilato? Non è chiaro, ma l’Iss aveva avvertito i tecnici lombardi fin dal 7 gennaio. Venerdì 22, poi, la Regione ha chiesto di “riqualificare” i dati del 13 gennaio sulla base di quelli corretti, inviati il 20. Errore loro, insomma (c’è davvero di che arrossire in zona rossa).

Il presidente Fontana ieri, durante una seduta consiliare più volte sospesa in cui è successo di tutto (lanci di monetine e intervento della Digos) ha provato a levarsi le castagne dal fuoco: “La mancata registrazione dei guariti è una falsa notizia, come si evince dai flussi pubblici, come quello della Protezione civile che registra quotidianamente casi, guariti e decessi. I flussi di Regione sono sempre stati inviati correttamente, come validato sempre da Iss ogni settimana. I nostri dati sono sempre stati coerenti con i flussi provenienti dai sistemi informativi delle Ats, mantenendo anche le eventuali incompletezze senza interventi forzati da parte di Regione. I nostri tecnici non hanno mai inserito in modo artificioso dati: a noi interessa una valorizzazione realistica della pandemia, non forzare una lettura semplificatrice”. Quindi niente fake news, le “incompletezze” c’erano… Le ha quantificate in una nota l’Iss che “da maggio ha inviato 54 segnalazioni di errori, incompletezze e/o incongruenze alla Regione Lombardia, l’ultima delle quali in data 7 gennaio 2021. La percentuale di casi incompleti per la sintomatologia (assenza di informazioni nel campo stato clinico) è pari al 50,3% a fronte del 2,5% del resto d’Italia nel periodo 13 dicembre 2020-13 gennaio 2021”. Fontana in aula ha detto anche altre cose, che sottoscriviamo in toto. “È una vergogna quello che sta succedendo, non lo dico per la mia giunta, ma per i lombardi che sono stufi di essere umiliati. Oggi cercherò di mantenere la mia pacatezza anche se dovrò fare fatica, perché credo che la misura cui questo Consiglio regionale è giunto sia colma. La mancanza di rispetto nei confronti della Lombardia e dei lombardi è oltre il consentito”. Verissimo: sarà mica ora di salire sul Resegone e rassegnare le dimissioni, presidente?

 

Propaganda socialL’arte maldestra dei politici di dirsi “bravo” da sé

Bravo! Grazie! Il Nerone di Petrolini (correvano gli anni Trenta) ingrossava gli occhi a palla e fissava il pubblico col mento proteso. “Bravo! Grazie”, se lo diceva da solo, scimmiottando in modo esilarante le pose ieratiche, mascellone compreso, del Puzzone di Palazzo Venezia. Grandissimo comico, ovvio, e chissà che non sia stato lui a inventare la moda, oggi frequentatissima, di dirsi “bravo” da solo. Piccola differenza, lo faceva da un palco malmesso dell’avanspettacolo e non dai social media, come fanno certi politici di oggi, non meno divertenti né meno simpatici di Petrolini. Tipo Carlo Calenda, che sotto un suo post firmato Carlo Calenda, mette un commento twitter firmato con la faccia e il nome di Carlo Calenda che dice: “Grazie, Carlo”. Puro Petrolini.

Non facciamone un caso. Come da copione, l’autocandidato sindaco di Roma incolpa il social media manager, cioè “la ragazza” che gli cura gli account. Insomma, “Grazie Carlo” doveva scriverlo qualcun altro, un Franco76 o una Giovanna61, o altri account farlocchi deputati ai complimenti al capo, e solo un incidente di tastiera ha fatto in modo che a dire bravo al capo risultasse il capo stesso. Bravo! Grazie!

