Conte alla rovescia

Alla fine ci sono quasi riusciti. I poteri marci, con giornaloni e onorevoli burattini al seguito, non potevano perdere l’ultima occasione di mettere le zampe sui 209 miliardi del Recovery Fund piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome. Subito, con le larghe intese. O dopo le elezioni, che dovrebbero regalare Parlamento, governo, Quirinale e Costituzione alla cosiddetta destra, cioè agli stessi che hanno appena spedito la Lombardia in zona rossa perché ignorano la tabellina del 2. Gli italiani che attendono notizie sui vaccini, i ristori, il Recovery Plan e si ritrovano una crisi di governo assistono a questo spettacolo con un misto di sgomento e disgusto. Avevano appena ritrovato un po’ di fiducia nelle istituzioni per la partenza a razzo della campagna vaccinale e i contagi in calo qui e in aumento all’estero. Erano financo disposti a perdonare i trasformismi dei responsabili pur di neutralizzare i trasformismi degli irresponsabili. Ma il caso ha voluto che la risicata fiducia in Senato fosse seguita a stretto giro dalla relazione di Bonafede sulla giustizia: il marrano minaccia addirittura di impiegare 2,75 miliardi di Recovery per rendere più rapidi i processi e più capienti le carceri e, quel che è peggio, senza ripristinare la prescrizione. Una tripla minaccia a mano armata per chi vuole rubare in pace. Infatti alcuni che martedì avevano dato la fiducia al governo han subito precisato che una giustizia efficiente ed equa non la voteranno mai. Anche la crisi del Conte-1, per mano dell’altro Matteo, era scattata sulle due ragioni sociali del partito trasversale del marciume: affari (il Tav) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Ora la scena si ripete: affari (Recovery senza Conte e 5Stelle fra i piedi, né cabine di regia a controllare sprechi e mazzette) e impunità (riforma dei processi e prescrizione). Completa il quadro la candidatura di B. al Quirinale per bocca di Salvini. E in un sol giorno tutti i nodi vengono al pettine: nella crisi più demenziale e delinquenziale del mondo, tutto è possibile. Anche l’avverarsi delle barzellette più fantasiose: tipo un capo dello Stato pregiudicato, plurimputato, indagato per strage.

Oggi sapremo se i poteri marci faranno cappotto o verranno fermati in extremis. Basterebbe pochissimo, cioè che 5Stelle e Pd restassero fermi in blocco sulla linea decisa e ripetuta per dieci giorni: porte chiuse a chi ha scatenato la crisi, nessun altro governo, o Conte o elezioni. A quel punto i renziani che ancora credono al loro capo (accade anche questo) capirebbero che Iv ha chiuso e le urne sono dietro l’angolo. E magari si ricorderebbero chi li ha votati. Oppure andremmo alle elezioni e potremmo persino avere una lieta sorpresa.

Prigionieri dell’Orrore non ci resta che l’Arte

Ameno di due minuti dalla Porta di Brandeburgo, nel centro di Berlino, sorge il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa: 19mila metri quadrati su cui sono disposti in verticale a griglia 2711 blocchi rettangolari di cemento di diverse altezze. Sebbene a molti ricordi un cimitero, non ci sono iscrizioni, date, nulla: è un monumento astratto in cui l’orrore è stato smaterializzato, o meglio decostruito, e riplasmato in una forma più mentale che fisica. E questo perché per il suo autore (l’architetto americano Peter Eisenman) sarebbe stato inadeguato utilizzare qualsiasi metodo di rappresentazione tradizionale al fine di ricordare i 6 milioni di ebrei uccisi e i centinaia di migliaia costretti a fuggire dal proprio paese. Già dalla sua inaugurazione nel 2005 fu molto criticato, tanto che – proprio in ragione della sua poca narrazione formale – il governo impose la realizzazione di un bunker sotto il memoriale che fungesse da sala informativa: qui si possono trovare la cronologia del genocidio, la storia di quindici famiglie e una Stanza dei nomi, dove una voce registrata legge le generalità di tutti coloro che sono stati uccisi, uno per uno, in un loop che dura sei anni e mezzo.

