Delrio, Marcucci, Guerini&C.: le quinte colonne di Italia Viva

Che Italia Viva potesse far cadere il governo era chiaro da settimane. Si pensava, però, che se 5Stelle e Pd avessero fatto quadrato attorno a Giuseppe Conte, chiudendo una volta per tutte i ponti con Matteo Renzi, la maggioranza ne sarebbe potuta persino uscire rafforzata, sostituendo i pasdaran renziani con qualche decina di centristi e col ritorno alla base dei dem passati a suo tempo in Italia Viva. Così non è andata. Le quinte colonne di Renzi nel Pd hanno continuato per giorni a tenere aperta la porta a Iv, spronando Conte a riaprire il dialogo. Persino qualche 5Stelle è andato dietro a questa idea, col risultato di compattare Italia Viva che ha iniziato a sperare di rientrare in maggioranza dalla porta principale, magari (bingo!) con un premier diverso.

18 gennaio, Stefano Bonaccini (Pd): “Una crisi improvvida, Matteo ha sbagliato ma no a veti su di lui”.

19 gennaio, Gianni Pittella (Pd): “Conte deve riaprire il dialogo con Renzi. Il premier non può porre il veto su Italia Viva”. Gregorio De Falco (Misto): “Con questa maggioranza si può andare avanti e allargarla anche a Italia Viva”.

21 gennaio, Anna Macina (M5S): “Il dialogo con Italia Viva sarebbe un’opzione sul tavolo se l’operazione costruttori fosse completamente chiusa”. Giorgio Gori (Pd): “Non si può allargare la coalizione con una campagna acquisti. Bisogna ricucire con Renzi e aprire a +Europa, Azione e Forza Italia”.

22 gennaio, Giorgio Trizzino (M5S): “Parlare di ricucitura probabilmente è inappropriato, ma si possono creare le condizioni ideali per una riflessione sui reciproci errori. Potrebbe essere valutabile anche una riapertura al dialogo coi renziani”.

23 gennaio, Marianna Madia (Pd): “A me pare che l’unica maggioranza possibile sia ancora quella entrata in crisi per una scelta palesemente sbagliata di Italia Viva”. Graziano Delrio (Pd): “Non è l’ora di vendette e rancori. La frattura è stata procurata da Iv, la ferita ancora sanguina, ma io per natura e per la mia storia culturale non sono mai per veti definitivi”.

24 gennaio, Emilio Carelli (M5S): “È arrivata l’ora di valutare se sia corretto tenere la porta chiusa a Italia Viva. Ritengo logico e saggio sedersi intorno a un tavolo per cercare un accordo”. Francesco Boccia (Pd): “Noi ci siamo sempre stati, Renzi lo sa. Possiamo confrontarci in qualsiasi momento”. Pier Ferdinando Casini (Centristi per l’Europa): “È molto più semplice passare dal Conte-2 al Conte-3, recuperando il dialogo con Renzi e mettendo nel dimenticatoio i personalismi”.

25 gennaio, Giancarlo Cancelleri (M5S):“Il ‘mai più’ credo non esista nemmeno nella vita di tutti i giorni, figuriamoci in politica. Certe posizioni rigide non giovano a nessuno. Il dialogo, invece, fa sempre crescere”. Andrea Marcucci (Pd), che ieri ha detto pure “No a Conte ad ogni costo”: “Un dialogo con Italia Viva è essenziale. Conte se ne faccia carico”. Goffredo Bettini (Pd): “Renzi dimostri di avere senso del salto nel buio che ha procurato e inizi a dare qualche segnale”. Tommaso Nannicini (Pd): “Conte deve dimettersi e poi riprendere il dialogo con Italia Viva”. Sandra Zampa (Pd): “Iv ammetta l’errore, pronti al confronto”.

26 gennaio, Francesco Verducci (Pd): “Italia Viva ha commesso l’errore di drammatizzare la crisi, ma è chiaro che l’appello agli europeisti deve essere rivolto a tutti e non ci possono essere preclusioni”. Dario Nardella (Pd): “Ripartiamo da una maggioranza più larga e solida con tutte le forze riformiste e europeiste, comprese Forza Italia e Italia Viva”. Lorenzo Guerini (Pd): “Si abbia il coraggio di uno scatto per affrontare la questione, che interpella tutte le forze, Italia Viva inclusa, che condividendo la prospettiva europeista saranno disponibili a misurarsi con questa sfida”. Debora Serracchiani (Pd): “Abbiamo il dovere e il compito di parlare con tutti: se Renzi non mette veti su nessuno, noi non mettiamo veti su nessuno”.

