Caro Giulio, ci manchi. Tu ci facevi sorridere

Caro Giulio,
noi tutti ti dobbiamo delle scuse. Come il marito che lascia la moglie per l’amante e dopo due giorni di convivenza con l’amante capisce di aver fatto una sonora cazzata, noi che ti abbiamo deriso e sbeffeggiato nell’anno appena passato, siamo già pronti a tornare sui nostri passi. A rincorrerti trafelati sul Naviglio Grande con un mazzo di fiori in una mano e il Gatorade nell’altra, per dirti che sì, siamo stati troppo duri con te.
Che è vero, sei stato il capro espiatorio. Anche un po’ capra, talvolta, ma comunque una capra domestica, un erbivoro buono, di quelli con la faccia paciosa che finiscono nelle foto dei libri di scienze alla voce “agricoltura e pastorizia”. Tu facevi tutte quelle gaffe perché non eri capace di truccare l’inadeguatezza, di cavalcare la storiella della regione vincente nonostante tutto. O meglio, ci provavi, ma poi ti cadeva la maschera, anzi, la mascherina, e la verità veniva sempre fuori. Tu eri trasparente, a tua insaputa. Lo sei stato quando hai buttato lì che chissà, magari ti saresti candidato a sindaco di Milano, perché tutte quelle boomer infoiate sotto le dirette fb dei tuoi bollettini Covid, ti avevano convinto di essere Bradley Cooper e di poter sfidare Beppe a colpi di selfie. Hai sbagliato a spiegare l’Rt, ma solo perché quando lo spiegavano a te avevi le cuffie nelle orecchie. E mentre correvi sei finito in un altro Comune nonostante la zona rossa perché avevi in cuffia uno che ti spiegava cos’è l’indice Rt. E quando hai detto che “gli ospedali privati vanno ringraziati perché hanno aperto le loro terapie intensive e le loro stanze lussuose ai pazienti ordinari”, ti sei spiegato male perché avevi in cuffia uno che ti spiegava cos’è una zona rossa. E quando hai detto che non sapevi di poter chiudere Alzano, eri in cuffia con uno che ti stava spiegando cos’è un’ordinanza. Noi non ti abbiamo capito, Giulio. Abbiamo pensato, colpevolmente, che chiunque dopo di te avrebbe fatto meglio. Che bastasse sbloccarti le ferie e mandarti a sciare con i famosi medici che in quei giorni venivano tutti giù allegri dalle montagne con gli slittini, per risolvere i problemi della Lombardia. E invece ci siamo dimenticati che noi, in Lombardia, non siamo tipi da turarci il naso e optare per il meno peggio. No, a noi anche in una solfatara, piace aprire le narici e respirare a pieni polmoni. E così ci siamo tenuti Fontana, che già da solo era l’equivalente di 1700 tonnellate di nitrato d’ammonio parcheggiate nel porto di Beirut. A quel punto, già che c’eravamo, abbiamo anche acceso la miccia: qualcuno ha piazzato al tuo posto Letizia Moratti, che è l’equivalente dei fuochi d’artificio per la festa della Madonna Assunta a Monte di Procida, nel porto di Beirut, accanto al nitrato di cui sopra. Ecco, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Tu, Giulio, che bisogna vaccinare prima le regioni col Pil più alto, non lo avresti mai detto. Mai. Non sei un cinico materialista, tu. Tu, al massimo, avresti proposto di iniziare da quelle col maggior numero di piste d’atletica. Tu, l’errore nel conteggio dei guariti non l’avresti mai fatto, anche perché saresti rimasto coerente con la tua linea: in Lombardia nessuno s’è mai ammalato. Tu non avresti mai fatto ricorso al Tar per litigare col governo, anche perché nel mentre saresti stato con uno in cuffia che ti spiegava cos’è il Tar. E che cos’è un ricorso. Ma soprattutto, caro Giulio, altro che sbeffeggiarti: tu avevi capito tutto.

Tu sapevi cosa significava il ritorno di Letizia Maria Brichetto Arnaboldi in regione: ovvero che l’indice Rt, in Lombardia, è quello che bisogna incontrare due cognomi contemporaneamente in un solo assessore, per rimpiangere quello di prima. Ci manchi, Giulio. Forse non le azzeccavi proprio tutte, ma almeno le tue risposte ci facevano ridere.