Le reazioni di avversione nei confronti di questa raffigurazione inedita dell’orrore data da Eisenman spiegano come e perché noi tutti in realtà siamo prigionieri della Storia. Soprattutto, però, siamo prigionieri della Seconda guerra Mondiale sia perché è ancora relativamente recente sia perché davvero impegnò quasi tutto il mondo: sono difatti infiniti i monumenti eretti per ricordare l’orrore dell’Olocausto e la sua capitolazione. Per questo è così interessante, alla vigilia della Giornata mondiale della Memoria, riflettere sul rapporto che la memoria collettiva ha con l’arte, sul perché circa le sue rappresentazioni siamo disposti a fidarci dell’arte solo secondo un criterio di riconoscibilità, o meglio di somiglianza. Come ben illustra lo studioso Keith Lowe in Prigionieri della Storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della seconda guerra mondiale sulla memoria e su noi stessi (Utet, traduzione di Chiara Baffa, pp. 336, euro 20), la maggior parte dei memoriali suggerisce un’idea univoca: inneggiano a un eroe, come Il Sacrario dei partigiani bolognesi composto dalle fotografie dei caduti durante la Resistenza e che si trova nel luogo in cui nell’estate ’44 i fascisti eseguono fucilazioni pubbliche ed espongono i cadaveri degli antifascisti; o trasformano le vittime in martiri, come il campo di Auschwitz (ottanta ettari dedicati alla morte), in cui ancora oggi è possibile varcare il cancello di ferro con la scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi), entrare nel blocco delle punizioni dove gli ebrei erano torturati e uccisi in massa, sostare di fronte al muro contro cui venivano fucilati, o accedere alla ricostruzione di una delle camere a gas, il tutto in mezzo a scarpe, brandelli di vestiti, di vita stroncata; o ancora testimoniano la morte dei mostri, come la tomba di Mussolini a Predappio nell’Appennino romagnolo (che pure è diventato luogo di culto di alcuni fanatici neofascisti) o il bunker di Hitler a Berlino, in cui il Fürer si tolse la vita che, pur essendo stato totalmente raso al suolo, resta impresso nella memoria.

All’arte, dunque, chiediamo di semplificare la Seconda guerra Mondiale e l’Olocausto, di ridurli nella lotta tra bene e male, di truccare l’orrore nel racconto mitologico del duello tra archetipi senza tempo: l’apocalisse e la rinascita, come accade con la Cupola della bomba atomica a Hiroshima, la Statua della pace a Nagasaki e la Terrazza dello Yad Vashem a Gerusalemme.

Eppure, cadiamo sempre in una specie di autoinganno: affidandoci alla sua funzione didascalica, sottovalutiamo il potere trasformativo dell’arte. E qui torniamo al Memoriale di Berlino. Con il terreno in leggera discesa e i suoi blocchi sempre più alti verso il centro, camminandoci dentro ci si sente chiusi in una serie di claustrofobici canyon di cemento: imbocchiamo una strada, poi un’altra senza trovare l’uscita e perdiamo il senso dell’orientamento e sembriamo soffocare.

Ed ecco che l’arte lavora nell’inconscio poiché rimanda a un’esperienza comune a tutti: il nascere, il venir fuori da un canyon di carne, il soffocamento fetale da cui poi si inizia a respirare, la vita, dunque la paura della morte. In questo senso, l’arte smaterializza l’orrore di altri esseri umani, l’orrore del passato, e lo trasforma in un’esperienza mentale che può appartenere a tutti noi, e che proprio appartenendo a tutti noi, ci modifica a sua volta. Se non inizieremo a credere nel potere trasformativo dell’arte – sembra suggerire Lowe – rimarremo ancora prigionieri della Storia, poiché l’arte è davvero l’unico dispositivo di conoscenza non ideologico di cui siamo in possesso, oltre che la sola salvezza dalla volgarità del cuore.

 

Estetica e politica. Dai carri armati di Budapest ai ritocchini: andate a votare, ma turatevi il naso

La mia dolce nonna ungherese era a Budapest quando, nel ’56, i carri armati sovietici invasero l’Ungheria per reprimere i moti indipendentisti. Lei non parla volentieri di questo fatto terribile. In Italia, in quell’anno, molti comunisti italiani uscirono dal partito per protesta. Mia nonna non si occupava di politica, lei amava la bellezza, l’arte, il ballo.