I dem costretti a tornare su Renzi “Ero appestato, adesso c’è la fila”

Diritti sul Conte ter e allargamento della maggioranza, con Italia Viva dentro: oggi Nicola Zingaretti riunisce la direzione del Pd per ottenere un voto sulla sua relazione. Una linea che certifica almeno un paio di dati di fatto e un problema evidente. Il primo fatto è che il Pd blinda il premier dimissionario perché ogni altra ipotesi sarebbe divisiva. Il secondo è che, ancora una volta, i dem fanno marcia indietro rispetto alle abiure degli ultimi giorni del fu Rottamatore e prendono atto che senza di lui Conte non può andare avanti. Il problema più evidente è la necessità di un allargamento della maggioranza, che per i dem serve a rendere i renziani ininfluenti: allo stato, non si vede. Mentre il segretario del Pd convoca una riunione dopo l’altra, Matteo Renzi si sfrega le mani: “Dicevano che ero un appestato, invece devono fare la fila per parlarmi”. Ancora una volta si sente centrale e determinante. La strategia – salvo cambiamenti di idea dell’ultimo momento – è quella, domani, di non fare veti al Colle. L’obiettivo del leader di Iv resta la testa di Giuseppe Conte. Ma per affondare definitivamente deve aspettare che si apra un varco fra Pd e Cinque Stelle. Questo almeno sulla carta. Perché i senatori scettici di Iv lo descrivono come abbastanza su di giri e fuori controllo. Oggi i suoi gruppi li riunisce: passaggio non secondario per capire se ha l’appoggio per giocarsi un’altra carta già da domani.

Se ci fosse un reincarico a Conte, Renzi non vede l’ora di trovarsi a faccia a faccia con il “nemico” (dal quale continua a pretendere una chiamata): vuole affondare il coltello nella piaga, si aspetta che l’altro metta sul piatto di tutto. Non solo posti di governo, ma pure nomine. Ha iniziato nella e-news a mettere nel mirino Domenico Arcuri per la gestione dei vaccini. E poi affonda: “Il presidente Conte ha preso atto di non avere i numeri e si è dimesso”. Gli fa da sponda Andrea Marcucci (“Sì al reincarico, ma non a tutti i costi”), provocando le ire di Zingaretti, che vede l’ennesimo sabotaggio da parte del capogruppo al Senato.

Al Nazareno, comunque, stanno lavorando davvero per il Conte ter. Almeno per ora. Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, si è intestato ieri il “riaccoglimento” di Renzi in un’intervista a Repubblica. I due si sono incontrati in Senato durante il voto di fiducia della settimana scorsa. “Hai sbagliato”, gli ha detto quello che è stato per anni uno dei più vicini al senatore di Scandicci. E continua a dirglielo in questi giorni: “Se vai contro il Conte ter, sbagli”. Il dialogo è tenuto anche dal capo delegazione dem, Dario Franceschini. I governisti per eccellenza sanno che con un altro premier, il ruolo del Pd potrebbe essere ridimensionato. E tutto sommato i dem potrebbero aver raggiunto l’obiettivo di aver indebolito Conte.

Ma il gioco è complesso e per niente scontato. Se Conte non ce la fa, al secondo giro può uscire (anche da Renzi) il nome di Luigi Di Maio: piuttosto duro da mandare giù al Nazareno. Tra i dem ancora c’è chi sostiene che Franceschini e Guerini lavorino in realtà per se stessi: i due si scherniscono con forza.

Ma poi c’è un’altra variabile ed è il Pd che sta a Bruxelles e deve gestire i rapporti con l’Europa. Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici, da giorni ormai sostiene che non si può andare avanti con una maggioranza raccogliticcia. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo (che potrebbe essere uno dei nomi a sorpresa) ribadisce: “I soldi messi a disposizione dall’Unione europea sono davvero tanti e quelli per l’Italia sono particolarmente ingenti. Quindi ci auguriamo che la crisi trovi presto una soluzione. Abbiamo paura della parola crisi”. Forse anche per questo in molti si aspettano un premier tecnico. Da sottolineare che tra i ministri Pd molti temono per il loro destino: anche con un Conte ter, gli unici inamovibili sono Franceschini, Guerini e Roberto Gualtieri.

Berlusconi incerto. Forse non va con Salvini e Meloni da Mattarella

Un vertice turbolento quello andato in scena ieri nel centrodestra, dove i partiti hanno deciso di andare insieme al Quirinale per le consultazioni. Avverrà venerdì e forse ci sarà anche Silvio Berlusconi, che deciderà nelle prossime ore. Ieri, però, se la conclusione è stata unanime, l’arrivo è stato accidentato, con momenti anche aspri tra Berlusconi da una parte e Salvini e Meloni dall’altra. Più che su come salire al Colle, lo scontro è stato sui contenuti, con Meloni schierata per il voto “senza se e senza ma”, FI invece a sostenere un governo di unità nazionale e la Lega in mezzo: evitare il Conte-ter, ma lasciando spiragli sul resto. Una buona parte di forzisti volevano salire al Colle da soli, ma su questo hanno vinto Meloni e Salvini. Berlusconi però è riuscito a spuntare una nota finale meno dura di come la volevano gli alleati. “Chiediamo un governo con una forte legittimazione, senza maggioranze raccogliticce”, dice la nota, ribadendo la disponibilità ad “appoggiare in Parlamento i provvedimenti a favore degli italiani”. Nel comunicato non si fa cenno alle elezioni, è stata poi la Meloni a sottolineare come “l’unica soluzione è il voto: una finestra elettorale c’è, a giugno, prima del semestre bianco”. Verso la fine del vertice è andato in scena anche uno scontro tra Meloni e Paolo Romani (Cambiamo!). “Noi siamo per un governo di unità nazionale, non si può andare al voto con una pandemia in corso!”, ha detto Romani. “Tu sei pronto all’inciucio!”, la replica della leader di Fdi. A calmare gli animi è dovuto intervenire Giovanni Toti, via Zoom.