Variante brasiliana a Varese, il Nord-Est “rossoscuro” per l’Ue

A giudicare dai nuovi contagi e dai dati ospedalieri rilevati nei bollettini quotidiani, Liguria e Piemonte possono senz’altro aspirare alla zona gialla dopo due settimane in arancione, così come il Veneto dopo tre. In vista del monitoraggio di venerdì prossimo, hanno meno certezze la Calabria, il Lazio, l’Abruzzo e l’Emilia-Romagna, mentre l’occupazione dei posti letto, specie nelle rianimazioni, sembra penalizzare il Friuli-Venezia Giulia, le Marche e la Puglia, tutte in teoria candidate al “giallo”. L’Umbria, delle ben dodici Regioni arancioni, è l’unica che vede anche un aumento dei nuovi casi (ieri più 20% su base settimanale) oltre alle terapie intensive sopra la soglia (al 46%). L’aumento peggiore è però in Alto Adige, che è rosso e lo rimarrà (come la Sicilia): 587 contagi ogni 100 mila abitanti rilevati negli ultimi 7 giorni, +52.8%. Per il resto, in tutta Italia, l’incidenza settimanale scende del 15%: siamo a 141. Una sola, la Basilicata, ne ha avuti 72 e comincia ad avvicinarsi alla nuova zona bianca senza divieti che scatta a 50. La Toscana è a 83, la Sardegna a 82, ma salvo ordinanze del Tar rimarrà arancione perché è alla prima settimana.

Intanto arrivano le zone “rosso scuro” europee, quelle della mappa dell’Ecdc, il Centro per il controllo delle malattie di Stoccolma. Ieri, la Commissione Ue, con il responsabile della Giustizia, Didier Reynders, ha fatto sapere che, su richiesta dei governi, introdurrà limitazioni agli spostamenti da e per le regioni dell’Unione con la maggiore incidenza, perlomeno tamponi in partenza. Tra le aree prese in considerazione ci sono Veneto, Alto Adige, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia oltre a buona parte della penisola iberica, alcuni dipartimenti sud-orientali della Francia, l’Irlanda, parte della Germania, della Polonia e della Svezia, la Repubblica Ceca e altre zone dell’Europa centro-orientale e del Baltico.

Anche ieri il bollettino ha confermato una sostanziale stabilizzazione dei dati italiani, 8.562 nuovi casi con appena 143 mila tamponi tra molecolari e antigenici (era lunedì), il dato più basso dal 15 gennaio quando sono stati inseriti nel conteggio i test rapidi (l’indice di positività è al 6%, domenica al 5,4%; sulle sole 50.925 persone testate al 16.81% ). I morti sono stati 420, domenica 299, ma non si escludono ritardi di comunicazione. Ieri sono aumentati i posti letto occupati (+115 nei reparti ordinari, +21 nelle terapie intensive con 150 nuovi accessi) ma nel complesso la pressione, lentamente si alleggerisce. Secondo Agenas, solo sei Regioni al 24 gennaio, contro 8 il 16 gennaio, superano la soglia del 30% nelle terapie intensive, tra queste anche la Lombardia (34%) e Trento, sempre gialla, che ha il valore più alto (48%)

Il grande allarme è sulle varianti del virus. Per la prima volta ieri, se l’Istituto superiore di sanità confermerà, in Italia è stata trovata quella brasiliana. È successo a Varese, si tratta di un uomo asintomatico rientrato dal Brasile. È la variante che più preoccupa perché dai pochi studi disponibili mostra maggiori rischi di resistenza ai vaccini e di reinfezione rispetto a quella inglese e a quella sudafricana. L’Italia accelera sul sequenziamento del virus, che permette di rintracciare le varianti, ma è sempre molto indietro.

Da ieri, però, oltre alla pandemia, c’è un nuovo piano pandemico. Il ministro Roberto Speranza ha ottenuto l’ok della Conferenza Stato-Regioni. Ora il piano non è più quello del 2006, peraltro non attivato nel 2020 contro il Covid-19. Era infatti privo degli aggiornamenti sollecitati dall’Oms dal 2007 in poi e nel 2013 anche dal Parlamento europeo, con una decisione di cui il segretario generale del ministero della Salute, Giuseppe Ruocco, ha riconosciuto nei giorni scorsi “il valore” in qualche modo vincolante davanti ai pm di Bergamo, che indagano sui ritardi della prima fase della pandemia. Lo ha detto anche a Report, che l’ha mandato in onda ieri sera.

I presidenti leghisti con Attilio “Rivedere i criteri delle zone”

“Ora basta. I vostri fallimenti non si contano più”. È il titolo del flash mob che ieri ha portato un migliaio di persone davanti a Palazzo Lombardia per dire basta con la giunta Fontana. Una sinistra larga e unita: Pd, M5S, Arci, Acli, I Sentinelli. Insieme per chiedere le dimissioni di tutti. E, nel giorno della prima vera protesta, è arrivata la conferma di quanto tutti sapevano, cioè che il Tar avrebbe dichiarato il non luogo a procedere sul ricorso del Pirellone sulla zona rossa. Ma ieri è stato anche il giorno in cui i sindaci lombardi di centrosinistra sono passati all’attacco. Da Sala (Mi) a Gori (Bg), da Del Bono (Bs) a Galimberti (Va). Per tutti l’ipotesi “molto probabile” è che la sovrastima dell’indice Rt risalga a prima. Dice Gori: “Per la Regione è l’algoritmo dell’Iss che si inceppa sui guariti non dichiarati sintomatici. Per noi un punto di svolta è il 12 ottobre, quando viene modificato il meccanismo di guarigione”: prima servivano due tamponi negativi, poi è stato bastato un isolamento di 21 giorni. “Qui nasce il problema, il campo in cui andrebbe indicato lo stato clinico non viene compilato e il sistema non è più in grado di scaricare i guariti”.