Bisognerà un giorno parlare anche di questi benedetti social media manager, la cui funzione, più che comunicare il pensiero del Principale, sembra sia fare il Malussène, il capro espiatorio, sacrificabile a ogni stupidaggine del capo. E del resto, l’inciampo mediatico di Calenda (che naturalmente ha reagito insultando i giornalisti che gli facevano notare l’assurdità) ha aperto la stura ad altri casi famosi. Il senatore Pillon che si diceva da solo “Bravo Pillon”, “Coraggio!”, “Vai avanti” e altri incoraggiamenti da Templare; oppure Marianna Madia che si diceva anche lei da sola “Brava Marianna” e via così. Decine di esempi che tirano su il morale, perché ci indicano che il grande Petrolini non è dimenticato, ma lotta e vive insieme a noi, tutti i giorni, su Twitter, Facebook, Instagram e altre reti sociali che certificano l’esistenza in vita di alcuni leader (?) moderni.

Non c’è solo l’autocomplimento, certo. C’è anche il training di gruppo, tipo corso motivazionale per il venditore dell’anno. Così ecco che, mentre infuriavano le voci di una spaccatura in Italia Viva, molti deputati e senatori renziani hanno postato la stessa foto, alla stessa ora, con più o meno lo stesso testo. Una foto di gruppo con la pattuglia parlamentare di Iv sorridente e festante (anche un po’ brilla, se è consentito), a sottolineare la granitica unità del gruppo. Bene, giusto, lo spogliatoio unito attorno al mister. Ma poi, ecco l’incidente, perché il diavolo è nei dettagli. La senatrice Donatella Conzatti, giunta fino a Italia Viva dopo breve tragitto (veniva da Forza Italia), posta quella stessa foto con un volto cancellato. Mistero. Suspense. Chi sarà l’epurato dalla foto, cancellato col pennarello, tagliato via come Trotzky dai dagherrotipi con Lenin durante gli anni bui del photoshop staliniano? È Vito De Filippo, nel frattempo tornato nel Pd, e quindi depennato con uno scarabocchio sul volto. Instagram 2021 come Mosca 1936, si parva licet, diciamo. Niente di male, abbiamo altri problemi, com’è noto, quindi risparmio la moraletta sull’uso e abuso di propaganda che sfiora l’autogol e il ridicolo. Certo non mi spingerei fino al limite estremo “dimmi come usi i social e ti dirò chi sei”, perché ne uscirebbe un quadretto assai desolante e non c’è bisogno di ulteriore depressione. Bravo! Grazie!

 

La memoria è un vaccino per tutte le democrazie

Manca poco e poi non ci sarà più nessuno che potrà dire “io c’ero”. Con la scomparsa dell’ultimo superstite, il racconto della Shoah passerà dalla memoria alla storia, così come è successo (la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione bolscevica), e succederà (la Seconda guerra mondiale, Hiroshima e Nagasaki) per gli altri grandi e terribili eventi del Novecento. Con una differenza sostanziale: Auschwitz non è assimilabile agli altri orrori del XX secolo e sul suo racconto si fondano i pilastri della società in cui viviamo. Nel suo passaggio dalla memoria alla storia ci sono molti rischi e altrettante opportunità. Uno dei timori più diffusi è quello che – per usare termini di stretta attualità –, con l’estinzione dei testimoni, possano venir meno i vaccini che hanno funzionato come antidoti al dilagare di quella disastrosa pandemia che è l’antisemitismo. L’immagine del suprematista bianco all’assalto del Campidoglio con la maglietta che inneggiava ad Auschwitz è un segnale di come appaia fragile e indifesa la democrazia di fronte ai rigurgiti (pulsioni totalitarie, razzismo, intolleranza, odio) che si raggrumano intorno all’antisemitismo. È possibile quindi che, esattamente come i vaccini, con il tempo le testimonianze stiano perdendo efficacia e i racconti che ne derivano finiscano per diventare ripetitivi, estenuati, incapaci di trasmettere conoscenza ed emozioni.