La “scatola” centrista c’è. Si spera in altri senatori

La lista sulla scrivania di Alessandro Goracci, grand commis del premier Giuseppe Conte, che in questi giorni tiene il pallottoliere, è tutto uno scarabocchio. I nomi dei “costruttori” per un possibile “Conte ter” vengono aggiunti a penna, poi cancellati dopo le smentite di rito e spesso reinseriti. Al telefono i “volenterosi” per il premier dimissionario aprono, si concedono, ma pubblicamente rimangono nascosti e, se tirati in ballo, negano tutto (“Io resto nel mio partito”, è la formula di rito usata ieri dal forzista Sandro Biasotti). Fatto sta che a Palazzo Chigi i conti non tornano. Gira e rigira il pallottoliere è fermo a quota 156 (senza Liliana Segre): i voti di fiducia ottenuti martedì scorso al Senato. Da lì non ci si smuove. E l’imminente nascita di un nuovo gruppo centrista anche a Palazzo Madama è un’operazione politica per dare un po’ di respiro a Conte, ma nei numeri non cambia molto: i dieci che entreranno nel nuovo gruppo “Centro Democratico-Maie” (ci sarà anche un riferimento europeista) sono tutti esponenti che già hanno votato con la maggioranza giallorosa.

Ci sono gli ex M5S Maurizio Buccarella e Gregorio De Falco, poi Adriano Cario, Raffaele Fantetti, Saverio De Bonis e Riccardo Merlo del Maie, gli ex FI Sandra Lonardo, Mariarosaria Rossi e Andrea Causin (che dovrebbe essere il capogruppo) e probabilmente l’ex grillino Lello Ciampolillo. A ieri sera i 10 senatori necessari per formare una componente autonoma e presentarsi domani alle consultazioni al Quirinale non c’era (Ciampolillo era ancora incerto) ma, fanno sapere fonti della maggioranza, nella notte si troverà una quadra. Questa mattina il nuovo gruppo sarà formalizzato con una comunicazione in aula della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati.

La nascita di una componente “contiana” è più un segnale politico che numerico: sarebbe quel “gruppo nuovo” chiesto dal presidente Mattarella per allargare la maggioranza giallorosa (e non una somma di singoli parlamentari), i suoi esponenti andranno al Colle domani e faranno il nome di Conte per l’incarico e molti di loro potrebbero neutralizzare i senatori renziani nelle commissioni perché il gruppo avrà almeno un senatore in ognuna di esse (e in 10 su 14 commissioni i giallorosa non hanno più la maggioranza). Ma non basteranno per l’aula: al momento i renziani sono comunque 18. Nelle prossime ore, due di questi dovrebbero rientrare nel Pd – ipotesi che non piace all’ex renziano Andrea Marcucci –, ma comunque ne servono altri 7-8 per puntellare la maggioranza.

Per questo in un secondo momento, in caso di reincarico a Conte, potrebbero arrivare pezzi di centrodestra, dall’Udc a Cambiamo!, passando per fuoriusciti da Forza Italia. Paola Binetti, che ieri ha incrociato il premier a Palazzo Giustiniani, al Fatto dice che “Conte deve fare una scelta e coinvolgere anche FI”. In caso di reincarico, starà al premier provare a convincere i due “cespugli” del centrodestra ( sei senatori) ed è anche per questo che ieri Conte ha aperto a legge proporzionale e riforme per quel governo di “salvezza nazionale” che piace tanto a Giovanni Toti.

“Esiti e tempi incerti” Numeri ancora bassi, la crisi diventa lunga

Il Conte II è finito al Quirinale a mezzogiorno. Annunciato già lunedì sera, il presidente del Consiglio si è dimesso ed è stato neanche trenta minuti a colloquio con il capo dello Stato. Un incontro breve e istituzionale, senza affrontare ragionamenti e scenari. Del resto, per questi, adesso si apre il tempo delle consultazioni. Che non saranno affatto brevi, secondo le previsioni. “Esiti e tempi incerti”, dicono dal Colle. Ché il premier dimissionario una maggioranza larga ancora non ce l’ha. Tutto è fermo al martedì di una settimana fa, al risultato della fiducia al Senato, 156 voti. E più o meno sono ancora questi nonostante la nascita ufficiale del fatidico gruppo dei Costruttori-Responsabili-Volenterosi-Disponibili. Ergo senza numeri, Sergio Mattarella potrebbe non dare alcun incarico al termine delle consultazioni, che cominceranno oggi pomeriggio per terminare venerdì.