Ma Attilio Fontana anche ieri ha ribadito la sua tesi, smentendo che la mail del 19 gennaio del Dg della Sanità Marco Trivelli all’Iss fosse un’ammissione di responsabilità. E, a proposito di dati, ieri Trivelli non ha dato alla commissione d’inchiesta sull’emergenza Covid quelli richiesti sulla prima ondata (necessari per iniziare i lavori), a causa di “problemi di natura organizzativa e gestionale dell’Assessorato”.

Con Fontana si schiera il fronte dei presidenti leghisti. “Abbiamo chiesto più volte di modificare il sistema di valutazione per determinare il colore delle regioni”, hanno dichiarato Fedriga, Solinas, Spirlì, Tesei e Zaia, “è necessario il massimo rigore nell’analisi dei dati. Rinnoviamo la richiesta di una revisione delle procedure”.

Tra i firmatari, anche il governatore sardo, Solinas, l’altra voce che lo scorso weekend si era alzata contro Iss e Governo, per aver “declassato” l’isola da gialla ad arancione. “Siamo qui a inaugurare un nuovo reparto di terapia intensiva con 30 posti – aveva detto sabato a Sassari – e altri 14 ne saranno disponibili tra qualche giorno, mentre il ministero ha preso una decisione per superamento percentuale dei ricoveri”.

Per Solinas, l’arancione era ingiusto perché i dati dell’ultimo monitoraggio giustificavano il mantenimento del giallo. Primo perché l’attivazione di quei 30 nuovi letti di intensiva aveva abbassato la soglia di occupazione al 24%, sotto il limite del 30%. Poi perché la Sardegna risultava avere un indice di incidenza di 203 casi ogni 100 mila abitanti e un Rt a 0.95. Tutti parametri che avrebbero dovuto mantenere il giallo. Tanto che Solinas ieri ha annunciato un ricorso al Tar, uguale a quello lombardo.

Ma le cose non stanno proprio così: i 30 posti di T.i. sono infatti stati inaugurati alle Cliniche di San Pietro di Sassari, ma non sono operativi. Né lo saranno fino a lunedì prossimo, fanno sapere dalla struttura. Inoltre, solo 12 sono “nuovi”. Gli altri 18 sono una razionalizzazione dell’esistente.

E anche sui dati comunicati a Roma esiste più di un problema: secondo il “Monitoraggio settimanale, Report 36” con i “Dati relativi alla settimana 11.1.2021-17.1.2021 (aggiornati al 20.1.2021)”, la Sardegna ha sì comunicato i dati, ma l’Iss avverte che “è stato rilevato un forte ritardo di notifica dei casi nel flusso Iss che potrebbe rendere la valutazione di questi indicatori meno affidabile”. Proprio come per la Lombardia.

Alimentare, l’ok all’aumento è uno schiaffo al diktat Bonomi

Quello andato in scena ieri è l’epilogo, o meglio, la consacrazione del lungo sabotaggio che la gran parte delle aziende agroalimentari italiane ha azionato nei confronti della linea dettata dal presidente della Confindustria, Carlo Bonomi. Il rinnovo del contratto per i lavoratori del settore, con gli aumenti mensili da 149 euro, è stato definitivamente messo nero su bianco da 11 associazioni di imprese su 13, ma il testo non è stato firmato dalla Federalimentare. In sostanza, porta la firma di quasi tutte le associate, ma non quella della “capogruppo”, rimasta fedele fino all’ultimo al volere confindustriale e al diktat del suo presidente, sostanzialmente contrario a concedere aumenti nei rinnovi contrattuali. È la prima volta che succede nella storia delle relazioni sindacali di questo settore e non avrà un risvolto pratico perché – appunto – le 11 associazioni applicheranno il nuovo accordo. Anzi, saranno in 12 a farlo, perché Unionzucchero ha aderito senza sottoscrivere. Quindi resta fuori solo l’Assocarni, mentre l’assenza della sigla Federalimentare sul documento ha solo l’effetto di sancire la profonda frattura registrata tra le aziende del settore e Viale dell’Astronomia. La storia è iniziata oltre un anno fa, quando sono partite le trattative per il rinnovo del contratto nazionale agroalimentare. Poche settimane dopo la fine del lockdown, le prime tre associazioni – UnionFood, Assobirra e Ancit – hanno trovato l’intesa con i sindacati per gli incrementi e tutte le altre condizioni. Scelta in contraddizione con la politica espressa da Bonomi, da poco insediato, che più volte ha detto che le buste paga possono crescere solo in parallelo all’inflazione prevista (molto scarsa). Il mondo delle imprese, però, era propenso a riconoscere ai lavoratori il sacrificio compiuto durante la “quarantena nazionale”. Ne è venuto fuori un terremoto dentro la Federalimentare, e il seguito è stata una progressiva adesione al rinnovo da parte di quasi tutte le 13 associazioni che compongono la federazione. “La firma di oggi – dicono i segretari di Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil, Onofrio Rota, Stefano Mantegazza e Giovanni Mininni – è il sigillo a un lavoro che va avanti da oltre un anno, dispiace per l’assenza di alcune associazioni, ma auspichiamo che tutte aderiscano”.