Mi racconta solo un episodio che deve averla colpita particolarmente in quel periodo storico così buio. Salita su un tram il conducente la fece scendere perché si era messa un rossetto rosso, di un rosso intenso. “Ma come, i comunisti vengono definiti i rossi, e io non posso mettermi un rossetto rosso?”. Niente da fare, la fecero scendere. Mia nonna è fissata con la bellezza, non solo giovanile, quella di ogni età. Se uno è bello lo deve essere finché campa. “La vecchiaia va prevista e preparata, davanti allo specchio assecondati tesoro, congratulati, perché se ti convinci, ti conservi bene e si convincono anche gli altri”. La bellezza per mia nonna è nell’ armonia delle forme, per esempio lei non sopporta i nasi pronunciati. Arrivata in Italia, ogni qual volta un parente ungherese veniva a trovarla lo squadrava per bene, da capo a piedi e poi, immancabilmente, sentenziava: “Tu hai un naso inguardabile, adesso ci penso io!”.

E trascinava una fila di ungheresi nasuti da un chirurgo plastico amico suo, un certo dott. Ponti. In questo modo correggeva i difetti di tutti i parenti ungheresi che, purtroppo, la dea bellezza non aveva baciato in fronte, e tanto meno sul naso. Forse perché il suo è perfetto, un nasino alla francese che più francese non si può. Infatti me lo dice sempre: “Io sarei dovuta nascere in Francia, un bel Paese, una grande democrazia, popolata da gente libera di scegliersi il rossetto che vuole e il naso che preferisce. Senza contare che mi sarei evitata l’occupazione sovietica”.

 

100 anni di comunismo. Piero Fassino racconta: “Volevamo far la guerra, è toccato a noi far la pace”

Escono in fretta, ora che sono passati 100 anni dalla fondazione, libri dedicati alla grande vicenda del comunismo italiano. Grande per la durata, la capacità d’invenzione e innovazione politica, per il peso non solo nazionale e per il doppio (e unico) ruolo sia nella cultura alta sia nel comportamento popolare. Sono tante le ragioni per cui vari autori hanno scelto fra 3 strade: il dibattito ideologico, il Pantheon dei leader, e una forma (per quanto camuffata) di autobiografia (io dove ero, con chi e che ruolo ho avuto nella grande avventura).

Sul partito che in gran parte coincide con la sua vita, Piero Fassino ha scritto un libro diverso. Lui è stato membro e leader storico della sinistra, partecipe di tutti i cambiamenti fino a diventare segretario dei Ds; e poi continuando senza gradi ma con identica e assidua partecipazione (allo stesso tempo fredda e profonda). Il testo di Fassino non lo puoi definire “di storia” (benchè vi siano ricostruzioni accurate); non lo puoi chiamare “autobiografia” (il nome dell’autore ricorre spesso ma solo fra parentesi, negli elenchi degli incarichi o gruppi di lavoro del partito) e neppure di memorie, viste nel dopo e alla distanza.

Sto parlando del libro Dalla rivoluzione alla Democrazia, editore Donzelli, che a me sembra uno dei più fortunati risultati del frequente voltarsi indietro di coloro che sono stati parte e leader del comunismo italiano. La buona idea dell’autore è stata nel come: come collocarsi nel rievocare e raccontare il partito che, in fondo, è la sua vita. Il titolo suggerisce un saggio storico, in cui qualcuno vicino agli eventi narra nella sequenza giusta. Ma non è il solo compito che l’autore si è assegnato. Fassino è consapevole del gran disordine (in questo settore) sul vasto scaffale della Storia; e sa bene che le radici del caos affondano nell’ideologia. La stessa che ha portato l’infinito dibattito su “cos’è il comunismo” e “che cos’è la sinistra”. Così l’ex segretario ha rimesso a posto i pezzi, i nomi, i ruoli, le sequenze degli eventi di un lungo percorso.

In queste pagine troviamo una scrittura veloce e nitida priva del tutto di ideologismo, libera da interpretazioni d’autore ma ricca di sequenze temporali rivedute con cura. Non c’è una “tesi Fassino”, costruita sulla negazione o sul ricordo fatto di passione o difesa o polemica. Salvo una, solo in apparenza ovvia, che diventa giustamente il sottotitolo: “Eravamo venuti per fare la guerra, ed è toccato a noi fare la pace”. C’è un’intelligente e densa ricostruzione dei fatti. Ciò che è accaduto (errori e successi trattati alla stessa stregua) e ciò che avrebbe potuto accadere (gli errori di omissione tipici della politica) e qualcuno che si potrebbe chiamare in causa.