Ad aprire la tradizionale liturgia della prassi costituzionale in caso di crisi, saranno i due presidenti del Parlamento, Casellati e Fico. Dopo la sfilata delle tante sigle dei gruppi misti e non solo, si entrerà nel vivo con la comparsa domani pomeriggio di Italia Viva alle 17 e 30, seguita subito dopo dal Partito democratico. L’esito di questo primo giro di consultazioni è infatti appeso alle mosse di Matteo Renzi.

Cosa dirà al presidente della Repubblica? Allo stato il destino di un eventuale Conte ter dipende dai voti degli italo-viventi, a meno che in due giorni, da qui a venerdì, i Costruttori non raggiungano quota 161 senatori, in grado sterilizzare l’apporto di Italia Viva, come si augurerebbe anche Mattarella. L’obiettivo del presidente, ribadito più volte in queste ore, è quello di avere una maggioranza larga e stabile per affrontare le tremende sfide imposte dall’emergenza pandemica. Non solo: una riedizione del governo giallorosso condizionato da Renzi e Italia Viva – Conte ter che sia oppure no – potrebbe riprendere a “ballare” tra sei mesi, quando all’inizio di agosto inizierà il semestre bianco di Mattarella e lo scioglimento delle Camere non sarà più possibile. Ecco perché, allora, c’è il rischio di avere consultazioni lunghe in cui la pazienza maieutica del capo dello Stato potrebbe essere messa a dura prova, come già nel 2018 per la formazione del primo governo Conte. Solo che oggi non c’è il tempo che ci fu all’epoca per mettere insieme Cinque Stelle e Lega, circa tre mesi. Bisogna fare presto, se non prestissimo, nonostante le fragilità con cui ogni gruppo salirà al Quirinale da oggi a venerdì, quando le consultazioni saranno chiuse dal centrodestra fintamente unito e dal M5S.

Gli interrogativi presenti al Colle sono vari. Il primo riguarda ovviamente il pokerista Renzi. Il fatto di non fare nomi e non mettere veti durante le consultazioni, come detto ieri, basterà venerdì per dare un incarico a Conte e consentirgli di verificare la possibilità di una nuova maggioranza? Oppure il leader di Italia Viva cambierà idea in due giorni e coi Responsabili fermi sempre a dieci alzerà la posta e chiederà la testa dell’odiato Avvocato? Poi ancora: in un secondo giro di consultazioni, il M5S reggerebbe un nome diverso da Conte oppure dirà sic et simpliciter di voler andare al voto? Infine: il centrodestra fingerà di essere unito nei vari passi della crisi?

Sono queste le principali domande che terranno banco a partire da oggi pomeriggio al Quirinale. Al solito il capo dello Stato ascolterà attentamente tutti senza aver alcun pregiudizio e senza avere soluzioni precostituite. Il sentiero principale da battere resta comunque il Conte ter ma la difficoltà a far decollare il gruppo dei Costruttori in queste settimane è la drammatica incognita che aleggia sul Colle. E il pericolo è quello classico di una crisi al buio. Si comincia oggi senza avere scadenze. L’esatto contrario di una crisi lampo che magari una settimana fa, prima della fiducia, sarebbe stata possibile.

Strada stretta per il Conte-ter: “Governo di salvezza nazionale”

L’avvocato ha salutato tutti, circondato da ministri che sperano sia stato solo un arrivederci e che si ripetono: l’esperienza “giallorosa” non può finire così. Ha ricevuto e consultato vari Cinque Stelle, in queste ore davvero il suo partito, e i grillini lo hanno trovato “carico, positivo”, insomma ottimista, nonostante tutto. Perché nel giorno in cui il Conte bis finisce ufficialmente, l’ipotesi di una terza rinascita a Palazzo Chigi si fa sempre più nebulosa. E l’arrivederci pare già stingere nell’addio. Forzato da nemici più o meno visibili, reso concreto dal nodo che in politica alla fine decide sempre tutto: i numeri, che ancora non ci sono. “Dobbiamo portare avanti questa esperienza di governo” scandisce di prima mattina Giuseppe Conte nel suo ultimo Consiglio dei ministri, prima di salire al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni.

Ma all’ora di cena, dopo un martedì di silenzi pubblici, con una conferenza stampa solo immaginata e un videomessaggio (pare) ultimato ma alla fine rimasto nel cassetto, il premier su Facebook riallarga l’orizzonte: “Le mie dimissioni sono al servizio della formazione di un governo che offra una prospettiva di salvezza nazionale, con un’alleanza di chiara lealtà europeista”. Anche per fare “le riforme”, come la legge elettorale proporzionale cara anche a Forza Italia. Però sa che la strada si è fatta stretta, e non si espone: “Al di là di chi sarà chiamato a guidare l’Italia, l’unica cosa che rileva è che la Repubblica possa rialzare la testa”. Lui ci proverà, a restare dov’è. E comunque “mi ritroverete sempre, forte e appassionato, a tifare per il nostro Paese”.