La Shoah ha vissuto una grande stagione della memoria, quella subito a ridosso del processo Eichmann, agli inizi degli anni 60. Fino ad allora i ricordi dei sopravvissuti erano rimasti come congelati nell’orrore. Troppa sofferenza, troppi carnefici, troppe vittime per un mondo che si tuffava nell’ebbrezza dell’“età dell’oro” (Hobsbawm) desiderando solo di cancellare i lutti e le lacerazioni della guerra. La rappresentazione della “banalità del male” che andò in scena nell’aula del tribunale di Gerusalemme fu uno choc salutare. Cominciò l’“era del testimone”, i racconti dei superstiti contribuirono a rendere finalmente conoscibile quello che si riteneva appartenere alle tenebre dell’inconoscibile. E grazie a quei racconti Auschwitz si accampò al centro di una nuova religione civile che abbracciava tutto l’occidente euroamericano all’insegna del “mai più” e che si riconosceva in valori e principi universali: il sacrifico di sei milioni di ebrei diventava un simbolo che trascendeva la dimensione religiosa ed etnica del massacro per assumere i contorni grandiosi e terrificanti del “crimine contro l’umanità”.

La memoria della Shoah e la democrazia apparvero allora un binomio indissolubile, confinando i sussulti dell’antisemitismo nel sottobosco di minoranze isolate nel loro squallore. Oggi quel binomio è in crisi. Della democrazia, sappiamo. Ma, con il tempo, anche la definizione della Shoah come “il più grande evento della storia dell’umanità” ha smarrito la sua centralità, sterilizzandosi, “riducendo gli ebrei a nient’altro che vittime e la loro storia una semplice lotta tra bene e male” (Etgar Keret). Su quella memoria si sono avventate le ragioni dell’uso pubblico della storia, facendola retrocedere, ad esempio, da patrimonio dell’umanità a fulcro della competizione vittimaria tra israeliani e palestinesi, i primi a giustificare le loro azioni militari all’insegna del “per evitare che Auschwitz si ripeta”, i secondi a denunciare a gran voce i progetti genocidiari dei loro avversari; come ha detto lo stesso Keret, “quando sei vittima non hai nessuna responsabilità delle tue azioni. Il tipico dibattito è: bambino israeliano morto per una bomba palestinese contro bambino palestinese morto in un attacco a Gaza” (Corriere della Sera, 24 gennaio).

Che questa memoria “monumentale” finisca non è di per sé un male. “Troppa luce abbaglia”, diceva Pascal, così come un eccesso di memoria favorisce più l’oblio che il ricordo. A patto però che la storia sia a sua volta in grado di rivitalizzare i vaccini che la memoria a suo tempo aveva inoculato. La storia è pacatezza, ragione, certificazione delle fonti, argomentazioni fondate sulla ricerca così da evitare le trappole emotive della competizione vittimaria. Ma soprattutto la storia sa raccontare. Ai testimoni che scompaiono si sostituiscono le loro lettere, i loro diari, i loro libri. La storia si impadronisce di questi materiali, li elabora, li restituisce alla conoscenza: non più l’enormità di un milione e mezzo di bambini uccisi nel lager, ma le tante storie di quei bambini, proposte nella concretezza dei loro tragici destini individuali. E la storia non è né cieca né sorda. Conosce l’importanza del binomio memoria della Shoah/democrazia. Ed è consapevole che, strappando quelle piccole vite all’orrore “che non si può guardare”, ne rende possibile la conoscenza e il ricordo aiutandoci a rimettere in sesto quel vacillante binomio: almeno uno dei suoi termini.

 

Sanità In Lombardia solo il 17% ha ricevuto l’antinfluenzale: è indecente

Buongiorno, sono la mamma di un bambino di 3 anni con diabete di tipo 1. Mio figlio non ha potuto fare la seconda dose di vaccino antinfluenzale lo scorso autunno perché la pediatra ha ricevuto un numero di dosi minore rispetto alla richiesta fatta. Ora scopro, grazie alle vostre inchieste, che le dosi c’erano… Sono basita e arrabbiata. Devono dare spiegazioni.

G.B.