Il libro di Fassino ha visto, nel punto che dà origine al titolo, il momento fondamentale della grande vicenda mondiale soprattutto italiana. È andata male o siamo arrivati, in conclusione, a un lieto fine senza sangue? C’è qui Piero Fassino per dirvelo.

 

 

Fondi comuni. Affossata l’unica indagine onesta: vincono banche, società di gestione e consulenti

Il colpevole si chiama Fulvio Coltorti. Ora insegna all’Università Cattolica di Milano, ma prima ne ha combinate delle belle. È lui che ha seminato e poi pervicacemente coltivato, nel giardino di Mediobanca, la mala pianta della ricerca onesta e coraggiosa anche per il fenomeno del risparmio gestito. A capo dell’ufficio studi, iniziò nel 1992 a pubblicare un’indagine sui fondi comuni d’investimento italiani, che ovviamente ne uscirono con le ossa rotte, essendo lo studio serio, approfondito e soprattutto non taroccato.

Andò avanti così circa per un quarto di secolo, con Gabriele Barbaresco e Matteo Pizzingrilli subentrati poi a Coltorti nella prosecuzione della ricerca. È ogni anno uscivano dati e confronti infamanti per la gestione cosiddetta professionale del risparmio, fra cui la conferma che sul lungo periodo i fondi avevano reso meno degli stessi banalissimi Bot.

È ovvio che a banche, gestori e promotori tutto ciò desse fastidio. Per giunta non si raccapezzavano di come potesse accadere, abituati a finti uffici studi, bravi solo a produrre materiale promozionale. Inizialmente Assogestioni provò anche a contestare la metodologia dell’analisi, senza produrre però nessuna obiezione valida. Ci limiteremo a citare dalla “Indagine sui fondi e sicav italiani (1984-2013)” espressioni quali: “una distruzione di valore pari a circa 86 miliardi di euro nell’ultimo quindicennio” e, rincarando la dose, “la distruzione di ricchezza […] aumenta a 155 miliardi” tenendo conto del premio al rischio. Oppure dall’aggiornamento di tre anni dopo: “l’industria dei fondi continua a rappresentare – in un orizzonte temporale di lungo periodo – un elemento distruttivo di ricchezza per l’economia del Paese”. Cioè la pura e semplice verità, arcinota a tutti gli esperti del settore. Ma non al largo pubblico dei risparmiatori, a causa dell’inadeguatezza e delle connivenze del giornalismo economico italiano.

Se milioni di italiani si ritrovano con meno risparmi, in particolare ora a fronte dell’emergenza Covid, ciò è conseguenza anche del ruolo parassitario esercitato dall’industria del risparmio gestito dal 1984, inizio della sua espansione. In occasione delle due edizioni più recenti, l’ultima è di un anno fa, Mediobanca cercò di correggere il tiro, affiancando alla ricerca vera e propria alcuni riassunti dove il risparmio gestito non sfigurava, grazie a scelte tendenziose dei periodi considerati. Una furbizia che il Fatto Quotidiano prontamente smontò.

Poi finalmente la decisione eroica: non vedrà mai la luce l’aggiornamento delle statistiche a fine 2019, che era atteso in questo mese. Banche, società di gestione e sedicenti consulenti l’hanno avuta vinta. E nessun altro giornale ha informato né – ci scommetto – informerà i lettori dell’affossamento dell’unica indagine sistematica e onesta sui fondi comuni d’investimento italiani, da anni estesa anche ai fondi pensione.

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Sforzi inutili se l’Europa sceglie la via dell’austerità

È il vero convitato di pietra del dibattito pubblico – e infatti nessuno ne parla, nemmeno il ministro Roberto Gualtieri – ma la sfida per cambiare le regole fiscali europee determinerà il futuro dell’Italia (e non solo) molto più della crisi politica innescata da Matteo Renzi. La discussione sull’efficacia e sulla giusta dimensione degli aiuti messi in campo per fronteggiare la crisi del Covid ci impegnerà a lungo, ma evapora di fronte alla prospettiva di un errore disastroso. Oggi l’armamentario di quelle regole (Patto di stabilità, Fiscal compact etc.) è sospeso per la pandemia, ma rischia di tornare.

Le misure italiane oggi ammontano a 108 miliardi, a cui si aggiungono quelle di sostegno al credito. Ne arriveranno altri 32 grazie a un nuovo scostamento di bilancio che, assicura Gualtieri , sarà “l’ultimo”. Curioso.