E qui Conte sembra alludere a un suo impegno futuro in politica, al di là dei ruoli. Anche con una sua lista, magari. Ma prima c’è l’oggi, cioè il lavorìo per cercare Responsabili: l’unica via per allargare la maggioranza e poter riprendersi senza troppi rossori Matteo Renzi, per provare a dire che il fu rottamatore è di nuovo a bordo ma non sarà più decisivo. Però non se ne vedono, di nuovi costruttori. Il gruppo centrista in Senato sotto le insegne del Maie ormai dovrebbe esserci: ma manca ancora il decimo e gli altri nove avevano già votato la fiducia all’avvocato. Serve altro, per arrivare almeno ai 161 voti della maggioranza assoluta. Anche perché nei 156 della votazione di fiducia di pochi giorni fa c’erano anche tre senatori a vita, voti non proprio blindati. Ci vogliono altri senatori, per anestetizzare quel Renzi a cui Conte deve per forza riaprire le porte. Sergio Mattarella, raccontano fonti di governo, è stato chiaro con l’avvocato: non si possono porre veti, a nessuno. Certo, nei colloqui riservati il premier lo ripete: “Renzi dentro il governo non lo voglio”. E i grillini lo sperano: “Se arriviamo a 161 voti magari Iv perderà qualche pezzo…”. Però Renzi fiuta il sangue e quindi picchia. Fa sapere che nelle consultazioni al Quirinale, con inizio oggi pomeriggio, Iv non farà alcun nome a Mattarella: non certo quello di Conte, pure appoggiato da M5S, Pd, LeU e Maie. Poi sulla sua e-news parla da vincitore, e giura: “Al Colle non metteremo veti”. Ma il suo obiettivo resta la testa di Conte.

Per questo ieri impazzava come alternativa il nome di Roberto Fico, il presidente della Camera con cui ieri il premier si è visto per un’ora e mezza di colloquio, e la durata conferma la difficoltà del momento. Ma non è lui, l’uomo del piano B. La vera opzione di cui tutti discutono porta a Luigi Di Maio.

L’ex capo ancora maggioritario dentro i 5Stelle, a Renzi e a tanto Pd potrebbe andare bene, e per il Movimento sarebbe l’unica possibile alternativa se l’attuale premier non avesse i numeri. Di Maio nega qualsiasi mira, e passa il martedì a mobilitare i grillini per Conte. Ma sa che la chiamata potrebbe essere nelle cose. La teme, davvero: dire no sarebbe difficile. Come tutto, di questi tempi.

 

Giustizia gratta e vinci

Le “rivelazioni” dell’ex pm Luca Palamara nel libro-intervista con Alessandro Sallusti, al netto delle balle, possono stupire tutti, fuorché i lettori del Fatto. Che dalle nostre cronache hanno potuto seguire passo passo, non fuori tempo massimo, la sistematica demolizione di tutti i pm non allineati al sistema per mano delle cosche correntizie e dei loro mandanti politico-istituzionali: Scarpinato, Ingroia, Di Matteo, De Magistris, Nuzzi, Apicella, Verasani, Forleo, Woodcock, Robledo, De Pasquale, Esposito e altri, fino alla defenestrazione di Davigo dal Csm. È la stessa logica delinquenziale che in questi giorni orienta la congiura per cacciare Conte e riconsegnare il Paese ai soliti ladri con la benedizione dei loro giornaloni. La magistratura di Mani Pulite e della Primavera di Palermo è diventata un’altra cosa: non più l’istituzione sana rappresentata dai Borrelli, i Caselli, i D’Ambrosio, i Maddalena, i Guariniello che oscuravano poche mele marce; ma un’entità indistinta dominata da burocrati, carrieristi, correntisti, menefreghisti, in cui si annidano pochi magistrati che si ostinano a compiere il proprio dovere a proprio rischio e pericolo. Le indagini non fatte o mal fatte superano di gran lunga quelle svolte a regola d’arte, molte sentenze sembrano terni al lotto e la giustizia – con le dovute eccezioni – si riduce a gratta e vinci. Le “riforme” e i “moniti” finalizzati a non disturbare i manovratori, sono riusciti là dove la guerra di B. aveva fallito: a “mettere in ginocchio i magistrati” (Davigo dixit) come negli anni 50, 60 e 70, quando la giustizia era forte coi deboli e debole coi forti.

Oggi è prevista la sentenza del processo a Chiara Appendino, una delle sindache più oneste e perbene mai viste. Risponde di omicidio e lesioni colpose per la tragedia di piazza San Carlo del 3 giugno 2017, quando – durante la proiezione sul maxischermo della finale di Champions Juventus-Real Madrid – due donne morirono e 1500 persone furono ferite nel fuggifuggi scatenato da una banda di rapinatori armati di spray al peperoncino, scambiati per terroristi bombaroli. La più classica delle disgrazie imprevedibili e inevitabili, come può testimoniare il sottoscritto, che accorse in piazza a recuperare sua figlia ferita. Molti dei feriti, fra cui lei, erano caduti nella calca su un tappeto di vetri rotti, cioè di bottiglie di birra che incredibilmente la polizia aveva consentito venissero vendute da abusivi nella zona transennata. Soltanto in seguito si scoprì la banda dello spray urticante che aveva scatenato il panico, i cui membri sono già stati condannati per omicidio preterintenzionale. Resta da capire che senso abbia ormai il processo alla sindaca.