Gentile G.B., sfortunatamente il suo caso è uno dei tanti che si sono verificati in Lombardia. Insieme alla sua, da quando abbiamo pubblicato i dati (disastrosi) sull’esito della campagna vaccinale lombarda, sono arrivate decine di lettere di persone rimaste senza protezione. Una massa di lettere, perché una massa di cittadini non ha ricevuto – né riceverà – la dose promessa, visto che il Pirellone non è stato in grado di assicurargliela. Prima non ha comprato i vaccini nei tempi previsti, poi si è lanciato in una corsa all’acquisto a prezzi folli – arrivando a spendere oltre 32 milioni di euro (contro i 9 dell’anno precedente) –, infine non è stato capace di organizzare una campagna per inocularli, ritrovandosi con 1 milione di dosi oggi inutilizzabili. Ha sbagliato tutto lo sbagliabile. E i risultati sono chiari: solo il 17% dei lombardi è stato vaccinato, quando il target minimo stabilito dal ministero della Sanità era almeno del 75%, anche se, diceva, il 95% sarebbe stato meglio. Il Pirellone a quelle cifre non ci si è neanche avvicinato: nemmeno 1 bimbo su 10 tra i 6-24 mesi è stato coperto (l’8,3%); così come hanno ricevuto una dose meno di 2 bambini su 10 tra i 2 e i 6 anni (il 18%). Per non dire che solo il 3,9 % dei lombardi tra i 19 e i 59 anni ha ottenuto l’agognata siringa. Tutti gli altri sono rimasti a bocca asciutta, nonostante lo scorso autunno tutti fossero alla ricerca del vaccino. Come non era mai successo prima. Molti sono arrivati a comprare l’antinfluenzale in Svizzera, oppure se lo sono fatti spedire dalle Regioni vicine. Altri ancora l’hanno comprato a prezzi salatissimi dai privati (che ringraziano sentitamente). Uno spettacolo indecoroso. In un Paese non “normale”, ma solo “decente”, Fontana e l’intera giunta dovrebbero dimettersi in blocco, con tanto di scuse e, magari, il risarcimento del danno causato.

Andrea Sparaciari

Mail box

 

La lingua italiana
si è impoverita

Capita che nel parlare molte persone colte sbaglino il congiuntivo. È capitato a tanti politici, compreso Di Maio. Ma dove è il problema? Negli ultimi 20 anni l’arte dello scrivere è caduta in basso. Il mondo del giornalismo e delle firme eccellenti non conta svarioni anche col congiuntivo. In letteratura e nel mondo scientifico tanti errori di nomi e di eventi hanno sorpreso persone e scrittori insospettabili. Un autore di successo come Antonio Scurati, autore di un libro di successo come M, è stato bacchettato sulle colonne del Corriere della Sera da Ernesto Galli della Loggia. Il professore, tra le altre cose, si è soffermato su un erroraccio storico. La lingua è cambiata, il congiuntivo soffre e la gente non capisce la cattiva pronuncia di fund. I giornali e le case editrici hanno licenziato quasi tutti i correttori di bozze, troppo scomodi quando segnalano che l’apostrofo è vietato sui monosillabi che iniziano per consonante. Perciò prima di scagliare la prima pietra su Giggino Di Maio, facciamoci un esame di coscienza.

Filippo Senatore

 

Ho capito la situazione
politica grazie al “Fatto”

Come sempre con il Fatto ho potuto seguire, capendo, tutte le fasi della crisi. Crisi creata all’interno della maggioranza. Più di quello che il Fatto ha riportato non si può aggiungere altro riguardo la grande responsabilità dei vertici del Pd che hanno mostrato il fianco a quelle lobby che sostenevano Renzi.

S. Di Giuseppe

 

Cosa direbbe Croce
dei personaggi attuali?

Se fosse vivo Benedetto Croce, non avrebbe esitato a definire i nostri politici, i cosiddetti opinionisti e “maratoneti” che vanno per la maggiore e le sempre più starnazzanti sapute televisive un tipico “assembramento onagrocratico” (dal latino “onager”, asino selvaggio). Credo che sia il minimo che avrebbe detto di tutta questa nostra fauna casalinga!