Recovery, la cabina di regia è sempre del primo ministro

Doveva essere il cuore della crisi, la ragione principale della rottura di Matteo Renzi. Eppure la governance del Piano di Resistenza e Resilienza (Prr), è scomparsa dal dibattito. A chi ne chiede conto, tra questi anche il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che ieri ha incontrato il governo, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha risposto: “Le note vicende politiche non hanno aiutato da questo punto di vista”.

Facendo un giro d’orizzonte in Europa – seguendo la traccia di un documento consegnato ai ministri del governo Conte – il problema della “cabina di regia” è risolto quasi sempre con ampi poteri al primo ministro: quasi mai si ricorre a organismi più allargati.

Germania La gestione è accentrata al governo con un ruolo centrale svolto dal ministero delle Finanze, unico contatto della Commissione Ue. Le risorse fanno capo in larga parte al ministero dell’Economia (il Mise italiano), ma anche al ministero dei Trasporti e dell’Infrastruttura digitale, della Ricerca e dell’Istruzione e dell’Interno.

Francia Il Segretariato generale per gli Affari europei, che fa capo al primo ministro, “coordina i lavori preparatori e garantisce il raccordo con la Commissione europea”. L’attuazione del piano nazionale è invece affidata a una struttura ad hoc: il Commissariato generale per il Piano guidato da François Bayrou, ex ministro dell’Istruzione e della Giustizia, che riferirà direttamente al ministro dell’Economia.

Spagna La gestione del Prr spagnolo è assegnata a una “task force costituita esclusivamente da ministri” e facenti capo al premier Pedro Sánchez presso il cui ufficio è stata istituita un’unità di “monitoraggio e coordinamento”. Il ministero delle Finanze avrà il compito di coordinare l’attuazione del piano. Non è prevista l’approvazione del piano da parte del Parlamento.

I più piccoli Per gli altri Paesi la gestione del Prr è quasi sempre centralizzata nelle mani del primo ministro spesso in tandem con il ministro delle Finanze. Raramente si affida il compito a strutture più periferiche (Danimarca).

In Austria la Cancelleria federale ha la responsabilità politica generale del Prr ed è incaricata del coordinamento con le Autorità regionali. Il ministero delle Finanze è responsabile dei lavori tecnici e supervisiona l’attuazione degli investimenti. Il Belgio affida al Segretario di Stato federale il coordinamento del piano nazionale e il punto di contatto unico per la Commissione europea è il capo di Gabinetto Raphaël Jehotte.

In Bulgaria il potere è nelle mani del vice primo ministro e del ministro delle Finanze che svolgono il coordinamento complessivo, mentre a Cipro l’elaborazione e la gestione sono affidati al ministro delle Finanze. Nella Repubblica Ceca la responsabilità operativa è del ministero dell’Industria e del Commercio, mentre i rapporti con la Commissione sono affidati al Segretariato per gli Affari europei. In Croazia il coordinamento generale è assicurato dagli uffici del primo ministro con il ministero delle Finanze incaricato di redigere il piano e quello dello Sviluppo regionale dello screening dei progetti.

La Danimarca è uno dei Paesi a minor controllo centralizzato con la redazione del Prr assegnata a una task force di tre componenti all’interno del ministero delle Finanze, unico punto di contatto con la Commissione. Nei tre Paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania la redazione del piano è gestita direttamente dal ministero delle Finanze e così in Lussemburgo, mentre la Grecia ha previsto un “comitato direttivo” composto da cinque membri dell’ufficio del primo ministro, ministero delle Finanze e dei Fondi strutturali.

Anche in Finlandia la prima ministra, Sanna Marin, ha istituito una task force di alto livello e un Segretariato presso il ministero delle Finanze. In Irlanda il ruolo predominante lo svolge il ministero per la Spesa pubblica e le riforme assieme al ministero delle Finanze. La piccola Malta ha affidato la redazione del Prr a un gruppo di lavoro che riunisce funzionari del Tesoro, delle Finanze e degli Affari europei.

Basso profilo nei Paesi Bassi dove il responsabile del Piano è il capo economista del ministero dell’Economia, mentre il Portogallo ha scelto la strada della task force con un comitato direttivo politico guidato dal primo ministro e affiancato dal Coordinamento tecnico congiunto dell’Agenzia per la coesione e del ministero delle Finanze.