E che avrebbe potuto fare la Appendino per evitare l’accaduto se non, col senno di poi, vietare la manifestazione? Cosa che ovviamente non le venne in mente di fare, non potendo prevedere l’imprevedibile. La stessa piazza era stata concessa ai tifosi l’anno prima per la finale Juve-Barcellona dall’allora sindaco Piero Fassino pochi mesi dopo le stragi Isis a Parigi, e con gli stessi protocolli di sicurezza. Eppure oggi l’Appendino rischia 1 anno e 8 mesi (tanti ne ha chiesti il pm), che andrebbero ad aggiungersi ai 6 mesi per falso rimediati a ottobre in un altro processo kafkiano: quello sul “caso Ream”. Breve riepilogo: nel 2012 la giunta Fassino contrae uno strano debito con la società Ream, che versa al Comune una caparra di 5 milioni per avere il diritto di prelazione su un’area destinata a centro congressi. Nel 2013 il progetto viene aggiudicato a un’altra società, anche perché incredibilmente Ream ha versato la caparra senza partecipare alla gara. E i 5 milioni vanno restituiti. Ma la giunta Fassino non paga. E, ai solleciti di Ream, risponde che ridarà i soldi solo quando il vincitore della gara avrà la concessione e il Tar avrà sentenziato sul ricorso di una ditta esclusa. Nel 2016 arriva la Appendino e, trovando le casse vuote, tratta con Ream per rinviare la restituzione dei 5 milioni, che intanto restano fuori bilancio, tantopiù che l’affare è sempre fermo al Tar. Ma i capigruppo di opposizione, il leghista Morano e il pd Lorusso (compagno di chi ha contratto e non saldato il debito), la denunciano.

L’Appendino viene indagata per due abusi e due falsi (sui bilanci 2016 e 2017), ma rivendica la scelta, stanti le trattative con Ream per rinviare il pagamento: tant’è che poi ottiene di effettuarlo nel 2018 e iscrive il debito nel bilancio di quell’anno, col via libera della Corte dei Conti. La Procura però, malgrado il centro congressi sia rimasto bloccato al Tar fino all’autunno 2020, sostiene che l’aggiudicazione si fosse perfezionata già quattro anni prima, dunque la caparra andasse iscritta a bilancio e restituita nel 2016. Alla fine il gup, con rito abbreviato, condanna la sindaca, sia pure solo per il falso del 2016: 6 mesi per aver favorito il suo Comune iscrivendo un debito atipico nel bilancio 2018 anziché 2016. Nelle motivazioni, a tratti esilaranti, si legge che il dolo che fa dell’errore un reato è dimostrato anche dagli esposti di Lorusso e Morano (nel frattempo condannato in appello a 2 anni e 4 mesi per induzione indebita): cioè degli oppositori della sindaca. L’altroieri, con comodo, la Procura ha indagato Fassino per turbativa d’asta sulla folle caparra del 2012. Tanto è tutto prescritto. A questo punto, spiace dirlo, ma è sempre più arduo distinguere la giustizia dalla burla.

Miracolo alle Hawaii, ma il paradiso lì è solo per gli squali: il romanzo amato da Obama

Giona finì nel ventre di una balena, Noa tornò a galla in bocca a un pescecane. Però Noa viveva alle Hawaii e la sua non è una leggenda. Non solo perché ci sono i testimoni, ma anche perché lì dove è ambientata la sua storia i bianchi, gli haole, ci vanno in vacanza, ma i nativi vivono a stento.

La storia di Noa e della sua famiglia è al centro del primo romanzo dello scrittore hawaiiano Kawai Strong Washburn: Squali al tempo dei salvatori, tradotto da Martina Testa per e/o. Esordio di successo: tre nomination al premio letterario Pen America e un posto nella lista dei preferiti di fine anno di Barack Obama.

Come Obama e come i suoi personaggi, Washburn è nato alle Hawaii, e come i suoi personaggi le ha lasciate per il continente. Le sue Hawaii hanno i tetti in lamiera e l’odore di cucina delle periferie rurali. C’è la frutta esotica, ma a cena si mangia carne in scatola e precotti. Si fanno danze tradizionali, ma “balli per i bianchi”. È più simile al Midwest che al paradiso. “Volevo descrivere le difficoltà economiche del vivere nelle isole, qualcosa che la maggior parte degli americani non riconosce”, ha detto l’autore. Solo che in questa piccola epopea familiare working class (inizio 2000) irrompe un evento soprannaturale. Il piccolo Noa cade in acqua durante una gita in traghetto e uno squalo lo salva sotto gli occhi dei genitori.

Da quel momento Noa sente vibrare il mondo come se ce l’avesse dentro. Si scopre una sensibilità fuori dal comune e doti taumaturgiche: “un canale aperto con gli dei”. La gente comincia a cercarlo per farsi imporre le mani. Ma alla lunga queste doti fanno male a Noa e a chi ha intorno: i genitori hanno occhi solo per lui, i suoi fratelli, Dean e Kaui, vivono nella sua ombra.