L’Italia è ritornata nel 2020 tra i Paesi creditori verso l’estero, situazione che non ha nessuno degli Stati mediterranei. La sua stabilità finanziaria è migliorata e la tendenza resterà. Eppure sulla grande stampa si moltiplicano gli appelli a tornare alla mistica della “disciplina fiscale”, a smetterla con “la politica dei sussidi”, come se ci fosse mai stata. “L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico”, ha detto Mario Monti in Senato prima di votare la fiducia.

La realtà è che gli Usa vareranno un altro mega piano di stimoli fiscali per contrastare la recessione. “La politica fiscale deve agire in grande”, ha detto il segretario al Tesoro Janet Yellen. A fine anno gli Usa dovrebbero tornare alla piena occupazione. La Cina ha già recuperato il Pil pre-Covid. L’economia Ue lo farà, secondo le stime, solo nel 2023. “Senza un’ulteriore sospensione e una profonda riforma del Patto di stabilità, l’Europa dovrà affrontare anni di politica restrittiva”, ha avvisato l’ex vicepresidente Bce, Vítor Constâncio. Sul Financial Times la capo economista dell’Ocse, Laurence Boone ha spiegato che “la prima lezione è assicurarsi che i governi non restringano la politica fiscale nei due anni successivi al crollo del Pil”. Eppure è quello che tutti i Paesi Ue, Italia in testa, prevedono di fare. Stanno già scontando che si tornerà come prima. Se accade, non c’è Recovery fund che tenga. E si capisce anche perché si invocano i governi di “unità nazionale”.

“Vaccino, prima i ricchi”. La teoria leghista conquista la Moratti

 

NON CLASSIFICATO

Ciocca “rules”. Spesso basta saper aspettare, che sia sulla riva del fiume o su uno scranno di Bruxelles poco importa, e la rivincita arriva puntuale, senza bisogno di fare nulla. Così è successo ad Angelo Ciocca, europarlamentare della Lega, che lo scorso dicembre è stato messo alla gogna per aver affermato, nel corso di un’intervista sul tema vaccini, che “se si ammala un lombardo vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia”. Allora nessuno di noi risparmiò l’onorevole leghista, oggi però ci è impossibile non rilevare come la posizione del vituperato Ciocca abbia fatto scuola: alle fila dell’eurodeputato si è unito un ospite d’onore, il nuovo assessore al Welfare della Regione Lombardia Letizia Moratti. In una lettera al Commissario Arcuri sulla ripartizione dei vaccini, la Moratti ha chiesto di distribuire i vaccini in base a quattro criteri: la mobilità, la densità abitativa, le zone più colpite dal virus e, udite udite, il contributo che le Regioni danno al Pil. Eh già, l’ex sindaco di Milano si è ispirata al pensiero “ciocchico”, in particolar modo ad un passaggio: “Sulla salute non si può fare politica, ma bisogna fare anche un ragionamento economico per il Paese perché purtroppo, è un dato di fatto, un cittadino lombardo paga più tasse rispetto a un cittadino laziale”. Quando il web ha gridato unito, con una sola voce, “aridatece Gallera”, l’assessore ha corretto il tiro, spostando la questione Pil dai vaccini alla zona rossa, ma ormai la vendetta di Ciocca era compiuta.

 

PROMOSSI

Doctor Joe. Il cutting è quella pratica autolesiva attraverso la quale molti adolescenti cercano di dare un’espressione esterna ad un dolore invisibile che li opprime dall’interno. Incidendo la carne del corpo con lame o rasoi si cerca di far venir fuori il malessere, come se il sangue che scorre dalle ferite potesse portar via la sofferenza o almeno renderla visibile all’occhio altrui. L’America in questi ultimi anni, con la complicità e l’ausilio del suo ex presidente, ha continuato a tagliare il suo grosso corpaccione, nei punti più diversi, sperando di trovare nella lacerazione una qualche specie di catarsi. L’illusione di un conforto che sgorgasse spontaneo dalle piaghe, ha progressivamente cominciato a sparire, così come l’ascendente di Donald Trump sugli americani. Oggi ciò di cui ha bisogno il martoriato corpo dell’America è qualcuno che lo aiuti a rimarginare quelle ferite, un medico gentile che lo cosparga di balsamo per lenire il dolore e aiutarlo a cicatrizzare. Joe Biden nel suo discorso d’insediamento ha dimostrato di sapere molto bene tutto ciò: “Se non sarete d’accordo con me va bene. Questa è la democrazia, questa è l’America. Il diritto di dissentire pacificamente è forse la nostra forza più grande… Quello che più conta è l’unità, rimettere insieme la Nazione guarendola dall’odio, il risentimento, l’estremismo, la malattia; rendere l’America di nuovo capace di guidare il mondo nella giusta direzione… Senza unità, non c’è pace, non c’è progresso, non c’è Nazione, solo caos… Ascoltiamoci, parliamoci, mostriamoci rispetto l’uno verso l’altro…”. Buon lavoro dottor Biden.