In Romania la redazione del Prr è assegnata al ministero per i Fondi Ue; la Svezia ha affidato tutto al ministero delle Finanze, mentre la Slovenia a un Gruppo strategico di alto livello presieduto dal primo ministro. In Slovacchia il piano è del ministro delle Finanze, mentre l’Ungheria affida tutto alla responsabilità diretta del primo ministro con ruolo prominente del ministero per l’Innovazione e la tecnologia.

I costruttori aspettano il Conte-ter: 15 forzisti pronti a mollare Silvio

Ci sono, ma aspettano. Al telefono e alla buvette si concedono, ma per ora non si appalesano. “Stanno sulla soglia”, come spiega in serata uno dei pontieri citando il Fabrizio De André di Via del Campo. Al momento i “costruttori” latitano, poi si vedrà. In caso di nuovo governo – e di Conte ter – potrebbero spuntare. Ma tant’è: se i responsabili non erano emersi dopo la fiducia di martedì scorso, tantomeno sono venuti fuori prima del voto sulla relazione Bonafede, passaggio molto delicato con i “nuovi” innesti Riccardo Nencini, Sandra Lonardo e Lello Ciampolillo che avrebbero votato contro facendo andare sotto i giallorosa.

Sicchéla ricerca dei “costruttori” per andare alla conta in aula è saltata: i responsabili – dall’Udc ai totiani di “Cambiamo!”– per tutto il giorno hanno chiesto un “fatto politico nuovo”. Ergo: le dimissioni del premier. Solo a quel punto sarà possibile costruire una quarta gamba centrista che alla Camera ha il suo federatore in Bruno Tabacci col suo Centro Democratico già a quota 15 parlamentari e al Senato un nuovo gruppo – magari guidato da Riccardo Nencini o Andrea Causin – di 10-12 senatori, che serviranno per neutralizzare il possibile ritorno di Matteo Renzi in maggioranza. In questo caso il simbolo sarebbe quello del Maie o dell’Udc e metterebbe insieme due senatori dell’ex scudocrociato, un paio di ex renziani, gli esponenti eletti all’estero e 4-5 da FI. A questi si aggiungerebbe un possibile appoggio esterno dei totiani di Paolo Romani e Gaetano Quagliariello – da sempre sulla posizione di un esecutivo di unità nazionale senza Conte –, che sosterrebbero la maggioranza sulle riforme.

Questo gruppo potrebbe crearsi solo in caso di Conte ter come spiega la senatrice Udc Paola Binetti: “Prima il premier si deve dimettere e poi vogliamo vedere da chi sarà formato e con quali obiettivi: Conte ci dia dignità”. L’unica certezza è che ogni “cespuglio” andrà alle consultazioni separatamente e poi il gruppo potrà formarsi solo in un secondo momento, dopo la certezza di un reincarico al premier. Prima sarà liberi tutti.

Sul frontedi Forza Italia si sta alla finestra, ma si lanciano segnali alla maggioranza. Ieri Silvio Berlusconi è tornato a ribattere il tasto di un governo di unità nazionale, che “non significa maggioranza Ursula (Pd- M5S-FI)”, spiegano i forzisti, ma un esecutivo con “tutte le forze possibili”. L’obiettivo dell’ex premier è quello di smarcarsi da chi invoca solo le urne (come Giorgia Meloni) e mostrarsi come forza responsabile agli occhi del Quirinale, ma anche di serrare le file evitando altre fughe. “Sono in molti con le valigie pronte, aspettano solo un segnale”, si dice. “Invocare il voto ha come unica conseguenza quella del liberi tutti”, confida un forzista. I berluscones prevedono di rieleggere una quarantina di parlamentari, così chi si sente tagliato fuori guarda già altrove. Potrebbero essere 10-15 a puntellare l’esecutivo, a partire dal fronte più liberal di Mara Carfagna alla Camera. Dove non è sfuggita, ieri, la visita a Palazzo Chigi, dell’ex Renata Polverini. “Conte dimostri di avere i numeri con i renziani. Poi si aprirà una fase nuova”, dice Osvaldo Napoli.

Chi invece si prepara al blitz al Quirinale è Renzi che fino a ieri è stato in silenzio e oggi riunirà i gruppi parlamentari. Ma chi ci ha parlato nelle ultime ore racconta di un Renzi serafico (“Si sono incartati”) e pronto alla mossa da fine del mondo: nelle consultazioni potrebbe mettere il veto su Conte e proporre Luigi Di Maio a Palazzo Chigi. Un modo per spaccare la maggioranza e puntare alle larghe intese.

Il Colle: “Senza numeri nessun incarico al buio”

A una settimana esatta dalla fiducia del Senato al governo Conte II, la crisi si aprirà ufficialmente oggi. Ma il capo dello Stato era già stato avvisato ieri dal premier, nell’ipotesi di una salita al Colle in serata. Poi l’annuncio per questo ultimo martedì di gennaio.