“Io non ci voglio credere a tutta la cosa di mio fratello, ma alla fine fondamentalmente ci credo. Cioè la odio ma ci credo”, spiega Dean. Lui con il basket, Kaui studiando, cercano di spiccare. Vanno a farsi una carriera nel continente, ma certe distanze non si possono colmare. Puoi avere la borsa di studio ma non puoi “spendere i soldi come se avessi un futuro assicurato” come fanno gli haole. Mentre Noa porta la sua croce, la storia di Dean e Kaui scorre parallela, anzi quasi contraria. Piena di delusioni, errori, droghe, carcere. E l’unica strada che resta sembra quella del ritorno.

“Basta vedere salvatori da tutte le parti, ok? Questa è semplicemente la vita”, dice Kaui al fratello. La magia non ha niente di magico. Come ammette papà Augie: “Il paradiso ha un prezzo. A casa nostra è così”.

“Dipingo angeli e artisti: Mina è leonardesca, la Bertè buffa”

Signorile, educato, umile e autorevole, Mauro Balletti predilige i toni pacati. L’atelier è anche la sua abitazione, vicino ai Navigli di Milano. Quadri e disegni a china, figure fetali avvolte su se stesse. Artista a tutto tondo, sul crinale tra la fotografia e la pittura, Balletti è anche e soprattutto l’uomo dietro le celebri copertine di Mina. “Mio nonno era un pittore e anche mio padre. Sono nato e cresciuto in una casa zeppa di quadri, non c’era una parete libera”.

Casa di artisti genio e sregolatezza?

No, molta serenità. Mio padre era dirigente di banca: aveva quattro figli da mantenere… Ma un pizzico di follia nel nostro Dna c’è. Anzi, libertà. Io ho fatto Lettere ma ho lasciato a metà perché ho iniziato a lavorare da Luigi Brambati, un amico di mio padre, anche lui pittore. Mi considero autodidatta. A 21 anni sono diventato il fotografo di Mina.

Com’è nato il vostro incontro?

Avevo una passione spasmodica per lei dall’età di 14 anni: Un anno d’amore, E se domani… Nel 1972 sono andato alla Bussola e l’ho conosciuta: mi sono presentato al locale durante le prove nel pomeriggio… Mina era esattamente come l’avevo immaginata. Mi ha chiesto di cosa mi occupavo e le ho risposto: “Pittore”. E lei ha ribattuto: “Perché non mi fai delle foto”?… In realtà le foto le ho iniziate a fare qualche mese dopo. Ci sentivamo spesso al telefono e ci siamo rivisti sul set del carosello della Tassoni, a Salò. La prima foto che le ho scattato è una con i capelli corti biondi e il sigaro, utilizzata per le copertine di Frutta e Verdura e Amanti di valore. In seguito il regista Antonello Falqui l’ha voluta come in quella foto per la sigla Non gioco più. Non avevo nemmeno una macchina fotografica, me la prestò un mio amico.

Come nasce una sua copertina?

In genere scatto alcune foto a casa sua, con la luce naturale. Prima parliamo dell’idea dietro al progetto. Per il culturista di Rane Supreme o la foto con la barba in Salomè non c’era post-produzione, semplicemente non c’era il computer, quindi si scattava dal vivo.

Oltre al rapporto professionale capita di parlare della vostra vita privata?

Certamente. Anzi, soprattutto. Non ci sono segreti. È l’essere umano più intelligente mai conosciuto, ha un cervello leonardesco. Per me lei ha lo stesso sguardo di Picasso, di Fellini, della Callas: occhi dove vedi il fuoco dell’intelligenza.

In 49 anni di sodalizio, mai uno screzio?

Mai. È stata l’evoluzione del mio amore per lei.

Contemporaneamente inizia il suo percorso artistico di pittore…

A vent’anni non facevo programmi. Avevo l’incoscienza tipica di quell’età. Vengo da una famiglia che mi ha insegnato a non mettermi in mostra, a non sgomitare. La mia prima personale è stata nel 1980 alla Galleria “L’isola in Brera” a Milano. Non so se sono un fotografo anche se faccio fotografie: sono un lavoratore delle immagini. E un pittore. Oltre a Mina ho collaborato con Ornella Vanoni, Anna Oxa, Pooh, Vasco Rossi, Mario Lavezzi, Gianni e Marcella Bella, Loredana Bertè.

Com’è stato lavorare con questi artisti?

La Vanoni la preferisco adesso; Loredana è una matta ma molto lucida, le ho scattato una foto diventata celebre, quella vestita da suora.

Nei suoi quadri disegna personaggi veri o immaginari?

Quando inizio a disegnare non ho idea di cosa sto facendo, me ne accorgo dopo un po’ e magari riconosco qualcuno che ho conosciuto. Ad esempio, una volta mi sono reso conto che stavo dipingendo l’infermiere che mi aveva prelevato il sangue qualche giorno prima. Una mattina, mentre ero al telefono, ho scarabocchiato un volto e solo alla fine ho realizzato che era mio padre.

Il pennello strumento dell’inconscio: un dono…

Credo di sì.

I suoi quadri ricordano Picasso e i disegni di Fellini.