Voto 8

 

“Escort” vuol dire anche puttana. È un’ingiuria, non un’infelice battuta

 

BOCCIATI

Stonato al cioccolato. Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, parla a Leggo in occasione del ritorno a Canale 5 come opinionista del Grande Fratello 5. In quanto opinionista, tra ricordi e timori, commenta financo la situazione politica. “Mio nonno era fascista, mio padre votava Almirante, poi passò alla Dc, unici tifosi della Fiorentina in un paese, Ponticino, dov’eran tutti juventini”. E ora da che parte sta? Vi chiederete. “Per il partito autorevolezza più competenza. Uno vale uno è la più grande cazzata del secolo, è questo il populismo. Purtroppo, i ragazzotti che governano il Paese non distinguono nemmeno l’origine del vino che prendono al ristorante…”. Del resto, che volete, il Grande Fratello è lo specchio del Paese. E com’è questo Paese ora? “Un’Italia di quel livello lì. Che sbaglia le province della Basilicata. Un po’ come in politica. Guardi il dibattito al Senato. Stamattina parlava Casini e sembrava un altro mondo, poi si passava a quei giovani portati in Parlamento dal comico”. Non è stupito Pupo, ma “molto preoccupato per il futuro di figlie e nipoti”. C’è sempre la Russia dell’amico Putin, no?

Torna a casa, Alan. Martedì scorso Alan Friedman nella puntata di Uno Mattina, commentando le immagini dell’uscita dei coniugi Trump dalla Casa Bianca, ha definito Melania una “escort”. Il giorno dopo il giornalista, intervistato da Myrta Merlino su La7, si è diciamo “scusato”, prima sostenendo di essere incappato in un errore di traduzione poi parlando di “una battuta infelice e di pessimo gusto”. Le donne della politica, da Giorgia Meloni a Laura Boldrini, lo hanno fulminato e hanno fatto molto bene. Perché, caro Friedman, “escort” vuol dire accompagnatrice e nell’uso più comune “puttana”, seppur d’alto bordo. Un epiteto che non può entrare nel dibattito pubblico e non si dovrebbe attribuire a nessuno (nemmeno a chi ha sposato Trump). Non è una battuta infelice, è proprio un’ingiuria (usata da Friedman altre volte, sui social, a proposito di Melania Trump). La tipica che si usa contro le donne. Ma comunque: lo avrebbe mai detto di Michelle Obama? Può provare a tornare negli Usa e ripetere quello che si è permesso di dire qui: vediamo cosa resta di lui. E poi: sicuri che tra un giornalista-lobbista e una “escort” passi molta differenza in termini professionali?

 

NON CLASSIFICATI

Savoia chi molla Con una lettera Emanuele Filiberto di Savoia condanna fermamente le leggi razziali del 1938 firmate da Vittorio Emanuele III, suo bisnonno Sciaboletta, il 5 settembre 1938. “Vedere la sua firma su queste leggi è un grande dolore, per me e per casa Savoia”, ha detto a una trasmissione di Canale 5. L’iniziativa però non è piaciuta alle comunità ebraiche. “Oggi, dopo 82 anni il bisnipote Emanuele Filiberto, afferma un sentimento di ripudi rispetto a quanto avvenuto. Un lasso di tempo molto lungo. Perché ora? – scrive l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – Si tratta in ogni caso di un’iniziativa che è da ritenersi ad esclusivo titolo personale, rispondendo ciascuno per i propri atti e con la propria coscienza. Né l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane né qualsiasi Comunità ebraica possono in ogni caso concedere il perdono in nome e per conto di tutti gli ebrei che furono discriminati, denunciati, deportati e sterminati”. Tutto vero e comprensibile. Però vale il meglio tardi che mai (e comunque, sempre viva il 2 giugno).