E non sarà affatto una crisi pilotata, come sperato nei giorni scorsi, quelli del pressing democratico, e poi anche grillino, per convincere l’Avvocato a cedere. Per un semplice motivo, secondo quanto trapela dal Colle: se il quadro politico resta quello del sostegno esplicitato chiaramente per ora solo da Di Maio, Zingaretti e Bettini, i numeri per un Conte ter non ci sono. Ergo l’incarico non sarà automatico alla fine delle consultazioni lampo. Anzi, di fronte alla convulsioni di queste ore, il capo dello Stato potrebbe concedere un incarico esplorativo se non ricorrere a un secondo giro di consultazioni.

I colloqui di Sergio Mattarella inizieranno probabilmente domani pomeriggio per finire giovedì. Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria e il presidente della Repubblica non intende rinunciare ai suoi impegni. Anche per questo, c’è l’ipotesi che le consultazioni si tengano solo dopodomani. In ogni caso il terzo esecutivo di Conte è sì la subordinata principale di questa crisi, ma dovrà soddisfare almeno due condizioni.

La prima riguarda l’allargamento della maggioranza (al contrario dei numeri del Senato di martedì scorso, 156) e cioè la comparsa in carne e ossa dei fatidici Costruttori-Responsabili-Volenterosi-Disponibili di cui si parla da una settimana. Quanti sono e quanti diranno al Quirinale di essere pronti a sostenere un altro governo guidato da Conte? E ancora: l’annunciato mini-esodo forzista darà vita a una sorta di maggioranza Ursula?

Non solo. L’altra condizione che il presidente della Repubblica valuterà col suo metodo del realismo democristiano, cioè non dirigista o interventista, sarà il ruolo di Mattero Renzi e Italia Viva. Nel senso che se il quadro politico confermerà solo una maggioranza giallorossa, con il recupero dei renziani, il Quirinale si porrà un problema concreto: chi garantisce che l’ex Rottamatore non ricomincerà coi suoi ricatti? Ecco perché “sterilizzare” il ritorno di Italia Viva nel perimetro della maggioranza non è una questione secondaria. Saranno quindi consultazioni veloci ma non per questo meno complesse. E il destino di Conte è appeso soprattutto al primo giro. Con la speranza, per lui, che sia risolutivo.

Al Colle col nome dell’avvocato. Ma c’è l’ipotesi Di Maio con IV

L’unica certezza al Nazareno è che il Pd, nel primo giro di consultazioni al Quirinale, andrà a fare il nome di Giuseppe Conte. Dopo, può succedere qualsiasi cosa. Anche perché che cosa dirà Matteo Renzi nessuno lo sa per certo. Il leader di Iv ha scelto il silenzio, per una volta. Potrebbe indicare anche lui Conte e giocarsi ancora una volta il ruolo di ago della bilancia. Ma potrebbe anche scegliere di puntare su un’altra figura: più che su Mario Draghi, l’ipotesi fatta girare in queste settimane dal fu Rottamatore, il sospetto dei più è che sia pronto a fare a Sergio Mattarella il nome del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Con una parte del Pd pronto a seguirlo su questa strada.

Ieri Nicola Zingaretti ha cercato di blindare la linea, con una riunione in streaming con i ministri dem. “Con Conte per un nuovo governo chiaramente europeista e sostenuto da una base parlamentare ampia”, ha twittato. Sono state giornate confuse per il Pd. Zingaretti, aveva indicato il percorso: o Conte o voto. E Renzi fuori. Non è durata più di qualche giorno. Contro le elezioni sono usciti pubblicamente quattro senatori: Gianni Pittella, Tommaso Nannicini, Francesco Verducci e soprattutto Dario Stefano, uno di quelli rimasti nel Pd, ma sempre vicinissimo a Renzi. Segnali. Soprattutto contro la triade Zingaretti, Goffredo Bettini e Andrea Orlando, che davvero era pronta a spingere il proprio sostegno a Conte fino ad arrivare alle urne. Una soluzione che per il segretario (che non controlla i gruppi parlamentari) poteva essere un’opzione. Ora è chiaro che la maggioranza del Pd è pronta a evitare il voto più o meno a qualsiasi costo. Tanto che ieri Bettini a Omnibus la metteva così: “Renzi dimostri effettivamente di avere il senso non dell’errore ma insomma un po’ del salto nel buio che ha procurato”. Anche questa, in realtà, un’ammissione di debolezza rispetto al suo stesso partito: mezzo Pd da giorni lavorava per riportare dentro il fu Rottamatore. A questo punto nel Nazareno nessuno obietta. Alla soluzione maestra sta lavorando non solo Bettini ma anche il capo delegazione, Dario Franceschini. L’idea è quella di un Conte ter, con l’appoggio esterno di un gruppo di senatori, guidati da Gaetano Quagliariello con alcuni partecipanti di Forza Italia per fare le riforme, la quarta gamba centrista e Italia viva. Conte farebbe volentieri a meno di Renzi, ma dal Nazareno stanno cercando di fargli capire che senza di lui i numeri non si vedono.