Io amo Picasso. Una grande fonte di ispirazione (gira per il suo studio-abitazione e mostra un angelo enorme sopra il letto).

Un angelo?

È il mio angelo. Io sono ossessionato dall’annunciazione. Sono amante del Beato angelico. Stavo disegnando in corridoio, per terra: ho iniziato da un piede e da lì il resto.

Tra tutti i suoi disegni questo è l’unico che sembra finito, compiuto.

È così. Ci vedo delle sculture. Faccio i disegni a china. Il gusto è di non sbagliare col pennino.

Ritorna a casa, Madonna. Sos fondi per vincere l’asta

Tra le molte forme che ha assunto il ripiegamento su se stessa dell’America di Trump, c’è anche la fuga non dallo spazio internazionale, ma dal tempo lungo del passato europeo. È così che si può leggere la decisione dell’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo (New York), di mettere in vendita uno dei suoi più luminosi capolavori rinascimentali. Già nel 2007, quel museo era stato al centro di una profonda riflessione, a causa della sua decisione di vendere 200 opere d’arte pre-moderne per un ammontare di 15 milioni di dollari. Allora l’Albright-Knox Art Gallery esplicitò il suo movente: dedicarsi solo alla modernità, cioè all’arte contemporanea. Una decisione che è solo una delle tante spie di quello che Adriano Prosperi ha da poco definito “un tempo senza storia”, il nostro: e, d’altra parte, l’idea (profondamente distorta) che la storia riguardi il passato (e non gli uomini nel tempo, come scriveva già Marc Bloch) sta prendendo piede anche nelle istituzioni culturali, dai musei alle università.

Ora questo nuovo dogma del presentismo miete un’altra vittima: e dopodomani da Sotheby’s a New York va all’asta (insieme a molti altri capolavori italiani provenienti dalla collezione di Hester Diamond) questa dolcissima Madonna plasmata da Luca della Robbia tra 1440 e 1450. Un capolavoro, in cui Luca è davvero vicinissimo alla tenerezza di Donatello: ma senza i guizzi terribili, quasi feroci, dell’inventore del Rinascimento.

Ebbene, ora che l’America dichiara che il suo canone è più (poniamo) Barnett Newman che Donatello, noi italiani cosa facciamo? Proviamo o non proviamo a riportarci a casa questa Madonna – segnata dal passare del tempo, certo, ma ancora smagliantemente bella? Per farlo ci sarebbe una ragione che non ha a che fare con la retorica dell’identità (questa parola sporcata, ormai impronunciabile) o con un malinteso patriottismo, ma con l’aspetto più felice e trascurato del nostro Paese: la sua estrema diversità, la possibilità di trovare grandi capolavori dei grandi maestri anche nei più piccoli villaggi montani, o silvestri.

È questo il caso: perché la Madonna proviene da Santa Fiora, meraviglioso borgo di 2.500 abitanti sul Monte Amiata. Qua, nel 1866 – in seguito alle leggi eversive post-unitarie – il Comune entrò in possesso della chiesa di Santa Chiara dei Cappuccini, consacrata solo nel 1705, ma piena di opere d’arte più antiche, e circondate dall’affetto e dalla venerazione popolari. È ben possibile che la Madonna fosse nata proprio per Santa Fiora, forse commissionata dal conte Bosio I (1411-1475) di Santa Fiora, grande amante delle terrecotte invetriate (per esempio di quelle del nipote di Luca, Andrea).

Meno sensibili di Bosio, gli amministratori comunali del 1866 vendettero la Madonna a Léon Mathieu Henry de Somzée, ingegnere minerario belga attivo nella Toscana meridionale, e appassionato d’arte. Così l’opera usciva dal territorio nazionale, e iniziava una peregrinazione che evidentemente non si è conclusa con l’approdo a un museo.

Oggi il sindaco di Santa Fiora vorrebbe riparare all’errore del suo lontano predecessore, e cerca finanziatori che permettano al suo comune di riconquistare questa gemma perduta: una gemma che parte da una base d’asta collocata tra 700 mila e un milione di dollari. Ci sono poche ore: ma se qualcuno davvero vuole farsi avanti, sono più che sufficienti.

E qua si impone una riflessione. Il patrimonio culturale sconta da decenni gli effetti della fluviale retorica del “privato”: mecenati e sponsor vengono additati come salvatori della patria, provvidenziali sostenitori di uno Stato in ritirata. Le cose stanno, in realtà, al contrario: perché finora si sono visti quasi esclusivamente i privati for profit, buttati a capofitto per spolpare il patrimonio, per far soldi o farsi pubblicità. E quando il gioco si è fatto davvero duro (vedi i casi del Museo Ginori, o dell’Archivio Alinari) alla fine è stata sempre la mano pubblica a dover intervenire. Ora, dopo mesi drammatici in cui i più ricchi tra gli italiani sono diventati ancora più ricchi, possibile che non ci sia un vero mecenate disposto a riportare in Italia questa Madonna, davvero piena di grazia, ridonandola all’incanto del suo Monte Amiata? Ebbene, lo vedremo presto.