Un mazzo così Una fanciulla laureata in psicologia forense, siamo nei Paesi Bassi, si è inventata un mazzo di carte senza re e regine. Indy Mellink un bel giorno si è resa conto di un fatto sconvolgente: il re vale di più della regina! E ha confezionato un mazzo senza figure. Il capo della Dutch Bridge Association ha spiegato che sarebbe difficile cambiare le regole: “Mi chiedo se ne valga la pena… Ma sulla neutralità di genere sono certamente d’accordo”. Tradotto: tutto molto bello, ma per ora vi attaccate.

 

Gombar, lo strano caso. Il team manager distratto ora è pronto per il Barça e il Real

“Gombar: chi era costui?”, si chiederanno i posteri tra qualche decennio quando un inedito caso regolamentare arriverà a scatenare l’ennesima bufera nel mondo del pallone (chissà se ancora rotondo). “Gianluca Gombar – si leggerà su Wikipedia del tempo – è il team manager della AS Roma che nella stagione 2020-’21 fu al centro di un discusso caso regolamentare: nel finale della partita Roma-Spezia di Coppa Italia diede l’okay perché la Roma procedesse a una 6ª sostituzione, infrangendo il regolamento che ne prevedeva massimo 5. La Roma, che sul campo aveva perso 2-4, subì la sanzione della sconfitta a tavolino per 0-3 ma soprattutto si espose alla derisione di tutto il movimento. All’indomani il team manager fu licenziato”.

Ebbene, fatti i migliori auguri al povero Gombar, vorremmo qui spezzare una lancia a suo favore: perché se lui era a tutti gli effetti un autentico Carneade del pianeta pallone (alzi la mano chi ne conosceva l’esistenza, tifosi della Roma, e nemmeno tutti, a parte), c’è chi di errori simili ne ha commessi rivestendo ruoli di prima grandezza nel grande circo del calcio. Prendete Rafa Benitez, che in Italia abbiamo conosciuto come l’allenatore del Napoli pre-Sarri e prima come l’allenatore del Liverpool che nella finale Champions 2005 a Istanbul condusse i Reds alla clamorosa rimonta contro il Milan, da 0-3 a 3-3, e poi al trionfo ai rigori. Ebbene, nel 2001, sulla panchina del Valencia, nel finale della partita di Coppa del Re contro il Novelda commise l’errore di fare entrare al minuto 90 un quarto extracomunitario (il massimo consentito era 3), il rumeno Serban, tempo sufficiente perché il Valencia avesse partita persa e venisse eliminato. Dice: Gombar però era recidivo; a Verona, nella 1ª di campionato, la Roma aveva schierato un giocatore fuori dalla lista dei 25, Diawara, e il punto guadagnato era stato cancellato dallo 0-3 a tavolino; e anche se le colpe erano state addossate al segretario Pantaleo Longo, guarda caso accasatosi di lì a poco proprio al Verona, tutto era accaduto sotto il naso di un team manager (Gombar per l’appunto) non proprio sveglissimo. Okay.

Ma sapete cosa fece mister Rafa Benitez, sempre in Coppa del Re, stavolta sulla panchina del Real Madrid, nell’anno 2015 (cioè l’altro ieri)? Nella partita contro il Cadice, vinta 3-1, schierò nell’undici titolare il russo Cheryshev, autore del gol dell’1-0. Peccato che sul suo capo pendesse una squalifica maturata l’anno prima quando militava nel Villareal. Morale della favola: nonostante Cheryshev fosse stato sostituito nell’intervallo per il sopraggiunto, tardivo sospetto della sua posizione irregolare, anche il Real ebbe partita persa e fu estromesso dalla competizione. E nemmeno il Barcellona, un anno fa, evitò una figuraccia storica. Sempre in Coppa del Re schierò contro il Levante il difensore Chumi del Barça B dimenticando che fosse sotto squalifica; vinse 3-0 e non incorse nello 0-3 a tavolino solo perchè il Levante, più addormentato ancora, presentò il reclamo fuori tempo massimo.

Insomma, il povero Gombar si consoli. Nel 2003 il Catania mise a soqquadro il calcio italiano scomodando il Tar e persino la politica (legge 280) per avere ragione sul caso Martinelli, il giocatore del Siena schierato irregolarmente contro gli etnei. Per la sostituzione n. 6 di Roma-Spezia, invece, la Terza Guerra Mondiale non è ancora scoppiata. Almeno per ora. Per la tranquillità di Gombar.