Se questa ipotesi sfuma, il quadro si ingarbuglia. Con una parte del partito pronta a lavorare per Di Maio. E poi pronta a cercare qualche altra soluzione. Difficile pensare a un premier del Pd, anche se ogni tanto torna, buttato nella mischia, il nome di David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo dove è nata la “maggioranza Ursula”. Tra i dirigenti del partito, però, in molti evocano una sorta di governo istituzionale, con l’obiettivo ufficiale di arrivare al voto in primavera, ma destinato a restare. Intanto, c’è chi tra i ministri, ci tiene a chiarire: “Quella delle dimissioni è una scelta discutibile, voluta dai Cinque Stelle, per non mandare al macello Alfonso Bonafede in Aula. Non vorrei che dietro ci fosse la voglia di portare Di Maio a Palazzo Chigi”. Mezzo Pd sarebbe pronto a fare le barricate. Fino alla conta all’ultimo voto in Direzione.

Il bivio in salita: fedeltà a Giuseppe o fare un governo “a ogni costo”

Dovevano vedersi ieri sera alle 9. Ma l’assemblea è stata rinviata. Un po’ perché c’è da capire meglio che succede, un po’ perché non è il momento di allestire il palcoscenico delle divisioni interne – figuriamoci con il rimpasto vicino e le lotte fratricide che ne deriveranno –, un po’ perché – dicono i più maligni – devono aspettare la linea, che “anche stavolta ci hanno lasciato al buio”. Non sanno come muoversi, i parlamentari del Movimento. Che restano pur sempre i membri del più nutrito gruppo di eletti alla Camera e al Senato. E che, comunque vada, rischiano di essere quelli che pagheranno il prezzo più alto di questa crisi. Se si riprendono Renzi, dovranno spiegarlo agli elettori. Se precipita tutto e si va al voto, sanno che dovranno dimezzare le loro ambizioni rispetto a tre anni fa. Di fronte al bivio ci sono due strade in salita. E almeno per il momento, i 5 Stelle hanno deciso di percorrerle insieme al presidente del Consiglio che hanno tirato fuori dal cilindro e che li ha fatti andare due volte al governo.

Così, ieri, di fronte al capo politico reggente Vito Crimi, i ministri hanno ribadito il mantra: “Compatti con il premier”. Eppure fuori dalle riunioni, la discussione sul “sacrificio” è partita, ed è già un bel pezzo avanti. “Le ragioni di non regalare il Paese al centrodestra rimangono tutte in piedi e poi ci sono quelle dell’emergenza in corso e della straordinaria opportunità del Recovery: un governo va fatto a ogni costo – ragiona un senatore – se una personalità è divisiva, va fatta una scelta di saggezza”. Luigi Di Maio è, come ovvio, la prima carta che sarebbero disposti a giocare. Quella del ministro degli Esteri che ieri, di fronte a Bonafede e Crimi che davano ancora come un’ipotesi le dimissioni di Conte, ha scandito: “I numeri per andare avanti non ci sono”. D’altronde i malumori su come Conte ha gestito la crisi, non sono più appannaggio dei soliti dissidenti: “La Rossi e la Polverini ricevute a Palazzo Chigi, gli appelli in aula a Giarrusso e alla Drago… un leader non si comporta così”, ragionano i “governisti”. Figuriamoci se il problema adesso è riparlare con i renziani. Lo dice pure il sottosegretario Manlio Di Stefano, dimaiano doc: “Assolutamente mai più con Renzi, il che non vuol dire mai più coi parlamentari di Iv”.

Certo, per loro che hanno fatto il callo alle abiure e ai patti con presunti diavoli e sicuri ex nemici, questa volta potrebbe essere troppo. Riprendersi Renzi, magari con contorno di forzisti vari, rischia di riportare a galla quella parola che pareva vuota di numeri e di significati: scissione. Insomma di aprire quel varco che forse Davide Casaleggio attende da mesi, quelli in cui ha gridato al tradimento del M5S che fu. Ci sono già delle certezze. Per esempio che Alessandro Di Battista, a cui pensavano seriamente di offrire un ministero nel rimpasto, non potrebbe mai entrare in un governo con Renzi, e neppure sostenerlo. E c’è un’altra veterana come la senatrice Barbara Lezzi, che lo aveva già detto giorni fa: “A un nuovo governo con i renziani non darei la mia fiducia”. Sentita dal Fatto, ribadisce: “Rimane ciò che ho detto, Renzi ha dimostrato tutta la sua inaffidabilità. Conte gli aveva mostrato grande disponibilità, ma lui voleva solo alzare l’asticella. Riprenderselo sarebbe un’offesa anche agli elettori”.