Roberto Cirocco

 

Diamo un nuovo nome
al “fu rottamatore”

Gentile Direttore, ormai siamo giunti agli ultimi sussulti dell’incredibile parabola politica dell’Innominabile. Poiché il suo obiettivo è stato compiutamente raggiunto, al punto di rottamare persino se stesso, perché non concedergli almeno l’onore delle armi, riconoscendogli, da ora in avanti, il suo nome così tenacemente perseguito e obiettivamente meritato, che peraltro la stessa stampa internazionale, da sempre più attenta della nostra, gli ha attribuito: Demolition Man?

Ettore Biancardi

 

Uhm… temo che gli piacerebbe troppo.

M. Trav.

 

Reddito di cittadinanza,
vedo pochi controlli

Bene la lotta alla povertà, ma sono stati fatti i controlli severi su tutti coloro che ricevono il reddito? Chi ha firmato e concesso benefici a chi non aveva diritto? Troppo spesso si scoprono persone con macchine lussuose e tenore di vita elevato che avevano ottenuto il reddito. O che potevano lavorare senza attendere gli aiuti del governo. Troppo in fretta è stato dato il reddito e troppo lenti i controlli.

Maria Grazia

 

Cara Maria Grazia, tutti i casi di abuso del Rdc sono proprio frutto dei controlli: altrimenti non verrebbero scoperti.

M. Trav.

 

Ecco la mia proposta
di programma per Renzi

Pochi già ricordano che il noto umorista di Rignano sull’Arno aveva cominciato il suo attacco al governo Conte con un C.I.A.O. strombazzato dai media amici. Come battuta non faceva ridere e come programma politico faceva piangere. Propongo un altro acrostico: A.D.D.I.O. (Associazione Deputati Disoccupati Italovivi Offronsi).

Franco Novembrini

 

Sono comparabili Iv, B.
e la crisi del Conte II?

Caro Direttore, ricordo che una volta Gianfranco Fini lasciò la Casa delle Libertà, formò un gruppo autonomo e tolse la fiducia a Berlusconi. Il governo non aveva più la maggioranza, ma il presidente emerito Napolitano dette circa due mesi a B. per trovare i responsabili. Io non capisco la disparità di trattamento per la crisi odierna… È vero che ci sono diversi problemi, ma aspettare un mese invece di andare alle elezioni in piena pandemia dovrebbe far riflettere anche l’on. Mattarella. Mi sbaglio e ricordo male?

Luigi Agliocchi

 

Caro Luigi, ricorda benissimo. Soltanto che B. i “responsabili” li comprava e li prendeva da chi era stato eletto col centrosinistra in un sistema bipolare e maggioritario. Oggi i veri voltagabbana sono quelli di Iv, eletti nel Pd, e si cerca di riportarne a casa qualcuno in un sistema proporzionale e, si spera, senza pagare nessuno.

M. Trav.

 

Il premier si dimette,
ecco il mio sconforto…

Buongiorno, è accaduto quello che temevo: un uomo onesto e capace che è costretto a dimettersi perché la melma dei politici ha vinto nuovamente!

Giancarlo Di Pietro

Un enigma funziona se non è troppo banale né elaborato

Come abbiamo visto ieri, l’interpretazione retorica di una gag è analoga alla soluzione di un enigma. Questo fatto è più di una semplice curiosità. Degli effetti divertenti, le tre teorie della comicità (sociologica, psicologica, cognitiva) considerano come cause alcuni aspetti (superiorità/ostilità, repressione/liberazione, incongruità/problem solving) che, a ben vedere, sono i tre momenti del segreto comico: si ride del clown-vittima sacrificale (superiorità/ostilità) per vincere sul caos minaccioso (repressione/liberazione) che spesso è narrato come enigma (incongruità/problem solving).