 

Milano 38 anni in Consiglio, Basilio Rizzo dice addio. E ora chi farà tremare i corrotti?

Il vecchio leone ha dato un’occhiata alla savana. Ne ha ripassato con nostalgia le fattezze. Ha preso atto che il vento e le intemperie l’hanno rimodellata, perché nulla resta uguale a prima. Ha esplorato con occhio esperto gli affossamenti nelle radure, i lasciti degli ultimi incendi, gli arbusti diradati, la fauna galoppante in lontananza. Ha fatto tutto all’alba, svegliato dalle prime lame di sole. Lo ha rifatto giorni dopo all’imbrunire, osservando il moto corsaro delle nuvole. Ha intuito che quel paesaggio di distese infinite di cui è stato il re non gli offre più felicità. La felicità della corsa ingovernabile, della zampata fulminea, del ruggito furente o amico. Ha avvertito come una distanza improvvisa, forse alzatasi nelle ultime lune, tra sé e il mondo che gli si imbandiva intorno. Così una sera ha lanciato il ruggito di addio e se ne è andato. Senza correre, senza fretta, con la umile solennità dei sovrani veri. Tornando nei luoghi da cui venne un giorno lontanissimo. A compiacersi di riposo e di saggezza.

Questo ho immaginato con una vena di malinconia quando ho saputo che Basilio Rizzo, storico e combattivo consigliere comunale di Milano ha annunciato che non si ricandiderà alle prossime elezioni amministrative cittadine. Molti lettori sapranno di chi parliamo perché la fama di questo figlio di calabresi arrivati a Milano nel dopoguerra, che per cena si nutrivano della cicoria dei prati del Giambellino, è cresciuta nel tempo benché egli non abbia mai ricoperto incarichi nazionali. Sessantottino a Fisica, poi diventato professore di matematica e fisica alle superiori, è stato a Milano il simbolo della questione morale per quasi quarant’anni. Quel che ha fatto nel consiglio comunale milanese passando da un’epopea all’altra, da uno scandalo all’altro mentre grappoli di partiti vecchi e nuovi gli morivano intorno, fino a diventare un giorno presidente del consiglio comunale con Giuliano Pisapia sindaco, è davvero troppo per starci in questa rubrica. Ne fuoriesce di getto.

Dovrò dunque limitarmi a dire che in tema di denunce contro la corruzione Rizzo ha regolarmente anticipato la magistratura, usando atti e fatti pubblici, non le inchieste giudiziarie; che dopo decenni (arrivò in consiglio comunale nel 1983 con Democrazia proletaria) nessuno può accennare nemmeno allusivamente a qualche sua debolezza, a qualche innocuo favore chiesto alla persona sbagliata o per la persona sbagliata. Si può dire ancora che ha fustigato (e quanto…) senza mai insultare, passando anche per le cause giudiziarie che questo Paese sempre riserva a chi difende le istituzioni.

La sua storia denuda la futile verbosità dei rivoluzionari dalle ricette magiche, quelli che però quando tocca a loro ci ripensano sempre: mai più di due mandati, per non creare dei professionisti, dicono costoro da un trentennio o quasi. Basilio ha dimostrato che è una bufala. Gli elettori vogliono persone di cui fidarsi, che siano al primo o al decimo mandato non gliene importa nulla. E dell’orgoglioso leone della questione morale hanno dimostrato di fidarsi.

Se ne è andato forse per evitare le battute maligne, ancora lì sei, proprio non riesci a staccarti dal posto in consiglio comunale, che per lui fra l’altro non è mai stato un mestiere. Chi lo sa che cos’ha pensato, e a chi ha pensato davvero rimirando la savana milanese.

Avrà l’onore delle armi da chi è stato costretto a stimarlo. Certo di fronte a tante rivoluzioni fasulle la sua storia a Palazzo Marino è un autentico monumento contro il populismo. Venghino, venghino signori a vedere come si lascia una carica politica con dignità senza averlo prima mai né minacciato a reti unificate né promesso con le trombe. Semplicemente ascoltando il vento, rivedendo una lunga storia e lasciandoci sopra il penultimo ruggito. Perché l’ultimo arriverà in primavera, questo è sicuro.