Oggi il premier si dimette: tentato dalle urne, ma proverà il Conte III

Niente sfida in aula, niente partita all’ultimo voto. Ma le dimissioni, questa mattina, e poi le consultazioni al Quirinale, da domani pomeriggio. Una scommessa, una strada piena di rischi eppure obbligata, per provare a risorgere dalla terza crisi in tre anni: ancora a Palazzo Chigi, ancora da presidente del Consiglio. Con un Conte ter, con dentro perfino l’avversario, Matteo Renzi. Ma questa volta solo come uno dei tanti leader, non più decisivo, non più in grado di tenere in ostaggio la maggioranza. In un lunedì mattina romano di pioggia e brutti segnali, Giuseppe Conte prende atto di non poter più andare avanti. “I numeri per reggere in Senato non ci sono”, gli hanno appena detto gli sherpa del Movimento. Non ci sono abbastanza voti per salvare il Guardasigilli Alfonso Bonafede nell’ordalia prevista tra mercoledì e giovedì, cioè nella votazione sulla sua relazione sulla giustizia.

Italia Viva, la creatura di Renzi, è ferma sul no, e anche tanti possibili Responsabili hanno fatto sapere che una mano proprio non potranno darla, se in gioco ci sarà la testa del ministro della Spazzacorrotti e della riforma della prescrizione. “Non posso mandare Alfonso al macello”, riflette Conte con i suoi collaboratori, mentre le agenzie di stampa raccontano del dem Goffredo Bettini che improvvisamente tende la mano a Renzi e perfino tra i 5Stelle affiorano altri nostalgici del fu rottamatore. I numeri e i segnali dei partiti mettono l’avvocato di fronte alla realtà. Se cade Bonafede, addio governo. Ma senza i nuovi gruppi centristi e senza numeri solidi, per sopravvivere non possono bastare promesse generiche e un rimpasto chirurgico, magari scorporando qualche ministero. E allora, che fare? Il Pd gli indica la strada, un Conte ter con una maggioranza più larga. Con Renzi di nuovo dentro, ma normalizzato dai gruppi centristi che con un nuovo governo potrebbero prendere. È tutto un condizionale, “ma non c’è altra via” teorizzano i dem. L’avvocato però non è convinto. E per ore accarezza un’altra idea: dimettersi, sì, ma per andare alle urne in primavera da candidato premier dei giallorosa.

Puntare sulla sua popolarità ancora alta nei sondaggi, e liberarsi di Renzi. Ci pensa seriamente il premier, e ne discute con lo staff e i ministri più vicini. Ma il cerchio contiano si divide. “Non ci seguiranno, il voto non lo vuole nessuno” gli obiettano. Non il Quirinale, non certo i grillini fragili come non mai, e neppure il Pd che pure lo ha agitato fino a poche ore prima come minaccia anche per prendersi qualche renziano. Conte ascolta, riflette, telefona. E con il passare delle ore cambia idea, capisce che rischierebbe di ritrovarsi solo. Così accetta di andare a vedere il gioco, allargando la maggioranza. “Vediamo chi ci sta, ma Renzi non dovrà più essere centrale” è il senso dei suoi ragionamenti.

Servono numeri ampi, “per un’alleanza europeista”, come aveva scandito la scorsa settimana in occasione delle votazioni di fiducia. Ma Conte sa che non sarà una passeggiata. “Giuseppe nelle consultazioni rischia grosso” lo dicono in tanti tra i grillini. Convinti che Renzi non resisterà alla tentazione di dare il morso dello scorpione, ossia di fare un altro nome al Quirinale. “E poi i Responsabili, terranno? Chi può dirlo?”. Non può garantirlo neppure Conte, nella sera in cui nella Roma dei Palazzi circolano nomi per sostituirlo. E il più gettonato è quello di Di Maio. Terrebbe (quasi) unito il M5S e piacerebbe anche a Renzi. E a diversi dem non dispiace. Persone vicine al ministro degli Esteri negano: “Sono solo polpette avvelenate”. Ma tra i grillini se ne parla, parecchio. Invece altre fonti fanno il nome di Luciana Lamorgese, la ministra dell’Interno cara al Colle. Perché anche questa è una tesi diffusa, nei partiti: “Sarà stallo e alla fine sarà il Quirinale a dover trovare un nome”. Nell’attesa i giallorosa provano a reggere su Conte, “ma con soluzioni di chiarezza e non per vivacchiare” scandisce Federico Fornaro (LeU). La certezza è che stamattina Conte riunirà il Consiglio dei ministri per spiegare la sua scelta e poi salirà al Colle. “Un modo per condividere e per non sembrare solo in un passaggio così delicato”, spiegano. Dal Nazareno aspettano. E sussurrano: “Noi siamo sempre stati leali con Conte, certi grillini magari no…”. Segnali, da crisi.