L’ambiguità linguistica si presta alle gag divertenti e ai giochi enigmistici. Può essere fonetica (omografia, omofonia, omonimia); lessicale (omonimia, polisemia); sintattica (“Ho voglia di andare alle Barbados come l’anno scorso!”. “Sei stata alle Barbados?”. “No, anche l’anno scorso avevo voglia”); semantica (Groucho Marx a Margaret Dumont: “Deve pensare ai suoi bambini e alla sua vecchiaia, che se non sbaglio arriverà fra un paio di settimane, sempre se m’intendo di carne di cavallo”); pragmatica (confusione sull’intenzione); funzionale (confusione fra le funzioni del linguaggio). Per portare alla risata, la soluzione dell’enigma non deve essere né troppo prevedibile (banalità del gioco), né troppo elaborata (difficoltà del gioco). L’uso logora le formule divertenti rendendole stucchevoli: accade all’ambiguità che fa perno sull’omonimia, uno stratagemma abusato da Achille Campanile (“Avete domande da porci?”, chiede la contessa Mara in una rubrica, per poi svenire quando un lettore la avvicina facendole una domanda da porco). Conserva invece una sua freschezza la formula che gioca con le norme della sintassi (l’esempio classico è l’elefante in pigiama di Groucho Marx, vedi Questioni comiche #35). Il destinatario viene a capo dell’ambiguità linguistica aiutandosi con il contesto, ma può capitare che il significato del contesto sia proprio l’ambiguità, come nel Jabberwocky di Lewis Carroll, dove il senso è il nonsense (’Twas brillig, and the slithy toves/ Did gyre and gimble in the wabe). L’ambiguità ha una sua piacevolezza, sia che venga o che non venga risolta (Yus, 2003): lo dimostra il favore accordato, non solo in Inghilterra, ai nonsense e ai limerick.

La frase bisenso da me sognata (Naomi Campbell = una nota di colore) ha scatenato gli enigmisti. Emanuele Miola, rebussista e professore di semiotica, mi segnala che la stessa frase bisenso comparve nel 1958 su Il Labirinto con esposto “Josephine Baker”, firmata da Il Brigante (coincidenza notevole. Chissà se anche lui l’aveva sognata!); e che ne esistono varianti, poiché cambiando in modo opportuno l’esposto (invece di Naomi Campbell, per dire, Beyoncé) la frase bisenso funziona lo stesso. Il prof. Miola aggiunge che questa pratica, però, è deprecata dagli enigmisti: nel 2001, quando Domenica Quiz aggiornò quella frase bisenso cambiando l’esposto (“Naomi Campbell”), l’attribuì a Il Brigante, a riprova che anche le norme sociali degli enigmisti, come quelle dei comici, privilegiano il criterio della priorità, tipico dei brevetti. Ne ho già scritto: le norme sociali attribuiscono paternità e reputazione, prevengono un possibile danno economico, riducono la competizione; ma limitano il divertimento di tutti, in quanto vietano per sempre il riuso delle idee, non ammettono la possibilità di creazioni indipendenti, valutano la presunta trasgressione non seguendo protocolli definiti, e danneggiano reputazioni in modo arbitrario e sproporzionato. Ringrazio il prof. Miola per il link all’archivio di ogni gioco enigmistico pubblicato finora: http://www.eureka5.it/public/crittoformBoot. Prendete e mangiatene tutti.

(2. Continua)

 

Scenari. Tutto è meglio dei renziani: o ci sono i responsabili o si vota

Giornaloni ed establishment, comicamente e colpevolmente innamorati della Sciagura Politica di Rignano, son già partiti con la storiella dei 5Stelle che, per essere “responsabili”, dovrebbero ora accettare sia Renzi che FI. Possibilmente rinunciando a Conte e ingoiando un Cottarelli. Certo. E magari anche una fettina di culo (ops). Premesso che tutti gli scenari fanno schifo, quello meno vomitevole resta il Conte più “responsabili”. Perché? Perché tutto – tranne indagati per reati gravi, condannati e fascisti – è politicamente migliore di Renzi e dei suoi ultrà. Quindi, ribadendo che tutto fa schifo, il male minore è trovare 10-15 ex M5S (ora Misto), ex Pd (ora Iv), Maie (?), centristi e socialisti. Sto dicendo che Quagliariello in maggioranza sarebbe figo? No. Sto dicendo che Quagliariello è meglio di Renzi. La Binetti della Boschi. De Falco di Scalfarotto. Romani di Marattin. E Causin (che peraltro non so chi sia) delle Fusani. Quindi: o Conte senza Renzi, o voto.